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Venezuela. Fake news e vere bombe USA contro una barca di pescatori
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha pubblicato un video con immagini false di quello che viene presentato contro il secondo attacco contro un presunto obiettivo “narcoterrorista”, una mistificazione utilizzata per minacciare il Venezuela. Nel video si vede una piccola barca, di quelle comunemente utilizzate per la pesca artigianale, […] L'articolo Venezuela. Fake news e vere bombe USA contro una barca di pescatori su Contropiano.
Caso di Alberto Trentini. Un diplomatico venezuelano accusa: “Il governo Meloni non ha mai chiamato Caracas”
Dopo circa 300 giorni di prigionia, giungono sconcertanti novità sulla situazione di Alberto Trentini, cooperante veneziano arrestato in Venezuela il 15 novembre 2024.   Infatti un funzionario diplomatico venezuelano, pochi giorni fa, ha rilasciato alcune dichiarazioni preoccupanti: “La Repubblica Bolivariana del Venezuela resta aperta al dialogo con l’Italia” per trattare “sui prigionieri e su altri temi di interesse comune”, ma finora Palazzo Chigi “non ha neppure telefonato alle autorità di Caracas”. “Tale atteggiamento è infantile, non appartiene ai rapporti tra Stati, ma passa come distacco e mancata volontà politica”.  La fonte ha chiesto riservatezza, a causa delle recenti tensioni con gli USA che hanno aggravato il clima interno portando ogni informazione filtrata a poter apparire come un tradimento, tuttavia la colpa, spiega la fonte, non sarebbe di Maduro bensì degli statunitensi che provano a corrompere i funzionari venezuelani. Il diplomatico si è poi soffermato, sulle scarcerazioni, di questo 24 agosto, degli italiani Margarita Assenza e Americo De Grazia, per le quali, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, aveva dato il merito al governo italiano guidato da Giorgia Meloni. In merito a questa vicenda, il funzionario venezuelano ha chiarito: “È stata una scelta sovrana, un affare interno che ha coinvolto anche le opposizioni democratiche e qualche mediatore a latere”; “l’Italia non ha neppure toccato palla né indicato alcun nome sull’elenco dei rilasci, ma ne è venuta a conoscenza quando l’accordo era stato fatto”. Tali dichiarazioni trovano conferma dalla delegazione costituita da Henrique Capriles, Stalin Gonzalez e Tomas Guanipa, la controparte di Maduro al tavolo negoziale, che ha affermato: “C’eravamo solo noi davanti alla prigione dell’Helicoide al momento delle scarcerazioni”, aggiungendo “c’è ancora tanta strada da fare, alcuni scarcerati sono comunque sotto processo e divieto di espatrio”.  La situazione e risultati della diplomazia italiana resta molto difficile, specie se paragonata con i risultati di altri Paesi: gli USA infatti hanno ottenuto rilasci negoziando su un binario politico-umanitario; la Svizzera ha visto uscire invece un compagno di cella di Trentini. Lunedì 15 settembre alla mostra internazionale del cinema di Venezia, Armanda Colusso- madre di Alberto Trentini, che a differenza della madre di Cecilia Sala non è stata mai ricevuta a Palazzo Chigi dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni- ha dichiarato riguardo suo figlio: “Cosa penserà questo ragazzo del suo Paese che per mesi l’ha abbandonato e non si è attivato abbastanza per liberarlo?”. Giorgia Meloni sta continuando a non nominare pubblicamente Alberto Trentini, evitando deliberatamente di riconoscerne il peso e l’importanza della vicenda. La situazione quindi è sempre più drammatica, la speranza è che i richiami anche dell’opinione pubblica riescano a far smuovere qualcosa.  Andrea Vitello
Trump e la guerra delle fake news: il Venezuela nel mirino come Cuba, Siria, Iran e Russia
Donald Trump ha diffuso in questi giorni la notizia di un presunto attacco della marina statunitense contro una nave carica di droga proveniente dal Venezuela. Secondo il suo racconto, l’operazione avrebbe causato la morte di 11 persone a bordo. Una dichiarazione che, tuttavia, non è stata accompagnata da alcuna prova […] L'articolo Trump e la guerra delle fake news: il Venezuela nel mirino come Cuba, Siria, Iran e Russia su Contropiano.
Nuova strategia del Pentagono, il focus torna sull’America Latina
Ogni volta che una nuova amministrazione si insedia a Washington, il Pentagono stila un documento, il National Defense Strategy (NDS), che serve a dare le linee guida principali per le politiche da seguire al “Department of War”, fresca ridenominazione della Difesa da parte di Trump (che se non altro si […] L'articolo Nuova strategia del Pentagono, il focus torna sull’America Latina su Contropiano.
“Il Venezuela è il grande laboratorio politico della nostra epoca” – intervista esclusiva a Ignacio Ramonet
Ignacio Ramonet, giornalista e saggista, analista internazionale, è stato a lungo direttore di Le Monde diplomatique. Nel suo libro La era del conspiracionismo ha analizzato i meccanismi del “trumpismo” che oggi vediamo estendersi ad altre latitudini, dall’America latina all’Europa. Con lui abbiamo parlato della crisi politica dell’Unione europea, e delle rinnovate tensioni fra gli Usa e i paesi socialisti latinoamericani. Viviamo un momento di profonde e drammatiche trasformazioni che investono tutti i piani di un modello – il capitalismo dominante – in crisi sistemica, ma con la chiara intenzione di far vivere a tutta l’umanità la sua agonia. Dal suo punto di vista, quello di un raffinato analista politico di lunga data, come interpreta questa crisi? Non siamo di fronte a una crisi puntuale del capitalismo, ma a una sua crisi di civiltà. Il sistema, nella sua versione neoliberista e finanziarizzata, ha raggiunto un punto in cui non riesce più a riprodursi senza distruggere le sue stesse fondamenta: il lavoro, la natura, i legami sociali e persino l’idea di comunità politica. Il capitale trasforma il collasso in strategia, fa della precarietà la norma e gestisce la catastrofe come se fosse uno stato naturale delle cose. La sua agonia è lunga e violenta e intende trascinare con sé l’intera umanità. Ciò che si annuncia non è solo l’esaurimento di un modello economico, ma la fine di una razionalità storica: quella che identificava il progresso con l’accumulazione infinita. E quali contromisure individua in quello che per molti è l’emergere di un mondo multicentrico e multipolare, dal quale, tuttavia, non emerge una chiara visione prospettica come invece accadeva nel secolo scorso, quando una buona parte del mondo credeva nella speranza del comunismo? Il mondo multipolare è già un dato di fatto, ma non è ancora un orizzonte. Multipolarità significa diversificazione dei centri di potere, indebolimento dell’egemonia assoluta degli Stati Uniti, emergenza di attori come Cina, India o Russia. Ma questo non equivale a un’emancipazione. Nel XX secolo, anche in mezzo a guerre e contraddizioni, la speranza comunista offriva una narrazione di futuro, una bussola collettiva. Oggi il multipolarismo appare più come un negoziato tra potenze che come un progetto per l’umanità. Detto questo, ai margini, nei movimenti sociali del Sud del mondo, nelle resistenze femministe, indigene ed ecologiste, si insinua un’altra logica: quella di una vita che non si misura in base al profitto, ma alla cura. È qui che risiede, ancora in nuce, una prospettiva di speranza. Parliamo della crisi dell’Europa, a partire da quella del sistema politico francese, ora immerso in una nuova e probabile caduta del governo. Qual è la sua analisi delle forze in gioco e delle possibili soluzioni? La Francia incarna, in modo particolarmente evidente, la crisi politica europea. La V Repubblica, progettata per garantire stabilità, è diventata un regime bloccato, incapace di produrre legittimità. Macron governa con arroganza tecnocratica, ma anche con un vuoto di progetto: non parla alla società, ma ai mercati e a Bruxelles. Questa disconnessione spiega la rabbia sociale, la frammentazione della sinistra e l’ascesa dell’estrema destra. L’Europa vive in Francia il suo specchio rotto: istituzioni che non rappresentano più, popoli che non si sentono ascoltati, società che cercano soluzioni nella protesta o nel voto di protesta. La vera soluzione richiederebbe una rifondazione democratica dal basso, ma quell’orizzonte non riesce ancora a organizzarsi politicamente. La Francia è il motore del riarmo europeo, il paese che porta avanti il maggior numero di progetti finanziati dal Fondo Europeo di Difesa (FED), e l’Italia di Giorgia Meloni sta seguendo la stessa strada, la Germania si sta riarmando, e i paesi baltici non sono da meno. L’Unione Europea può essere solo quella del complesso militare-industriale, eternamente subalterna agli Stati Uniti? E quali conseguenze può avere nel quadro dei conflitti attuali? Il riarmo europeo è il sintomo più evidente della subordinazione del continente agli interessi strategici degli Stati Uniti. Francia, Germania, Italia o i paesi baltici non si stanno riarmando per difendere un proprio progetto, ma per rafforzare il complesso militare-industriale sotto la tutela della NATO. L’Europa investe in armi ciò che nega alla coesione sociale, all’istruzione o alla transizione ecologica. Questo squilibrio rivela una scelta storica: essere un campo di scontro e non un attore di pace. Con ciò, l’Europa non solo si militarizza, ma diventa anche irrilevante come progetto di civiltà. Abdicando a una politica estera autonoma, rinuncia alla sua possibilità di offrire al mondo un’altra razionalità che non sia quella della guerra. La crisi delle democrazie occidentali sta mostrando due fenomeni in crescita: il disincanto dell’elettorato (soprattutto di sinistra) e l’aumento dei partiti xenofobi e di estrema destra, apparentemente i meno inclini a usare le “maniere forti” a livello geopolitico. Come si è arrivati a questo cortocircuito e come si esce da una trappola del genere? Il cortocircuito delle democrazie occidentali ha radici profonde. Per decenni, la socialdemocrazia e buona parte della sinistra hanno accettato il neoliberismo come quadro inevitabile. In quel momento si è consumato il tradimento: milioni di lavoratori, di giovani, di settori popolari si sono sentiti privati di una reale rappresentanza. L’estrema destra si è quindi insediata come l’unico discorso di rottura, offrendo identità chiuse, sovranità fittizie e sicurezze illusorie. È una narrazione povera ed escludente, ma si collega al dolore sociale di coloro che hanno visto i loro diritti spazzati via. La via d’uscita non può consistere nell’imitare questa narrazione, ma nel ricostruire un orizzonte di emancipazione: ridistribuzione radicale della ricchezza, democrazia partecipativa, internazionalismo, giustizia sociale ed ecologica. In altre parole, restituire alla politica la capacità di dare un nome al futuro. Mentre si sfilaccia la possibilità di un’alternativa anticapitalista, o di una democrazia avanzata (quello che è stato chiamato “il rinascimento latinoamericano” dopo la vittoria di Chávez alle presidenziali in Venezuela), si intravede la minaccia di una nuova internazionale fascista, con varie modulazioni. Il “modello” europeo si sta imponendo anche in America Latina? Il ciclo progressista latinoamericano, che alcuni hanno chiamato “rinascimento” dopo la vittoria di Chávez nel 1998, ha aperto un orizzonte inaspettato in mezzo al dominio neoliberista: la possibilità di una democrazia avanzata, popolare, inclusiva, con sovranità e giustizia sociale. Tuttavia, questo slancio iniziale ha trovato rapidamente limiti e resistenze: sabotaggio economico, colpi di stato soft, guerra mediatica e anche le contraddizioni interne dei processi stessi. In questo vuoto riemerge un pericolo che credevamo debellato: un’internazionale fascista con molteplici volti – religiosi, neoliberisti, militaristi – che opera in rete e con una forte ispirazione europea. L’America Latina, che tante volte è stata laboratorio di emancipazione, corre il rischio di esserlo anche di nuove forme di autoritarismo. La battaglia attuale è quella di impedire che questa razionalità escludente si imponga come norma e di recuperare l’audacia di immaginare un progetto storico proprio. Che analisi fa del “laboratorio Venezuela” alla luce dei nuovi attacchi imperialisti alla rivoluzione bolivariana, ma anche dal punto di vista delle forze di trasformazione? Come si inserisce questo “esperimento” nella storia del marxismo? Il Venezuela continua a essere il grande laboratorio politico della nostra epoca. Lì si sta cercando di fare qualcosa che il sistema globale non tollera: combinare democrazia partecipativa, sovranità nazionale e ridistribuzione sociale sotto un orizzonte socialista. Per questo le aggressioni non si fermano: blocco, sanzioni, asfissia economica, campagne di delegittimazione. Ma anche lì si sono viste le forme più creative di resistenza popolare: le comuni, l’autogestione, l’idea di un potere dal basso. Nella storia del marxismo, l’esperienza bolivariana rappresenta un tentativo di attualizzazione: non ripetere dogmi, ma innestare la tradizione emancipatrice nelle realtà latinoamericane, con Bolívar, con Chávez, con i popoli indigeni e con la memoria insorgente del continente. È un processo incompiuto e pieno di tensioni, ma è anche la prova che il marxismo non è morto: muta, si reincarna, cerca nuove sintesi. Gli apparati ideologici di controllo sono sempre più sofisticati. Alla guerra di IV e V generazione, si accompagna la guerra cognitiva, come vediamo con il genocidio in Palestina – il genocidio più teletrasmesso e al tempo stesso il più nascosto – ma anche con l’aggressione al Venezuela. Eppure, vediamo anche che, con l’arrivo di Trump, l’attacco ai settori popolari e alle visioni che li hanno voluti rappresentare nel secolo scorso (il socialismo e il comunismo) è diretto e frontale. Come dobbiamo interpretare tutto questo? Viviamo in un’epoca in cui la dominazione non si esercita più solo con armi ed eserciti, ma con narrazioni e dispositivi di controllo mentale. La guerra di quarta e quinta generazione, la cosiddetta “guerra cognitiva”, consiste nel modellare le percezioni, fabbricare consensi, naturalizzare le ingiustizie. La Palestina è il caso più brutale: un genocidio trasmesso in diretta e, al tempo stesso, nascosto sotto strati di manipolazione mediatica. Lo stesso accade con il Venezuela e con ogni processo che sfida l’ordine imperiale. Il trumpismo e fenomeni simili in altre latitudini non fanno che mettere a nudo questa logica: l’attacco frontale ai settori popolari e alle memorie di emancipazione (il socialismo, il comunismo, le lotte operaie, femministe o anticoloniali). L’obiettivo è estirpare l’idea stessa di alternativa. Il nostro compito è esattamente il contrario: preservare la memoria, sostenere le resistenze e mantenere viva l’immaginazione politica di un altro mondo possibile. A 100 anni dalla nascita di Fanon, di Malcolm X e di Lumumba, il Sud del mondo, la Palestina e l’Africa in particolare (penso soprattutto al Sahel) hanno ancora bisogno del loro messaggio? Ha ragione il socialismo bolivariano a puntare sulla possibilità di costruire oggi l’uomo e la donna nuovi senza distruggere ciò che lo impedisce? O bisogna tornare al machete? A un secolo dalla nascita di Franz Fanon, Malcolm X e Lumumba, il loro messaggio è ancora essenziale. Fanon ci ha insegnato che la colonizzazione non occupa solo territori, ma anche coscienze, e che la liberazione deve essere materiale e psicologica allo stesso tempo. Malcolm ha incarnato la dignità radicale contro il razzismo strutturale. Lumumba ha simboleggiato la sovranità africana in un mondo diviso in blocchi. Oggi, in Palestina, in Africa e nel Sud del mondo, queste lezioni sono vitali: senza emancipazione culturale, non c’è emancipazione politica. Il socialismo bolivariano, parlando dell'”uomo e della donna nuovi”, riprende questa tradizione: quella di trasformare l’essere umano nel processo stesso della lotta, non dopo. Non si tratta di “tornare al machete” come pura violenza, ma di riconoscere che nessun progetto emancipatorio può fiorire senza smantellare i dispositivi di oppressione che lo soffocano. La sfida rimane la stessa: liberare l’essere umano nella sua totalità.   Geraldina Colotti
“Il Venezuela è speranza, non una minaccia”
Intervista a Luciano Vasapollo. Il Venezuela, patria di Simón Bolívar e della rivoluzione chavista, è da oltre vent’anni nel mirino delle potenze imperialiste e delle oligarchie locali. Dalla presidenza di Hugo Chávez fino all’attuale guida di Nicolás Maduro, ogni tentativo di riscatto sociale e indipendenza energetica è stato ostacolato da […] L'articolo “Il Venezuela è speranza, non una minaccia” su Contropiano.
Come gli USA hanno inventato un traffico di droga per potenziale attacco contro il Venezuela
Improvvisamente, dal nulla, le agenzie governative statunitensi hanno cominciato a ripetere il nome “Tren de Aragua” come se fosse la nuova al-Qaeda. A gennaio 2025, la Casa Bianca ha designato il Tren de Aragua come “organizzazione terroristica straniera”, e a marzo l’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump ha invocato l’Alien […] L'articolo Come gli USA hanno inventato un traffico di droga per potenziale attacco contro il Venezuela su Contropiano.
USA: SCONTRO TRA GIUDICI FEDERALI E PRESIDENZA, L’ULTIMA PAROLA SPETTERÁ ALLA CORTE SUPREMA. L’INTERVISTA A MARTINO MAZZONIS
Giornata no per Donald Trump: dopo la bocciatura dei dazi dei giorni scorsi, oggi con due voti a favore e uno contrario, una corte d’appello federale della capitale statunitense ha reintegrato Rebecca Slaughter, commissaria della Federal Trade Commission (FTC) nominata da Biden e licenziata dal Tycoon, La Corte ha giudicato illegale il suo licenziamento, ma la Casa Bianca ha già dichiarato che presenterà ricorso alla Corte Suprema. Tuttavia, nell’ordinanza della Corte d’appello, si legge che “è improbabile che il governo vinca in appello perché qualsiasi sentenza a suo favore da parte di questa Corte dovrebbe sfidare i precedenti vincolanti, pertinenti e ripetutamente preservati della Corte Suprema” E non solo. Una Corte d’appello federale ha inoltre stabilito che l’uso del contestato Alien Enemies Act – il decreto voluto da Trump per deportare più rapidamente presunti membri di gang venezuelane – è illegale e ne ha bloccato l’uso in diversi stati del sud degli Stati Uniti. Secondo il giudice, Trump non può utilizzare una legge di guerra del 1798, invocata per la prima volta a marzo, per portare avanti il proprio piano di espulsioni in Texas, Louisiana e Mississippi. Infine l’ambasciatore americano Matthew Whitaker presso la NATO, ha bocciato la contabilità creativa degli stati dell’Unione Europea e anche l’Italia: il ponte sullo stretto di Messina non potrà essere pagato con i fondi NATO, ha detto l’ambasciatore. Su questi temi abbiamo intervistato il giornalista e americanista Martino Mazzonis. Ascolta o scarica