Gaza e il climaNei molti articoli di “geopolitica” sul futuro di Israele, della Palestina,
dell’Ucraina, della Russia, dell’Europa, dell’Occidente che ho avuto occasione
di leggere manca un dato di fondo: come sarà il mondo dal punto di vista fisico,
climatico, sociale, di qui a 10-20 anni? Avremo tempo e risorse per continuare a
fare guerre, fabbricare armi sempre più micidiali, promuovere conflitti, oppure
ci dovremo occupare di salvare le nostre case, le nostre città, i nostri
territori dai disastri ambientali che si verificheranno sempre più spesso,
sempre più intensamente, sempre più diffusamente, con conseguenze, anche
economiche, sempre più gravi?
Tutti, compresi i negazionisti climatici – e quelli che prestano fede o si
lasciano ingannare da loro – sanno che il pianeta tutto e i singoli territori in
cui ciascuno di noi vive non saranno più quelli di ora, ma non vogliono
occuparsene perché lo considerano un problema troppo grande o troppo difficile
da affrontare. Alcuni di noi, abitanti di questo pianeta, ne risentiranno in
modo drammatico (alluvioni, tornado, incendi, siccità, ondate di calore, crisi
idriche e di approvvigionamenti, innalzamento del livello dei mari e delle
temperature, ecc.), altri in modo più lieve, ma alcuni in misura tanto forte da
costringerli a cercare la propria sopravvivenza altrove: secondo le previsioni
più accreditate, nel corso del secolo, ma a partire da ora (la deadline, quando
ancora se ne parlava, era stata posta intorno al 2030…) e dai prossimi decenni,
circa la metà degli abitanti del pianeta – 4-5 miliardi di esseri umani – dovrà
emigrare verso altri territori, per lo più verso l’emisfero settentrionale,
liberato dai ghiacci e dal gelo dal riscaldamento globale. Siamo pronti ad
affrontare queste migrazioni epocali? E in che modo?
Questo è ciò che manca dalle mappe dei futurologi di governo e dei media, ma che
è ben presente nelle menti dei pochi membri dell’élite – soprattutto militari,
soprattutto del Pentagono – che si misurano con i dati di fatto. Gli stessi che
stanno imponendo una svolta radicale ai bilanci degli Stati, trasferendo
quantità sterminate, e apparentemente insensate, di risorse dal sostegno
all’esistenza delle rispettive popolazioni alle armi, alla guerra, allo
sterminio. Quelle risorse economiche e “umane” oggi indirizzate al “ riarmo”
(come se non fossimo già abbastanza armati), ma soprattutto alla
militarizzazione delle istituzioni e della società, e composte in misura
crescente da strumenti di sorveglianza dual-use, domani saranno utilizzate per
cercare di fermare i flussi incontrollati di migranti in cerca della propria
sopravvivenza in altre regioni del pianeta.
Che fare? Gaza ci ha mostrato tutta la determinazione con cui si è cercato di
eliminare da un territorio piccolissimo come “la Striscia”, con una politica di
sterminio programmato, una popolazione giudicata superflua o nemica, ma quello
era, e forse è ancora, solo un laboratorio. Domani quegli stessi mezzi, sempre
più sofisticati e micidiali, potranno essere impiegati per cercare di fermare il
flusso dei migranti ambientali e sociali in fuga dalle aree del nostro pianeta
diventate invivibili. Se il genocidio del popolo di Gaza ha suscitato
l’indignazione e una reazione di massa in molti Paesi, ha dimostrato però di
lasciare indifferenti, anzi, accondiscendenti, i loro governi. Ed è di questo
che dobbiamo preoccuparci.
Per questo c’è stata, e dovrà continuare a esserci, una mobilitazione così ampia
per Gaza, soprattutto da parte di una generazione, quella di Greta, già
impegnata con alterne vicende nella difesa del clima: una generazione che, a
differenza di quelle precedenti, percepisce qual è la posta in gioco di questa
tremenda aggressione. Grottesco quindi utilizzare la presenza di uno striscione
che inneggiava al 7 Ottobre per attribuirne la condivisione alle decine e
centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi che si sono mobilitati contro il
genocidio in atto. Ancora più grotteschi gli autodafè dei giornalisti che fino a
ieri irridevano i giovani attaccati tutto il giorno ai cellulari e che oggi si
accorgono che in tutto il mondo quei giovani i cellulari li usano per informarsi
su ciò di cui i massmedia non parlano e per convocare le loro manifestazioni.
A novembre si svolgerà a Belém la COP30 per il clima: nient’altro che una
sfilata di decine di migliaia (fino a 100mila, come a Sharm-El-Sheikh tre anni
fa) di “delegati” – molti della grande industria del petrolio e affini, molti
diplomatici ignari dei problemi, ma anche molti esperti della materia resi
impotenti dai primi – per fare finta di occuparsi del clima. Ma se non
metteranno all’ordine del giorno quello che è il problema centrale dei prossimi
decenni, prendendo innanzitutto una netta posizione contro le guerre e le armi
che hanno offuscato l’urgenza della lotta per i clima, quell’incontro sarà
nient’altro che una stanca ripetizione delle inutili COP che l’hanno preceduto.
Il fatto è che i governi di tutto il mondo si sono dimostrati incapaci di
prendere sul serio la minaccia climatica che incombe su tutta l’umanità.
Minaccia che può essere affrontata – all’inizio sicuramente in modo inadeguato,
ma via via in modo sempre più drastico, e replicabile, mano a mano che i
disastri ambientali lo imporranno – solo se verrà presa in mano dalle
popolazioni che ne sono colpite: con misure di adattamento alle condizioni
sempre più ostiche in cui si verranno a trovare, come si è visto nel corso di
molti dei disastri climatici che hanno colpito un territorio negli ultimi tempi.
Ma poi anche con misure di prevenzione: tutte – dalla generazione energetica da
fonti rinnovabili e diffuse all’alimentazione e all’agricoltura di prossimità,
dall’edilizia all’assetto del territorio, dalla mobilità condivisa al
contenimento del turismo e dello sport-spettacolo – che potranno avere effetti
positivi anche sulla mitigazione, cioè sulla riduzione del ricorso ai
combustibili fossili che i governi – e chi li governa – non sanno accettare. E
chi, di quelle popolazioni, potrà o si vedrà costretto a prendere l’iniziativa?
Sicuramente le nuove generazioni: quelle solo l’altro ieri mobilitate per il
clima e oggi per Gaza, ben consapevoli delle ragioni di fondo che le spingono a
farlo.
Guido Viale