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Il peso temporale delle nostre fedeltà
Che cosa significa oggi fare filosofia politica, situandosi nel solco della tradizione marxiana e marxista? In un contesto come quello francese, in cui il dibattito contemporaneo si svolge prevalentemente nel campo della filosofia sociale e della teoria critica, questo essai di Chiara Collamati su Sartre, Le passé qui vient, fornisce una risposta all’altezza della radicalità della crisi che la filosofia politica sta attraversando. L’autrice moltiplica le mediazioni concettuali per individuare qualcosa di terribilmente concreto e urgente: «la possibilità di assumere, con Sartre e attraverso i suoi strumenti concettuali, una delle sfide imprescindibili per la riflessione contemporanea sulla politica: pensare una riorganizzazione dei rapporti sociali e politici che non si esaurisca nella logica del contropotere e che non presupponga un soggetto collettivo che sarebbe per essenza “oppositivo” alla macchina Stato-capitale» (p. 39). Il compito è chiaro: si tratta di affrontare il presente come un défi lanciato al pensiero, utilizzando gli strumenti concettuali di un filosofo considerato superato e inattuale già dalle sue contemporanee e dai suoi contemporanei. Il che significa che Sartre, e in particolare la Critica della ragione dialettica, è il primo “passato a venire” che il libro ci propone. Se il compito è concreto, la sfida è nondimeno squisitamente teoretica – in tutti i sensi che questo termine ha in filosofia: dall’analisi dello statuto dei concetti politici alla necessità di scardinare l’ontologia della storia di matrice heideggeriana, dal tentativo di porre le basi per una teoria del legame sociale e della sua specifica temporalità, fino al rapporto tra normatività e contingenza storica. Come si sarà capito, il termine filosofia politica ricopre in realtà tutta la filosofia, al di là delle distinzioni disciplinari che dovrebbero rendere il percorso più “praticabile”. Chiara Collamati ci insegna innanzitutto che le opzioni filosofiche non si misurano in termini di fattibilità, come si evince da una formula che ricorre costantemente nel libro: si tratta di porre le «condizioni di “pensabilità“ delle lotte, o ancora di pensare l’intelligibilità della storia. Per evitare la trappola dell’astrazione, il libro non si stanca di problematizzare quello che Étienne Balibar ha definito “il concetto di concetto in politica“». > In ogni paragrafo, l’autrice cerca di pensare, in modo sempre più dettagliato, > una certa disciplina dell’impegno politico. La riconosce in due pratiche > distinte che fungono da motori dell’argomentazione: il giuramento da un lato e > gli esempi dall’altro. Vale a dire, rispettivamente, una pratica del gruppo > sociale e una pratica intellettuale. Proprio perché il sociale non possiede un essere in sé, l’accento viene posto sulla dimensione delle pratiche che definiscono un gruppo, marcando uno scarto rispetto agli approcci che si rifanno all’ontologia sociale. Se il problema della politica non è tanto quello dell’essere, quanto quello del dover essere, tale normatività non informa alcuna materia preesistente. Chiara Collamati ci ricorda che, per il filosofo politico, l’etica è sempre e solo un punto di arrivo; l’esito di un percorso che richiede, come condizione preliminare, di tracciare una me-ontologia (un modo di pensare il non-essere sociale) che non dia nulla per scontato, o meglio: che non dia questo nulla per scontato. È solo riconoscendo la cavità di tale assunto che gli strumenti della politica (diritto, istituzioni) possono essere definiti precisamente come strumenti forgiati per rendere il non-essere produttivo. Dal momento che, come scrive Sartre, ogni giuramento implica una «vertigine dell’abbandono», ciascun membro di un gruppo «ha paura di essere colui che potrebbe mettere a repentaglio il legame di reciprocità» (p. 75): in questione è dunque un modo di pensare la politica che, senza liquidare questa vertigine, ci aiuti a rimetterci in piedi per continuare a camminare insieme. La lettura che Chiara Collamati propone della Critica della ragione dialettica è guidata appunto dalla ricerca dei processi attraverso i quali il gruppo in fusione «cerca di inventare la forma della propria permanenza» (p. 63). A causa del suo carattere evanescente, la temporalità dell’azione storica ha uno statuto ambiguo che la condanna non tanto al fallimento sistematico, bensì a un’incertezza costitutiva, vissuta dall’individuo come una sensazione di perenne ritardo rispetto alla propria epoca. Un’asimmetria che si spiega con l’intreccio di due temporalità distinte: quella delle disposizioni corporee dell’individuo e quella delle condizioni oggettive storicamente determinanti. Dialetticamente, questi due poli si producono a vicenda nel loro incontro sfasato e ciò che conta sono le pratiche dei legami a venire: pratiche costrette ad assumere il passato come loro materiale costitutivo. La nozione di praxis viene quindi ripensata per analogia con la dimensione dello strumento: la filosofia politica sarebbe il suo savoir-faire, il passato il suo materiale. Le azioni storiche si rivelano infine come degli usi del passato. Le passé qui vient non prende mai la strada più facile. Nella veste di storica della filosofia, Collamati non si accontenta di esplorare le opere sartriane degli anni Sessanta, per smarcarle dalle critiche di Merleau-Ponty. In un punto nodale dell’opera, all’altezza del quarto capitolo, viene infatti proposta una lettura innovativa de L’essere e il nulla, opera a cui l’autrice restituisce tutta la sua carica esplosiva e il suo scandalo anti-heideggeriano – tornerò su questo punto. Ma l’aspetto forse più importante è che, nella veste di filosofa politica, Collamati non cade mai nell’astrazione dell’immediatezza, né in una concretezza storico-filosofica priva di riflessività. Pur non nominando esperienze di lotta o pratiche politiche contemporanee, il libro è attraversato da interrogativi quanto mai attuali: come costruire un senso condiviso della storia quando ci è stato detto che le nostre vite non valgono nulla o quasi? Quando sembra che nessuno delle nostre antenate e dei nostri antenati meriti di “passare alla storia”? Come selezionare il nostro “passato futuro” e distinguerlo dalle sue forme reattive? Possiamo davvero scegliere la nostra storia, nel duplice senso della praxis e della storiografia? > La posizione di Chiara Collamati è piuttosto inusuale per una filosofa formata > al pensiero hegeliano: la filosofia politica ci prepara a vivere ciò che ci > aspetta. Questo ci conduce a un altro aspetto importante del libro: la profondità con cui l’autrice tratta il tragico che la storia porta in sé, senza cadere nel romanticismo dell’azione collettiva – o ancora, dal momento che si tratta prioritariamente dello statuto del passato, senza lasciarsi sedurre da una qualche forma di “mito della storia”. Uno dei gesti fondamentali che il Sartre di Collamati permette di compiere è infatti quello di uscire dal problema della morte in prima persona: abbandonare un pensiero della morte al singolare per pensare i morti o, più profondamente, i nostri morti. Ma compresa dialetticamente, la verità della morte non sta nemmeno nel lutto, nella morte alla seconda persona. La vera morte sta tutta nello scioglimento del legame: non è tanto nella persona (che sia prima, seconda o terza) quanto nel passaggio dal singolare al plurale. Alla stanchezza e all’esaurimento del collettivo, alla vera morte, si oppone ciò che Collamati chiama «il comunismo» (p. 132): anzitutto un legame di reciprocità, una forma di fedeltà. Fondare collettivamente il “passato che viene” significa allora inventare dei modi per riattivare il passato (potremmo definirli dei rituali) capaci di riportare in vita i morti attraverso una forma di ripetizione selettiva. Sappiamo bene che i morti non devono mai ritornare come fantasmi. Quello che ancora non sapevamo, è che i nostri morti non devono tornare nemmeno come degli eroi. Possiamo nominare questo problema con l’aiuto del primo pensatore che lo ha posto correttamente, cioè il Nietzsche della Seconda considerazione inattuale, dove vengono descritte le forze e le debolezze della storia monumentale. Che uso possiamo fare del passato per uscire dalle semplificazioni della storia monumentale, per liberarci cioè, una volta per tutte, del concetto di storicità che Heidegger ha posto al centro di Sein und Zeit? Collamati conduce una feroce battaglia contro l’individualismo heideggeriano su almeno tre fronti: il circolo vizioso dell’essere-per-la-morte, lo sfondo nichilistico del decisionismo astratto, la visione del futuro come destino. Senza poter commentare in questa sede i densi passaggi analitici che l’autrice dedica al confronto tra Sartre e Heidegger, mi limito a riportare una frase tratta dal manoscritto Morale e storia, che potrebbe fungere da esergo alla critica a Heidegger realizzata nel libro: «l’eroe della guerra è molto spesso inadeguato per la pace che segue». Come adattare le nostre pratiche di legame, le nostre fedeltà, in modo che esse resistano in tempi di guerra e di pace? O meglio, in modo da poterci allontanare da questa separazione un po’ artificiale che ci impedisce di vedere che, in realtà, stiamo ancora continuando a combattere? > Rispondere a queste domande non significa conferire un senso alla storia – si > tratti di tutta la storia o dell’evento che è supposto riaprirla; significa, > piuttosto, farsi carico della necessità di ciò che non è più, e di coloro che > non sono più. Abbandonando gli eroi a favore degli esempi, sappiamo solo cosa stiamo perdendo, poiché «gli esempi sono sempre dubbiosi». In realtà, Collamati ci indica anche cosa stiamo guadagnando: dei concetti senza artigli, riprendendo e tradendo il lemma tedesco Begriff. Un rapporto del concetto rispetto alla storia e alla politica che non è più verticalmente normativo: il concetto lascia il posto a quella che Sartre definisce nozione dialettica. La teoria non è una rete che il filosofo getta sulla storia, ma una costellazione di punti o di intensità, lo spazio aperto dal filosofo affinché le praxis del passato possano connettersi tra loro e con il presente, secondo variabili modalità di riattivazione politica. Da qui, tre suggestioni che riprendono e interrogano i grandi luoghi del libro: la storia della filosofia, la filosofia politica e gli esempi. Le Passé qui vient instaura un rapporto con la storia della filosofia che appare al contempo intenso e ambiguo. La ricostruzione delle reti di influenze è acuta e sempre molto (quasi troppo) informata. Emblematiche a tal proposito le pagine costruite a partire da un articolo di Karl Löwith su Heidegger: l’autrice mostra come la critica di Merleau-Ponty a Sartre si sovrapponga a quella che Löwith rivolgeva a Heidegger – dal punto di vista della storia intellettuale si tratta di una congettura, la cui solidità sembra tuttavia patente se pensiamo che l’articolo di Löwith è stato pubblicato nella rivista Les Temps Modernes e che è stato letto e commentato da Merleau-Ponty. A ogni modo, dimostrare la fondatezza di tale congettura non è ciò che interessa Chiara Collamati: «Il lettore non dovrà cercare la pertinenza di questo gesto nei riferimenti o nelle allusioni, più o meno esplicite, che Merleau-Ponty, nel momento in cui si accingeva a criticare Sartre, avrebbe potuto fare a Heidegger, a Schmitt o a Löwith. È piuttosto su un piano strettamente concettuale, sul piano della sequenza logica che struttura l’argomentazione merleau-pontiana, che tale confronto trova, a mio avviso, la sua giustificazione filosofica» (p. 156). Ne Le Passé qui vient, la storia della filosofia è costantemente sottoposta alla questione dell’esposizione filosofica, della Darstellung, che ne determina una verità ulteriore rispetto a quella della ricerca storica. Sebbene Collamati dialoghi costantemente con la letteratura critica sul Sartre politico, è molto attenta a non allontanarsi dall’oggetto specifico che intende trattare: una filosofia politica della temporalità o, come scrive all’inizio e alla fine del libro, una «filosofia politica della storia». La verità della giustificazione filosofica si gioca tutta all’altezza di un’adeguata disposizione degli argomenti: la filosofia politica sfida la storia della filosofia, usandola come un serbatoio di risorse da cui attingere, seppur con rigore. Ci sembra, tuttavia, che l’autrice non assuma fino in fondo le conseguenze di questo gesto metodologico. Nell’ultima parte del libro, Chiara Collamati passa dalla Critica della ragione dialettica all’esplorazione di un’«etica materialista» di cui gli esempi sono al contempo «gli oggetti, il metodo e il contenuto» (p. 180) – una descrizione in linea con quelli che sopra ho definito dei «concetti senza artigli». Ora, non vi è dubbio che, dal punto di vista storico-filosofico, il metodo critico e il metodo normativo, le nozioni dialettiche e gli esempi, possano essere produttivamente accostati. Tuttavia, se ci poniamo dal punto di vista di una “filosofia politica della storia”, non siamo forse costretti a scegliere tra un metodo e l’altro, tra una forma e l’altra dell’esposizione? Il mosaico di nozioni dialettiche è davvero compatibile con la pretesa di «definire i criteri di intelligibilità formale di qualsivoglia storia» (p. 176)? Possiamo davvero integrare nell’esposizione critico-filosofica l’intelligibilità degli esempi che Sartre avrebbe scoperto o selezionato per noi, senza rinunciare alla pretesa della filosofia politica a inglobare «qualsivoglia storia»? Immagine di copertina di Julien (flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Il peso temporale delle nostre fedeltà proviene da DINAMOpress.
Il terrore dei Khmer Rossi e il genocidio cambogiano. Intervista a Diego Siragusa
Diego Siragusa – nato ad Alcamo – è saggista, scrittore, intellettuale di sinistra e traduttore. Ha studiato Filosofia laureandosi con una tesi su Karl Popper ed è autore di tre volumi di poesie, due romanzi e vari saggi di storia e politica. Studioso del Medioriente e della colonizzazione della Palestina, ha raccolto le sue ricerche nell’opera Il terrorismo impunito, Perchè i crimini d’Israele minacciano la pace mondiale (Zambon 2012), La censura di Facebook agli ordini dei sionisti (Zambon 2020) e Dialogo Impossibile con un Rabbino. Israele e la tragedia dell’arroganza (Macrolibrarsi 2023). Ha tradotto l’opera monumentale di Alan Hart in 3 volumi: Sionismo il vero nemico degli ebrei e il libro di Udo Ulfkotte Giornalisti comprati. Nel 2017, per Zambon, pubblica Papa Francesco marxista? innovazione e continuità nella dottrina sociale della Chiesa e, nel 2025, per Arianna Editrice, pubblica Donne che Amano la Guerra. Selezionate, formate e pagate dai vertici del sistema militare finanziario e industriale occidentale. Con Siragusa abbiamo parlato dei fatti del genocidio cambogiano, di cui si è occupato molto scrivendo, insieme a Bovannrith Tho Nguon, Cercate l’Angkar pubblicato con Jaca Book vincendo il Premio Tiziano Terzani nel 2007. Come nasce il tuo libro “Cercate l’Angkar. Il terrore dei khmer rossi raccontato da un sopravvissuto cambogiano” (Jaca Book) con Bovannrith Tho Nguon? Mi ero occupato della Cambogia attivamente negli anni ’70 in quanto regione coinvolta nella guerra degli USA contro il Vietnam. Lessi molti articoli e reportage sul principe Sianouk e sul colpo di stato del generale Lon Nol che lo aveva deposto come capo di stato. Fu il classico cambio di regime diretto dagli Stati Uniti per indebolire la resistenza vietnamita che vinse la guerra e umiliò gli Stati Uniti che quella guerra avevano voluto e organizzato. Il movimento dei khmer rossi, ovvero il Partito Comunista Cambogiano, era riuscito, attraverso la lotta armata contadina, a rovesciare il regime di Lon Nol e a iniziare la costruzione di “una nuova società” che si rivelò un progetto autogenocidario folle. Parecchi anni dopo, nel 2007, conobbi un giovane microbiologo nella mia città che mi raccontò la sua avventura durante il regime dei khmer rossi. Decidemmo insieme di trasformare quel racconto in un libro. Spesso la confusione mediatica porta a conclusioni affrettate sulla figura di Pol Pot. A tal proposito mi viene in mente Tiziano Terzani quando parla delle “ragioni degli altri”. “Quello che Pol Pot ha fatto in Cambogia – scrive Terzani – non è diverso da quello che altri rivoluzionari hanno tentato prima di lui, e da quello che Mao ha cercato di fare con la Rivoluzione Culturale: bisogna eliminare la vecchia cultura, la memoria collettiva del passato, spazzare via il passato con tutti i suoi simboli e le catene di trasmissione dei suoi valori” (T. Terzani, In Asia, pp. 74-75).  L’obiettivo di Pol Pot, ma anche di Ho Chi Minh, Mao, Stalin, Lenin, Trostsky, era quello di creare “uomini nuovi” (T. Terzani, La fine è il mio inizio, p. 154 sgg, p. 219 sgg.). Cosa pensi a riguardo, basandoti sui tuoi studi? Credi che Pol Pot volesse inizialmente creare uomini nuovi o fosse soltanto una pedina di uno scacchiere più ampio? Bisogna sempre fare un’analisi differenziata. Le rivoluzioni e le lotte di liberazione non sono tutte uguali: Cuba, la Russia e il Vietnam non hanno mai fatto tabula rasa della vecchia società. Davanti alla reazione spietata degli avversari, i rivoluzionari giacobini francesi e i bolscevichi sono stati costretti a usare metodi uguali per fini opposti. Nel caso dei khmer rossi, invece, vi fu un progetto di tabula rasa della vecchia società, di ritorno all’anno ZERO: uccisioni di capitalisti, borghesi, mercanti, intellettuali, militari, bonzi, monaci. Contavano solo i contadini, quelli massacrati dai bombardamenti americani ordinati dal presidente Nixon e nascosti al Congresso che doveva autorizzarli. Chi sono i capi dei khmer rossi: Pol Pot, Khieu Samphan, Son Sen, Jeng Sary; erano intellettuali che avevano studiato alla Sorbona di Parigi. La loro concezione del comunismo era primitiva e fortemente influenzata dal colpo di stato di Lon Nol e dagli effetti dei terribili bombardamenti americani eseguiti a “tappeto” che avevano ucciso migliaia di contadini e distrutto interi villaggi. Senza questo scenario di riferimento non si può capire l’esperimento folle del regime dei khmer rossi che identificarono nella modernità e nella tecnologia l’origine della deviazione della cultura occidentale alla quale contrapposero la cultura catartica della terra, il ritorno alla verginità originaria dell’uomo. Distrussero, infatti, le banche e i locali pubblici, la musica occidentale, il cinema, le fabbriche, tranne quelle che producevano i vestiti e le munizioni per le armi. Proibirono i libri e perseguitarono o eliminarono le persone istruite. Fu abolita anche la moneta e instaurato il baratto come metodo di controllo sull’intera popolazione cambogiana. Come e quando sale al potere e da chi viene sostenuto Pol Pot? Perché la gente sostenne inizialmente la rivoluzione dei Khmer Rossi? Il sostegno al regime dei khmer rossi senza dubbio vi fu. La maggioranza dei cambogiani era contadina e diffuso era il sentimento di vendetta contro gli americani. Il principe Sianouk, spodestato, si era alleato coi Khmer rossi coi quali aveva organizzato la resistenza e la lotta di liberazione contro il regime filoamericano di Lon Nol. Con la conquista del potere Sianouk fu “premiato” con la carica di capo dello stato. E’ curioso che, subito dopo la vittoria, i khmer rossi non insediano un governo, ma svuotano le città dirigendo la gente nella jungla dicendo che stanno arrivando le bombe degli americani. Il gruppo dirigente non si presenta come “partito” ma come “Organizzazione”, Angkar in lingua khmer. La gente che usciva da Phnom Pen chiedeva ai combattenti che dirigevano l’esodo: “Dove dobbiamo andare?” E i giovani combattenti, tra i quali vi errano anche donne, rispondevano: “Andate avanti. Cercate l’Angkar”, ovvero l’Organizzazione. Questo è il motivo per cui abbiamo intitolato il libro: CERCATE L’ANGKAR. Quali furono le conseguenze politiche immediate della rivoluzione dei Khmer Rossi? Quale soppressione della libertà dovettero subire i cambogiani? Furono soppresse tutte le libertà. Nel libro Bovannrith racconta come i suoi genitori e una sorellina morirono di fame. Il nome Bovannrith significa “oro splendente” ed era un nome “borghese”, aristocratico. Il mio amico, che all’epoca aveva tredici anni, capì’ che con quel nome non sarebbe sopravvissuto ed ebbe l’intelligenza di cambiarlo con “Tho” che significa “vaso” ed è comune tra i contadini. Quel secondo nome gli è rimasto. La lotta politica si svolse tra i gruppi dirigenti con continue purghe ed eliminazioni fisiche di oppositori o di sospettati di slealtà e tradimento. Pol Pot non fu eletto da nessuno. Era chiamato “Fratello numero 1” e aveva molta fiducia in Khieu Samphan uno dei dirigenti che sopravvisse alle tragedie del regime, soprannominato “il monaco” per il suo stile di vita morigerato e coerente con la sua idea di comunismo. Quando Sianouk cominciò a dissentire dai metodi dei khmer rossi, si dimise e il suo posto fu occupato da Khieu Samphan. Tutta questa storia è raccontata accuratamente da Philip Short nel suo libro “Pol Pot, storia di un incubo”. Consiglio a tutti questo libro… oltre a quello che ho scritto col mio amico Bovannrith… naturalmente.   Le tensioni tra Cambogia e Vietnam iniziarono già alla fine del 1976 quando Pol Pot accusò il Paese vicino d’essersi impossessato di territori storicamente appartenenti al popolo Khmer. Perché la Cambogia, che negli anni prima era stata – assieme al Vietnam e al Pathet Lao – al centro di una rivolta quasi interamente di matrice comunista contro l’occupazione francese dell’Indocina, si ritrova a fare guerra ad un Paese comunista come il Vietnam? Era una mossa strategica? La verità è questa: il regime di Pol Pot, ormai si deve chiamare così, aveva raggiunto un livello di ferocia sanguinaria che aveva costretto la parte moderata dei Khmer rossi ad organizzare una fuga verso il Vietnam e chiedere aiuto per fermare il genocidio della popolazione cambogiana. Fu così che un paese comunista, il Vietnam, dovette intervenire militarmente contro la Cambogia, diretta da una masnada di comunisti “sui generis”, per salvare la popolazione cambogiana dallo sterminio. A questo punto entra in scena il teatrino occidentale che avrebbe dovuto schierarsi col Vietnam, invece si schiera coi Khmer rossi pur di “contenere” il Vietnam che aveva sconfitto gli americani. “Hand off Cambodia” – tuonavano a Washington – “Giù le mani dalla Cambogia”. Come si svolse l’infinita ecatombe del “genocidio cambogiano”? Chi finì nelle grinfie dei Khmer Rossi? Nel libro Bovannrith racconta esperienze allucinanti. L’Angkar provvedeva a tutto: al cibo, ai vestiti, agli alloggi sempre in comune, donne e uomini rigidamente separati. Organizzava anche i matrimoni scegliendo a caso un ragazzo e una ragazza. Era proibito parlare, sussurrare, incontrarsi in due o tre poiché potevi essere sospettabile di complotto, di sovversione. Il mio amico ha rimosso dalla propria memoria scene terribili a cui ha assistito e che abbiamo visto nel film Urla del silenzio di Roland Joffé. Spesso le persone uccise erano seppellite ai piedi di alberi di arance e, durante la decomposizione dei corpi, Bovannrith osservava che le foglie degli alberi ingiallivano. Quale ruolo hanno gli Stati Uniti in questo massacro? Da quali cause esterne fu scatenato? Se gli Stati Uniti non avessero promosso il colpo di stato contro Sihanuk questa tragedia non sarebbe avvenuta. Gli USA sapevano che Sihanuk tollerava, ai confini del proprio paese, i movimenti militari vietnamiti attraverso il cosiddetto “sentiero di Ho Chi Mihn” che serviva come retrovia e luogo di rifornimento per le truppe e la resistenza del Nor-Vietnam. Spesso gli americani bombardavano il sentiero di Ho Chi Mihn coi loro aerei B52 per interrompere una via logistica particolarmente utile. Fu così che a Washington pensarono che bisognava punire i cambogiani attraverso “bombardamenti segreti”, non autorizzati dal Congresso, che uccisero decine di migliaia di persone e distrussero interi villaggi. Le solite tecniche distruttive dei piloti americani: fare terra bruciata, uccidere masticando chewing gum e tornare alle rispettive basi come se avessero fatto una gita di piacere. Con Wikileaks, Julian Assange ci ha mostrato la vocazione criminale degli Stati Uniti. Il genocidio cambogiano oggi viene usato dalle destre conservatrici e neoliberali – tra i tanti argomenti – per dimostrare come sia lecita l’equiparazione tra fascismo, nazismo e comunismo come ugualmente “ideologie della morte”. Credi che sia giusto storicamente equiparare nazismo e comunismo? Solo i liberali potevano concepire questa equazione. Se, come studioso di storia, dovessi applicare questo metodo disonesto e antiscientifico, dovrei dire che anche il cristianesimo è equiparabile al nazismo. Quanti sono morti durante le crociate? Quanti liberi pensatori e donne, accusate di stregoneria, furono bruciati vivi? Quanti milioni di esseri umani furono uccisi e perseguitati perché rifiutavano la conversione al cristianesimo? Esaminiamo i crimini dei liberali: Cominciamo dalla Rivoluzione francese? La ghigliottina che lavorava a ritmo continuo? O, forse, è meglio parlare del colonialismo? Quasi tutti i paesi europei hanno saccheggiato l’Africa, l’Asia, l’America del Nord e l’America del sud. Le civiltà precolombiane sono scomparse, la tratta degli schiavi neri ha privato l’Africa della sua migliore gioventù. Sono stato in Senegal e ho visitato l’isola di Gore’ da dove partivano le navi negriere verso le Americhe. C’è ancora un grande ritratto di Giovanni Paolo II, affisso sulla facciata di una chiesa, che ha chiesto perdono per questo crimine commesso da molti cristiani negrieri e trafficanti. Vogliamo parlare dei 100 milioni di nativi nordamericani massacrati dai bianchi che hanno costruito gli Stati Uniti e il Canada sul loro sangue? E mi fermo qui perché dovrei parlare anche degli 8 milioni di africani fatti massacrare dal re Leopoldo del Belgio e dei crimini dei francesi in tutte le loro colonie, a cominciare dal sud est asiatico ovvero l’Indocina. Lorenzo Poli