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Il romanzo e il saggio protagonisti dell’ultimo giorno di Bookcity
L’avventura di Multimage a Bookcity si è conclusa felicemente domenica 16 Novembre con una doppia presentazione di libri presso il Centro di Nonviolenza Attiva. Accolti da Giovanna Silvestro che ha svolto il ruolo della padrona di casa del Centro sono giunti nel pomeriggio Marco De Palma e Antonio Minaldi che hanno dialogato con Olivier Turquet e col numeroso pubblico che ha sfidato la fastidiosa pioggia che ha caratterizzato tutta la giornata milanese. Marco De Palma Lungo i sentieri della conoscenza e dell’empatia presentava il suo libro La Riserva, un romanzo basato su una relazione padre figlio ma anche un buon pretesto per parlare del tema della crisi e del senso della vita; presentazione allietata da interessanti letture di brani del libro. Antonio Minaldi ha dialogato con Olivier Turquet anche per l’assenza del suo presentatore, Andrea Fumagalli, impedito a venire da un’influenza. Minaldi presentava due antologie di scritti politici che derivano dall’intenso lavoro di seminari che a Palermo porta avanti il Caffé Filosofico e Letterario, insieme di attivisti e studiosi siciliani: Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo, libro di critica dello stato attuale delle cose e Occupare L’utopia che invece riflette sulle soluzioni possibili. Grazie alle domande e all’interazione del pubblico Minaldi ha potuto chiarire la sua visione della nonviolenza necessaria e la lucida critica alla sinistra presa nella trappola del potere. La soluzione sta nel mettere in atto un processo di liberazione che è sia personale che sociale, prendendo spunto dal femminismo e dal femminile che è dentro ognuno di noi. Ne è seguito un interessante interscambio tra i presenti sulle attuali difficoltà della partecipazione politica e dell’interpretazione degli eventi. Redazione Milano
Multimage presenta a Bookcity la collana “Umanesimo Universalista”
Nell’ambito di Bookcity 2025, sempre più ricchissima manifestazione che invade pacificamente Milano di libri e cultura, la Multimage ha presentato la sua nuova collana dedicata all’Umanesimo Universalista. L’hanno fatto, al Centro di Nonviolenza Attiva, Annabella Coiro e Olivier Turquet presentando il primo volume della nuova collana, un grande classico umanista, il libro di Silo Umanizzare la Terra. Annabella Coiro, che è stata fin dagli anni ’90 coinvolta nelle edizioni dei libri di Silo ed anche a nome del Centro di Nonviolenza e della sua Biblioteca ha introdotto la presentazione e fatto domande a Olivier Turquet di Multimage. Olivier Turquet, nella sua qualità di coordinatore dell’area editoriale di Multimage ha spiegato il senso di ripubblicare questo libro che già vanta numerose edizioni in italiano a partire dal 1988; ripubblicarlo in una edizione più accurata e dopo una revisione del testo effettuata dall’équipe di traduttori di Silo che da anni lavora a perfezionare la traduzione dell’opera dell’ispiratore del Movimento Umanista. La collana Umanesimo Universalista sottolinea la peculiarità di questo umanesimo riferito a Silo e ai suoi collaboratori che hanno sviluppato, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, una complessa visione dell’Essere Umano e un progetto di trasformazione radicale dell’individuo e della società. Un pubblico attento e partecipe, disposto in cerchio secondo i criteri della nonviolenza, ha fatto domande, letto pezzi del libro in prosa poetica che ha ispirato tante persone in tutto il mondo. Redazione Milano
Multimage a Bookcity. Le porte dell’arte: i musei, luoghi di cultura e costruzione di pace
Bookcity 2025, il tema proposto questa “Il potere delle parole / le parole del potere”. Mi sembra appropriato pensando all’incontro che si è svolto il 14 novembre al Centro Nonviolenza Attiva (via Mazzali 5, Milano). Melina Scalise (Casa Museo Tadini, membro del Tavolo della Nonviolenza del Municipio 3-Milano) ha conversato con Gianmarco Pisa autore de “Le porte dell’arte. I musei come luoghi della cultura tra educazione basata negli spazi e costruzione della pace”. Gianmarco (Formatore e operatore di pace, impegnato in iniziative e in progetti di ricerca-azione per la trasformazione dei conflitti, nell’ambito di IPRI-CCP) ha cercato innanzitutto di chiarire la definizione di Museo. Secondo ICOM (Consiglio Internazionale dei Musei) nel 2022 un Museo é “un’istituzione permanente, senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, promuovono la diversità e la sostenibilità”. Quando parliamo di Museo della Pace ritroviamo l’istituzione “senza scopo di lucro, pubbliche, inserite nell’ambiente circostante, al servizio della comunità, custodi di beni culturali creativi, interrativi per l’educazione, la riflessione, la conoscenza”. Pensiamo al Museo della Pace di Bradford. E’ l’unico museo del Regno Unito dedicato alle storie e ai movimenti per la pace. Fondato nel 1994, esplora la storia non raccontate degli operatori di pace delle riforme sociali con un’ampia collezione di documenti originali, tra cui poster, libri, articoli, bandiere, dipinti, cartoline e filmati legati ai movimenti e all’obiezione di coscienza. Quando ci riferiamo invece a un Museo della Guerra deve essere chiaro che ci troviamo difronte a un’istituzione che raccoglie, conserva, studia ed espone testimonianze materiali. Discorso ben diverso è quello del Museo della guerra per la pace “Diego de Henriquez” a Trieste. non è solo quello di conservare reperti bellici, ma è un’espressione del desiderio di trasformare la tragica esperienza della guerra in un monito per educare alla pace. La sua collezione include armi, divise e mezzi risalenti da varie epoche, con un focus particolare sulla Prima e Seconda Guerra Mondiale e sulla storia di Trieste. L’intento del fondatore era di usare questi oggetti per promuovere la cultura della pace, collegando la storia della città alle vicende belliche che l’hanno segnata. Esistono Musei che non sono propriamente “della Pace” ma hanno tutta una serie di caratteristiche che li portano a essere tali. Pensiamo al Museo Olimpico a Sarajevo (le Olimpiadi invernali del 1994), che non è propriamente un Museo di Pace ma rispecchia il valore dello sport nel promuovere i valori olimpici e i diritti umani. Sempre a Sarajevo il Museo della letteratura e del Teatro della Bosnia-Erzegovina che raccoglie opere da parte di tutte le etnie della regione. E le nuove tecnologie? Possono costituire una risorsa. I musei possono utilizzare ChatGPT per generare didascalie per le mostre, fornire informazioni degli oggetti esposti ai visitatori, creare cataloghi. MART (Museo di Arte moderna e contemporanea di Trento e di Rovereto) é un museo interattivo ed educativo rappresenta un vero e proprio “paesaggio contemporaneo” ospita opere dei maggiori artisti dell’arte italiana del XX secolo. Museo letteralmente vuol dire “luogo delle Muse”, “luogo delle arti” che dovrebbe ben inserire nel contesto dove sorge (la via, la piazza, quei luoghi aperti dove ci si incontra e si creano rapporti tra esseri umani. Una piazza non è solo quello spazio più ampio dove iniziano o concludono le varie vie, Una piazza con un monumento è quel luogo da dove alla memoria della storia si incrocia la memoria individuale, la memoria sociale. Luoghi di cultura, spazi di memoria, relazioni umani: tutto importante per creare percorsi di costruzione di pace. Foto Multimage: Tiziana Volta
Qualche appunto su “Gandhi ad Auschwitz”
Il libro di Antonio Minaldi (uno dei leader storici del Movimento studentesco a Palermo egli anni Settanta) è, com’egli stesso dice. il frutto di un percorso che l’ha portato dall’idea che la violenza fosse accettabile ad un suo rifiuto. La sua ‘trasformazione’ mi pare bella, coraggiosa, onesta, totalmente apprezzabile. Vorrei evidenziarne alcuni passaggi che condivido e poi anche altri che mi risultano problematici.   Passaggi notevoli  Nel libro trovo alcuni principi-cardini della nonviolenza. Innanzitutto trovo molto opportuno inserire la trattazione della nonviolenza quale modalità di relazione fra gli esseri umani nel quadro più complessivo delle «quattro forme di dominio, dell’umanità sulla natura e sugli animali, e poi all’interno stesso del consesso umano, dell’uomo sulla donna e sull’uomo stesso» [25]. Altrettanto opportuni i chiarimenti tendenti ad evitare delle rappresentazioni parossistiche se non caricaturali della nonviolenza: «credo che anche il militante nonviolento non possa non accettare (per esempio) il principio del diritto alla “legittima difesa” [29-30]». O sulla stessa tematica: «Quando ogni ragionevole limite di sicurezza e di integrità personale e collettiva viene messo in discussione, la scelta non può che riferirsi a se stessi o al proprio gruppo di appartenenza, ma non può costituire motivo di giudizio negativo nei confronti di quanti dovessero adottare, nell’esercizio del legittimo diritto di resistenza, modalità di lotta e di difesa che prevedono un qualche esercizio della forza (anche armata), purché quest’ultimo sia messo in atto in comprovate  condizioni di stretta necessità e secondo un criterio di minimizzazione del danno» [30-31]).   Tasselli mancanti Sarei stato altrettanto lieto di trovare altre precisazioni che, se non mi sono sfuggite, mancano. Innanzitutto non mi è chiaro in cosa, secondo lui, consista, concretamente, la nonviolenza. Se non sbaglio, non ne viene data una definizione. Indicativo mi sembra il fatto che non si faccia mai riferimento a pratiche concrete di nonviolenza: oltre al caso ipotetico di un Gandhi «che si stende sui binari per fermare i treni che portano gli ebrei verso il campo di sterminio» [20], e su cui sono spese parole di nuovo per me condivisibili – cioè «Gandhi (o chi per lui, posto che abbia la stessa visibilità), che si immola di fronte alla barbarie nazista, sarebbe diventato un monito etico dal valore universale e caratterizzato da una estrema potenza evocativa da consegnare come fulgido esempio ai tempi futuri e alle future generazioni» [28] – viene citato solo, e una sola volta, il «paradigma della disubbidienza civile, come “arma disarmata”, che diviene il dato che materializza ogni lotta di resistenza e di opposizione e che prende il posto di qualunque tentazione violenta o armata»).  Effettivamente, se ci si ferma a questo, se la teoria (e la pratica) della nonviolenza fosse tutta qui – nessun riferimento alla ‘curvatura’ dell’ahimsa, che è astensione dall’offendere, nella direzione del satyagraha, che è la “forza della verità” (verità intesa come volta all’ascolto e riguardosa anche della parte con cui si confligge), l’impressione di restare ancora troppo alla superficie, al piano generale che tende a diventare generico, sarebbe davvero invincibile. Ci si potrebbe chiedere – naturalmente con tutto il sincero rispetto possibile e immaginabile nei confronti dell’autore, di cui è preziosa la testimonianza di entusiasmo per la scoperta della nonviolenza – se il libro non avrebbe guadagnato in chiarezza e condivisibilità se fosse stato edito dopo un più lungo e meditato periodo di maturazione.   Un caso cruciale: Israele vs. Palestina L’impostazione data da Minaldi alla più volte richiamata questione, tragica e attuale, “Israele-Palestina” rispetto a quella ‘normalmente’ filopalestinese tout court, costituisce forse una buona cartina di tornasole per vedere quanto essa si distingua dal pensiero non-nonviolento. Sostanzialmente, mi pare, le sue pagine obiettano a chi approva il ricorso alle armi da parte di Hamas che la nonviolenza ‘conviene’: «d’altra parte va considerato che l’altra sola possibile via che porta alla sconfitta dell’aggressore è quella di tipo militare. Una possibilità che si presenta comunque fattualmente difficile, visto che in genere l’oppressore e dominante è anche colui che è militarmente più forte. Ma poi soprattutto perché la sconfitta della violenza armata attraverso le armi, per la sua stessa intrinseca contraddittorietà, quasi mai produce in termini di pace, i frutti sperati» (p. 43). È una obiezione non di poco rilievo, ma avrebbe bisogno di una indispensabile esplicitazione delle possibili dinamiche concrete dell’alternativa alla reazione militare.  Se tali esplicitazioni non si offrono, mi pare che si presti il fianco a un’obiezione che circola insistentemente: “Concretamente, alla luce della nonviolenza, cosa possono fare i palestinesi?”. Per non risultare anch’io elusivo mi corre l’obbligo di accennare – sia pur rapidamente – alla risposta che darei alla citata domanda: i palestinesi possono rendere chiaro all’avversario il fatto di voler essere disarmati (senza combattere neanche con le pietre). E rendere chiaro ciò significa impegnarsi nel mostrare senza possibilità di equivoco che si ha fermo rispetto e anzi, meglio, riguardo per lui; che la propria rinuncia all’uso della violenza è dettata non da paura o da impotenza o da tattica dovuta alla situazione di inferiorità in cui ci si trova, bensì da precisa scelta, dunque dal coraggio di non volere fargli alcun male, né sul piano fisico né su quello verbale né su quello psicologico, e di ricercare il suo ascolto e il dialogo con lui, e di essere fermamente disposti a soffrire anche unilateralmente per questo. È qui che l’ahimsa si fa satyagraha. E questo, anche tra i palestinesi, a livello di massa, non è stato quasi mai attuato: piuttosto, tra loro, è stata realizzata una tendenziale assenza di violenza per inferiorità di forze o una violenza ‘a bassa intensità’ del tutto inefficace sul piano concreto nella prima intifada che aveva solo valore simbolico di (dignitosissimo) coraggio (nel senso ordinario del termine) e di non accettazione dell’oppressione, ma non di coraggio nonviolento. È stata purtroppo attuata anche una violenza (quella che chiamiamo terroristica) contro i civili, uguale e contraria ancorché di proporzioni moltissimo differenti, a quella di Israele (che va chiamata un terrorismo allo stesso modo terroristica, ancorché si tratti – e questa è un’aggravante – di terrorismo di Stato). Invece, è la comunicazione, in parole, comportamenti e atteggiamenti, della scelta che rassicura l’avversario che non ha, né avrà, alcun motivo di ricorrere alla violenza, a disarmarlo per sua stessa persuasione (e a ottenere il favore di tutta l’opinione pubblica internazionale). La nonviolenza è una teoria della comunicazione, è un’arte della buona comunicazione, del creare comunità – anche quando confligge. È solo a questo punto, e in quest’ottica, che, nel caso che l’avversario intendesse ricorrere alla violenza – ormai non più per difendersi dal contrattacco (violento) dei palestinesi (che a loro volta si stanno difendendo) ma per imporre il suo dominio (occupazione, imposizione di leggi etc.) – che entra in azione la disobbedienza civile e, ancor prima, la noncollaborazione ed altre forme di lotta, sempre rispettose, riguardose, coraggiose, che la storia della nonviolenza fa conoscere (per es., ma non solo, ad opera di Gene Sharp) e che la creatività permette di incrementare ulteriormente. Senza queste esemplificazioni concrete il discorso di Minaldi rischia di restare tutto interno al paradigma “dicotomico” (troppo incidentalmente problematizzato qua e là nel testo). Mi limito ad una citazione, in cui peraltro è utilizzato pienamente il linguaggio bellico (che metto in corsivo): «Se dunque io voglio formulare giudizi che riguardino il presente e non solo fatti passati in giudicato dalla storia, in modo che il mio dire abbia valore non solo valutativo, ma anche performativo, io devo necessariamente trascendere la flemma dello storico e prendere partito. Per tornare ai nostri esempi, se “Il nazismo è stato sconfitto”, si dà invece il caso che “Israele deve essere sconfitto”. Questa circostanza mi impone il dovere di schierarmi, secondo quello che mi detta la mia coscienza e l’insieme delle opinioni che ho maturato rispetto alla vicenda in corso. Un dovere che si presenta come non facile (ma che è comunque necessario), per chi ha fatto della nonviolenza una scelta etica ed esistenziale, specialmente in una situazione in cui vi è un confronto tra forze armate. Uno scontro tra l’uso illegittimo della forza perpetrato da parte dell’aggressore, portatore di morte e di distruzione, e l’uso della forza da parte di chi reagisce ad un atto di imperio, che, come abbiamo visto, deve essere considerato legittimo anche da parte di chi è schierato, in senso etico e in linea di principio, contro l’uso della violenza. Una necessaria presa d’atto della possibilità di usare la forza lasciata alla scelta di chi subisce, in nome della legittima difesa e del diritto di resistenza. In queste circostanze di confronto estremo non si può eludere la questione dei mezzi necessari (purché pur sempre leciti) per giungere, in nome del bene e della giustizia, ad una conclusione positiva, a cui si può pervenire solo con la sconfitta chiara e definitiva dell’aggressore» [41-42]. Ho riportato con ampiezza le parole di Minaldi per evidenziare come, a mio parere, resti forte una visione dicotomica del mondo e orientata non alla soluzione quanto più possibile condivisa del conflitto ma alla sconfitta dell’Altro: una parte ha ragione e deve vincere, l’altra ha torto e deve perdere; l’alternativa presupposta è tra «la flemma dello storico» (= equidistanza) e il «prendere partito», senza che sembri possibile altra strada: l’equivicinanza – categoria pratica particolarmente appropriata alle Terze parti (quali noi, non palestinesi e non abitanti in Palestina, siamo) – è ignorata.   La vicenda del Sudafrica Dei processi attuati dal Sudafrica di Mandela (e Tutu), nella transizione dall’apartheid alla vita successiva, l’autore offre una rappresentazione che non mi sembra condivisibile. Infatti non mi risulta che la “Commissione per la verità e la riconciliazione£ (che Minaldi non nomina neppure) avesse come scopo il «biasimo collettivo» [45] come colpa da espiare: questo sarebbe un concetto (socialmente) penale e non riparativo. La Commissione mirava, piuttosto, alla narrazione delle “verità” (=dei punti di vista, delle interpretazioni) dei carnefici e soprattutto delle vittime, per le vittime: il riconoscimento e l’assunzione di responsabilità dei crimini commessi – dall’una e dall’altra parte in conflitto. Sono stati questi fattori a permettere la riconciliazione.   La gestione dei sentimenti A proposito di ciò che si prova nei confronti dell’avversario – e del linguaggio conseguente che si adotta, spesso di odio – l’autore scrive: «Un sentimento si prova e basta. Chiedersi se sia giusto o lecito provarlo non ha alcun senso. Chiedersi poi se sia ammissibile manifestarlo pubblicamente è cosa che mette in gioco un numero talmente alto di variabili che non credo sia possibile, e forse neppure utile, arrivare a stabilire delle regole generali» [48]. Mi chiedo se sia costretti a scegliere fra due sole possibilità: giudicare i sentimenti (dunque stabilire se sia giusto o meno provarli) oppure lasciarli manifestare pubblicamente, quali che siano (cioè anche se sono di carattere distruttivo). Non esiste forse una terza possibilità, che è la via della nonviolenza, consistente nel prendere atto dei propri sentimenti ed educarsi incanalarli in direzione costruttiva? Che io avverta “aggressività” nei confronti di un essere che minacci me o persone o oggetti a me cari è fisiologico, inevitabile, funzionale alla mia sopravvivenza: trasformare questa “aggressività” psicologica in aggressione, in violenza o in opposizione ferma e coraggiosa, riguardosa, nonviolenta, questo invece appartiene alla sfera delle opzioni culturali.   La nonviolenza è una “scienza” Mi auguro, in conclusione, che questo libro-testimonianza segni l’inizio – e non la conclusione – di un percorso. La nonviolenza è una scienza (sociale), su cui ormai esistono molti libri di studiosi che ne hanno analizzato le pratiche e organizzato la teoria. Una delle più apprezzate esponenti di questa prospettiva è Pat Patfoort che non a caso, nel suo Costruire la nonviolenza (La Meridiana,  Molfetta 1992, 47),  ha messo bene in luce un atteggiamento, purtroppo, diffuso: le persone possono tranquillamente dire una frase come «non ho mai studiato il greco o l’informatica, perciò non so niente di greco e di informatica; non ho mai studiato la nonviolenza ma credo di essere nonviolento». ANDREA COZZO Redazione Palermo
Alzheimer, quello che si può fare. Intervista a Silvia Nocera
Il 5 ottobre, al Cineteatro di Adrara San Martino (BG) – con il Patronicio del Comune, della Biblioteca comunale, di Pressenza Italia, di Multimage, del Centro Famiglia Sebino, del Centro Il Passatempo e dell’Ambito Monte Bronzone Basso Sebino di Comunità Montana dei Laghi Bergamaschi – è stato presentato il libro  “AAA cercasi memoria perduta. L’avventura interiore di chi accompagna  una persona cara affetta da Alzheimer (o da una delle altre forme di  demenza)” in presenza della scrittrice Silvia Nocera. Questo libro è un po’ un compendio, sfugge alle categorie ed è rivolto a chi, per una ragione o per un’altra, vuole sapere, vuole capire, vuole avere delle informazioni su cosa accade quando una forma di demenza bussa alla porta. I frammenti di vita e di conoscenze contenuti in questo testo possono dare un’idea dell’avventura interiore di chi affronta questo male epocale, celebrando la profonda umanità di chi ne è affetto. Cosa si può fare di fronte all’Alzheimer? A questo interrogativo rispondiamo con Silvia Nocera, nata a Firenze nel 1968, scrittrice, filosofa umanista, educatrice e traduttrice freelance. Da sempre impegnata nel superamento della sofferenza personale e sociale, è stata Responsabile dello sviluppo italiano dell’Associazione Centro delle Culture fino al 2007. Aderente alla corrente filosofica del Nuovo Umanesimo Universalista del filosofo argentino Mario Luis Rodriguez Cobòs (detto Silo), è stata membro attivo del Movimento Umanista in diversi progetti di cooperazione umanitaria in Senegal e Perù, dove ha vissuto per dieci anni. Dal 2009 è Messaggera di Silo. Giornalista di Pressenza Italia, raccoglie i suoi pensieri e i suoi scritti sul sito silvianocera.net. E’ autrice di molteplici libri sui temi della sofferenza umana e della discriminazione, con Multimage – Casa Editrice dei Diritti Umani ha scritto: “A proposito di Errore. Saggio quasi serio e quasi saggio”, “Didi e l’amore eterno”, “Oltre la soglia”, “Segnali dal mondo dei significati”, “Gli  eletti e l’essenza della discriminazione”, “Nove storie”. Con Pressenza Italia ha prodotto il documentario Non Ti Scordar di Me, regia di Eric Souqi, sul tema dell’Alzheimer. Come è nata l’esigenza di scrivere questo libro? Quando nostra madre ha ricevuto la diagnosi di Alzheimer ho letto tutto quello che ho potuto per documentarmi su questa patologia. Con mia sorella abbiamo trovato molta letteratura medica diretta ai caregiver, su consiglio della nostra geriatra e cercando sui siti delle associazioni create dai parenti che spesso producono molto materiale divulgativo. Erano descritte chiaramente le fasi della malattia e tutti i tipi di disturbi che la possono accompagnare, sempre con la consapevolezza che ogni caso ha le sue particolarità. Cerano anche molti suggerimenti su come accudire un malato di Alzheimer, su come era meglio comportarsi nell’assistenza. Poiché nella pratica quotidiana sperimentavamo molte difficoltà a seguire sempre quei suggerimenti, ho cercato della letteratura testimoniale, per passare dal dire al fare con le esperienze dei familiari. Comprendo profondamente la necessità dei parenti di integrare un’esperienza che, non posso mentire, è anche intensamente dolorosa. Anche io ho avuto e ho ancora l’esigenza di elaborare questo vissuto familiare. Ma spesso è stato difficile arrivare in fondo a quei libri, le cui pagine erano intrise di amarezza. Quando non è stato più possibile tenere nostra madre in casa, ho avuto un po’ di tempo per riflettere e ho pensato di selezionare tutti quegli esempi e aneddoti, alcuni dei quali decisamente graziosi, che mi erano serviti per comprendere meglio, da vicino, questa malattia, cercando di mettermi nel punto di vista di mia madre. Poi ho fatto una lunga intervista alla nostra geriatra e ho raccolto varie testimonianze brevi di persone che avevano avuto una esperienza significativa da portare. Così è nato una specie di manuale, utile spero per tutti coloro che iniziano questo percorso di accompagnamento di un essere caro affetto da demenza, ma anche per chi ha già concluso la sua esperienza o chi ha un interesse professionale. Si dice sempre che gli anziani stanno meglio a casa, in modo tale che non si disorientino e rimangano nel loro ambiente. L’isolamento vale per i malati di Alzheimer? L’isolamento sociale è veleno puro per i malati di Alzheimer. Per un anziano senza declino cognitivo, l’ambiente domestico è un perno fondamentale su cui innestare le proprie attività. La casa dove si è vissuti a lungo porta ricordi che accompagnano la naturale revisione della propria vita che si attiva nella terza età. Ma quando la memoria svanisce, quella casa, non più riconosciuta come la propria casa, può diventare come una prigione e i familiari sono i carcerieri. C’era un periodo in cui mia madre chiedeva spesso, dopo colazione: “Bene, e adesso andiamo a casa?”. Le mie spiegazioni non la convincevano. Una volta la presi e facemmo un lungo giro in macchina per rivedere tutti i luoghi che frequentavamo – il supermercato, il bar, il paese ecc.- che ancora ricordava ma, tornate a casa, quell’ambiente non coincideva con il suo ricordo. Ma alla fine vi si adattava. Quando la pandemia ci ha rinchiusi in casa, il declino cognitivo di nostra madre ha avuto un avanzamento esponenziale e, appena siamo state contattate dalla residenza (1) che aveva un posto libero, abbiamo deciso di portare lì nostra madre, per l’ultima tappa della sua vita. Dopo un mese di vita comunitaria e intensa stimolazione, era visibilmente ringiovanita e, quando siamo andate a trovarla la prima volta, voleva che noi restassimo con lei, lì alla residenza. Quando i malati di Alzheimer vanno tenuti a casa o in struttura? Ogni situazione ha le sue peculiarità, ma generalmente si può restare a casa nelle prime fasi della malattia, avendo cura, però di mantenere un’attività sociale che renda la giornata piena e soddisfacente. La soddisfazione produce uno stato di calma e rallenta il declino cognitivo, cosa che permette un uso minore di farmaci. Se la persona col declino cognitivo realizza atti che la fanno sentire utile o le riempiono il tempo piacevolmente, mantenendo le proprie autonomie o le particolari capacità, poi mangia e dorme bene, rallentando anche l’insorgere dei disturbi correlati alla demenza. Ci sono malati che entrano in apatia e vanno stimolati, altri che, al contrario, chiedono di fare sempre qualcosa, e in questo caso si devono trovare le attività giuste per loro. Con mia sorella ci siamo dedicate a creare un “universo” di attività intorno a nostra madre ed essendo da sempre in contatto con persone dedicate o interessate alla salute, anche con pochi soldi abbiamo potuto offrirle diversi tipi di interventi di stimolazione con professionisti (logopedia, ginnastica dolce, yoga) o gestendo direttamente noi o con amici delle semplici attività (cucina, colorare disegni pronti o mandala, cantare vecchie canzoni ecc.). Questo ci ha permesso di non dover mai dare né antidepressivi, né antipsicotici o benzodiazepine a nostra madre, ma la nostra vita si è trasformata nell’assistenza a nostra madre. Non sempre questo è possibile e, comunque poi si giunge a un limite in cui, anche tutti i nostri sforzi sembrano vani. Non tutte le strutture vanno bene, i malati di Alzheimer non si possono intrattenere giocando a carte o leggendo il giornale come gli anziani in genere. Si deve essere sicuri che ci sia un nucleo Alzheimer con personale formato ad hoc, ma se ci sono le condizioni adeguate, la struttura è una alternativa valida per evitare l’uso di farmaci che, se da una parte annullano dei sintomi, dall’altra accelerano il declino cognitivo. Quale è la differenza fra l’approccio del caregiver-familiare e del caregiver-professionale? Qui c’è una specie di paradosso con il tema della memoria. Il caregiver-familiare conosce in dettaglio la storia e le caratteristiche del paziente e si aspetta determinate reazioni nelle diverse circostanze. Ma il paziente cambia continuamente e spesso il familiare viene messo in crisi. Come il malato di Alzheimer non riconosce più i suoi familiari, anche i familiari si trovano di fronte una persona diversa e devono accettare i cambiamenti di gusti, di abitudini e di comportamento dei loro cari. Questo a volte è molto difficile. Dall’altra parte il caregiver-professionale, per poter stimolare adeguatamente il paziente e riconoscere le sue reazioni, avrebbe bisogno di conoscere il più dettagliatamente possibile la storia e le caratteristiche della persona da assistere. Anche questo a volte è difficile perché non tutte le famiglie riescono a documentare adeguatamente i professionisti. Questa memoria dell’essere caro, di cui si vorrebbe fare a meno come parenti a volte per non soffrire, è invece così importante per l’assistenza da parte degli operatori sanitari. Quali sono difficoltà più grosse nell’assistenza a casa in materia di disturbo comportamentale? La rabbia è il disturbo più comune ed evidente. Mia madre si rendeva conto di perdere pezzi della sua vita, delle sue capacità e noi comprendevamo la sua rabbia e, a volte, tristezza. Quando però la comunicazione verbale era ormai completamente compromessa, la rabbia a volte esplodeva e noi non eravamo sempre così presenti per comprenderne la causa scatenante. La rabbia può portare anche a comportamenti estremamente aggressivi, difficili da gestire. Qualche volta siamo riuscite e disinnescare l’escalation giocando ruoli clowneschi che, esagerando toni ed espressioni in modo teatrale, aiutavano a scaricare l’emozione e a trasformarla in catarsi positiva, in risata. Il wandering, il movimento afinalistico e continuo, è un altro disturbo che in alcune famiglie diventa presto insopportabile. I professionisti dicono di lasciare libero il paziente di andare e venire in continuazione senza mettere dei limiti, perché poi si scarica da solo. Certamente se si ha timore che il nostro caro finisca da solo per strada senza sapere dove è e dove andare, vanno prese delle precauzioni in modo che non possa uscire autonomamente e questo va progettato adeguatamente in ogni particolare situazione. La disinibizione è un altro disturbo molto complesso da gestire a casa perché tocca il nostro senso del pudore e ci lancia in un paesaggio primordiale in cui spesso gli escrementi entrano in gioco. Senza dubbio, se il malato è accudito in modo adeguato, riceve la sua stimolazione e vive in un ambiente armonioso, questi disturbi si presentano meno e in modo meno potente. A livello di politiche sociali, cosa si può fare a livello locale per migliorare la qualità della vita di questi pazienti e dare sollievo alle loro famiglie? La risposta è già stata sperimentata e si chiama: Centro Diurno dedicato ai pazienti con demenze. Questi centri devono avere spazi adeguatamente attrezzati per le attività e personale qualificato in proporzione di 1:3. Qualche anno fa a un alzheimerFest a Orvieto, durante una conferenza un relatore disse che questi centri funzionano perfettamente, perché il paziente, preso in carico già nelle prime fasi della malattia, sta fuori casa da mattina a sera, in un ambiente stimolante e adeguato in quanto attività e relazioni. Quando torna a casa dai familiari è scarico e soddisfatto e ciò determina un rallentamento della patologia degenerativa. Il problema è che sono estremamente costosi per la sanità pubblica e ne esistono un esiguo numero sul territorio nazionale. Per arrivare a costituire a livello locale dei centri di questo tipo, è necessario che le famiglie si ritrovino e comincino ad autorganizzarsi. Innanzitutto sono fondamentali i gruppi di mutuo aiuto, nei quali pazienti e familiari possono ritrovarsi, parlare e fare magari delle attività insieme. Un altro strumento efficace per far incontrare le famiglie e fare formazione pratica e on demand, sono i Caffè Alzheimer, momenti di incontro e convivialità con le famiglie, con la presenza di professionisti disponibili a spiegare gli elementi salienti di questa malattia e a dare suggerimenti per l’assistenza su richiesta specifica dei familiari presenti. I piccoli comuni, quelli che più facilmente possono costituire delle comunità di base, dare spazi e gestire fondi, possono poi organizzare veri e propri corsi di formazione per caregiver-familiari e/o professionali, in modo da rendere la comunità più consapevole e informata. A questo punto la creazione a livello locale di attività dedicate ai pazienti con demenze, non dovrebbe essere più così complessa e non sarebbe più utopica l’istituzione di centri diurni. I malati di una qualche forma di declino cognitivo hanno bisogno di una comunicazione chiara e coerente, attività soddisfacenti e adeguate alle loro caratteristiche e livelli di autonomia, un ambiente umano affettivo e armonioso. Lavorare per ottenere questo per i pazienti di Alzheimer è lavorare per un mondo diverso, accogliente e giusto.   (1) Residenza “Non ti scordar di me” (Castel Giorgio, Orvieto TR – www.benella.it) specializzata per malati di Alzheimer e demenze in generale.   Lorenzo Poli
Le parole per dire, le parole per trasformare. Multimage e la Casa Umanista al Salone del Libro di Torino
Moderati da Daniela Brina, attivista della Casa Umanista, quattro autori Multimage con le loro pubblicazioni più recenti, (Gianmarco Pisa, con il volume “Le porte dell’arte. I musei come luoghi della cultura tra educazione basata negli spazi e costruzione della pace”; Luca Sciacchitano, con “Il Pelecidio, perché è moralmente giusto criticare Israele”; Maria la Bianca, con la sua raccolta poetica “Con nome e cognome (quasi sempre l’amore)”; e, in collegamento online, Alessandra Ciattini, autrice del saggio “Sul filo rosso del tempo. Riflessioni su alcune ideologie contemporanee”) hanno animato il programma della grande rassegna libraria del Salone del Libro di Torino, con un vero e proprio evento, tenuto lo scorso 17 maggio presso la Casa Umanista, che ha avuto il pregio, anzitutto, di segnalare due interessanti caratteristiche. Intanto, come ha annunciato la presentazione dell’evento, è possibile costruire e attrezzare “un dialogo a più voci, tra diversi autori e autrici, per riflettere intorno alle inquietudini e alle contraddizioni del presente, e per condividere idee e ragguagli, sollecitazioni e proposte per la trasformazione, verso una dimensione pienamente umana dell’umano”. È possibile cioè sviluppare intorno a diversi temi e a partire da differenti punti di vista, una riflessione sulla costruzione del soggetto, sulla configurazione della dimensione di pienezza dell’umano, nella sua dignità e nella sua libertà, nel tempo presente, e sulle sfide epocali che espongono e minacciano, appunto, la libertà e la dignità umana. Sfide peraltro note, palesi, drammaticamente squadernate di fronte a noi: il ritorno della guerra, con tutta la sua distruttività, perfino su scala planetaria (al punto da poter parlare di una terza guerra mondiale diffusa sui più diversi scacchieri del quadrante mondiale); il ritorno della minaccia nucleare, che torna a gettare un’ombra sul destino dell’umanità e perfino, sulla sopravvivenza della vita umana sul nostro pianeta; l’affermazione del paradigma della guerra e del militare, pienamente attestato dalla drammaticità delle cifre (una spesa militare mondiale che si attesta, nel 2024, alla cifra astronomica di 2.718 miliardi di dollari, il livello più alto mai registrato e con l’incremento annuale più alto, +9.4%, dai tempi della Guerra Fredda; un piano di riarmo europeo spinto sino alla cifra esorbitante di 800 miliardi di euro; il programma di riarmo della Germania, che evoca pagine sinistre della storia europea e punta alla cifra iperbolica di 500 miliardi in 12 anni); sono tutti fattori che evidenziano il crinale che l’umanità si trova a percorrere oggi e la densità dei rischi e delle sfide con le quali è chiamata a cimentarsi. Ma poi anche una seconda caratteristica, non meno interessante: il confronto tra saggistica (Gianmarco Pisa, Luca Sciacchitano, Alessandra Ciattini) e poesia civile (Maria la Bianca), come possibilità di un dialogo ricco, fecondo e innovativo, che ha il pregio di spostare l’asse dell’indagine civile e politica dalla freddezza dell’argomentazione astratta al calore delle riflessioni e dei dialoghi, degli spunti e delle analisi corroborate dalle sollecitazioni che i versi possono indurre, dalle considerazioni che il dialogo può stimolare. E così, tra i temi, non poteva mancare uno sguardo sulla realtà contemporanea: ad esempio in relazione all’affermazione nel tempo presente della guerra come vero e proprio dispositivo, come strumento non solo di risoluzione violenta delle controversie internazionali e offesa alla libertà e alla dignità dei popoli (giusto il contrario, dunque, di quanto afferma l’art. 11 della nostra Costituzione), ma anche di riproposizione di una volontà di potenza e di dominio, risposta violenta alla sostanziale perdita di primato e di egemonia da parte delle maggiori potenze imperialistiche, sullo sfondo della grande contraddizione tra l’egemonismo unipolare occidentale e il mondo multipolare che vede come protagonisti popoli e Stati del Sud globale. Ma anche del ritorno inquietante di parole e condotte che si sarebbe dovuto viceversa relegare al “mai più” della storia: la deportazione e il genocidio, attuati con incredibile disumanità da Israele nei confronti del popolo palestinese a Gaza. Di fronte a questo “panorama degli eventi”, non possono mancare l’esigenza di un’analisi lucida, realistica, disincantata e il coraggio di proporre alternative che contrastino la logica dello scontro, della violenza, della guerra e affermino con forza, invece, le ragioni della convivenza, di tutti i diritti umani (tutti, diritti civili e politici, economici e sociali, dei popoli e dell’ecosistema, dello spazio mediatico e digitale) per tutti e per tutte, e della pace positiva, pace non solo con diritti umani ma anche con giustizia sociale. La cultura, in tutte le sue espressioni e manifestazioni, può essere allora un potente antidoto e un vettore efficace per traguardare i segni dell’avvenire: come ricorda l’Unesco, negli articoli della Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali (Parigi, 20 ottobre 2005), “la diversità culturale crea un mondo prospero ed eterogeneo in grado di moltiplicare le scelte possibili e di alimentare le capacità e i valori umani, rappresentando un settore essenziale per lo sviluppo sostenibile delle comunità, dei popoli e delle nazioni”. A proposito dei libri: Gianmarco Pisa, “Le porte dell’arte. I musei come luoghi della cultura tra educazione basata negli spazi e costruzione della pace”: https://www.pressenza.com/it/2025/02/le-porte-dellarte-una-ricerca-azione-sui-musei-per-la-pace Luca Sciacchitano, “Il Pelecidio – perché è moralmente giusto criticare Israele”: https://www.pressenza.com/it/2025/02/contro-il-pelecidio-luca-sciacchitano-il-sionismo-e-una-questione-politica-non-religiosa Maria la Bianca, “Con nome e cognome (quasi sempre l’amore)”: https://www.pressenza.com/it/2024/04/presentata-a-palermo-la-nuova-raccolta-di-poesie-di-maria-la-bianca Alessandra Ciattini, “Sul filo rosso del tempo. Riflessioni su alcune ideologie contemporanee”: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-sul_filo_rosso_del_tempo/46096_60269 Gianmarco Pisa
Primo evento Multimage al Salone Off: i Libri di Pressenza
Il salone del libro esce dalla sua sede canonica e dove, se non in una libreria, può trovare casa? Così alla Belgravia, nella Terza Circoscrizione, la prima ad ospitare il Salone Off da ben 15 anni, e in quella attuale in una Torino assolata e di fronte a un pubblico attento e informato per la prima delle tre presentazioni che Multimage propone per il Salone off di quest’anno. È Luca, il padrone di casa, che introduce la presentazione dei libri di Pressenza lasciando a Toni Casano il compito di condurre la chiacchierata sui testi insieme a Nicoletta Salvi curatrice di Carcere ai Ribell3 e a Daniela Musumeci curatrice di Crepuscolo dell’ordine imperiale e sfide per la pace, Annale 2024 dei migliori articoli usciti su Pressenza. La collana raccoglie articoli e interventi di autori/giornalisti che collaborano con l’agenzia nello spirito della condivisione e dell’interazione non solo dell’informazione ma anche delle iniziative dei movimenti di cui racconta. Così, per esempio, la redazione Palermo, in città, partecipa all’esperimento del nascendo Forum per la pace e il disarmo. Così con le mamme in piazza per la libertà di dissenso che porta in agenzia la dinamica del conflitto che le anima. Se una precedente pubblicazione  era stata la pars decostruens del pensiero neoliberistico, Occupare l’utopia, che si presenta oggi, è la pars costruens in antitesi al dominio capitalistico: nessuna costruzione di una nuova comunità politica può prescindere dai temi dell’ecologia, del femminismo e del transfemminismo, di una nuova prospettiva economica. Gli Annali in cartaceo sono la testimonianza nel tempo della sua presenza nel mondo non solo dell’informazione di cronaca ma anche di articoli di riflessione. Le presentazioni si spostano sabato e domenica alla Casa Umanista con due eventi che vedranno la partecipazione di 8 autori Multimage. Maria La Bianca