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Radio Africa: Etiopia, Costa d'Avorio, Burkina Faso, Sudafrica
Etiopia: ad Addis Abeba è stata inaugurata la cosiddetta Diga della Rinascita (Grand Ethiopian Renaissance Dam – GERD). La diga più grande del continente africano, posta sul corso del Nilo Azzurro che, all’altezza di Khartoum, si unisce al Nilo Bianco formando il fiume più lungo del mondo. Costata quasi 5 miliardi di dollari. Egitto e Sudan hanno sempre accusato l’Etiopia di non tenere conto delle conseguenze di un’opera del genere sul comparto agricolo e sulle riserve idriche dei due Paesi a valle, affermando che la costruzione e il riempimento del bacino, da 74 miliardi di metri cubi, sono avvenuti in maniera unilaterale senza che ci fosse un accordo tra le parti per quanto riguarda la gestione del bacino e dei conseguenti flussi d’acqua. Le tensioni tra i tre Stati sono continuate fino alla settimana scorsa, quando Egitto e Sudan hanno rilasciato una dichiarazione congiunta affermando che la diga rappresenta «una minaccia alla stabilità della regione». Costa D'avorio: In vista delle elezioni il Consiglio Costituzionale ha selezionato quattro candidati oltre al Presidente uscente Alassane Ouattara, la cui posizione di chiaro favorito rimane salda. Sono rimasti esclusi i due maggiori concorrenti , Laurent Gbabo e Tidjane Thiam mentre il presidente uscente Ouattara punta ad un terzo mandato forzando la costituzione . Burkina Faso: lunedì il paese ha adottato una legge che prevede pene detentive fino a cinque anni per gli "autori di pratiche omosessuali", una novità assoluta nel Paese. Finora, nessuna legge prendeva specificamente di mira gli omosessuali in Burkina Faso, che tuttavia vivono in modo discreto. Il disegno di legge è stato adottato all'unanimità dai 71 membri non eletti dell'Assemblea Legislativa di Transizione (ALT), che ha svolto le funzioni di parlamento da quando la giunta ha preso il potere quasi tre anni fa. Sudafrica: la Procura ha annunciato mercoledì 10 settembre che avrebbe presto riaperto le indagini sulla morte dell'attivista anti-apartheid Steve Biko in una cella di Pretoria, quasi cinquant'anni dopo gli eventi. Steve Biko, fondatore del Black Consciousness Movement, morì all'età di 30 anni nel 1977 dopo essere stato picchiato fino al coma dalla polizia che lo aveva arrestato un mese prima.
No al “neocolonialismo scientifico”: Il Burkina Faso vieta le zanzare OGM di Bill Gates
Con una decisione che ha fatto rumore ben oltre i confini nazionali, il governo del Burkina Faso ha ordinato la sospensione definitiva del progetto Target Malaria, iniziativa di ricerca sostenuta dalla Fondazione Gates e da Open Philanthropy e guidata dall’Imperial College di Londra, che prevedeva il rilascio di zanzare geneticamente modificate per combattere la malaria. Il governo di Ouagadougou ha ordinato la chiusura dei laboratori e la distruzione dei campioni, trasformando un atto tecnico in un gesto dal forte valore simbolico e geopolitico: riaffermare la propria sovranità nazionale e opporsi a quello che viene definito nel Paese come una forma di «neocolonialismo scientifico», in cui le popolazioni vulnerabili diventano cavie di tecnologie ad alto rischio. Le preoccupazioni relative all’influenza coloniale sono un tema ricorrente del governo di Ibrahim Traore: il leader panafricano, che ha preso il potere con il colpo di Stato del 30 settembre 2022, si è allontanato dall’Occidente, cercando di limitare sempre più il coinvolgimento straniero nella politica interna. Attivo in Burkina Faso dal 2012, Target Malaria si proponeva di ridurre la trasmissione della malaria intervenendo direttamente sui vettori della malattia: le zanzare Anopheles. La strategia più controversa è quella del gene drive, una tecnica di ingegneria genetica basata su CRISPR che forza la trasmissione di un tratto genetico in tutta la popolazione naturale, fino a renderlo dominante. In questo caso, il tratto serve a produrre solo maschi o a sterilizzare le femmine, con l’intento di ridurre drasticamente la popolazione delle zanzare. Secondo la sociologa e accademica canadese Linsey McGoey, Target Malaria «è un esempio emblematico del tecnoscientismo filantropico che traveste da bene comune l’interesse privato. Dietro la retorica della lotta alla malaria, si nasconde la volontà di imporre tecnologie radicali come il gene drive, con effetti potenzialmente irreversibili sugli ecosistemi e sulle comunità locali. Le popolazioni africane, spesso escluse dal dibattito, subiscono così le scelte di attori globali che dettano l’agenda della salute pubblica». Si tratta, infatti, di soluzione radicale, che promette di colpire alla radice la malattia, ma che suscita preoccupazioni per i suoi effetti ecologici imprevedibili e difficilmente controllabili sugli ecosistemi e solleva dilemmi etici su chi abbia la legittimità di decidere sul suo impiego, soprattutto quando gli esperimenti si svolgono in comunità vulnerabili del Sud globale. Già nel 2016 la National Academies of Sciences degli Stati Uniti aveva avvertito che gli organismi gene-drive non erano pronti per rilasci ambientali. L’OMS nel 2021 aveva raccomandato prudenza e un coinvolgimento reale delle comunità. Nel 2024 la Convenzione sulla Diversità Biologica aveva auspicato valutazioni più ampie su impatto socio-economico, culturale ed etico, soprattutto sulle comunità locali – in linea con il principio di precauzione e decisioni precedenti della COP e del Protocollo di Cartagena. Da segnalare anche i timori che la tecnologia possa essere sfruttata in futuro a fini commerciali (ad esempio, se sviluppata per controllare i parassiti agricoli) o persino come arma biologica. La scelta del Burkina Faso non è solo scientifica ma geopolitica. Da un lato, c’è l’urgenza sanitaria: la malaria uccide ancora quasi 600.000 persone l’anno, perlopiù bambini africani. Dall’altro, c’è la volontà di non trasformarsi in “cavie” per la ricerca occidentale. Gli oppositori del Target Malaria sottolineano che i ceppi di zanzare modificate provengono da laboratori europei e che dietro il progetto ci sono fondazioni miliardarie occidentali che impongono la propria visione tecnologica senza un reale processo democratico locale. Ali Tapsoba, attivista della coalizione CVAB (Coalition pour le Suivi des Activités Biotechnologiques), ha parlato di tecnologia «altamente controversa, imprevedibile e potenzialmente irreversibile». Un capitolo spesso ignorato, ma essenziale per interpretare le ragioni dello stop a Target Malaria, è quello della finanziarizzazione della malaria, un fenomeno esposto con lucidità dall’African Centre for Biodiversity. In sintesi, il documento denuncia come la malaria – da emergenza sanitaria – si sia trasformata in opportunità finanziaria, sovvertendo il senso stesso della lotta alla malattia. Il Burkina Faso funge da “laboratorio vivente” in cui fondazioni cosiddette filantropiche, come quella di Gates, insieme a partenariati pubblico-privati, investono in tecnologie brevettate (vaccini, insetticidi, zanzare GM/gene-drive) attraverso modelli di sviluppo che privilegiano i profitti da royalties piuttosto che il rafforzamento dei sistemi sanitari nazionali. L’1% soltanto degli investimenti globali arriva alle istituzioni di ricerca locali, mentre il resto resta nelle sedi dei donatori. In questo schema, lo scenario è chiaro: i “risultati” più rischiosi di tecnologie sperimentali vengono testati sul continente africano e i danni – se ci saranno – peseranno sulle sue popolazioni, non su chi le ha finanziate o proposte. Il rifiuto del Burkina Faso a Target Malaria non rappresenta solo la chiusura di un progetto scientifico, ma la dichiarazione di una volontà politica: sottrarsi al ruolo di laboratorio del mondo e rivendicare il diritto a decidere sul proprio destino. È un segnale di rottura verso il modello in cui l’Africa viene trattata come terreno di sperimentazione per i governi e le aziende occidentali. La salute pubblica del continente, secondo la nuova rotta intrapresa da Ouagadougou, non può essere subordinata agli interessi di fondazioni miliardarie, ma deve nascere da scelte condivise con le comunità locali, in nome della sovranità e dell’autodeterminazione. Il messaggio è chiaro: il futuro africano non sarà costruito da tecnologie imposte dall’alto, ma da soluzioni radicate nella conoscenza, nella cultura e nelle priorità delle popolazioni stesse. L'Indipendente
La “contro-omelia della liberazione” di Ibrahim Traoré a Papa Leone XIV
Una “contro-omelia della liberazione” dall’Africa che alza la testa. Traduzione di Leopoldo Salmaso – da: https://byeon.com/ibrahim-traore/   A Sua Santità Papa Roberto Francesco, Non le scrivo da un palazzo, né dalle comodità di ambasciate straniere, ma dal suolo della mia patria, la terra del Burkina Faso, dove la polvere si mescola al sangue dei nostri martiri e gli echi della rivoluzione sono più forti del ronzio dei droni stranieri sopra le nostre teste. Non le scrivo come un uomo in cerca di approvazione, né come uno invischiato in convenevoli diplomatici. Le scrivo come un figlio dell’Africa, audace, ferito, indomito. Ora lei è il padre spirituale di oltre un miliardo di anime, inclusi milioni qui in Africa. Lei eredita non solo una chiesa, ma una missione. E in questo momento di transizione, mentre il fumo bianco aleggia ancora sui tetti del Vaticano, devo inviare questa lettera attraverso mari e deserti, oltre guardie e cancellate, direttamente al suo cuore, perché la storia lo esige, perché la verità lo impone, perché l’Africa, ferita e in rivolta, ci sta guardando. Santità, noi africani conosciamo il potere della croce. Conosciamo gli inni, le preghiere, le litanie. Abbiamo costruito chiese con mani callose e abbiamo difeso la nostra fede con il nostro sangue. Ma conosciamo anche un’altra verità, una verità che troppi hanno preferito seppellire: che la Chiesa a volte ha camminato al fianco dei colonizzatori, che mentre i missionari pregavano per le nostre anime, i soldati profanavano le nostre terre, che mentre voi predecessori parlavate del cielo, i nostri antenati erano incatenati sulla terra. E anche ora, in questa cosiddetta era moderna, subiamo ancora le catene non del ferro, ma del silenzio. Dell’indifferenza di giochi geopolitici che si svolgono in sacre oscurità. Quindi chiedo, in nome delle madri che pregano sui pavimenti di terra battuta e dei bambini che frequentano il catechismo a stomaco vuoto: il suo papato sarà diverso? Sarà lei il Papa che vede l’Africa non come una periferia, ma come il centro profetico? Sarà il Papa che non si limita a visitare le baraccopoli per fotoricordi, ma che osa parlare con rabbia contro le forze che rendono permanenti quelle baraccopoli? Vede, Santità, io sono un uomo forgiato dalla guerra, non dalla ricchezza. Non sono stato rovinato dalle istituzioni occidentali per uso politico. Non mi hanno insegnato la diplomazia a Parigi. Ho imparato la leadership in trincea, tra la gente, dove il dolore è maestro e la speranza è resistenza. Guido una nazione che è stata emarginata dal mondo finché non ci siamo rifiutati di stare zitti. Ci è stato detto che eravamo troppo poveri per essere indipendenti, troppo deboli per essere sovrani, troppo instabili per resistere. Ma glielo dico con il tuono degli antenati nella voce: abbiamo smesso di chiedere il permesso di esistere. Abbiamo smesso di implorare validazione da parte dei poteri che sfruttano i nostri minerali mentre predicano la moralità. E abbiamo smesso, assolutamente smesso, di accettare che i leader spirituali globali distolgano lo sguardo dalle grida dell’Africa perché la politica è scomoda. Santità, [non] parlo ora solo per il Burkina Faso, ma per un continente troppo a lungo dominato. L’Africa non è un continente da compatire, siamo un continente di profeti. Profeti che sono stati incarcerati, esiliati e assassinati per aver osato sfidare l’impero. E lei, ora che porta l’anello di San Pietro come simbolo, seguirà la via dei profeti? O sarà anche lei prigioniero della politica? Non abbiamo bisogno di altre banalità. Non abbiamo bisogno di altri auguri e preghiere mentre le multinazionali occidentali estraggono uranio dal Niger, e oro dal Congo, sotto scorta armata. Non abbiamo bisogno di neutralità diplomatica mentre i giovani africani annegano nel Mediterraneo fuggendo da guerre cui essi non hanno dato inizio, con armi che essi non hanno fabbricato. Non abbiamo bisogno di dichiarazioni sdolcinate mentre la sovranità africana viene messa all’asta a porte chiuse a Bruxelles, Washington e Ginevra. Ciò di cui abbiamo bisogno è un Papa che nomini l’Erode moderno, che tuoni contro gli imperi economici con la stessa audacia con cui la Chiesa un tempo tuonò contro il comunismo. Un Papa che dica senza indulgenze che è peccato per le nazioni trarre profitto dalla distruzione dell’Africa. Lei conosce gli insegnamenti di Cristo. Sa che Lui rovesciò i tavoli dei cambiavalute. Sa che Lui disse “Beati gli operatori di pace” ma non disse mai “Beati i pacifinti”. Quindi le chiedo personalmente: parlerà contro il silenzio della Francia e le sue operazioni segrete nel Sahel? Condannerà i traffici di armi che alimentano guerre per procura nei nostri deserti e nelle nostre foreste? Smaschererà l’avidità che si ammanta di carità? La diplomazia che maschera l’imperialismo con colloqui di pace, perché lo vediamo succedere, lo viviamo. Sua Santità, non le chiedo di essere africano. Le chiedo di essere umano, di essere morale, di essere coraggioso, perché il coraggio, il vero coraggio, non è benedire i potenti. E’ difendere i deboli pagandone il costo. Mi permetta di parlare chiaro. Il Vaticano possiede ricchezze inimmaginabili, arte senza prezzo, accesso oltre ogni confine. Ma il vero potere non si misura in tesori nascosti dietro mura di marmo, il vero potere si misura nel coraggio di affrontare l’ingiustizia. Anche quando si presenta vestito con un abito su misura, con credenziali diplomatiche e sorridendo nonostante i suoi peccati, Sua Santità, il mondo è sull’orlo del precipizio e l’Africa, questo continente martoriato e bellissimo, non si limita a guardare dal basso: ci stiamo sollevando. Stiamo sanguinando, stiamo risalendo e osiamo porre domande che risuonano più forte del diritto canonico. Dov’era la Chiesa quando i nostri presidenti sono stati rovesciati da mercenari spalleggiati dall’estero? Dov’era la Chiesa quando i nostri giovani sono stati rapiti e indottrinati in guerre finanziate da nazioni che pretendono di essere forze di pace? Dov’era la Chiesa quando le nostre valute sono crollate, quando il Fondo Monetario Internazionale ha soffocato le nostre economie? Quando i nostri leader sono stati puniti per aver scelto la sovranità anziché la sottomissione? Non ci dica di perdonare mentre la frusta è ancora nella mano del carnefice. Non ci dica di pregare mentre le nostre preghiere vengono ricambiate con attacchi di droni. Non parli di pace senza nominare i profittatori della guerra. Perché il silenzio, Santità, non è più santo e la neutralità non è più nobile. Se lei deve essere il pastore di questo gregge globale, allora ascolti questo grido dalla polvere di Uagadugu. Anche noi siamo sue pecore. Ma non pascoliamo in silenzio nei campi, marciamo per le strade, moriamo in prima linea. Risorgiamo dalle ceneri con il fuoco nelle ossa e le Scritture sulla lingua. Non chiediamo carità, esigiamo giustizia. E la giustizia deve iniziare dalla verità. La verità è che il cristianesimo in Africa è stato sia un balsamo che una spada. La verità è che la Chiesa ha nutrito i nostri spiriti senza riuscire a proteggere i nostri corpi. La verità è che la redenzione senza riconoscimento è una mezza verità e le mezze verità non hanno mai guarito le nazioni. Santità, ora lei siede sulla cattedra di San Pietro. Ma ricordi, Pietro rinnegò Cristo tre volte prima che il gallo cantasse. Non permetta alla Storia di scrivere che la Chiesa ha rinnegato l’Africa ancora una volta. Faccia sì che il gallo canti forte e chiaro in Vaticano. Che svegli la coscienza di cardinali e re. Che echeggi nei corridoi del potere, dove uomini in toga e uomini in uniforme barattano il silenzio con l’influenza. Che annunci una nuova alba, non solo per la Chiesa, ma per il mondo. Perché qui in Africa non temiamo le albe, le creiamo. Siamo figli e figlie di Sankara, Lumumba, Nkrumah e Biko. Portiamo le Scritture in una mano e l’onore, il ricordo dei rivoluzionari nell’altra. Abbiamo imparato a pregare e protestare con lo stesso respiro. E chiediamo: il suo papato camminerà con noi? Ci verrà lei incontro nel nostro dolore, non solo tra i banchi delle nostre chiese? Riconoscerà Dio nella nostra fame? Cristo nel nostro caos, lo Spirito Santo nelle nostre lotte? Perché se non è questo il tempo, è quello di Giuda, e se la Chiesa continua a predicare la pace ignorando la macchina dell’oppressione, in quale Buona Novella ci resta da credere? Non lo dico con rabbia, ma con sacra urgenza. Siamo un popolo al crocevia tra profezia e politica, e il tempo dell’Africa non si sta avvicinando, è qui. Stiamo riscrivendo la narrazione, rimodellando il futuro, rivendicando la dignità che ci è stata negata da secoli di dominazione straniera e di manipolazione spirituale. E la Chiesa deve decidere da che parte stare: con i poteri forti qui, o con le persone che sanguinano. Non scrivo questa lettera per condannare. La scrivo per invitarla, Santità, a una solidarietà più profonda, a una solidarietà che cammini a piedi nudi con i poveri, che osi dire la verità a Roma con la stessa audacia con cui lo fa in Ruanda, che ricordi i santi non solo per i miracoli, ma per il loro impegno per la giustizia. Aspettiamo le vostre voci, non dai balconi, ma dalle trincee e dalle favelas. Dai campi profughi, da dietro le sbarre delle prigioni politiche dove la verità è incarcerata. Perché solo quella voce, la vostra voce, può riscattare il silenzio. E se oserete pronunciarla, non solo l’Africa vi ascolterà, ma il mondo intero. Capitano Ibrahim Traoré, presidente della transizione. Burkina Faso, figlio dell’Africa, servitore della sovranità. https://vcomevittoria.it Redazione Italia