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“Framing Gaza”, lo studio che smaschera la parzialità dei media occidentali
Le principali testate di otto Paesi occidentali hanno sistematicamente privilegiato la narrazione israeliana e marginalizzato le prospettive palestinesi nella copertura del genocidio di Gaza, omettendo le loro rivendicazioni storiche e il contesto dell’occupazione. È quanto rivela il rapporto di Media Bias Meter, Framing Gaza: A Comparative Analysis of Media Bias in Eight Western Outlets, che ha analizzato 54.449 articoli pubblicati in cento settimane, dal 7 ottobre 2023 ad agosto 2025, dallo statunitense The New York Times, dalla britannica BBC, dal canadese The Globe and Mail, dal francese Le Monde, dal tedesco Der Spiegel, dal belga La Libre Belgique, dall’italiano Corriere della Sera e dall’olandese De Telegraaf. Dalla ricerca emerge uno schema coerente: una distorsione strutturale del racconto a favore del frame israeliano. Il risultato è un’informazione che, pur proclamandosi equilibrata, finisce per legittimare la violenza di Stato come «autodifesa», normalizzare l’occupazione e relegare le vittime palestinesi a un ruolo secondario, disumanizzandole e filtrandole attraverso «la lente del terrorismo».  Il pregiudizio che unisce i media occidentali Lo studio mostra come, al di là delle linee ideologiche, l’architettura comunicativa risponda allo stesso schema: Israele al centro del discorso, la Palestina confinata a nota a margine o a cornice funzionale. La genesi di questo processo, sostiene G.G. Darwiche – coautrice del rapporto e portavoce del collettivo che riunisce professionisti della tecnologia che analizzano i bias dei media occidentali sulla Palestina per promuovere una narrazione più equa, sostenuto dalla coalizione TechforPalestine – risale almeno ai primi anni Duemila, in cui già diversi articoli descrivevano i palestinesi come «una minaccia per l’esistenza di Israele». «Non si tratta nemmeno di destra contro sinistra», continua Darwiche, smontando il mantra che vorrebbe il pluralismo politico come antidoto alla distorsione informativa. Dall’analisi delle testate emergono dei pattern chiari e definiti che trasformano «accuse vaghe di faziosità in prove inconfutabili». La sorpresa non è che mezzi di informazione esplicitamente conservatori alimentino tale narrazione, ma che i media centristi e progressisti – come il New York Times, Der Spiegel, Globe and Mail e BBC – risultino persino più sbilanciati di tabloid di destra come De Telegraaf. Secondo il rapporto, per preservare un’immagine moralmente accettabile di Israele presso un pubblico più critico, queste testate avrebbero «corretto eccessivamente», finendo per riprendere senza verifica le comunicazioni ufficiali israeliane e per mettere in ombra dati, testimonianze e violazioni documentate ai danni del popolo palestinese. «I media centristi o progressisti adottano forme di distorsione molto più sottili, ma costanti e pervasive, basate soprattutto sull’omissione del contesto, che finisce per cancellare la realtà dei fatti», spiega ancora Darwiche, che ci racconta come il gruppo di lavoro sia rimasto “sorpreso” dai risultati, essendo partito dall’ipotesi opposta, ossia che «i giornali di destra, populisti o conservatori, sarebbero risultati i più faziosi». Come si costruisce il frame Il conflitto in Medio Oriente viene spesso raccontato come una contrapposizione in cui l’esistenza di un popolo esclude quella dell’altro e in cui a essere sacrificati sono sempre i palestinesi. Questa logica si riflette nella narrazione mediatica, che li relega al ruolo di “antagonisti” e li frammenta in “abitanti di Gaza” o “della Cisgiordania”, evitando di riconoscerli come un unico popolo. E già l’analisi dei titoli è rivelatrice: il New York Times cita “Israele” 186 volte per ogni menzione di “Palestina”. E quando il termine “Palestina” compare (è il caso della BBC, con 80 titoli su 91), è quasi sempre per parlare di proteste, di reazioni internazionali o di scontri terminologici. In questo modo, la Palestina come soggetto politico svanisce, sostituita da un’astrazione. Il contesto dell’occupazione – cuore del conflitto – viene cancellato: su Der Spiegel, soltanto due articoli su oltre tremila riferimenti riconoscono i Territori Palestinesi come “occupati”. Il risultato è che si «oscura sia l’illegalità degli insediamenti sia le loro conseguenze materiali per i palestinesi». Agli artifici semantici si affianca la gerarchia dei temi: perfino durante la carestia, il lessico del “terrorismo” ha doppiato quello della “crisi umanitaria”, mentre il diritto all’“autodifesa” viene implicitamente riconosciuto a Israele, ma non ai palestinesi che vengono associati alla categoria di “terroristi”. In questo modo, «il lettore interiorizza il frame dei palestinesi come minaccia più che come vittime, e dell’azione militare israeliana come “risposta” anziché aggressione». BBC e Le Monde, in due terzi degli articoli, hanno riprodotto tale linguaggio, contribuendo a perpetuare stereotipi coloniali, dipingendo arabi e musulmani come intrinsecamente violenti, barbari e irrazionali. Spersonalizzazione e disumanizzazione Le accuse israeliane secondo cui i giornalisti palestinesi sarebbero militanti o simpatizzanti di Hamas vengono spesso accolte dai media quasi senza contestazione. A volte, basta aver intervistato un funzionario del governo di Hamas per essere etichettati come “operativi” o collusi con l’organizzazione. La disumanizzazione emerge anche nel modo in cui i minori palestinesi vengono descritti. Bambini detenuti in regime amministrativo e spesso senza accuse, raramente vengono chiamati per quello che sono: “bambini”. Al loro posto compaiono etichette come “adolescenti” o “giovani adulti”. Questo “rebranding” li priva della loro infanzia e ne attenua l’innocenza e la vulnerabilità, rendendo la loro detenzione più accettabile. Foto di Shutterstock Così, il ricorso a frasi-template, ripetute ossessivamente centinaia di volte, fissa il frame “Israele risponde al 7 ottobre”. Emblematica la diffusione, mai verificata né tantomeno rettificata, di fake news usate per presentare la risposta israeliana come “inevitabile”. È il caso di Der Spiegel e del Corriere della Sera, che hanno rilanciato la falsa storia dei “bambini decapitati”, senza poi smentirla né correggerla, mostrando come narrazioni emotive e sensazionalistiche possano oscurare i fatti e alimentare processi di disumanizzazione. Ciò che non si dice: diritto al ritorno, Nakba e lessico militarizzato Un altro aspetto rivelatore è ciò che l’informazione sceglie sistematicamente di non dire. Il rapporto mostra come concetti fondamentali per comprendere la storia palestinese – dal “diritto al ritorno” alla Nakba – siano quasi assenti dal lessico mediatico: in oltre 50.000 articoli, il diritto al ritorno viene citato solo 38 volte, mentre i riferimenti alla Nakba compaiono raramente e spesso in forma edulcorata, come una “fuga” o un “esodo”. Allo stesso tempo, espressioni desunte dal linguaggio militare, come “attacchi di precisione” o “scudi umani”, ricorrono decine di volte in tutte le testate, contribuendo a costruire un’immagine di razionalità, controllo e necessità. Ancora più sbilanciata è la copertura del “diritto all’esistenza”, invocato per Israele in modo schiacciante rispetto alla Palestina, quasi che il riconoscimento di un popolo debba essere meritato e non intrinseco. Sommati, questi elementi concorrono a rimuovere la dimensione coloniale del conflitto e trasformano una popolazione assediata in un soggetto privo di diritti. Palestinesi detenuti durante la cosiddetta ”Nakba” del 1948 Cosa resta nella memoria collettiva Le conseguenze non sono solo simboliche: i frame mediatici orientano la percezione pubblica, le scelte dei governi e, più in generale, ciò che passerà alla storia. «Raccogliere ora le prove di un inquadramento fazioso garantisce che il resoconto non possa essere cancellato», si legge nel report. Un’informazione che minimizza le violazioni, che evita parole come “blocco”, “apartheid”, “insediamenti illegali”, produce un immaginario depoliticizzato, dove la sofferenza palestinese appare inevitabile, quasi naturale. È in questo vuoto che si legittimano politiche estere compiacenti, ritardi nelle condanne e ambiguità diplomatiche. Il metodo impiegato dal rapporto non pretende di misurare l’intero spettro delle responsabilità giornalistiche, ma offre un dato oggettivo: l’omissione è una forma di parzialità quanto la menzogna. E quando coinvolge otto tra le più influenti testate occidentali, non è più un’anomalia: è un paradigma che impone di ripensare il ruolo dell’informazione, il suo rapporto con il potere e la sua capacità – o volontà – di raccontare ciò che avviene davvero, anche quando la verità disturba. L'Indipendente
Armi chimiche, segreti militari e degrado ambientale: la lunga storia del centro NBC di Civitavecchia
Nato per mettere in sicurezza le armi chimiche del Novecento, il Centro Tecnico Logistico Interforze NBC oggi è al centro di un’inchiesta per disastro ambientale. Documenti parlamentari, relazioni ufficiali e testimonianze raccontano una storia di silenzi, proroghe e allarmi rimasti inascoltati. Il laboratorio segreto d’Italia Il Centro Tecnico Logistico Interforze NBC di Civitavecchia nasce dalla fusione di due enti preesistenti nel comprensorio militare di Santa Lucia: il Centro Tecnico Militare Chimico Fisico e Biologico, dedicato alla sperimentazione nel settore NBC (nucleare, biologico e chimico), e lo Stabilimento Militare Materiali per la Difesa NBC, responsabile di sviluppo, produzione e collaudo di materiali per la difesa. Per anni, questa struttura ha rappresentato l’eccellenza della ricerca militare italiana nel campo della protezione da agenti tossici. Oggi, però, torna sotto i riflettori per ragioni ben diverse: il deterioramento dei contenitori di stoccaggio e i rischi ambientali legati alla presenza di migliaia di ordigni chimici risalenti alle guerre mondiali. L’eredità delle guerre Nel silenzio di decenni, a Santa Lucia sono state raccolte e messe in sicurezza migliaia di munizioni chimiche provenienti da tutta Italia: residuati della Prima e della Seconda Guerra Mondiale caricati con iprite, arsenico, fosgene e adamsite. Materiali estremamente tossici ma non più utilizzabili, da custodire fino alla distruzione definitiva prevista dagli accordi internazionali della Convenzione sulle armi chimiche. Il Centro divenne così l’unico impianto nazionale autorizzato al recupero e alla distruzione delle armi chimiche, assumendo nel tempo un ruolo cruciale, ma l’accumulo di materiali, la complessità tecnica e la lentezza delle procedure hanno trasformato un deposito temporaneo in una struttura sovraccarica e fragile. Dal deposito protetto al sequestro giudiziario Nel 2025, il centro è tornato al centro delle cronache. Indagini giornalistiche e inchieste della magistratura hanno rivelato criticità strutturali gravi: tonnellate di rifiuti militari ad alto rischio conservati in monoliti di cemento deteriorati, con ferri d’armatura esposti e infiltrazioni. La Procura di Civitavecchia, guidata da Alberto Liguori, ha disposto il sequestro dell’area ipotizzando i reati di disastro ambientale colposo e omessa bonifica. L’accusa: i sistemi di contenimento non sarebbero più sicuri e le acque meteoriche potrebbero trascinare sostanze tossiche nel terreno. Venti alti ufficiali dell’esercito sono finiti sotto indagine per omessa vigilanza. Le autorità locali, dal Comune di Civitavecchia all’Osservatorio Ambientale, hanno chiesto chiarezza. Le analisi di Acea sull’acqua potabile non rilevano contaminazioni, ma gli esperti invocano monitoraggi costanti e un piano di messa in sicurezza di lungo periodo. Un allarme già scritto nei documenti ufficiali Molto prima del sequestro, la Relazione annuale 2018 del Senato della Repubblica sull’attuazione della Convenzione per la proibizione delle armi chimiche descriveva Santa Lucia come “l’unico impianto nazionale abilitato al recupero, immagazzinaggio e distruzione delle armi chimiche”. A fine 2017, il centro custodiva 13.600 ordigni chimici prodotti prima del 1946, classificati come Old Chemical Weapons. Quelle armi, secondo gli impegni internazionali, avrebbero dovuto essere distrutte entro il 2012. L’OPAC, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, aveva concesso una proroga, chiedendo all’Italia di completare l’operazione “il prima possibile”. Il Senato segnalava anche la necessità di un “adeguamento urgente degli impianti”, un intervento mai realizzato. Letto oggi, quel monito assume il valore di una profezia. Ogni anno, l’Italia invia all’OPAC una dichiarazione volontaria sulla situazione del sito: un segno di trasparenza, ma anche la conferma che Santa Lucia resta un luogo sotto osservazione internazionale. La risoluzione Artini e le proteste del territorio Già nel 2016, la Risoluzione Artini denunciava le condizioni precarie dei monoliti di cemento e il malcontento della popolazione. Il Ministero della Difesa aveva avviato uno studio con la società Dynasafe per introdurre un nuovo impianto basato su ossidazione termica, ma il progetto suscitò forti opposizioni. I cittadini temevano che il nuovo impianto potesse funzionare come un inceneritore. Le associazioni — tra cui ISDE, i medici per l’ambiente — chiesero la sospensione del piano e l’avvio di una bonifica dell’area, partendo dalla rimozione dei monoliti. Il 9 giugno 2016 il Sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano, durante un incontro ufficiale si impegnò a valutare soluzioni alternative e garantire maggiore trasparenza. La risoluzione chiedeva inoltre che Santa Lucia fosse riconosciuta come sito di interesse nazionale, con interventi di bonifica, monitoraggio e informazione pubblica costante. Un impianto ad alto rischio controllato Nel Piano di Emergenza Comunale di Civitavecchia del 15 gennaio 2024, il deposito militare di Santa Lucia è classificato come impianto a rischio di incidente rilevante. Il documento descrive un sito blindato, sorvegliato 24 ore su 24, dotato di sistemi antincendio automatici e monitoraggio continuo, progettato per evitare qualsiasi fuga di sostanze tossiche. Nonostante le misure di sicurezza, il rischio resta alto: la normativa europea lo definisce “antropico-tecnologico”, cioè derivante da attività umane. Il Piano individua Santa Lucia come uno dei nodi più sensibili del territorio, richiedendo aggiornamento costante dei protocolli di prevenzione. Il piano di rilancio: SMD 29/2023 L’8 maggio 2024, in Commissione Difesa, il deputato Anastasio Carrà (Lega) ha illustrato il programma SMD 29/2023, destinato alla distruzione delle Old Chemical Weapons. Il piano prevede l’acquisto di un impianto Dynasafe SDC-1200, tecnologia capace di decomporre ordigni chimici a temperature tra i 400 e i 550 gradi, con sistemi di trattamento dei gas per evitare dispersioni. Finanziato con 29 milioni di euro del Ministero della Difesa, il progetto include cinque anni di assistenza tecnica e formazione del personale. L’obiettivo è riportare il Centro alla piena operatività entro quattro anni e completare la distruzione delle armi chimiche ancora presenti in Italia. La voce dei militari Anche il Sindacato Unitario Militari (S.U.M.) ha espresso profonda preoccupazione per le condizioni ambientali del sito. Secondo le segnalazioni ricevute, i monoliti — nati per isolare le sostanze tossiche — risulterebbero oggi fortemente deteriorati. Il S.U.M. ha chiesto interventi immediati all’Ufficio per il Coordinamento dei Servizi di Vigilanza d’Area e ha sollecitato al Ministero della Difesa a individuare soluzioni alternative di stoccaggio, tutelando il personale e le loro famiglie. “Chiediamo che le risultanze dei controlli vengano comunicate al S.U.M. — si legge nella nota — per garantire la massima trasparenza e la tutela dei diritti collettivi”. Una verità ancora sospesa L’inchiesta giudiziaria è solo all’inizio, ma la sua lentezza preoccupa. Conoscendo i tempi della giustizia e la natura militare dell’impianto, il rischio è che la vicenda si trascini per anni, senza arrivare a una verità né a una bonifica. È uno scenario già visto in altre storie italiane, come ricordato nel documentario Terra a Perdere di Chiara Pracchi, dove procedimenti complessi finiscono per dissolversi nel tempo. Serve un intervento deciso del governo, non per interferire con la magistratura, ma per risolvere le criticità strutturali e accelerare le operazioni di messa in sicurezza. Solo così si potrà impedire che un centro nato per proteggere il Paese diventi l’ennesimo simbolo di emergenza ambientale irrisolta. Fonti: https://www.fivedabliu.it/wp-content/uploads/2025/11/Dossier-Senato-n.-6_336222.pdf https://parlamento17.openpolis.it/atto/documento/id/317702? https://civitavecchia-api.municipiumapp.it/s3/2166/allegati/allegati/pec-cvt-ii-parte_compressed.pdf https://documenti.camera.it/leg19/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2024/05/08/leg.19.bol0303.data20240508.com04.pdf? https://www.sindacatounicodeimilitari.it/s-u-m-preoccupazione-per-la-situazione-ambientale-del-comprensorio-di-santa-lucia-a-civitavecchia-sede-del-centro-tecnico-logistico-interforze-nbc/ https://www.fivedabliu.it/2021/11/10/processo-per-i-veleni-del-poligono-di-quirra-tutti-assolti/     Fivedabliu
SOS MEDITERRANEE determinata a consegnare alla giustizia tutti i responsabili dell’attacco armato alla Ocean Viking
SOS MEDITERRANEE ha annunciato oggi durante una conferenza stampa online di aver presentato una denuncia penale alla Procura italiana – che ha già avviato un’indagine – a seguito dell’attacco armato contro la nave di soccorso Ocean Viking da parte della Guardia Costiera libica il 24 agosto. Si tratta del primo passo di una serie di azioni legali volte a perseguire sia gli autori dell’aggressione sia coloro che l’hanno resa possibile. La denuncia chiede il perseguimento penale per tentato omicidio plurimo, tentato naufragio, danneggiamento di un’imbarcazione, nonché qualsiasi altro reato che l’autorità giudiziaria ritenga applicabile. Dopo un tentato omicidio, l’azione penale è solo il primo passo per assicurare i responsabili alla giustizia. Saranno intraprese azioni legali anche a livello internazionale per affrontare la responsabilità della catena di comando all’interno della Guardia Costiera libica e delle istituzioni e degli Stati che continuano a finanziarla, equipaggiarla e addestrarla. Nuove prove confermano l’aggressione deliberata nonostante la comunicazione continua con le autorità. Nella conferenza stampa odierna, SOS MEDITERRANEE ha anche presentato nuove prove audiovisive a conferma del fatto che l’Ocean Viking è stata oggetto di un attacco armato deliberato, mirato e senza precedenti, che ha messo in pericolo di morte immediato i sopravvissuti, gli operatori umanitari e i marittimi, nonostante la nave rispettasse rigorosamente il diritto marittimo internazionale e fosse in costante coordinamento con le autorità italiane. “Questo attacco deve servire da monito. Gli operatori umanitari e i sopravvissuti non possono essere lasciati senza protezione in mare mentre gli Stati europei continuano a esternalizzare il controllo delle frontiere a un’autorità libica che ha ripetutamente dimostrato il suo disprezzo per il diritto internazionale”, afferma Bianca Benvenuti, responsabile dell’advocacy internazionale e del posizionamento pubblico di SOS MEDITERRANEE. SOS MEDITERRANEE chiede: * Un’indagine indipendente e trasparente sull’attacco e l’assunzione di responsabilità sia da parte dei responsabili che di coloro che li hanno aiutati. * La sospensione di tutto il sostegno dell’UE e dell’Italia – finanziario, materiale e operativo – alla Guardia Costiera libica. * L’abolizione del Memorandum d’intesa Italia-Libiadel 2017 e la cessazione del programma SIBMMIL. * La sospensione e la revisione del riconoscimento della regione di ricerca e soccorso libica da parte dell’Organizzazione marittima internazionale (IMO) attraverso un audit nell’ambito del programma di audit degli Stati membri. * La protezione delle ONG umanitarie di ricerca e soccorso, compresa la fine della criminalizzazione e dell’ostruzionismo amministrativo.  Qui il documento di approfondimento elaborato da SOS MEDITERRANEE con la ricostruzione dei fatti e le richieste dell’associazione alle autorità.   Redazione Italia
La Guardia Costiera libica spara per 20 minuti contro la Ocean Viking
Ieri pomeriggio, alle 15:03 ora locale, la MV Ocean Viking, nave di ricerca e soccorso noleggiata da SOS MEDITERRANEE in collaborazione con la Federazione internazionale delle società della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa (IFRC), è stata deliberatamente presa di mira in un attacco a fuoco da parte della Guardia Costiera libica. Sebbene nessuno sia rimasto ferito fisicamente, tutti a bordo hanno temuto per la propria vita e le attrezzature di soccorso essenziali, così come la nave stessa, hanno subito danni significativi. Al momento dell’attacco, la Ocean Viking si trovava in acque internazionali, a circa 40 miglia nautiche a nord della costa libica, quando è stata avvicinata da una motovedetta di classe Corrubia della Guardia Costiera libica. Con 87 sopravvissuti già a bordo – soccorsi tra la notte di sabato 23 agosto e la mattina di domenica 24 agosto in due diverse operazioni – la nostra nave era stata autorizzata dal Centro di coordinamento italiano a interrompere la rotta verso il porto di sbarco assegnato e a cercare un’altra imbarcazione in difficoltà nelle acque internazionali. Mentre i nostri team erano impegnati nella ricerca del caso di soccorso, la Ocean Viking è stata avvicinata dalla motovedetta libica, che ha illegalmente chiesto di lasciare la zona e dirigersi verso nord. L’informazione ci è stata fornita prima in inglese e poi in arabo, con la traduzione del nostro mediatore culturale a bordo, che ha informato dal ponte che la Ocean Viking stava lasciando la zona. Tuttavia, senza alcun preavviso o ultimatum, due uomini a bordo della motovedetta hanno aperto il fuoco sulla nostra nave umanitaria, iniziando un assalto durato almeno 20 minuti ininterrotti direttamente contro di noi. Durante l’assalto, la motovedetta ha circondato la Ocean Viking, prendendo di mira deliberatamente i membri dell’equipaggio sul ponte, la parte della nave dove si svolgono le operazioni di navigazione e di governo. L’attacco ha causato fori di proiettile all’altezza della testa, la distruzione di diverse antenne, quattro finestre rotte sul ponte e diversi proiettili che hanno colpito e danneggiato i tre RHIBS (motoscafi di soccorso veloci), insieme ad altre attrezzature di soccorso. Mentre l’attacco era in corso, le squadre di SOS MEDITERRANEE e dell’IFRC hanno messo in sicurezza gli 87 sopravvissuti prima di rifugiarsi all’interno della nave. Fortunatamente, nessun membro dell’equipaggio o sopravvissuto a bordo ha riportato ferite. Dopo l’incidente, la Ocean Viking ha lanciato un segnale di soccorso e allertato la NATO, chiedendo protezione e assistenza. La nostra nave è stata indirizzata alla più vicina unità della NATO, una nave della Marina italiana. Tuttavia, la Marina italiana non ha mai risposto alla chiamata. Questo incidente non è stato solo un atto oltraggioso e inaccettabile: i metodi, le circostanze e le dinamiche dimostrano chiaramente che si è trattato di un attacco deliberato e mirato contro il nostro equipaggio e, in secondo luogo, contro le nostre capacità di soccorso. Non si tratta di un caso isolato: la Guardia Costiera libica ha una lunga storia di comportamenti sconsiderati che mettono in pericolo le persone in mare, violano palesemente i diritti umani e mostrano un totale disprezzo per il diritto marittimo internazionale. Eppure gli Stati europei, con l’Italia in prima linea, continuano a sostenere, equipaggiare e addestrare la Guardia Costiera libica. La motovedetta 2 utilizzata dalla Guardia Costiera libica durante l’attacco era stata donata dall’Italia nel 2023 nell’ambito del programma dell’Unione Europea “Support to Integrated Border and Migration Management in Libya (SIBMMIL)” (Sostegno alla gestione integrata delle frontiere e della migrazione in Libia). Nel luglio 2023, la Ocean Viking ha subito un violento scontro quando una motovedetta simile ha sparato vicino ai nostri gommoni durante un salvataggio. Nonostante le nostre richieste pubbliche, non è stata aperta alcuna indagine. “Chiediamo che venga condotta un’indagine approfondita sugli eventi di ieri pomeriggio e che i responsabili di questi atti che mettono a repentaglio la vita delle persone siano assicurati alla giustizia”, afferma Valeria Taurino, direttrice generale di SOS MEDITERRANEE Italia. “Chiediamo inoltre la cessazione immediata di ogni collaborazione europea con la Libia. Un soggetto che avanza rivendicazioni illegali in acque internazionali, ostacola deliberatamente i soccorsi a persone in pericolo di morte e prende di mira operatori umanitari disarmati e persone salvate non può essere considerata un’autorità competente. Non possiamo accettare che una guardia costiera riconosciuta a livello internazionale compia aggressioni illegali. Chiediamo inoltre la fine della criminalizzazione dei soccorsi, atteggiamento che non fa altro che creare un terreno fertile per questi attacchi incredibilmente violenti”, conclude Taurino. La nostra nave sta ora navigando verso nord. Il capitano della Ocean Viking ha esercitato la sua autorità superiore per impostare la rotta verso Siracusa, il porto di origine, per sbarcare tutti gli 87 sopravvissuti ed effettuare le riparazioni critiche necessarie. Le autorità italiane hanno confermato la destinazione. Redazione Italia
L’Italia non è ancora un Paese per padri
Anche se molti uomini dichiarano di partecipare attivamente all’assistenza quotidiana, resta un divario di percezione significativo: il 74% dei padri ritiene che l’assistenza sia equamente condivisa, ma solo il 51% delle madri è d’accordo. Le madri continuano insomma a sostenere il carico maggiore di assistenza e di gestione della famiglia, spesso a scapito del loro benessere e delle loro opportunità lavorative. Tuttavia, non appare trascurabile il ruolo che i padri svolgono nello sviluppo dei figli: un maggiore coinvolgimento è connesso a legami emotivi più forti, migliori risultati di apprendimento e un migliore benessere a lungo termine per i bambini. E’ quanto emerge dal recente Rapporto SOSEF-State of Southern European Fathers, un’indagine condotta da Equimundo in Portogallo, Spagna e Italia nell’ambito del progetto europeo EMiNC-Engaging Men in Nurturing Care, coordinato da ISSA-International Step by Step Association e promosso in Italia dal Centro per la Salute del Bambino. L’indagine ha cercato di rispondere alle seguenti domande fondamentali su paternità e cura nell’Europa meridionale: Chi si prende cura? Quali barriere esistono? Quale l’impatto delle responsabilità di cura sugli individui? Quali strutture di supporto esistono? Dalla ricerca emerge un forte cambiamento sociale e culturale in atto nell’essere padri nel Sud Europa, che li vede sempre più impegnati nella cura dei figli e delle figlie e nella gestione domestica, come caregiver corresponsabili e non solo come aiutanti, con tutti i benefici che questo comporta. Si tratta di un cambiamento importante, ma che da noi avanza in maniera più lenta rispetto ad altri Paesi, relegandoci a fanalino di coda non solo del Nord ma anche del Sud Europa. Abbiamo infatti il tasso di occupazione femminile più basso (53% nel 2024), il congedo di paternità più breve d’Europa (2 settimane contro le 16 della Spagna) e restiamo fermi, bloccati da barriere strutturali, sociali e normative che frenano la piena partecipazione dei padri alla cura e a una più equa condivisione delle “faccende domestiche”. E’ indubbio che la disparità nel lavoro di cura si intreccia con le disuguaglianze nel lavoro e con la presenza di norme di genere – ancora persistenti – che limitano la partecipazione economica delle donne e aumentano la sproporzione nel carico del lavoro di cura non retribuito rispetto agli uomini. In Italia la bassa occupazione femminile fa sì che le donne italiane abbiano 20 volte (il doppio rispetto a Spagna e Portogallo) più probabilità degli uomini di essere delle caregiver a tempo pieno a casa (nel campione analizzato il 18,6% delle italiane intervistate sono casalinghe a tempo pieno contro il 7,6% delle spagnole e il 4,7% delle portoghesi). Nei tre Paesi analizzati è la mancanza di tempo a causa degli obblighi di lavoro a rendere problematico per molti genitori l’apporto ai lavori di cura. E il tempo necessario può e deve essere garantito da congedi riservati ai padri, obbligatori, più lunghi e ben pagati, al pari delle madri, secondo il modello spagnolo. Infatti, in tutti e tre i Paesi i padri riconoscono in larghissima maggioranza i benefici del congedo genitoriale retribuito per loro stessi (88%), per le loro partner (90%) e per i loro figli e figlie (93%) e per due terzi concordano anche sul fatto che il congedo genitoriale dovrebbe essere uguale tra uomini e donne. E’ ormai diffusamente riconosciuta l’importanza per i figli e per le figlie della presenza di padri accudenti, soprattutto nei primi mille giorni di vita, come ad esempio una significativa riduzione dei comportamenti violenti negli adolescenti maschi. Ma anche per le partner e per l’intera società è importante il pieno coinvolgimento dei padri. Si tratta di evidenze (soprattutto scientifiche) che già da sole giustificherebbero un’ampia azione riformatrice in tale settore. Il Rapporto mette in evidenza come il 60% delle madri e dei padri intervistati voterebbe per un partito o un politico che sostenesse un congedo genitoriale retribuito più lungo. Un dato che arriva addirittura al 66% tra le madri italiane, che hanno dichiarato che avrebbero dato priorità alle politiche di congedo al momento del voto. Il rapporto propone di sviluppare solide riforme, come un congedo per i padri completamente retribuito e non trasferibile, e investimenti in servizi per la prima infanzia che coinvolgano attivamente gli uomini. Oltre a campagne pubbliche e reti locali di supporto tra pari per modificare norme e aspettative. Promuovere l’assistenza degli uomini non è solo una questione di parità di genere, ma è una strategia chiave per garantire che tutti i bambini prosperino fin dall’inizio della loro vita. Occorre garantire che la cura sia valorizzata e sostenuta per entrambi i genitori, che sia garantita la sicurezza finanziaria durante il congedo, che il lavoro sia compatibile con la cura, senza penalizzazioni o stigmatizzazioni, che vi sia un cambiamento culturale che passi attraverso l’evoluzione delle aspettative sociali e culturali e che vi sia la modifica delle narrazioni sulla mascolinità e sulla paternità. Qui per scaricare il Rapporto (in inglese): https://issa.nl/state-southern-european-fathers-2024-building-evidence-engaging-men-nurturing-care-italy-portugal?UA-144185756-4.   Giovanni Caprio
I maltrattamenti di bambini e adolescenti sono aumentati in Italia del 58% in cinque anni
In Italia risultano in carico ai servizi sociali 374.310 minorenni, di cui 113.892 sono vittime di maltrattamento, ovvero il 30,4%. Si tratta, al 31 dicembre 2023, di un aumento del 58% rispetto alla precedente indagine del 2018, in cui i minorenni in carico ai servizi sociali vittime di maltrattamento rappresentavano il 19,3%. Sul totale della popolazione minorenne residente in Italia questo significa un passaggio da 9 a 13 minorenni maltrattati ogni mille. Un’impennata registrata nell’arco di soli cinque anni. È quanto emerge dalla III Indagine nazionale sul maltrattamento di bambini e adolescenti in Italia, condotta da Terre des Hommes e Cismai per l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, che prende in considerazione 326 Comuni italiani, selezionati da ISTAT, a fronte dei 196 considerati nell’edizione precedente del 2021, comprese 12 città metropolitane, coprendo così un bacino di 2.733.645 minorenni. L’indagine analizza il fenomeno con dati al 31 dicembre 2023 e rappresenta l’unica fotografia post pandemia da Covid-19 del maltrattamento ai danni di infanzia e adolescenza. Al Sud l’aumento delle vittime di maltrattamento è del 100% con 10 minorenni su mille rispetto ai 5 del 2018. Significativo altresì è l’aumento del 45% del Centro-Nord. L’intercettazione delle situazioni a rischio avviene principalmente solo a partire dai 6 anni. Al 31 dicembre 2023, il 18% dei minorenni in carico per maltrattamento, ha tra 0 e 5 anni, il 32% tra 6 e 10 anni e il 50% tra 11 e 17 anni. Questo dato, già emerso nelle precedenti indagini, solleva interrogativi sulla capacità di intercettare il fenomeno precocemente e di attivare azioni efficaci di prevenzione primaria e secondaria da parte dei servizi su questa fascia d’età. La presa in carico, pertanto, avviene più frequentemente tra i 6 e i 17 anni, quando le situazioni di disagio risultano spesso già consolidate. Un elemento chiave che contribuisce a questa difficoltà è rappresentato dalla bassa frequenza di bambini e bambine nei servizi educativi per la prima infanzia. Attualmente, solo il 28% di bambini e bambine sotto i tre anni trova posto nei nidi o in altri servizi educativi analoghi, con forti disparità territoriali, soprattutto al Sud, dove in alcune regioni la copertura scende sotto il 15%. Il neglect/trascuratezza, nelle sue tre forme, rappresenta la tipologia di maltrattamento più frequente (37%), seguita dalla violenza assistita (34%). La violenza psicologica e il maltrattamento fisico invece incidono rispettivamente per il 12% e l’11%. Meno diffusi risultano la patologia delle cure (4%) e l’abuso sessuale (2%). Più nel dettaglio sui tipi di trascuratezza: il neglect educativo è la forma più ricorrente con il 17%, seguito dal neglect emozionale e dal neglect fisico, entrambi al 10%. Mentre per le patologie delle cure l’ipercura conta l’1% dei casi e la discuria il 3%. Da sottolineare come l’abuso sessuale, oltre a incontrare maggiori difficoltà nell’essere riconosciuto e intercettato, non necessariamente arriva all’attenzione dei servizi sociali poiché può procedere direttamente per le vie giudiziarie senza che venga attivato nessun percorso di sostegno e intervento. Un dato allarmante ci dice poi che nell’87% dei casi il maltrattante appartiene alla cerchia famigliare ristretta, senza differenze a livello territoriale, mentre nel 13% dei casi è esterno alla cerchia familiare. A segnalare il caso ai servizi sociali nel 52% dei casi è l’autorità giudiziaria. Si tratta di un dato emblematico di un sistema di protezione che si attiva tardi, spesso solo quando il danno è già conclamato e viene formalmente rilevato. Le istituzioni educative – in particolare la scuola – contribuiscono solo nel 14% dei casi. Ancora più marginale è il ruolo delle famiglie (12%) e, soprattutto, delle strutture sanitarie, come ospedali e ambulatori, che nel complesso segnalano solo il 4% dei casi. Infine, i medici di base e i pediatri, pur essendo figure potenzialmente strategiche nella prevenzione e nell’individuazione precoce del maltrattamento, risultano pressoché assenti, con una percentuale dell’1%. L’indagine per la prima volta prende in considerazione anche il contesto sportivo quale fonte di segnalazione, che però non raggiunge una stima statisticamente diversa da zero. L’indagine rileva che i minorenni di genere maschile in carico ai Servizi Sociali per maltrattamento risultano essere 57.963, rappresentando il 51% in carico per maltrattamento; mentre le femmine risultano essere 55.929, pari al 49%. La distribuzione è in linea con l’andamento demografico della popolazione minorile italiana.  Sul totale dei minorenni residenti in Italia, il maltrattamento colpisce indistintamente maschi e femmine con 13 vittime su mille in entrambe le popolazioni di riferimento.  Si notano inoltre differenze di genere nelle forme di violenza: i maschi sono più frequentemente vittime di neglect educativo, (54%), violenza assistita (52%) e patologia delle cure (54%), mentre le femmine sono più esposte ad abuso sessuale (77%) e violenza psicologica (53%). Per quanto riguarda la durata della presa in carico da parte dei servizi sociali, nella maggioranza dei casi (56%) essa è superiore ai due anni e dimostra la complessità delle situazioni trattate e la necessità di interventi continuativi. Tuttavia, si registrano forti differenze territoriali: al Sud e nelle Isole, i percorsi di presa in carico sono più brevi e in media durano meno di due anni. Questo potrebbe riflettere una minore disponibilità di risorse, una maggiore discontinuità nei servizi o un approccio meno strutturato all’accompagnamento delle situazioni. Per quanto attiene poi alla tipologia dei servizi attivati, si riscontra una certa disomogeneità: la categoria “altro servizio” rappresenta quasi un terzo degli interventi (29%) e potrebbe comprendere interventi diretti del servizio sociale professionale o interventi svolti in collaborazione con altri servizi sociosanitari. L’assistenza domiciliare (18%), l’inserimento in comunità (13%) e l’assistenza economica (13%) rappresentano le forme più strutturate di sostegno, ma anche in questo caso la distribuzione varia significativamente tra aree geografiche e tipologie comunali.  L’affidamento familiare, che rappresenta un modello preferibile e centrato sulla continuità affettiva e sociale, riguarda appena l’8% dei minorenni presi in carico, con incidenze più alte solo nel Nord-Ovest (10% dei casi). Inoltre, in una percentuale non trascurabile di casi (12%) non viene attivato alcun servizio specifico. Quest’ultimo dato non necessariamente va letto come assenza di interventi concreti offerti; in esso infatti potrebbero confluire quelle situazioni per le quali si è in fase di valutazione o in attesa di un provvedimento. Qui la terza Indagine nazionale sul maltrattamento di bambini e adolescenti in Italia dell’AGA: https://www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/2025-06/iii-indagine-maltrattamento.pdf.       Giovanni Caprio
Le tariffe delle mense scolastiche e gli investimenti PNRR nell’VIII° report di Cittadinanzattiva
Una famiglia ha speso in media nell’anno scolastico che si avvia a conclusione 85 e 86 € al mese per la mensa di un figlio iscritto rispettivamente alla scuola dell’infanzia e alla primaria. Si tratta di 4,25 e 4,30 € a pasto. La regione mediamente più costosa è l’Emilia-Romagna con 108 € mensili (lo scorso anno era la Basilicata), mentre quella più economica è, come nell’anno scolastico precedente, la Sardegna con 61 € nell’infanzia e 64 € per la primaria. Anche in quest’anno scolastico si è dovuto registrare un incremento delle tariffe, pur se alquanto contenuto (circa l’1%), con importanti variazioni però a livello regionale: la Sicilia registra un’importante crescita del costo a carico delle famiglie sia nella scuola dell’infanzia (+13% circa) che in quella primaria (oltre l’8%), mentre per la Basilicata si segnala una riduzione significativa di circa il 6% sia nell’infanzia che nella primaria. A livello di singoli capoluoghi di provincia, sono le famiglie di Barletta a spendere di meno per il singolo pasto (2 € sia per l’infanzia che per la primaria), mentre per l’infanzia si spende di più a Torino (6,60 € a pasto) e per la primaria a Livorno e Trapani (6,40 €). Fra le città metropolitane si conferma il dato positivo di Roma che rientra nella classifica delle meno care, con un costo a pasto per la famiglia “tipo” di circa 2,60 € in entrambe le tipologie di scuola. Sono alcuni dei dati dell’VIII^ Indagine sulle mense scolastiche di Cittadinanzattiva. Come si sa, sono molteplici i vantaggi per le famiglie di un territorio avere la mensa scolastica. Innanzitutto, perché una corretta alimentazione è alla base della crescita e dello sviluppo psicofisico di bambini e ragazzi e dunque la mensa può garantire a tutti gli alunni che possono accedervi pasti sani ed equilibrati indipendentemente dalle possibilità territoriali, economiche, organizzative delle famiglie di origine. Secondo gli ultimi dati ISTAT di marzo 2025 relativi alla condizione di vita delle famiglie e dei bambini nel nostro Paese, il 23,1% delle persone è a rischio povertà o esclusione sociale e la percentuale sale al 25,6% per le famiglie in cui è presente almeno un minore (un dato stabile rispetto allo scorso anno, quando era al 25,5%). Purtroppo, però, il rischio povertà o esclusione sociale aumenta al crescere del numero dei minori presenti in famiglia. Infatti, tra le famiglie con un solo minore circa due su dieci (22,9%) sono a rischio povertà o esclusione sociale, mentre tra le famiglie con 3 o più figli minori il rischio povertà o esclusione sociale riguarda più di 4 famiglie su 10 (42%), con una crescita di circa 5 punti percentuali rispetto al 2023 (era il 37,1%). Tra le famiglie con tre o più minori, invece, cresce la percentuale di quanti si trovano in grave deprivazione materiale e sociale, 10,4% nel 2024 contro il 9,5% nel 2023, La mensa, dunque, rappresenta una conquista irrinunciabile, soprattutto a favore delle fasce meno abbienti della popolazione. Una conquista ancora remota però per tante realtà territoriali. Il Report in premessa sottolinea infatti ancora una volta le carenze strutturali relative alle mense scolastiche. “Secondo i dati pubblicati dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dall’Istat, relativi all’anno scolastico 2022-2023, il 34,54% (33,6% nell’anno precedente), cioè poco più di un edificio su tre, sarebbe dotato di mensa scolastica. Le mense esistenti, però, non sono distribuite in modo omogeneo nel Paese: nelle Regioni del Sud poco più di un edificio su cinque dispone di una mensa scolastica (22% al Sud, 21% nelle Isole) e la quota scende al 15,6% in Campania e al 13,7% in Sicilia. La differenza con le regioni del Centro (Umbria, Marche, Toscana, Lazio) e del Nord (Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Veneto) è molto evidente: 41,2% e 43,1% rispettivamente sono gli edifici dotati di mensa scolastica presenti in queste aree geografiche. La regione con un numero maggiore di mense è la Valle d’Aosta (72%), seguita da Piemonte (62,4%), Toscana (59,6%) e Liguria (59,1%)”. E il PNRR solo in parte riuscirà a sanare queste carenze: dalla piattaforma Regis, a dicembre 2024 risulta che, complessivamente, con il PNRR sono stati finanziati 961 interventi. Per colmare il divario territoriale circa il 58% dei fondi sarebbe dovuto andare alle regioni del sud, ma, osservando le graduatorie finali, si evidenzia come le Regioni del Sud e delle Isole prevedono complessivamente 489 interventi, pari al 50,88% del totale. In termini di risorse economiche, però, al Sud e alle Isole vanno complessivamente il 37% delle risorse impiegate, al Nord il 48%, al Centro il 15%. Poco più della metà degli interventi, 516, pari al 54%, prevede la costruzione di nuove mense, di cui 228 (44%) al Sud e nelle isole. Negli altri casi si tratta, dunque, di interventi di ampliamento, messa in sicurezza, efficientamento energetico, manutenzione, ecc. di mense preesistenti. Cittadinanzattiva avanza alcune proposte: realizzare un’indagine conoscitiva e promuovere un tavolo permanente sulla ristorazione scolastica; riconoscere le mense scolastiche come servizio pubblico essenziale e nel frattempo impedire qualsiasi forma di esclusione dai bambini le cui famiglie siano in condizioni di povertà; aumentare e rendere stabile il fondo per il contrasto alla povertà alimentare a scuola; predisporre un piano quinquennale, successivo al PNRR per costruire nuove mense e arrivare a garantire il tempo pieno, a partire dalla scuola primaria e soprattutto nelle aree del Sud, in quelle interne e ultra-periferiche del Paese; favorire la diffusione delle Commissioni Mensa con la presenza al loro interno di almeno un genitore di bambini che utilizzano le diete speciali; rendere gli studenti protagonisti dell’educazione alimentare, dei corretti stili di vita e contro lo spreco; eliminare dai distributori automatici a scuola il cibo spazzatura, ed inserire solo prodotti freschi e naturali, possibilmente locali. Qui per approfondire e scaricare l’indagine: https://www.cittadinanzattiva.it/notizie/17124-viii-indagine-sulle-mense-scolastiche-circa-85-euro-il-costo-medio-mensile-servono-piu-risorse-contro-la-poverta-alimentare.html. Giovanni Caprio