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L’Italia non è ancora un Paese per padri
Anche se molti uomini dichiarano di partecipare attivamente all’assistenza quotidiana, resta un divario di percezione significativo: il 74% dei padri ritiene che l’assistenza sia equamente condivisa, ma solo il 51% delle madri è d’accordo. Le madri continuano insomma a sostenere il carico maggiore di assistenza e di gestione della famiglia, spesso a scapito del loro benessere e delle loro opportunità lavorative. Tuttavia, non appare trascurabile il ruolo che i padri svolgono nello sviluppo dei figli: un maggiore coinvolgimento è connesso a legami emotivi più forti, migliori risultati di apprendimento e un migliore benessere a lungo termine per i bambini. E’ quanto emerge dal recente Rapporto SOSEF-State of Southern European Fathers, un’indagine condotta da Equimundo in Portogallo, Spagna e Italia nell’ambito del progetto europeo EMiNC-Engaging Men in Nurturing Care, coordinato da ISSA-International Step by Step Association e promosso in Italia dal Centro per la Salute del Bambino. L’indagine ha cercato di rispondere alle seguenti domande fondamentali su paternità e cura nell’Europa meridionale: Chi si prende cura? Quali barriere esistono? Quale l’impatto delle responsabilità di cura sugli individui? Quali strutture di supporto esistono? Dalla ricerca emerge un forte cambiamento sociale e culturale in atto nell’essere padri nel Sud Europa, che li vede sempre più impegnati nella cura dei figli e delle figlie e nella gestione domestica, come caregiver corresponsabili e non solo come aiutanti, con tutti i benefici che questo comporta. Si tratta di un cambiamento importante, ma che da noi avanza in maniera più lenta rispetto ad altri Paesi, relegandoci a fanalino di coda non solo del Nord ma anche del Sud Europa. Abbiamo infatti il tasso di occupazione femminile più basso (53% nel 2024), il congedo di paternità più breve d’Europa (2 settimane contro le 16 della Spagna) e restiamo fermi, bloccati da barriere strutturali, sociali e normative che frenano la piena partecipazione dei padri alla cura e a una più equa condivisione delle “faccende domestiche”. E’ indubbio che la disparità nel lavoro di cura si intreccia con le disuguaglianze nel lavoro e con la presenza di norme di genere – ancora persistenti – che limitano la partecipazione economica delle donne e aumentano la sproporzione nel carico del lavoro di cura non retribuito rispetto agli uomini. In Italia la bassa occupazione femminile fa sì che le donne italiane abbiano 20 volte (il doppio rispetto a Spagna e Portogallo) più probabilità degli uomini di essere delle caregiver a tempo pieno a casa (nel campione analizzato il 18,6% delle italiane intervistate sono casalinghe a tempo pieno contro il 7,6% delle spagnole e il 4,7% delle portoghesi). Nei tre Paesi analizzati è la mancanza di tempo a causa degli obblighi di lavoro a rendere problematico per molti genitori l’apporto ai lavori di cura. E il tempo necessario può e deve essere garantito da congedi riservati ai padri, obbligatori, più lunghi e ben pagati, al pari delle madri, secondo il modello spagnolo. Infatti, in tutti e tre i Paesi i padri riconoscono in larghissima maggioranza i benefici del congedo genitoriale retribuito per loro stessi (88%), per le loro partner (90%) e per i loro figli e figlie (93%) e per due terzi concordano anche sul fatto che il congedo genitoriale dovrebbe essere uguale tra uomini e donne. E’ ormai diffusamente riconosciuta l’importanza per i figli e per le figlie della presenza di padri accudenti, soprattutto nei primi mille giorni di vita, come ad esempio una significativa riduzione dei comportamenti violenti negli adolescenti maschi. Ma anche per le partner e per l’intera società è importante il pieno coinvolgimento dei padri. Si tratta di evidenze (soprattutto scientifiche) che già da sole giustificherebbero un’ampia azione riformatrice in tale settore. Il Rapporto mette in evidenza come il 60% delle madri e dei padri intervistati voterebbe per un partito o un politico che sostenesse un congedo genitoriale retribuito più lungo. Un dato che arriva addirittura al 66% tra le madri italiane, che hanno dichiarato che avrebbero dato priorità alle politiche di congedo al momento del voto. Il rapporto propone di sviluppare solide riforme, come un congedo per i padri completamente retribuito e non trasferibile, e investimenti in servizi per la prima infanzia che coinvolgano attivamente gli uomini. Oltre a campagne pubbliche e reti locali di supporto tra pari per modificare norme e aspettative. Promuovere l’assistenza degli uomini non è solo una questione di parità di genere, ma è una strategia chiave per garantire che tutti i bambini prosperino fin dall’inizio della loro vita. Occorre garantire che la cura sia valorizzata e sostenuta per entrambi i genitori, che sia garantita la sicurezza finanziaria durante il congedo, che il lavoro sia compatibile con la cura, senza penalizzazioni o stigmatizzazioni, che vi sia un cambiamento culturale che passi attraverso l’evoluzione delle aspettative sociali e culturali e che vi sia la modifica delle narrazioni sulla mascolinità e sulla paternità. Qui per scaricare il Rapporto (in inglese): https://issa.nl/state-southern-european-fathers-2024-building-evidence-engaging-men-nurturing-care-italy-portugal?UA-144185756-4.   Giovanni Caprio
I maltrattamenti di bambini e adolescenti sono aumentati in Italia del 58% in cinque anni
In Italia risultano in carico ai servizi sociali 374.310 minorenni, di cui 113.892 sono vittime di maltrattamento, ovvero il 30,4%. Si tratta, al 31 dicembre 2023, di un aumento del 58% rispetto alla precedente indagine del 2018, in cui i minorenni in carico ai servizi sociali vittime di maltrattamento rappresentavano il 19,3%. Sul totale della popolazione minorenne residente in Italia questo significa un passaggio da 9 a 13 minorenni maltrattati ogni mille. Un’impennata registrata nell’arco di soli cinque anni. È quanto emerge dalla III Indagine nazionale sul maltrattamento di bambini e adolescenti in Italia, condotta da Terre des Hommes e Cismai per l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, che prende in considerazione 326 Comuni italiani, selezionati da ISTAT, a fronte dei 196 considerati nell’edizione precedente del 2021, comprese 12 città metropolitane, coprendo così un bacino di 2.733.645 minorenni. L’indagine analizza il fenomeno con dati al 31 dicembre 2023 e rappresenta l’unica fotografia post pandemia da Covid-19 del maltrattamento ai danni di infanzia e adolescenza. Al Sud l’aumento delle vittime di maltrattamento è del 100% con 10 minorenni su mille rispetto ai 5 del 2018. Significativo altresì è l’aumento del 45% del Centro-Nord. L’intercettazione delle situazioni a rischio avviene principalmente solo a partire dai 6 anni. Al 31 dicembre 2023, il 18% dei minorenni in carico per maltrattamento, ha tra 0 e 5 anni, il 32% tra 6 e 10 anni e il 50% tra 11 e 17 anni. Questo dato, già emerso nelle precedenti indagini, solleva interrogativi sulla capacità di intercettare il fenomeno precocemente e di attivare azioni efficaci di prevenzione primaria e secondaria da parte dei servizi su questa fascia d’età. La presa in carico, pertanto, avviene più frequentemente tra i 6 e i 17 anni, quando le situazioni di disagio risultano spesso già consolidate. Un elemento chiave che contribuisce a questa difficoltà è rappresentato dalla bassa frequenza di bambini e bambine nei servizi educativi per la prima infanzia. Attualmente, solo il 28% di bambini e bambine sotto i tre anni trova posto nei nidi o in altri servizi educativi analoghi, con forti disparità territoriali, soprattutto al Sud, dove in alcune regioni la copertura scende sotto il 15%. Il neglect/trascuratezza, nelle sue tre forme, rappresenta la tipologia di maltrattamento più frequente (37%), seguita dalla violenza assistita (34%). La violenza psicologica e il maltrattamento fisico invece incidono rispettivamente per il 12% e l’11%. Meno diffusi risultano la patologia delle cure (4%) e l’abuso sessuale (2%). Più nel dettaglio sui tipi di trascuratezza: il neglect educativo è la forma più ricorrente con il 17%, seguito dal neglect emozionale e dal neglect fisico, entrambi al 10%. Mentre per le patologie delle cure l’ipercura conta l’1% dei casi e la discuria il 3%. Da sottolineare come l’abuso sessuale, oltre a incontrare maggiori difficoltà nell’essere riconosciuto e intercettato, non necessariamente arriva all’attenzione dei servizi sociali poiché può procedere direttamente per le vie giudiziarie senza che venga attivato nessun percorso di sostegno e intervento. Un dato allarmante ci dice poi che nell’87% dei casi il maltrattante appartiene alla cerchia famigliare ristretta, senza differenze a livello territoriale, mentre nel 13% dei casi è esterno alla cerchia familiare. A segnalare il caso ai servizi sociali nel 52% dei casi è l’autorità giudiziaria. Si tratta di un dato emblematico di un sistema di protezione che si attiva tardi, spesso solo quando il danno è già conclamato e viene formalmente rilevato. Le istituzioni educative – in particolare la scuola – contribuiscono solo nel 14% dei casi. Ancora più marginale è il ruolo delle famiglie (12%) e, soprattutto, delle strutture sanitarie, come ospedali e ambulatori, che nel complesso segnalano solo il 4% dei casi. Infine, i medici di base e i pediatri, pur essendo figure potenzialmente strategiche nella prevenzione e nell’individuazione precoce del maltrattamento, risultano pressoché assenti, con una percentuale dell’1%. L’indagine per la prima volta prende in considerazione anche il contesto sportivo quale fonte di segnalazione, che però non raggiunge una stima statisticamente diversa da zero. L’indagine rileva che i minorenni di genere maschile in carico ai Servizi Sociali per maltrattamento risultano essere 57.963, rappresentando il 51% in carico per maltrattamento; mentre le femmine risultano essere 55.929, pari al 49%. La distribuzione è in linea con l’andamento demografico della popolazione minorile italiana.  Sul totale dei minorenni residenti in Italia, il maltrattamento colpisce indistintamente maschi e femmine con 13 vittime su mille in entrambe le popolazioni di riferimento.  Si notano inoltre differenze di genere nelle forme di violenza: i maschi sono più frequentemente vittime di neglect educativo, (54%), violenza assistita (52%) e patologia delle cure (54%), mentre le femmine sono più esposte ad abuso sessuale (77%) e violenza psicologica (53%). Per quanto riguarda la durata della presa in carico da parte dei servizi sociali, nella maggioranza dei casi (56%) essa è superiore ai due anni e dimostra la complessità delle situazioni trattate e la necessità di interventi continuativi. Tuttavia, si registrano forti differenze territoriali: al Sud e nelle Isole, i percorsi di presa in carico sono più brevi e in media durano meno di due anni. Questo potrebbe riflettere una minore disponibilità di risorse, una maggiore discontinuità nei servizi o un approccio meno strutturato all’accompagnamento delle situazioni. Per quanto attiene poi alla tipologia dei servizi attivati, si riscontra una certa disomogeneità: la categoria “altro servizio” rappresenta quasi un terzo degli interventi (29%) e potrebbe comprendere interventi diretti del servizio sociale professionale o interventi svolti in collaborazione con altri servizi sociosanitari. L’assistenza domiciliare (18%), l’inserimento in comunità (13%) e l’assistenza economica (13%) rappresentano le forme più strutturate di sostegno, ma anche in questo caso la distribuzione varia significativamente tra aree geografiche e tipologie comunali.  L’affidamento familiare, che rappresenta un modello preferibile e centrato sulla continuità affettiva e sociale, riguarda appena l’8% dei minorenni presi in carico, con incidenze più alte solo nel Nord-Ovest (10% dei casi). Inoltre, in una percentuale non trascurabile di casi (12%) non viene attivato alcun servizio specifico. Quest’ultimo dato non necessariamente va letto come assenza di interventi concreti offerti; in esso infatti potrebbero confluire quelle situazioni per le quali si è in fase di valutazione o in attesa di un provvedimento. Qui la terza Indagine nazionale sul maltrattamento di bambini e adolescenti in Italia dell’AGA: https://www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/2025-06/iii-indagine-maltrattamento.pdf.       Giovanni Caprio
Le tariffe delle mense scolastiche e gli investimenti PNRR nell’VIII° report di Cittadinanzattiva
Una famiglia ha speso in media nell’anno scolastico che si avvia a conclusione 85 e 86 € al mese per la mensa di un figlio iscritto rispettivamente alla scuola dell’infanzia e alla primaria. Si tratta di 4,25 e 4,30 € a pasto. La regione mediamente più costosa è l’Emilia-Romagna con 108 € mensili (lo scorso anno era la Basilicata), mentre quella più economica è, come nell’anno scolastico precedente, la Sardegna con 61 € nell’infanzia e 64 € per la primaria. Anche in quest’anno scolastico si è dovuto registrare un incremento delle tariffe, pur se alquanto contenuto (circa l’1%), con importanti variazioni però a livello regionale: la Sicilia registra un’importante crescita del costo a carico delle famiglie sia nella scuola dell’infanzia (+13% circa) che in quella primaria (oltre l’8%), mentre per la Basilicata si segnala una riduzione significativa di circa il 6% sia nell’infanzia che nella primaria. A livello di singoli capoluoghi di provincia, sono le famiglie di Barletta a spendere di meno per il singolo pasto (2 € sia per l’infanzia che per la primaria), mentre per l’infanzia si spende di più a Torino (6,60 € a pasto) e per la primaria a Livorno e Trapani (6,40 €). Fra le città metropolitane si conferma il dato positivo di Roma che rientra nella classifica delle meno care, con un costo a pasto per la famiglia “tipo” di circa 2,60 € in entrambe le tipologie di scuola. Sono alcuni dei dati dell’VIII^ Indagine sulle mense scolastiche di Cittadinanzattiva. Come si sa, sono molteplici i vantaggi per le famiglie di un territorio avere la mensa scolastica. Innanzitutto, perché una corretta alimentazione è alla base della crescita e dello sviluppo psicofisico di bambini e ragazzi e dunque la mensa può garantire a tutti gli alunni che possono accedervi pasti sani ed equilibrati indipendentemente dalle possibilità territoriali, economiche, organizzative delle famiglie di origine. Secondo gli ultimi dati ISTAT di marzo 2025 relativi alla condizione di vita delle famiglie e dei bambini nel nostro Paese, il 23,1% delle persone è a rischio povertà o esclusione sociale e la percentuale sale al 25,6% per le famiglie in cui è presente almeno un minore (un dato stabile rispetto allo scorso anno, quando era al 25,5%). Purtroppo, però, il rischio povertà o esclusione sociale aumenta al crescere del numero dei minori presenti in famiglia. Infatti, tra le famiglie con un solo minore circa due su dieci (22,9%) sono a rischio povertà o esclusione sociale, mentre tra le famiglie con 3 o più figli minori il rischio povertà o esclusione sociale riguarda più di 4 famiglie su 10 (42%), con una crescita di circa 5 punti percentuali rispetto al 2023 (era il 37,1%). Tra le famiglie con tre o più minori, invece, cresce la percentuale di quanti si trovano in grave deprivazione materiale e sociale, 10,4% nel 2024 contro il 9,5% nel 2023, La mensa, dunque, rappresenta una conquista irrinunciabile, soprattutto a favore delle fasce meno abbienti della popolazione. Una conquista ancora remota però per tante realtà territoriali. Il Report in premessa sottolinea infatti ancora una volta le carenze strutturali relative alle mense scolastiche. “Secondo i dati pubblicati dal Ministero dell’Istruzione e del Merito e dall’Istat, relativi all’anno scolastico 2022-2023, il 34,54% (33,6% nell’anno precedente), cioè poco più di un edificio su tre, sarebbe dotato di mensa scolastica. Le mense esistenti, però, non sono distribuite in modo omogeneo nel Paese: nelle Regioni del Sud poco più di un edificio su cinque dispone di una mensa scolastica (22% al Sud, 21% nelle Isole) e la quota scende al 15,6% in Campania e al 13,7% in Sicilia. La differenza con le regioni del Centro (Umbria, Marche, Toscana, Lazio) e del Nord (Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Veneto) è molto evidente: 41,2% e 43,1% rispettivamente sono gli edifici dotati di mensa scolastica presenti in queste aree geografiche. La regione con un numero maggiore di mense è la Valle d’Aosta (72%), seguita da Piemonte (62,4%), Toscana (59,6%) e Liguria (59,1%)”. E il PNRR solo in parte riuscirà a sanare queste carenze: dalla piattaforma Regis, a dicembre 2024 risulta che, complessivamente, con il PNRR sono stati finanziati 961 interventi. Per colmare il divario territoriale circa il 58% dei fondi sarebbe dovuto andare alle regioni del sud, ma, osservando le graduatorie finali, si evidenzia come le Regioni del Sud e delle Isole prevedono complessivamente 489 interventi, pari al 50,88% del totale. In termini di risorse economiche, però, al Sud e alle Isole vanno complessivamente il 37% delle risorse impiegate, al Nord il 48%, al Centro il 15%. Poco più della metà degli interventi, 516, pari al 54%, prevede la costruzione di nuove mense, di cui 228 (44%) al Sud e nelle isole. Negli altri casi si tratta, dunque, di interventi di ampliamento, messa in sicurezza, efficientamento energetico, manutenzione, ecc. di mense preesistenti. Cittadinanzattiva avanza alcune proposte: realizzare un’indagine conoscitiva e promuovere un tavolo permanente sulla ristorazione scolastica; riconoscere le mense scolastiche come servizio pubblico essenziale e nel frattempo impedire qualsiasi forma di esclusione dai bambini le cui famiglie siano in condizioni di povertà; aumentare e rendere stabile il fondo per il contrasto alla povertà alimentare a scuola; predisporre un piano quinquennale, successivo al PNRR per costruire nuove mense e arrivare a garantire il tempo pieno, a partire dalla scuola primaria e soprattutto nelle aree del Sud, in quelle interne e ultra-periferiche del Paese; favorire la diffusione delle Commissioni Mensa con la presenza al loro interno di almeno un genitore di bambini che utilizzano le diete speciali; rendere gli studenti protagonisti dell’educazione alimentare, dei corretti stili di vita e contro lo spreco; eliminare dai distributori automatici a scuola il cibo spazzatura, ed inserire solo prodotti freschi e naturali, possibilmente locali. Qui per approfondire e scaricare l’indagine: https://www.cittadinanzattiva.it/notizie/17124-viii-indagine-sulle-mense-scolastiche-circa-85-euro-il-costo-medio-mensile-servono-piu-risorse-contro-la-poverta-alimentare.html. Giovanni Caprio