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“Ghiacciai”, una mostra di Salgado per ricordare la loro importanza
In occasione dell’Anno Internazionale della Conservazione dei Ghiacciai proclamato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per il 2025, Trento Film Festival, il Mart e il MUSE hanno unito le forze e realizzato il grande progetto espositivo “Ghiacciai” di Sebastião Salgado recentemente scomparso.  Per più di cinquant’anni, Salgado ha girato il mondo per documentarne le meraviglie e la rovina. Con alle spalle una carriera da economista nel campo della cooperazione, abbandonata nel 1973 per dedicarsi interamente alla fotografia, il brasiliano sa bene quali sono i punti nevralgici del pianeta, quelli che più di ogni altro sono in grado di restituire un’immagine – visiva, sociale e ambientale – spietatamente veritiera delle condizioni in cui si trovano la Terra e i suoi abitanti. Per questo, negli innumerevoli viaggi che lo hanno portato dalle grandi metropoli agli angoli più remoti dei cinque continenti, la sua lente si è rivolta non solo sulle persone, ma anche e soprattutto sulla natura, sugli ecosistemi, sugli equilibri delicatissimi e instabili che si creano quando l’uomo e il resto del mondo si incontrano. Proprio pensando alla mostra che si stava realizzando ebbe a dichiarare “I ghiacciai, per me, sono il termometro del pianeta: indicano cosa succederà climaticamente. Se non ci sono più le condizioni perché possano esistere i ghiacciai, allora non ci sono più le condizioni perché la Terra possa funzionare. Questo significa che ci stiamo davvero riscaldando, ci stiamo davvero sciogliendo, stiamo realmente esaurendo molte riserve d’acqua”. Il ghiacciaio Perito Moreno, Campo de Hielo, Patagonia, Argentina, 2007 A Rovereto e a Trento, Ghiacciai  è diventata  una mostra diffusa per la quale Salgado ha selezionato una serie di scatti, in buona parte inediti. Il progetto rappresenta un’occasione unica di conoscenza e approfondimento della poetica dell’artista e, allo stesso tempo, offre la possibilità di affrontare uno dei temi più urgenti del nostro tempo, quello del cambiamento climatico.  Fin dai primi monitoraggi scientifici negli anni Sessanta, è emerso con chiarezza come di decennio in decennio si possa registrare una costante, drammatica, riduzione di volume e superficie dei ghiacciai di tutto il mondo, alcuni dei quali sono già, di fatto, estinti. La scomparsa dei ghiacciai comporta in primo luogo la perdita culturale di panorami inestimabili, accecanti nella loro maestosità, capaci di affascinare generazioni di viaggiatori, artisti e poeti. Dall’altra, i ghiacciai sono elementi fondamentali nella regolazione del ciclo idrologico e del clima locale e globale, sono vivi e fautori di vita, da loro dipendono l’approvvigionamento di acqua potabile di due miliardi di persone e due terzi dell’agricoltura irrigua mondiale. Gli iceberg sono pezzi di ghiacciaio che si staccano e vanno alla deriva nel mare. Tra l’Isola Bristol e l’Isola Bellingshausen, Isole Sandwich Australi, 2009 La  mostra visitabile fino al 21 settembre si compone di due sezioni complementari allestite in due diversi musei i cui ambiti, l’arte e la scienza, corrispondono ai temi della mostra. Per il Mart di Rovereto Salgado ha scelto oltre 50 fotografie in grande e grandissimo formato di ghiacciai di tutto il mondo, mentre per il MUSE di Trento  ha progettato una grande installazione site specific negli spazi del “Grande Vuoto” progettato dall’architetto Renzo Piano, immagini  scattate tutte in Canada, nel Parco Kluane Park. Ad accompagnare la mostra, un catalogo edito da Contrasto raccoglie le fotografie e testi critici, con un’introduzione della climatologa Elisa Palazzi, docente di Fisica del clima all’Università di Torino Gli iceberg sono pezzi di ghiacciaio che si staccano e vanno alla deriva nel mare. Isole Sandwich Australi, 2009 Tiziana Volta
La spesa militare è il vero crimine
“Mantenere operativa la squadra antincendio tutto l’anno è assurdo e uno spreco”. Suárez-Quiñones, assessore all’Ambiente, alla Casa e alla Pianificazione territoriale di Castiglia e León.  https://www.eldiario.es/castilla-y-leon/politica/administracion-peores-incendios-castilla-leon-quinones-nuevo-centro-polemica_1_12529427.html>  I cittadini degli Stati membri della NATO devono “accettare di fare sacrifici”, come tagli alle pensioni, alla sanità e ai sistemi di sicurezza, per aumentare la spesa per la difesa… Dichiarazioni di M. Rutte, Segretario Generale della NATO, il 12.12.2024. <https://es.euronews.com/video/2024/12/12/rutte-pide-a-los-ciudadanos-europeos-sacrificios-para-aumentar-el-gasto-en-defensa> Pedro Sánchez annuncia un aumento straordinario di 10,471 miliardi di euro nella spesa militare per quest’anno. Rispetteremo gli impegni con l’UE “senza toccare un centesimo della spesa sociale” 26.03.2025 https://www.elsaltodiario.com/gasto-militar/pedro-sanchez-anuncia-un-aumento-del-gasto-defensa-10000-millones-euros> I terribili incendi delle ultime settimane, nel mezzo di una lunga ondata di caldo, ci portano a chiederci ancora una volta cosa dobbiamo davvero difendere, cosa ci dà sicurezza. In altri articoli abbiamo insistito sul fatto che sono i servizi pubblici, la previdenza sociale, l’istruzione pubblica, la sanità, il sistema pensionistico pubblico, le case di riposo, la casa, gli asili nido e molto altro ancora a darci davvero sicurezza. A questo lungo elenco vanno aggiunti i vigili del fuoco e i pochi servizi di protezione civile e, nel caso degli incendi, i vigili del fuoco forestali, veri difensori del territorio, della diversità biologica, dei beni, delle colture e della popolazione stessa dei Comuni. Come in altri servizi pubblici, constatiamo minacce comuni quali la precarietà lavorativa, la riduzione del personale, i posti vacanti, gli obblighi legali non rispettati, la privatizzazione del servizio, il subappalto o la riduzione diretta del budget, che comportano un servizio scadente, l’insicurezza e il mancato rispetto delle norme di prevenzione e protezione. Spesso si aggiunge l’incompetenza dei responsabili, scelti più per criteri politici che per qualificazione e reale volontà di servizio.  Il cambiamento climatico è ormai una certezza e, secondo gli esperti, sta accelerando più rapidamente di quanto inizialmente previsto. Tutto indica che gli episodi di temperature estreme, piogge torrenziali, grandinate, venti da uragano o enormi nevicate saranno sempre più frequenti, per cui, per non ipotecare ulteriormente il futuro dell’umanità, è urgente affrontare definitivamente la decarbonizzazione e le emissioni nell’atmosfera che accelerano il cambiamento climatico. Negare il cambiamento climatico è criminale perché impedisce di affrontare in modo efficace le minacce alla vita. Lo abbiamo visto nella tempesta che ha devastato alcune zone di Valencia dopo che il governo regionale ha soppresso l’Unità di Emergenza Valenciana. In tutte le cosiddette catastrofi “naturali” degli ultimi tempi in Spagna ci sono tre questioni fondamentali da criticare: la mancanza di risorse, la mancanza di previsione e la mancanza di budget per la prevenzione e la ricostruzione. È qui che il confronto con i mezzi investiti nella spesa militare è più stridente. Si sostiene che sia uno spreco mantenere vigili del fuoco forestali, attrezzature e macchinari pesanti adeguati in inverno, ma quasi nessuno vede come uno spreco criminale avere 120.000 militari inattivi in inverno e in estate, in primavera e in autunno, “nel caso in cui” il nemico ci invada, creati per continuare ad alimentare il militarismo e le sue dinamiche di dominio e saccheggio. Lo stesso vale per l’equipaggiamento. Per ogni eventualità, carissimi carri armati, veicoli di ogni tipo, aerei e navi si trovano nei loro hangar militari o, peggio ancora, in esercitazione, inquinando il pianeta e cercando nemici in tutto il mondo. Mentre il fuoco continuava a bruciare ettari di terreno, i Comuni attendevano idrovolanti o attrezzature che dovevano arrivare da migliaia di chilometri di distanza perché non era prioritario disporre di maggiori risorse nel caso in cui ci fosse più di un grande incendio. È necessario ascoltare le lamentele dei residenti non solo per quanto riguarda la grave mancanza di risorse, ma anche per quanto riguarda la sicurezza del territorio, dei loro beni e delle loro vite. Obbligare gli abitanti a evacuare i paesi senza ulteriori indugi può essere necessario in alcuni casi, ma non deve essere la prima né l’unica opzione. Le amministrazioni devono prendere sul serio la necessità di dotare ogni Comune, ogni regione dei materiali necessari per affrontare il fuoco, in questo caso, nella fase iniziale, quando è più facile spegnerlo, sfruttando la motivazione e la conoscenza del territorio da parte della popolazione. Sarà necessario investire nella formazione di tecnici e specialisti e stabilire protocolli di coordinamento. Sarà necessario investire nella creazione di zone protette intorno ai centri abitati, ripiantare specie autoctone più resistenti al fuoco e cambiare il modello di approvvigionamento delle risorse dei boschi. È vero che tutto ciò richiede decisioni politiche e denaro. 17 miliardi sono l’1% del PIL, che basterebbe per molte politiche di prevenzione. Per “imposizione” del gangster dell’impero spenderemo il 5% del PIL[1] per preparare la guerra, fabbricando e acquistando armi americane di cui non abbiamo bisogno. È necessario mobilitarsi per fermare questa follia e investire in ciò che ci dà davvero sicurezza. Le guerre sono evitabili, prevedibili, prescindibili, sono un prodotto umano profondamente radicato nella cultura patriarcale militarista in cui viviamo. Le catastrofi sono inevitabili, possiamo solo prevenirne e mitigarne in parte alcune conseguenze. Sono ora il nostro vero nemico, non cerchiamo oltre. È fondamentale mettere in evidenza il costo opportunistico che comporta lo spreco militare. Ad esempio, con il costo di un caccia F35 si potrebbero acquistare 10 elicotteri antincendio. Possiamo fare l’equivalenza in scuole, ospedali, asili nido, alloggi popolari o finanziamenti alle università. Alimentare il militarismo ci porta alla distruzione reciproca assicurata come scenario finale. Superare il militarismo ci porterebbe a scongiurare la minaccia della distruzione e della guerra e a investire quelle enormi risorse per affrontare il cambiamento climatico, vera minaccia oggi per la vita. Ogni euro, ogni milione di euro investito in spese militari è un euro, un milione di euro che ci viene rubato, contro la vita. Smettiamo di investire nella preparazione della distruzione e della morte ciò di cui abbiamo bisogno per prenderci cura delle persone e del pianeta.  Nessun euro per il riarmo! Nessun voto per la guerra! Tutto il bilancio militare deve essere destinato alla difesa e alla sicurezza del territorio, delle persone e della biodiversità! Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante Revisione di Anna Polo [1] Visto che questo dato contraddice ciò che hanno riferito i mass media italiani, secondo cui la Spagna è stato l’unico Paese a rifiutare l’ultimatum di Donald Trump riguardo alle spese militari, abbiamo chiesto chiarimenti. L’autore, Alternativas Noviolentas, ci ha risposto così: Pedro Sanchez si vanta di rimanere al 2% del PIL, ma nel documento non compare alcuna eccezione e la realtà è che arriveremo al 5%. Se sommiamo la spesa militare nascosta, gli interessi sul debito militare e le voci extra-bilancio approvate quasi in ogni consiglio dei ministri, la spesa reale supera già il 4% del PIL.   Redacción España
Gli interventi umani non riescono a fermare l’aumento dei grandi incendi causati dal cambiamento climatico
I ricercatori hanno stabilito un legame diretto tra il cambiamento climatico e l’aumento della frequenza e dell’intensità dei grandi incendi in tutto il mondo, collegandolo anche a migliaia di decessi in più causati dal fumo negli ultimi decenni. In due studi separati, gruppi di ricerca dell’Università Dalhousie, del Belgio, del Regno Unito e del Giappone hanno studiato l’entità dei grandi incendi e il loro effetto sulla salute umana, riscontrando un peggioramento dei risultati per entrambi. Infatti, il gruppo di ricerca stima che negli anni ’60 i decessi correlati al fumo dei grandi incendi fossero meno di 669 all’anno, ma che tale cifra sia salita a 12.566 negli anni ‘10 di questo secolo. Uno studio pubblicato su Nature Climate Change ha confrontato modelli di grandi incendi con e senza gli effetti dei cambiamenti climatici, mostrando un aumento della frequenza e dell’intensità degli stessi in molte regioni, in particolare negli ecosistemi sensibili delle savane africane, dell’Australia e della Siberia. I risultati, tuttavia, evidenziano notevoli differenze regionali. In Africa, dove si trova fino al 70% della superficie bruciata a livello globale, si è registrato un netto calo dei grandi incendi, dovuto in gran parte all’aumento dell’attività umana e alla frammentazione del territorio che rendono più difficile la propagazione degli incendi. Al contrario, nelle zone boschive della California e della Siberia, il numero di incendi è in aumento a causa dei periodi di siccità più lunghi e delle temperature più elevate legate al cambiamento climatico. > “Lo studio è importante perché mostra e quantifica l’influenza dei cambiamenti > climatici sull’aumento dei grandi incendi in tutto il mondo, soprattutto > considerando l’impatto degli incendi sulla società e il loro effetto di > retroazione sui cambiamenti climatici”, afferma la dottoressa Sian > Kou-Giesbrecht, professore associato presso il Dipartimento di Scienze della > Terra e dell’Ambiente dell’Università Dalhousie, che ha condotto e analizzato > le simulazioni del modello canadese sugli incendi e ha collaborato alla > stesura di entrambi i rapporti. PERDITA DI CONTROLLO L’equipe ha utilizzato modelli che hanno preso in considerazione vari fattori quali il clima, la vegetazione e la densità della popolazione. I ricercatori sottolineano che, sebbene attività umane quali la lotta agli incendi e la gestione del paesaggio possano avere un effetto moderatore, spesso ciò non è sufficiente a contrastare completamente l’impatto dei cambiamenti climatici, specialmente negli anni caratterizzati da condizioni meteorologiche estreme. > “Ciò che colpisce è che nei periodi con un numero di incendi da basso a > moderato, gli interventi diretti dell’uomo hanno un effetto significativo. > Tuttavia, nei periodi con molti incendi, l’effetto dei cambiamenti climatici è > predominante, il che significa che in questi casi perdiamo il controllo”, ha > affermato Seppe Lampe, climatologo presso la Vrije Universiteit Brussel e uno > degli autori principali dello studio. Sebbene le attività umane, quali i cambiamenti del paesaggio e la crescita demografica, riducano generalmente l’area bruciata, l’effetto dei cambiamenti climatici continua ad aumentare. Le simulazioni mostrano che il cambiamento climatico ha aumentato la superficie bruciata a livello globale di quasi il 16% dal 2003 al 2019 e ha aumentato del 22% la probabilità di registrare mesi con un’area bruciata superiore alla media globale. Inoltre, il contributo del cambiamento climatico alla superficie bruciata è aumentato dello 0,22% all’anno a livello globale, con l’aumento maggiore registrato nell’Australia centrale. I risultati sottolineano l’importanza di una riduzione immediata, drastica e sostenuta delle emissioni di gas serra, insieme a strategie di gestione del paesaggio e degli incendi, per stabilizzare l’impatto degli incendi sulla vita, sui mezzi di sussistenza e sugli ecosistemi, afferma l’articolo. AUMENTANO I DECESSI CAUSATI DAL FUMO DEI GRANDI INCENDI Un altro studio ha rilevato che i cambiamenti climatici potrebbero aver aumentato di dieci volte la percentuale di decessi correlati al fumo dei grandi incendi nell’arco di circa 50 anni, un fenomeno che finora era stato in gran parte non quantificato. I ricercatori, tra cui quelli dell’Istituto Nazionale di Studi Ambientali del Giappone, hanno utilizzato modelli di incendio-vegetazione in combinazione con un modello di trasporto chimico e un quadro di valutazione dei rischi per la salute, per attribuire al cambiamento climatico la mortalità umana globale dovuta alle emissioni di particolato fine da incendi tra il 1960 e il 2019. Hanno scoperto che tra l’1% e il 3% delle morti causate dagli incendi negli anni ’60 erano attribuibili al cambiamento climatico, mentre fino al 28% lo erano negli anni ’10 di questo secolo, a seconda del modello utilizzato. SUD AMERICA, AUSTRALIA, EUROPA E LE FORESTE BOREALI DELL’ASIA HANNO REGISTRATO I LIVELLI DI MORTALITÀ PIÙ ELEVATI. > “Può essere difficile attribuire gli incendi boschivi al cambiamento climatico > a causa della complessità delle interazioni tra condizioni meteorologiche > favorevoli agli incendi, effetti del cambiamento globale sui potenziali > combustibili, gestione del territorio e cause di incendio, ma in questi > progetti internazionali abbiamo attribuito con certezza i grandi incendi al > cambiamento climatico utilizzando modelli multipli. Abbiamo anche > contestualizzato il tutto quantificando la mortalità umana associata > all’intensificarsi del fumo dei grandi incendi”, afferma la dottoressa > Kou-Giesbrecht, aggiungendo che se l’attuale ritmo dei cambiamenti climatici > continuerà, l’area di terreno bruciato e gli impatti sulla salute associati > aumenteranno in modo significativo nei prossimi decenni.   https://eoimages.gsfc.nasa.gov/images/imagerecords/154000/154641/namblackcarbon_geos5_20250803.mp4 (Video dell’Osservatorio terrestre della NASA realizzato da Lauren Dauphin, utilizzando i dati GEOS-5 forniti dal Global Modeling and Assimilation Office del GSFC della NASA.) Rapporto della NASA Articolo di Lindsey Doermann Il fumo provocato da centinaia di incendi boschivi in Canada ha creato cieli nebbiosi e una scarsa qualità dell’aria in diverse province e negli stati settentrionali degli Stati Uniti tra la fine di luglio e l’inizio di agosto 2025. Secondo quanto riportato dai media, l’inquinamento atmosferico ha colpito alcune zone dei Territori del Nord-Ovest, dell’Alberta, del Saskatchewan, del Manitoba e dell’Ontario, nonché alcune parti dell’alto Midwest e del nord-est degli Stati Uniti. L’animazione qui sopra raffigura la concentrazione e il movimento del fumo degli incendi boschivi dal 30 luglio al 3 agosto 2025. Mostra le particelle di carbonio nero, comunemente chiamate fuliggine, provenienti dagli incendi canadesi che si sono diffuse nei cieli del Nord America durante quel periodo. Il carbonio nero è un componente dell’inquinamento atmosferico da particolato fine (PM2,5), che può aggravare le condizioni cardiovascolari e respiratorie e causare altri problemi di salute. I dati relativi al carbonio nero provengono dal modello GEOS Forward Processing (GEOS-FP) della NASA, che assimila i dati provenienti da satelliti, aeromobili e sistemi di osservazione terrestri. Oltre alle osservazioni satellitari degli aerosol e degli incendi, GEOS-FP incorpora anche dati meteorologici quali temperatura dell’aria, umidità e venti per prevedere il comportamento delle colonne di fumo. L’animazione mostra come le colonne di fumo nel Canada settentrionale si siano diffuse e propagate verso est. Il 2 e il 3 agosto, alcune zone di diverse province sono state oggetto di allerta per la qualità dell’aria. Queste allerte vengono emesse quando l’ Indice di Qualità dell’Aria del Canada (AQHI) raggiunge il livello 10 o superiore, indicando un rischio molto elevato per la salute. Il 3 agosto, la visibilità è stata ridotta a 200 metri a Fort McMurray, Alberta. Secondo i meteorologi, la scarsa qualità dell’aria ha colpito anche le zone più lontane dagli incendi, poiché un sistema di alta pressione ha spinto il fumo dagli strati più alti dell’atmosfera verso la superficie. Ad esempio, le autorità del Minnesota hanno emesso un allarme sulla qualità dell’aria per l’intero Stato per quasi una settimana. Secondo quanto riportato dai media, il 3 agosto è stato consigliato agli abitanti di diversi Stati del nord-est di limitare le attività all’aperto a causa del fumo, e l’AQHI di Toronto, nell’Ontario, ha raggiunto quel giorno il livello 7, che indica un elevato rischio per la salute. Il Canada sta affrontando una delle peggiori stagioni di incendi mai registrate in termini di superficie bruciata. Secondo il Canadian Interagency Forest Fire Center, al 3 agosto erano andati in fumo oltre 6,6 milioni di ettari (16,3 milioni di acri). Questo dato supera la media venticinquennale di circa 2,2 milioni di ettari, ma è inferiore agli oltre 12,3 milioni di ettari bruciati alla stessa data nel 2023, un anno da record. Il 3 agosto 2025, 159 incendi stavano bruciando in Manitoba e 81 in Saskatchewan, molti dei quali classificati come fuori controllo. Altri 106 erano attivi nei Territori del Nord-Ovest. Per la seconda volta in questa stagione, il fumo provocato da questi incendi ha attraversato l’Oceano Atlantico dirigendosi verso l’Europa. Trasportato da una forte corrente a getto, si prevedeva che avrebbe raggiunto i cieli dell’Europa occidentale tra il 5 e il 7 agosto. A metà giugno 2025, un’altra colonna di fumo proveniente dal Canada ha degradato la qualità dell’aria e arrossato i cieli dell’Europa centrale e meridionale. -------------------------------------------------------------------------------- Fonte: Research reveals global increase in wildfires due to climate change despite human interventions, Dalhousie University. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dall’inglese di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Rédaction Montréal
La centrale nucelare di Gravelines assaltata dalle meduse
Nella ‘notte di San Lorenzo’, tra il 10 e l’11 agosto, quattro dei sei reattori si sono bloccati automaticamente e, siccome gli altri due erano erano già fermi per manutenzione, è improvvisamente rimasto inattivo tutto l’impianto sito nei pressi di Dunkerque. La causa non è stato un guasto o un incidente, bensì l’inaspettata invasione di un enorme sciame di meduse nei condotti e, quindi, l’ostruzione dei filtri in cui passa l’acqua, pompata da un canale collegato al Mare del Nord, che raffredda i reattori della centrale nucleare, una delle maggiori attive in Europa occidentale, del colosso francese EDF, la cui sigla sta per Électricité de France S.A. Nel comunicato pubblicato oggi, 13 agosto, EDF annuncia che “l’unità di produzione n° 6 della centrale elettrica di Gravelines è stata ricollegata alla rete elettrica nazionale” e rassicura: l’arresto, che è stato “causato dalla presenza massiccia e imprevedibile di meduse nei tamburi filtranti delle stazioni di pompaggio, situate nella parte non nucleare degli impianti”, non ha avuto conseguenze, nessun impatto “sulla sicurezza degli impianti, sulla sicurezza del personale o sull’ambiente”. Sul sito della compagnia, nella pagina che illustra l’impegno CSR del Gruppo per “contribuire alla conservazione delle risorse idriche al fine di migliorare la resilienza dell’ambiente naturale e di rispondere alle esigenze idriche in modo equilibrato e sostenibile”, l’attuale chairman e CEO di EDF precisa: “La nostra storia è sempre stata strettamente legata all’acqua. Il 90% della nostra produzione di energia elettrica ne dipende: l’acqua raffredda il nucleo delle nostre centrali elettriche, scorre attraverso le nostre centrali idroelettriche ed è una componente essenziale in tutti i nostri processi industriali”. Ma le meduse non sono d’accordo… e, premettendo di non aver avuto ruolo in questo loro assalto alla centrale nucleare di Gravelines, Greenpeace France ha commentato: «Ben fatto meduse!». “Anche se si tratta di qualcosa di abbastanza raro, non è certo la prima volta che le meduse paralizzano una centrale nucleare – osserva Umberto Mazzantini su Green Report – La stessa EDF aveva già subito invasioni di meduse negli anni ’90 e casi simili si sono già verificati, in particolare negli anni 2010, negli Usa, in Scozia, Svezia e Giappone. La proliferazione di meduse in tutto il mondo è dovuta a diversi fattori, tra i quali il riscaldamento degli oceani e climatico, ma anche alla pesca eccessiva, che elimina alcuni dei loro predatori diretti, come i tonni”. “Gli impianti costieri, pur producendo energia a basse emissioni, rilasciano in mare acqua più calda di quella prelevata per il raffreddamento – evidenzia Riccardo Liguori su GreenMe – Questo inquinamento termico può creare micro-habitat favorevoli alla crescita di meduse e altri organismi marini”. Maddalena Brunasti
Punto di svolta: l’energia rinnovabile è più economica dei combustibili fossili
Un nuovo rapporto delle Nazioni Unite (ONU) afferma che è stato raggiunto il punto di svolta tra energie rinnovabili e combustibili fossili. Il Segretario Generale dell’ONU António Guterres ha dichiarato che stiamo entrando nell’era delle rinnovabili e lasciando quella dei combustibili fossili. Secondo il rapporto, “Nel 2024, le rinnovabili hanno costituito […] L'articolo Punto di svolta: l’energia rinnovabile è più economica dei combustibili fossili su Contropiano.
La storia del capitalismo è una storia di genocidi ricorrenti – intervista a Jason W. Moore
Il testo originale è stato pubblicato dalla rivista online “CTXT“, e tradotto da Alessia Arecco per DINAMOpress Parlare con Jason W. Moore (Oregon, 1971) significa parlare di Capitalocene, concetto da lui proposto per «ridicolizzare il pensiero autoritario che risale a Malthus alla fine del XVIII secolo», quando la sovrappopolazione era considerata la fonte della disuguaglianza. Per lo storico, geografo e professore di sociologia, il cambiamento climatico è responsabilità della classe capitalista e di quelle 150 imprese transnazionali responsabili di oltre il 70% delle emissioni globali di carbonio e gas serra dal 1850. La crisi climatica, conclude, è una questione lavorativa, una guerra di classi. In questa intervista, Moore sviluppa anche l’idea di «natura a basso costo» e dei «tentativi, dall’alto, di svalutare la vita umana». Analizza inoltre il genocidio a Gaza – «singolare, ma non eccezionale» – e fornisce strumenti chiave per organizzare movimenti antisistemici in grado di rispondere a un capitalismo in crisi. Vorrei iniziare chiedendole del concetto da lei sviluppato di «natura a basso costo». In che modo questo concetto è rilevante oggi per affrontare la crisi ecologica? Il capitalismo è un sistema di natura a basso costo. La natura a basso costo include non solo i suoli e i ruscelli, i campi e le foreste, ma anche la forza lavoro umana. La storia del capitalismo, da Colombo nel 1492 fino ai nostri giorni, è la storia di una lotta per la natura a basso costo. La natura a basso costo include ciò che chiamo i quattro elementi a basso costo, o i quattro “a basso prezzo”: lavoro a basso costo, cibo a basso costo, energia a basso costo e materie prime a basso costo. Affinché il capitalismo possa superare le sue crisi, deve ridurre il prezzo della forza lavoro, del cibo, dell’energia e delle materie prime, aumentandone al contempo il volume. La natura a basso costo non riguarda solo come i capitalisti abbassano il prezzo di questi quattro elementi, ma è anche un processo di svalutazione nel senso del termine inglese “cheapening”, relativo a privare di dignità e rispetto. Questo è ciò che tutti i grandi imperi hanno fatto: svalutare la vita e il lavoro della grande maggioranza. Cosa implica includere la forza lavoro come parte della natura a basso costo? Nonostante oggi si dica che l’umanità sia la causa del cambiamento climatico, la realtà è che per gran parte della storia del capitalismo quasi tutta l’umanità è stata collocata nel regno della natura. Parafrasando la grande economista politica Maria Mies, il capitalismo si nutre del lavoro non retribuito delle donne, della natura e delle colonie. Le fonti della natura a basso costo risiedono nella trama della vita, ma i meccanismi per produrla ed estrarla implicano dominio e oppressione. Pertanto, quando parliamo di natura a basso costo, non ci riferiamo solo alla natura biofisica e biologica, ma anche ai tentativi, dall’alto, di svalutare la vita umana e l’intera trama della vita. Recentemente ha scritto sulla fine di questa natura a basso costo, sul termine del processo storico per cui il capitalismo non paga i suoi conti. L’economista Daniela Gabor analizza come i poteri pubblici riducano il rischio dei privati investendo somme sempre maggiori per spostare la crisi ecologica. Fino a che punto possiamo dire che il denaro a basso costo sia una strategia per evitare la fine della natura a basso costo? Il capitalismo non risolve mai le sue crisi. Le sposta soltanto. Dalla fine degli anni ’80 fino a forse tre anni fa, l’era neoliberale è stata segnata da una politica monetaria espansiva di denaro a basso costo. Lo abbiamo visto in Giappone, in Europa o negli Stati Uniti. Oggi, questo sembra essere finito. E questo ci dice qualcosa di importante in risposta alla sua domanda: il capitalismo non risolve mai le sue crisi. Le sposta semplicemente da un posto all’altro. Ma può spostarle solo muovendosi verso nuove frontiere di denaro a basso costo, lavoro a basso costo, cibo a basso costo, energia a basso costo, materie prime a basso costo e rifiuti a basso costo. Tutte queste frontiere oggi sono state recintate. La fonte della vitalità del capitalismo era spostarsi verso nuove frontiere e poi organizzare nuove e vaste rivoluzioni industriali. Oggi questo è finito, definitivamente. Oggi assistiamo anche alla fine del cibo a basso costo. Dal 2008, i prezzi alimentari sono schizzati in tutto il mondo, principalmente perché il capitale è fuggito dalla crisi dei mutui subprime alla Borsa di Chicago per speculare su materie prime e alimenti. I poteri pubblici stanno investendo somme enormi per contenere i prezzi del cibo, perché sanno che è una delle cause del malessere sociale. Questo sta accelerando la concentrazione di potere nelle grandi aziende agroindustriali e aggravando la crisi ecologica, che a sua volta fa aumentare il prezzo del cibo. Come rompere questa spirale? Analizziamo il rapporto del capitalismo con l’agricoltura. Se risaliamo al XVI secolo, vediamo che il modello di rivoluzione agricola lanciato dal capitalismo ha avuto successo. Ciò che ha fatto è stato produrre sempre più cibo con sempre meno forza lavoro. Questo ha liberato manodopera per lavorare in fabbriche e cantieri navali, trasferirsi nelle città e favorire lo sviluppo economico moderno. Tutte le grandi epoche d’oro, da quella inglese e olandese nei secoli XVI e XVII fino al secolo americano, si sono basate su una rivoluzione agricola che riusciva a produrre sempre più cibo affinché il suo prezzo calasse, facendo diminuire anche il prezzo della forza lavoro. Il rapporto tra alimentazione e forza lavoro è strettissimo, poiché il prezzo del cibo condiziona quello della manodopera. Quell’epoca è finita. Lo sappiamo dal progressivo rallentamento della produttività agricola in tutto il mondo, specialmente nelle aree che furono il cuore della rivoluzione verde, come gli Stati Uniti o l’India. L’alimentazione è una delle principali questioni politiche del presente, una questione di ordine sociale e di instabilità politica. Due delle maggiori rivoluzioni della storia mondiale moderna, quella francese e quella russa, furono provocate da problemi alimentari. Il cambiamento climatico oggi rende impossibile una nuova rivoluzione agricola capitalista nei termini che ho descritto. Vorrei approfondire il concetto di capitalocene e cosa propone da un punto di vista analitico. L’antropocene significa, letteralmente, l’era dell’uomo. Viene presentato come un fatto evidente, come una nuova era geologica. In realtà, è un argomento politico nascosto sotto l’illusione della buona scienza. Non c’è nulla di originale nel concetto di antropocene. Non è altro che un cambio di nome dell’olocene. Il concetto di capitalocene è una provocazione. È un tentativo di deridere e ridicolizzare il pensiero autoritario che risale a Malthus alla fine del XVIII secolo. Malthus pensava che la sovrappopolazione fosse la fonte della disuguaglianza, il che era molto comodo per lui e i suoi amici ricchi, perché così non dovevano assumersi alcuna responsabilità per il marcato aumento della disuguaglianza in Inghilterra alla fine del XVIII secolo. Secondo la sua logica, la disuguaglianza non era colpa dei capitalisti, dello sfruttamento o delle recinzioni, ma della natura e della legge naturale, del fatto che, secondo loro, i poveri avevano troppi figli. Altre versioni di questo argomento sarebbero apparse in seguito. Alla fine del XIX secolo, un altro periodo di profonda rivolta sociale, fu il darwinismo sociale e la rivoluzione eugenetica. > Nel 1968, nel momento delle rivolte del Terzo Mondo e dell’Occidente > imperialista, abbiamo un ambientalismo dominante, quello che Martínez-Alier > chiama l’ambientalismo dei ricchi. Ogni volta che la classe dominante si sente > minacciata, torna all’idea della natura e della legge naturale perché è più > facile giustificare ideologicamente guerra, violenza e disuguaglianza > attraverso un conflitto eterno tra uomo e natura, che spiegarlo come una > guerra di classi tra la grande maggioranza, contadini e lavoratori, e la > classe capitalistica. E da un punto di vista politico? In che modo direbbe che il Capitalocene è fondamentale per le forme attuali di organizzazione e per i movimenti antisistemici odierni? Il capitalocene afferma che le origini della crisi climatica risalgono all’epoca di Colombo. Lo sterminio delle popolazioni del Nuovo Mondo per schiavizzarle contribuì al severo cambiamento climatico del XVII secolo. Il capitalocene è anche un modo per dire che il cambiamento climatico è responsabilità della classe capitalistica, dell’1% della popolazione o, oggi, dello 0,1%. E che i responsabili del cambiamento climatico hanno nomi e indirizzi. Basti pensare alle 150 imprese transnazionali responsabili di oltre il 70% delle emissioni globali di carbonio e gas serra dal 1850. Come per la tratta degli schiavi, sappiamo chi è responsabile della crisi climatica. È un crimine contro l’umanità, un ecocidio. E i responsabili devono risponderne. Hanno nomi e indirizzi, sappiamo chi ha commesso il crimine, possiamo agire. Pertanto, il capitalocene è un modo per sottolineare che i problemi della vita planetaria e della crisi climatica possono essere attribuiti alle classi capitaliste dell’Occidente imperialista. Prima ha citato l’opera di Maria Mies e la sua analisi di come il capitalismo si appropri del lavoro delle colonie, delle donne e della natura. Nel suo pensiero ha sviluppato un’idea simile, la distinzione tra appropriazione e sfruttamento, proposta anche da Nancy Fraser. Questa distinzione è fondamentale per costruire alleanze tra il movimento ecologista e altre lotte, come quelle sindacali o per la casa. In che modo ritiene che questa distinzione possa essere politicamente utile? Non ci sono lotte ecologiche separate dalla questione lavorativa. Questo è il primo argomento che i socialisti devono sostenere: che la crisi climatica è una questione lavorativa, come dice Matthew Huber, una guerra di classi. Il razzismo, il sessismo e l’imperialismo esistono con un solo scopo: aumentare il tasso di profitto e ampliare le possibilità di accumulazione della superclasse planetaria. Ciò che ha fatto Maria Mies, la grande sociologa femminista e marxista tedesca, è stato attirare la nostra attenzione sulle dinamiche dell’oppressione e del lavoro non retribuito nella formazione delle classi lavoratrici. Il proletariato, la classe operaia, non è definito solo dal rapporto di lavoro salariato. Tutte le famiglie della classe lavoratrice dipendono da grandi quantità di lavoro non retribuito. Si tratta di una strategia di natura a basso costo che riduce il prezzo della forza lavoro. Il tempo di lavoro socialmente necessario è determinato da processi politici di dominio che estraggono il lavoro non retribuito socialmente necessario dalle donne, dalla natura e dalle colonie. > Il capitalismo non è, in senso stretto, un sistema economico. Contiene un > sistema economico, ma è un sistema sociale che organizza la trama della vita e > che va ben oltre il controllo di qualsiasi civiltà, dei cicli solari, > dell’orbita terrestre, delle eruzioni vulcaniche. La crisi capitalista ed ecologica si dispiega attraverso ciò che Neil Smith descrisse come sviluppo ineguale. Questo sviluppo ineguale è causa e conseguenza della competizione interna del capitale. A che punto siamo 40 anni dopo che Neil Smith scrisse il suo libro? La dinamica competitiva, che è al cuore del capitalismo, è finita. In tutti i principali settori economici del mondo dominano quattro, forse cinque aziende. Non importa se guardiamo agli appaltatori militari, alle grandi aziende farmaceutiche, ai media, alla produzione automobilistica o alle grandi aziende tecnologiche: ci sono quattro o cinque aziende per settore. Questo è ciò che gli studiosi hanno chiamato capitalismo monopolistico, ma ciò che vediamo oggi supera la loro immaginazione più sfrenata. Allora, che tipo di capitalismo è questo? È un capitalismo zombi. Sotto il capitalismo zombi, le basi della vitalità sono scomparse, ma il corpo rimane. Il capitalismo è morto dentro, ma rimane per nutrirsi del cervello dei vivi. Così lo ha descritto Nancy Fraser in Il capitalismo cannibale. Quale ruolo hanno i poteri pubblici nel sostenere le contraddizioni insite nel capitalismo zombi? Gli Stati Uniti hanno partecipato a circa 170 interventi militari dal 1999. Man mano che la crisi climatica si intensifica, lo stesso fa la macchina da guerra che viene da Washington. Gli ambientalisti devono prendere questo aspetto molto sul serio. La capitalizzazione di borsa delle 50 aziende più grandi del pianeta equivale al 30% di tutta l’attività economica globale. Questo è un livello di centralizzazione estrema ed è legato alla relazione strettamente interconnessa tra capitale e Stati. Negli Stati Uniti, nella relazione tra Goldman Sachs, Wall Street e la Casa Bianca, o tra Silicon Valley e la Casa Bianca, o tra gli appaltatori militari e la Casa Bianca, vediamo sempre le stesse persone. Questo solleva questioni fondamentali sulla democrazia, persino sulla democrazia limitata che ci è stata concessa sotto il capitalismo. In tutto il mondo assistiamo a una crisi della democrazia liberale che ha le sue radici nella fine della natura a basso costo. Non può essere superata, non lo sarà. Ciò che avrà successo è una qualche forma di accumulazione con la politica al comando, che peraltro è la condizione normale della civiltà prima del capitalismo. Sta parlando dell’era della guerra e del suo rapporto con il collasso ecologico. In che modo il genocidio a Gaza è legato all’ecocidio? Gaza è singolare, ma non eccezionale. La storia del capitalismo è una storia di genocidi ricorrenti. La logica di base dell’imperialismo è quella di un progetto civilizzatore – ovviamente lo dico con sarcasmo – che stabilisce due zone. Una zona in cui vige una regolarità simile a quella di una legge nei centri imperialisti, e zone di sacrificio in tutti gli altri luoghi. E chi abita le zone di sacrificio? I selvaggi – è così che pensano gli imperialisti, è così che parlano. Prima erano selvaggi, poi sono diventati sottosviluppati. È così che gli imperi si vedono, come civilizzatori. E chi stanno civilizzando? I selvaggi, gli esseri umani che non sono del tutto umani, che non sono pronti per i mercati, per la democrazia, per la civiltà. Dobbiamo insegnare loro, dicono, e se non possono essere istruiti, vanno cancellati dalla faccia della Terra. Tutto questo è, alla lettera, la retorica del governo israeliano per giustificare i suoi crimini a Gaza. I tedeschi della Seconda Guerra Mondiale usavano la stessa retorica. I britannici in India avevano la stessa retorica. Possiamo fare innumerevoli esempi, che si tratti dell’impero americano, di quello britannico o di quello olandese prima di loro. Questa è anche la storia dei genocidi indigeni che si sono succeduti nei secoli XIX e XX in Nord America. Questa dinamica che ho appena descritto è anche la dinamica di come si produce la natura a basso costo, quando gli esseri umani diventano parte della natura e vengono trattati come oggetti sacrificabili, come qualcosa che può essere dominato in nome del profitto. Nel corso del suo lavoro, ha sviluppato il concetto di ecologia-mondo, cercando di descrivere come, nelle diverse ere del capitalismo, il lavoro, l’energia, l’alimentazione e la natura si combinino in modi differenti. Quali forme di resistenza immagina o ritiene necessarie in questa fase dell’ecologia-mondo? Abbiamo bisogno di tutte le forme di resistenza, ma soprattutto, non basta resistere. Storicamente, l’espansione e la crescita del capitale nel corso dei secoli hanno permesso un modesto processo di riforme graduali, soprattutto nell’Occidente imperiale. Ad alcune parti della popolazione mondiale si poteva offrire qualche carota in più, per usare una metafora. Quando non ci sono carote, restano solo i bastoni. Oggi non ci sono più carote. E una cosa che sappiamo storicamente; c’è un libro importante di Walter Scheidel, The Great Leveler, che affronta questo punto, è che nessuna redistribuzione della ricchezza e del potere dai ricchi ai poveri è mai avvenuta senza violenza. Non perché la gente sia violenta, ma perché le classi dominanti vogliono conservare ricchezza e potere con ogni mezzo necessario. Il contesto della fine della natura a basso costo solleva nuove e spinose questioni politiche per i movimenti sociali degli inizi del XXI secolo. Dobbiamo sviluppare una strategia politica che vada oltre la fallimentare politica dell’orizzontalismo, affinché il potere politico estenda la democrazia in questo momento di crisi. L’immagine di copertina rappresenta una mappa delle colonie europee nel 1837. Fonte publicdomainpictures.net SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La storia del capitalismo è una storia di genocidi ricorrenti – intervista a Jason W. Moore proviene da DINAMOpress.
Ondate di calore: tre quarti delle notizie non citano la crisi climatica come elemento esplicativo
Negli ultimi anni i fenomeni di caldo intenso, le cosiddette le ondate di calore, stanno diventando frequenti, intensi e prolungati in tutto il pianeta. Un’analisi sulle morti per calore in alcune città europee durante l’ondata di calore di fine giugno/inizio luglio di quest’anno indica, tra gli altri risultati, che circa 1.500 dei 2.300 decessi da calore stimati sono il risultato del cambiamento climatico. Eppure, circa tre quarti delle notizie dei principali telegiornali e quotidiani italiani sulla prima ondata di calore della stagione non citano la crisi climatica quale elemento di contesto esplicativo del fenomeno. È quanto emerge dall’ultimo rapporto commissionato da Greenpeace all’Osservatorio di Pavia che ha analizzato la copertura mediatica dell’ondata di caldo estremo registrata tra fine giugno e inizio luglio. L’analisi mostra, inoltre, un andamento rapsodico dell’attenzione mediatica, che esplode durante il picco di calore, per poi spegnersi non appena il meteo cambia: una narrazione spesso accompagnata da toni espressi anche in titoli sensazionalistici che contribuisce a veicolare l’idea che le temperature estreme siano casi episodici e a una scarsa comprensione del fenomeno nelle sue cause e conseguenze sistemiche. Nelle edizioni serali dei TG generalisti Rai, Mediaset e La7, solo il 23% dei servizi ha citato la crisi climatica quale elemento di contesto esplicativo, ma di questi poco meno di un terzo ha esplicitato le responsabilità del riscaldamento globale, mettendolo in connessione con le emissioni di gas serra o con le sue cause antropiche; ancora, appena il 7% dei servizi si è focalizzato sulla necessità di interventi di mitigazione – come la riduzione delle emissioni climalteranti o la transizione verso fonti rinnovabili – mentre il 63% ha parlato di misure d’adattamento, inclusi consigli pratici quali idratarsi o evitare l’esposizione nelle ore più calde. Il 60% delle dichiarazioni riportate è di cittadini che hanno commentato come il caldo influenzi la loro quotidianità e parlato dei rimedi adottati per fronteggiarlo. Al contrario, le voci di esperti quali climatologi, fisici, meteorologici medici, e quelle del mondo del lavoro e dell’economia, tra cui imprenditori, operai, agricoltori e sindacalisti, hanno trovato spazio rispettivamente nel 16% e nel 15% dei servizi. Una tendenza simile si osserva sulle pagine dei primi cinque quotidiani italiani (Corriere della Sera, Repubblica, Avvenire, Il Sole 24 Ore, La Stampa): nel 67% degli articoli sulle ondate di calore non si fa alcun cenno al riscaldamento globale, mentre la metà degli articoli che citano la crisi climatica approfondisce anche le cause e/o ne cita i responsabili. Venendo, poi, alle soluzioni e alle azioni di contrasto, anche in questo caso a prevalere sono le misure d’adattamento (il 67% degli articoli ne cita qualcuna), mentre solo il 10% cita azioni di mitigazione. L’interesse per le conseguenze immediate delle ondate di calore domina la narrazione, con il 93% degli articoli che cita uno o più danni o rischi tangibili del caldo estremo, in primis quelli per la salute e per i lavoratori esposti. A differenza dei TG, le dichiarazioni riportate dai giornali provengono in larga parte da ambiti specifici, in primis esperti in ambito medico-scientifico, mondo economico, del lavoro e politico (l’85% delle dichiarazioni), con scarsa presenza della voce dei cittadini. Il rapporto dell’Osservatorio di Pavia ha analizzato anche i contenuti informativi sull’ondata di calore pubblicati su Facebook da dieci testate giornalistiche e i commenti degli utenti alle notizie postate, allargando lo studio anche al Fatto Quotidiano, Libero, Domani, La Verità, Il Giornale. Su 136 post che hanno riguardato il tema, solo 18 (il 13%) attribuiscono l’innalzamento delle temperature al riscaldamento globale. E, tra questi ultimi, solo tre citano l’origine antropica della crisi climatica. Anche sui social, il tema delle ondate di calore viene affrontato puntando principalmente su un mix di cronaca, dati sulle temperature e soluzioni di adattamento. I post delle tre testate di orientamento di destra (Libero, Il Giornale e La Verità) seguono una narrativa comune nella quale la questione delle ondate di calore viene trattata pressoché esclusivamente in chiave di scontro politico-ideologico, con toni di scherno e obiettivo di ridimensionamento. “L’analisi dei commenti degli utenti, si legge nel Report, rafforza queste cornici narrative di tipo critico-negazionista, tra cui: la minimizzazione e la negazione dell’eccezionalità dell’evento, ad esempio attraverso l’evocazione di estati calde del passato per confutare l’emergere di un trend nuovo; le accuse di catastrofismo esagerato ai media, cui vengono contestati titoli e contenuti definiti allarmistici; l’attacco alle soluzioni, con una narrativa critica verso le azioni di mitigazione come le politiche di transizione e l’auto elettrica; la sovrapposizione di crisi climatica e COVID 19 in discorsi complottisti su entrambi i fronti. In un contesto fortemente polarizzato, ironia e sarcasmo emergono come strategie comunicative utilizzate da negazionisti e critici climatici quale forma di attacco discorsivo che denigra, deridendolo, il contenuto dell’informazione”. Qui il Report: https://www.greenpeace.org/static/planet4-italy-stateless/2025/07/2fb3c7c8-ondate-di-calore-sui-media_greenpeace_osservatorio-di-pavia_def.pdf.  Giovanni Caprio
Il caldo globale uccide 480.000 persone all’anno
> Il caldo estremo è uno dei principali killer del mondo, superando di oltre il > doppio i 233.000 morti causati dai conflitti mondiali nel 2024, con 480.000 > persone morte a causa del caldo estremo. Tutti gli indicatori suggeriscono che il numero di morti causate dal caldo estremo è destinato a salire molto, perché il riscaldamento globale non sta rallentando in modo apprezzabile, dato che le emissioni globali di CO2 (biossido di carbonio o anidride carbonica) nell’atmosfera aumentano ogni anno con la precisione di un orologio, stabilendo nuovi livelli record e accumulando sempre più calore. È una situazione insostenibile. La rilevazione attuale di CO2 presso l’Osservatorio di Mauna Loa, Hawaii, il 15 giugno 2025 era di 430,07 ppm, la media giornaliera più alta mai registrata. L’eccesso di CO2 atmosferica è la fonte primaria di calore estremo. Bisogna tornare indietro di milioni di anni per trovare livelli più alti. Nel 2016 il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), un organismo globale di scienziati del clima, ha dichiarato che: “La CO2 a 430 ppm spingerebbe il mondo oltre il suo obiettivo di evitare cambiamenti climatici pericolosi”. Ci siamo lì! Nessuna azienda o governo sulla Terra è più colpita dai cambiamenti climatici del settore assicurativo. È il più grande campanello d’allarme. La Swiss Re Ltd (fondata nel 1863) è uno dei principali fornitori mondiali di assicurazione e riassicurazione. Il Rapporto SONAR 2025 della compagnia mette in guardia il mondo sul fatto che il riscaldamento globale è diventato uno dei principali killer del mondo. La Swiss Re afferma che il “calore estremo” è il killer designato: “Gli eventi di calore estremo possono avere un forte impatto sulla salute umana. Dati recenti mostrano che circa 480.000 morti all’anno possono essere attribuite a eventi di calore estremo”. (Fonte: Extreme Heat More Deadly than Floods, Earthquakes and Hurricanes Combined, Finds Swiss Re’s SONAR Report, Swiss Re Group, Media, Press Release, June 12, 2025) Secondo Jérôme Haegeli, capo economista del Gruppo Swiss Re: “Il caldo estremo viene abitualmente considerato il ‘pericolo invisibile’ perché gli impatti non sono così evidenti come altri pericoli naturali… Con una chiara tendenza a ondate di calore più lunghe e più calde, è importante fare luce sul vero costo per la vita umana, la nostra economia, le infrastrutture, l’agricoltura e il sistema sanitario”. Il Rapporto SONAR 2025 sostiene che il caldo estremo minaccia sia l’industria che la vita umana. Ad esempio, “l’industria delle telecomunicazioni affronta rischi significativi dovuti al malfunzionamento dei sistemi di raffreddamento dei centri dati o al danneggiamento dei cavi terrestri”. TRUMP NON RICONOSCE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO COME MINACCIA Secondo la rivista Time: “What’s At Stake This Summer As Trump Targets Heat and Climate Experts”, 16 giugno 2025:  “Agli esperti di calore del National Institute for Occupational Safety and Health (NIOSH) e del National Integrated Heat Health Information System (NIHHIS) è stato comunicato all’inizio di aprile che i loro posti di lavoro sarebbero state eliminati come parte dei tagli effettuati dal Department of Governmental Efficiency dell’amministrazione Trump. L’intera unità di salute ambientale dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) è stata tagliata, anche se alcuni posti di lavoro sono stati ripristinati… Ciò che è andato perso è di un valore gigantesco per le comunità, secondo V. Kelly Turner, professore associato di pianificazione urbana presso l’Università della California, Los Angeles”. Trump non riconosce il cambiamento climatico come una minaccia per l’umanità, abbandonando l’Accordo di Parigi del 2015, tagliando 4 miliardi di dollari di impegni precedenti, non presentando più piani di riduzione delle emissioni di anidride carbonica alle Nazioni Unite, eliminando gli incentivi per i veicoli elettrici e distruggendo i piani di mitigazione del cambiamento climatico dell’amministrazione Biden, mentre enfatizza e dirige l’attenzione nazionale sull’uso dei combustibili fossili. Questi sono modi sicuri per aumentare il rischio di riscaldamento globale, che a sua volta porterà a un caldo estremo più severo, mettendo così Trump in contrasto con gli avvertimenti di Swiss Re sul numero di vittime del “caldo estremo”. Secondo il National Oceanic and Atmospheric Administration’s (NOAA) Climate Prediction Center, l’intero Paese potrebbe sperimentare temperature superiori alla norma, differendo unicamente nella gravità dell’anomalia termica. Negli Stati Uniti (senza contare Alaska e Hawai), le temperature medie sono già aumentate di circa il 60% rispetto alla media globale dal 1970 (US EPA). A tempo debito, il Sud e il Sud-Est americano si somiglieranno ai Paesi del Golfo Persico di oggi, dove attualmente fa troppo caldo per lavorare all’aperto in sicurezza durante il giorno per gran parte dell’estate. Su base globale, la straordinaria spinta americana alle emissioni di combustibili fossili contribuisce all’accumulo di CO2 nell’atmosfera, con conseguente impatto sul sistema climatico mondiale, intrappolando più calore planetario. Questa relazione diretta tra le emissioni di CO2 e l’aumento del riscaldamento globale è un fatto scientifico accertato. Secondo il vicesegretario generale dell’OMM (Organizzazione Meteorologica Mondiale) Ko Barrett: “Abbiamo appena vissuto i dieci anni più caldi mai registrati. Purtroppo, questo rapporto dell’OMM non mostra segni di tregua per i prossimi anni, e ciò significa che ci sarà un crescente impatto negativo sulle nostre economie, sulla nostra vita quotidiana, sui nostri ecosistemi e sul nostro pianeta”. Richard Betts, responsabile della Ricerca sugli Impatti Climatici presso il Met Office del Regno Unito e professore all’Università di Exeter, il 28 maggio 2025 ha informato l’Associated Press. “Si prevede che i prossimi cinque anni saranno mediamente più caldi di 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, e questo metterà più persone che mai a rischio di gravi ondate di calore, causando più morti e gravi effetti sulla salute, a meno che non si riesca a proteggere meglio le persone dagli effetti del caldo. Inoltre, possiamo aspettarci incendi incontrollati più gravi, poiché l’atmosfera più calda inaridisce il paesaggio”. Il rapporto SONAR di Swiss Re avverte il mondo dei pericoli esistenziali del cambiamento climatico, concentrandosi in parte sulle morti causate dal caldo estremo. Tuttavia, il rapporto prosegue suggerendo che il cambiamento climatico rappresenta una minaccia per l’intera infrastruttura delle economie. La Swiss Re sostiene le politiche per limitare i cambiamenti climatici, che sono diametralmente opposte a quelle di Trump, ovvero: la Swiss Re suggerisce un approccio su più fronti alla mitigazione dei cambiamenti climatici: (1) ridurre le emissioni di gas serra (2) investire in tecnologie di rimozione del carbonio (3) aumentare la resilienza al clima attraverso misure di adattamento (4) sottolineare l’importanza del percorso di riduzione del carbonio concordato a Parigi (5) integrare tale percorso con strategie di rimozione del carbonio, e (6) sostenere la collaborazione e la condivisione delle conoscenze per accelerare l’azione. Le politiche di Trump non sono in linea con nessuno, nemmeno uno, dei sei suggerimenti di una delle più antiche e prestigiose compagnie assicurative del mondo. Se la sua amministrazione non ascolta uno dei principali fornitori di copertura assicurativa al mondo che è in prima linea contro il cambiamento climatico, allora chi l’ascolterà? È vergognoso che il governo degli Stati Uniti non riconosca la crescente minaccia per la vita, soprattutto di fronte agli allarmi lanciati dall’industria assicurativa, mentre i premi salgono alle stelle e le richieste di risarcimento mettono in grande difficoltà i maggiori operatori. L’economia non ce la può fare, i proprietari di case non ce la possono fare, le imprese non ce la possono fare. La soluzione: smettere di bruciare combustibili fossili come petrolio, gas e carbone. Traduzione dall’inglese di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Robert Hunziker
«Fa caldo, governo ladro»: ma è assalto al ‘treno verde’
Non solo l’Europa fa marcia indietro, come già scritto su queste pagine, ma abbandona ogni presidio lasciando che i predoni del clima assaltino il ‘treno verde’. E l’Italia applaude. Siamo in piena restaurazione e il negazionismo climatico si sta riprendendo lo spazio da cui era stato bandito. Il faro del […] L'articolo «Fa caldo, governo ladro»: ma è assalto al ‘treno verde’ su Contropiano.
Estate bollente. Il cambiamento climatico presenta il conto
Lo zero climatico sopra i cinque mila significa che fa caldo persino in cima al Monte Bianco. Il cambiamento climatico è una realtà sempre più drammatica anche nel nostro paese. Le temperature estreme causano sempre maggiori disagi alle persone più fragili e a chi lavora in edilizia e in agricoltura. In alcune Regioni sono state […]