Qualche appunto su “Gandhi ad Auschwitz”Il libro di Antonio Minaldi (uno dei leader storici del Movimento studentesco a
Palermo egli anni Settanta) è, com’egli stesso dice. il frutto di un percorso
che l’ha portato dall’idea che la violenza fosse accettabile ad un suo rifiuto.
La sua ‘trasformazione’ mi pare bella, coraggiosa, onesta, totalmente
apprezzabile. Vorrei evidenziarne alcuni passaggi che condivido e poi anche
altri che mi risultano problematici.
Passaggi notevoli
Nel libro trovo alcuni principi-cardini della nonviolenza.
Innanzitutto trovo molto opportuno inserire la trattazione della nonviolenza
quale modalità di relazione fra gli esseri umani nel quadro più complessivo
delle «quattro forme di dominio, dell’umanità sulla natura e sugli animali, e
poi all’interno stesso del consesso umano, dell’uomo sulla donna e sull’uomo
stesso» [25].
Altrettanto opportuni i chiarimenti tendenti ad evitare delle rappresentazioni
parossistiche se non caricaturali della nonviolenza: «credo che anche il
militante nonviolento non possa non accettare (per esempio) il principio del
diritto alla “legittima difesa” [29-30]». O sulla stessa tematica: «Quando ogni
ragionevole limite di sicurezza e di integrità personale e collettiva viene
messo in discussione, la scelta non può che riferirsi a se stessi o al proprio
gruppo di appartenenza, ma non può costituire motivo di giudizio negativo nei
confronti di quanti dovessero adottare, nell’esercizio del legittimo diritto di
resistenza, modalità di lotta e di difesa che prevedono un qualche esercizio
della forza (anche armata), purché quest’ultimo sia messo in atto in comprovate
condizioni di stretta necessità e secondo un criterio di minimizzazione del
danno» [30-31]).
Tasselli mancanti
Sarei stato altrettanto lieto di trovare altre precisazioni che, se non mi sono
sfuggite, mancano.
Innanzitutto non mi è chiaro in cosa, secondo lui, consista, concretamente, la
nonviolenza. Se non sbaglio, non ne viene data una definizione. Indicativo mi
sembra il fatto che non si faccia mai riferimento a pratiche concrete di
nonviolenza: oltre al caso ipotetico di un Gandhi «che si stende sui binari per
fermare i treni che portano gli ebrei verso il campo di sterminio» [20], e su
cui sono spese parole di nuovo per me condivisibili – cioè «Gandhi (o chi per
lui, posto che abbia la stessa visibilità), che si immola di fronte alla
barbarie nazista, sarebbe diventato un monito etico dal valore universale e
caratterizzato da una estrema potenza evocativa da consegnare come fulgido
esempio ai tempi futuri e alle future generazioni» [28] – viene citato solo, e
una sola volta, il «paradigma della disubbidienza civile, come “arma disarmata”,
che diviene il dato che materializza ogni lotta di resistenza e di opposizione e
che prende il posto di qualunque tentazione violenta o armata»).
Effettivamente, se ci si ferma a questo, se la teoria (e la pratica) della
nonviolenza fosse tutta qui – nessun riferimento alla ‘curvatura’ dell’ahimsa,
che è astensione dall’offendere, nella direzione del satyagraha, che è la “forza
della verità” (verità intesa come volta all’ascolto e riguardosa anche della
parte con cui si confligge), l’impressione di restare ancora troppo alla
superficie, al piano generale che tende a diventare generico, sarebbe davvero
invincibile. Ci si potrebbe chiedere – naturalmente con tutto il sincero
rispetto possibile e immaginabile nei confronti dell’autore, di cui è preziosa
la testimonianza di entusiasmo per la scoperta della nonviolenza – se il libro
non avrebbe guadagnato in chiarezza e condivisibilità se fosse stato edito dopo
un più lungo e meditato periodo di maturazione.
Un caso cruciale: Israele vs. Palestina
L’impostazione data da Minaldi alla più volte richiamata questione, tragica e
attuale, “Israele-Palestina” rispetto a quella ‘normalmente’ filopalestinese
tout court, costituisce forse una buona cartina di tornasole per vedere quanto
essa si distingua dal pensiero non-nonviolento. Sostanzialmente, mi pare, le sue
pagine obiettano a chi approva il ricorso alle armi da parte di Hamas che la
nonviolenza ‘conviene’: «d’altra parte va considerato che l’altra sola possibile
via che porta alla sconfitta dell’aggressore è quella di tipo militare. Una
possibilità che si presenta comunque fattualmente difficile, visto che in genere
l’oppressore e dominante è anche colui che è militarmente più forte. Ma poi
soprattutto perché la sconfitta della violenza armata attraverso le armi, per la
sua stessa intrinseca contraddittorietà, quasi mai produce in termini di pace, i
frutti sperati» (p. 43).
È una obiezione non di poco rilievo, ma avrebbe bisogno di una indispensabile
esplicitazione delle possibili dinamiche concrete dell’alternativa alla reazione
militare.
Se tali esplicitazioni non si offrono, mi pare che si presti il fianco a
un’obiezione che circola insistentemente: “Concretamente, alla luce della
nonviolenza, cosa possono fare i palestinesi?”.
Per non risultare anch’io elusivo mi corre l’obbligo di accennare – sia pur
rapidamente – alla risposta che darei alla citata domanda: i palestinesi possono
rendere chiaro all’avversario il fatto di voler essere disarmati (senza
combattere neanche con le pietre). E rendere chiaro ciò significa impegnarsi nel
mostrare senza possibilità di equivoco che si ha fermo rispetto e anzi, meglio,
riguardo per lui; che la propria rinuncia all’uso della violenza è dettata non
da paura o da impotenza o da tattica dovuta alla situazione di inferiorità in
cui ci si trova, bensì da precisa scelta, dunque dal coraggio di non volere
fargli alcun male, né sul piano fisico né su quello verbale né su quello
psicologico, e di ricercare il suo ascolto e il dialogo con lui, e di essere
fermamente disposti a soffrire anche unilateralmente per questo. È qui che
l’ahimsa si fa satyagraha. E questo, anche tra i palestinesi, a livello di
massa, non è stato quasi mai attuato: piuttosto, tra loro, è stata realizzata
una tendenziale assenza di violenza per inferiorità di forze o una violenza ‘a
bassa intensità’ del tutto inefficace sul piano concreto nella prima intifada
che aveva solo valore simbolico di (dignitosissimo) coraggio (nel senso
ordinario del termine) e di non accettazione dell’oppressione, ma non di
coraggio nonviolento. È stata purtroppo attuata anche una violenza (quella che
chiamiamo terroristica) contro i civili, uguale e contraria ancorché di
proporzioni moltissimo differenti, a quella di Israele (che va chiamata un
terrorismo allo stesso modo terroristica, ancorché si tratti – e questa è
un’aggravante – di terrorismo di Stato). Invece, è la comunicazione, in parole,
comportamenti e atteggiamenti, della scelta che rassicura l’avversario che non
ha, né avrà, alcun motivo di ricorrere alla violenza, a disarmarlo per sua
stessa persuasione (e a ottenere il favore di tutta l’opinione pubblica
internazionale). La nonviolenza è una teoria della comunicazione, è un’arte
della buona comunicazione, del creare comunità – anche quando confligge. È solo
a questo punto, e in quest’ottica, che, nel caso che l’avversario intendesse
ricorrere alla violenza – ormai non più per difendersi dal contrattacco
(violento) dei palestinesi (che a loro volta si stanno difendendo) ma per
imporre il suo dominio (occupazione, imposizione di leggi etc.) – che entra in
azione la disobbedienza civile e, ancor prima, la noncollaborazione ed altre
forme di lotta, sempre rispettose, riguardose, coraggiose, che la storia della
nonviolenza fa conoscere (per es., ma non solo, ad opera di Gene Sharp) e che la
creatività permette di incrementare ulteriormente.
Senza queste esemplificazioni concrete il discorso di Minaldi rischia di restare
tutto interno al paradigma “dicotomico” (troppo incidentalmente problematizzato
qua e là nel testo). Mi limito ad una citazione, in cui peraltro è utilizzato
pienamente il linguaggio bellico (che metto in corsivo): «Se dunque io voglio
formulare giudizi che riguardino il presente e non solo fatti passati in
giudicato dalla storia, in modo che il mio dire abbia valore non solo
valutativo, ma anche performativo, io devo necessariamente trascendere la flemma
dello storico e prendere partito. Per tornare ai nostri esempi, se “Il nazismo è
stato sconfitto”, si dà invece il caso che “Israele deve essere sconfitto”.
Questa circostanza mi impone il dovere di schierarmi, secondo quello che mi
detta la mia coscienza e l’insieme delle opinioni che ho maturato rispetto alla
vicenda in corso. Un dovere che si presenta come non facile (ma che è comunque
necessario), per chi ha fatto della nonviolenza una scelta etica ed
esistenziale, specialmente in una situazione in cui vi è un confronto tra forze
armate. Uno scontro tra l’uso illegittimo della forza perpetrato da parte
dell’aggressore, portatore di morte e di distruzione, e l’uso della forza da
parte di chi reagisce ad un atto di imperio, che, come abbiamo visto, deve
essere considerato legittimo anche da parte di chi è schierato, in senso etico e
in linea di principio, contro l’uso della violenza. Una necessaria presa d’atto
della possibilità di usare la forza lasciata alla scelta di chi subisce, in nome
della legittima difesa e del diritto di resistenza. In queste circostanze di
confronto estremo non si può eludere la questione dei mezzi necessari (purché
pur sempre leciti) per giungere, in nome del bene e della giustizia, ad una
conclusione positiva, a cui si può pervenire solo con la sconfitta chiara e
definitiva dell’aggressore» [41-42]. Ho riportato con ampiezza le parole di
Minaldi per evidenziare come, a mio parere, resti forte una visione dicotomica
del mondo e orientata non alla soluzione quanto più possibile condivisa del
conflitto ma alla sconfitta dell’Altro: una parte ha ragione e deve vincere,
l’altra ha torto e deve perdere; l’alternativa presupposta è tra «la flemma
dello storico» (= equidistanza) e il «prendere partito», senza che sembri
possibile altra strada: l’equivicinanza – categoria pratica particolarmente
appropriata alle Terze parti (quali noi, non palestinesi e non abitanti in
Palestina, siamo) – è ignorata.
La vicenda del Sudafrica
Dei processi attuati dal Sudafrica di Mandela (e Tutu), nella transizione
dall’apartheid alla vita successiva, l’autore offre una rappresentazione che non
mi sembra condivisibile. Infatti non mi risulta che la “Commissione per la
verità e la riconciliazione£ (che Minaldi non nomina neppure) avesse come scopo
il «biasimo collettivo» [45] come colpa da espiare: questo sarebbe un concetto
(socialmente) penale e non riparativo. La Commissione mirava, piuttosto, alla
narrazione delle “verità” (=dei punti di vista, delle interpretazioni) dei
carnefici e soprattutto delle vittime, per le vittime: il riconoscimento e
l’assunzione di responsabilità dei crimini commessi – dall’una e dall’altra
parte in conflitto. Sono stati questi fattori a permettere la riconciliazione.
La gestione dei sentimenti
A proposito di ciò che si prova nei confronti dell’avversario – e del linguaggio
conseguente che si adotta, spesso di odio – l’autore scrive: «Un sentimento si
prova e basta. Chiedersi se sia giusto o lecito provarlo non ha alcun senso.
Chiedersi poi se sia ammissibile manifestarlo pubblicamente è cosa che mette in
gioco un numero talmente alto di variabili che non credo sia possibile, e forse
neppure utile, arrivare a stabilire delle regole generali» [48]. Mi chiedo se
sia costretti a scegliere fra due sole possibilità: giudicare i sentimenti
(dunque stabilire se sia giusto o meno provarli) oppure lasciarli manifestare
pubblicamente, quali che siano (cioè anche se sono di carattere distruttivo).
Non esiste forse una terza possibilità, che è la via della nonviolenza,
consistente nel prendere atto dei propri sentimenti ed educarsi incanalarli in
direzione costruttiva? Che io avverta “aggressività” nei confronti di un essere
che minacci me o persone o oggetti a me cari è fisiologico, inevitabile,
funzionale alla mia sopravvivenza: trasformare questa “aggressività” psicologica
in aggressione, in violenza o in opposizione ferma e coraggiosa, riguardosa,
nonviolenta, questo invece appartiene alla sfera delle opzioni culturali.
La nonviolenza è una “scienza”
Mi auguro, in conclusione, che questo libro-testimonianza segni l’inizio – e non
la conclusione – di un percorso. La nonviolenza è una scienza (sociale), su cui
ormai esistono molti libri di studiosi che ne hanno analizzato le pratiche e
organizzato la teoria. Una delle più apprezzate esponenti di questa prospettiva
è Pat Patfoort che non a caso, nel suo Costruire la nonviolenza (La Meridiana,
Molfetta 1992, 47), ha messo bene in luce un atteggiamento, purtroppo, diffuso:
le persone possono tranquillamente dire una frase come «non ho mai studiato il
greco o l’informatica, perciò non so niente di greco e di informatica; non ho
mai studiato la nonviolenza ma credo di essere nonviolento».
ANDREA COZZO
Redazione Palermo