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La “sostenibilità” delle famiglie, il ceto medio impoverito e il “mito” della fuga all’estero dei giovani
Si è concluso ed è stato presentato di recente il percorso di ricerca “Abitare un mondo sostenibile”, promosso dalle ACLI per indagare il rapporto tra famiglia e stili di vita sostenibili. L’iniziativa ha restituito uno spaccato prezioso e articolato di come le famiglie italiane vivano e interpretino la sostenibilità nelle proprie scelte quotidiane. Condotta nella primavera del 2024 su un campione rappresentativo di 1.052 famiglie italiane, l’indagine – di natura quantitativa – ha esplorato abitudini, comportamenti, motivazioni e ostacoli legati alla sostenibilità ambientale, economica e sociale nel contesto familiare. I risultati sono stati raccolti in un volume edito da Rubbettino. Dall’analisi emerge una diffusa sensibilità alla sostenibilità: per oltre il 70% del campione, gli stili di vita sostenibili rappresentano una scelta necessaria e quotidiana. Le pratiche indagate – dalla raccolta differenziata al consumo responsabile, dalla mobilità alternativa alla produzione di energia domestica – sono ormai parte integrante della quotidianità familiare, seppur con intensità differenti. La ricerca identifica tre profili familiari rispetto all’approccio alla sostenibilità: le famiglie eco-minimali (14,7%), che si attengono alle pratiche obbligatorie; le famiglie eco-realiste (50%), che conciliano sostenibilità e praticità; le famiglie eco-radicali (35,3%), che adottano uno stile di vita integralmente sostenibile. Particolare attenzione è stata riservata alle motivazioni psicologiche e culturali che guidano l’adozione di pratiche sostenibili, nonché alla relazione tra condizione economica e comportamenti ambientali. Contro ogni aspettativa, la sostenibilità si è rivelata più diffusa tra le famiglie economicamente vulnerabili, che sembrano riconoscervi una strategia di autodifesa e riscatto sociale. Al contrario, i ceti più abbienti appaiono più riluttanti verso cambiamenti strutturali dello stile di vita. Un dato importante che emerge riguarda l’eco-ansia e l’emotività associata alla crisi ambientale: è il mix di preoccupazione e fiducia a spingere le famiglie italiane ad agire con maggiore consapevolezza verso un futuro più sostenibile (https://www.acliroma.it/presentazione-volume-e-ricerca-acli-iref-abitare-un-mondo-sostenibile/).  Tra le conclusioni della ricerca vi è, tra l’altro, un riferimento all’impoverimento del ceto medio, che l’IREF, l’istituto di ricerca delle ACLI,  aveva già indagato con un report presentato a maggio scorso dal titolo “Sempre meno ceto medio”, dal quale emergeva uno scivolamento del ceto medio, ben il 10%, e quindi di coloro che hanno anche un lavoro, verso la povertà. “Tra il 2020 e il 2024, si sottolineava nella ricerca, la percentuale di famiglie appartenenti al ceto medio (reddito tra il 70% e il 200% del reddito mediano) è scesa dal 59,6% al 54,9%. In particolare, oltre 55.000 famiglie sono passate dal ceto medio al ceto inferiore. In sostanza il 10% delle famiglie del panel è passata dal ceto medio al ceto inferiore mentre solo lo 0,8% è riuscito a salire al ceto superiore” (https://www.acli.it/giornata-internazionale-della-famiglia-acli-iref-sempre-meno-ceto-medio-il-10-scivola-verso-il-basso/). E al ceto medio è dedicato anche un recente Rapporto Censis-Cid dal titolo “Rilanciare l’Italia dal ceto medio. Riconoscere competenze e merito, ripensare fisco e welfare”. “Non è più maggioranza, si legge nel Report, la quota di famiglie del ceto medio che si sente con le spalle coperte ed è significativa la quota che dichiara di avere reti di tutela molto o abbastanza fragili, alla mercé della moltiplicazione dei rischi e delle nuove incertezze. E questa instabilità economica, proiettata in avanti nel tempo, contribuisce a spiegare il nuovo mito nazionale dei genitori di ceto medio per i propri figli: che si trasferiscano all’estero per trovare un’attività professionale all’altezza del proprio livello culturale, su cui le famiglie investono con impegno sin dalle scuole dell’obbligo”. In estrema sintesi, il mito italiano tipico delle famiglie di ceto medio del nostro tempo è quello di  investire nella formazione dei figli per poi sperare in una loro buona collocazione in un paese diverso dall’Italia. E la voglia di fuga riguarda anche giovani di ceto medio senza alta qualificazione o elevato titolo di studio, per i quali i genitori sono convinti troverebbero più facilmente all’estero un lavoro qualsiasi e che, pertanto, sperano decidano di giocare il proprio progetto di vita in paesi più ospitali dell’Italia. In particolare, il 51,3% dei genitori di ceto medio è convinto che i propri figli e in generale i giovani farebbero meglio a cercare all’estero il lavoro per cui hanno studiato e/o che gli piace. Il 27,8% dei genitori che si autodefiniscono di ceto medio pensa anche che sarebbe opportuno per i figli, e in generale per i giovani italiani, trasferirsi all’estero per cercare un lavoro qualsiasi. Inoltre, il 35,1% dei genitori di ceto medio pensa che ai propri figli e ai giovani italiani converrebbe provare a realizzare all’estero il proprio progetto di vita perché l’Italia non è un Paese per giovani. Il 24,5% dei genitori di ceto medio apprezzerebbe poi che i propri figli frequentassero le scuole superiori all’estero, il 52,8% che i figli frequentassero l’università all’estero e il 71,6% ritiene positivo per i giovani laureandi un periodo in Erasmus, cioè un periodo di studio in una università di altri Paesi membri dell’UE. Qui per scaricare il Rapporto: https://www.censis.it/economia/rapporto-cida-censis.  Giovanni Caprio
Le bonifiche sempre più in stallo
Su 148.598 ettari di aree a terra inquinate ricadenti nei 41 Siti di Interesse Nazionale (SIN) perimetrati, solo il 24% di suolo è stato caratterizzato e solo il 6% è stato bonificato. Non va meglio per le falde, bonificate appena il 2%. Con l’attuale media di 11 ettari bonificati all’anno ci vorranno mediamente – per i SIN più virtuosi o fortunati – almeno 60 anni prima di vedere l’iter concluso. Gravi ritardi amministrativi che si accompagnano a gravissime omissioni: sono ben 35 i reati di omessa bonifica dal 2015 al 2023 con Sicilia, Lazio e Lombardia le regioni con più illeciti. Eppure, il giro d’affari del risanamento ambientale si aggirerebbe intorno ai 30 miliardi di euro. Sono alcuni dei dati del report che ACLI, AGESCI, ARCI, Azione Cattolica Italiana, Legambiente e Libera hanno presentato nei giorni scorsi sullo stato delle bonifiche dei siti di interesse nazionale, che dimostra come il Paese continui a fare fatica a dare ecogiustizia al popolo inquinato, alle 6,2 milioni di persone che vivono nei principali SIN e SIR monitorati, per gli aspetti sanitari, dal progetto “Sentieri” dell’Istituto superiore di sanità. I dati del report “Le bonifiche in stallo”, che ha concluso la campagna itinerante “Ecogiustizia subito: in nome del popolo inquinato”, parlano chiaro: dei 41 SIN  perimetrati sui 42 censiti dal MASE e che coprono un’area di 148.598 ettari (presenti in tutte le regioni, ad eccezione del Molise), ad oggi solo il 24% (pari a 29.266 ha) della matrice suolo è stato caratterizzato, definendo in questa prima fase tipologia e diffusione dell’inquinamento, uno step fondamentale per progettare gli interventi necessari. Inoltre, solo il 5% del terreno delle aree perimetrate (6.188 ha su 148.598) ha il progetto di bonifica o di messa in sicurezza approvato e solo il 6% dei suoli (7.972 ha su 148.598) ha raggiunto il traguardo della bonifica completa.  Non va meglio per le falde: solo il 23% delle acque sotterranee ha il piano di caratterizzazione eseguito e solo il 7% ha il progetto di bonifica o di messa in sicurezza approvato. Scende al 2% la percentuale che vede il procedimento di bonifica concluso. Preoccupa, poi, la media degli ettari bonificati all’anno, appena 11, una media troppo bassa rispetto agli oltre 140mila ha che restano da bonificare in Italia nei Siti di Interesse Nazionale. Con questo passo, in Italia ci vorranno mediamente, per i SIN più “virtuosi o fortunati”, almeno 60 anni ancora prima di vedere l’iter concluso. Se tutto va bene a partire quindi dal 2085. Per gli altri SIN meno fortunati, i tempi sono paragonabili a quelli per smaltire le scorie nucleari, centinaia di anni se non qualcosa di più in alcuni casi. Bicchiere mezzo pieno, invece, per i Siti di Interesse Regionale (SIR), dove secondo gli ultimi dati raccolti e pubblicati da ISPRA i siti interessati da procedimenti di bonifica nel 2023, sono complessivamente 38.556, dei quali 16.365 con procedimento in corso (42%) e 22.191 (58%) con procedimento concluso. In fatto di SIN e SIR, bisogna considerare anche gli impatti legati alla salute. Secondo lo studio Sentieri nelle aree inquinate oggetto di studio, si registra “un eccesso di mortalità e di ospedalizzazione rispetto al resto della popolazione, e mostrano come nei siti con caratteristiche di contaminazione simili si producano effetti comparabili”. L’altra spia rossa è rappresentata dai 241 controlli e dai 35 reati di omessa bonifica accertati dalle forze dell’ordine dal 1° giugno 2015 (anno dell’entrata in vigore della legge sugli ecoreati che prevede questo delitto specifico) al 31 dicembre 2023. Parliamo di un reato ogni 6,8 controlli, 50 denunce e 7 arresti.  A livello regionale, in questi nove anni la Sicilia risulta essere la prima regione con 17 reati, seguita a grande distanza da Lazio e Lombardia, a quota 5 reati a testa. Terzo posto per la Calabria con 3 reati e al quarto la Campania, con 2. La Sicilia è anche la regione con il maggior numero di denunce, 25 tra enti o imprese e persone fisiche e sequestri, che sono stati 6. Un dato positivo, rispetto ai controlli, è quello della Liguria, dove ne sono stati effettuati ben 141. Come si legge nel report, a livello nazionale sono due i talloni d’Achille: “Il primo riguarda il divario tra quanto previsto dalla normativa e quanto realizzato nella pratica. La tempistica stabilita dalla legge prevede una deadline di 18 mesi per completare le prime tre fasi (caratterizzazione del sito, analisi dei rischi associati alla presenza delle sostanze inquinanti rilevate, predisposizione del POB o di messa in sicurezza operativa/permanente) del processo amministrativo per procedere alle bonifiche dei SIN. Tempi però non rispettati, visto che ci si impiegano anni se non decenni. Il secondo tallone riguarda la mancanza in Italia di una strategia nazionale delle bonifiche, uno strumento fondamentale per velocizzare il risanamento ambientale il cui giro d’affari si aggirerebbe intorno ai 30 mld di euro tra investimenti pubblici e privati. Secondo stime di Confindustria, le risorse necessarie per bonificare i SIN presenti in Italia si aggirano intorno ai 10 miliardi di euro e se le opere partissero oggi, in 5 anni si creerebbero quasi 200.000 posti di lavoro con un ritorno nelle casse dello Stato di quasi 5 miliardi di euro fra imposte dirette, indirette e contributi sociali”. Qui il Report: https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2021/11/Ecogiustizia-report-bonifiche.pdf.  Giovanni Caprio
DECRETO SICUREZZA: CONTINUA IL DIGIUNO A STAFFETTA. “UNA CATENA DI SOLIDARIETÀ PER I DIRITTI DI TUTTE E TUTTI”
Il 29 aprile scorso diverse associazioni e organizzazioni della società civile hanno lanciato un’azione collettiva di disobbedienza e resistenza civile contro il decreto Sicurezza. Si tratta di un digiuno a staffetta, una “catena di solidarietà per i diritti di tutte e tutti” che questa mattina, mercoledì 14 maggio, è stata portata in Senato. L’iniziativa – promossa e organizzata da A Buon Diritto, Acli, Antigone, Arci, Cgil, Cnca – Coordinamento nazionale comunità accoglienti, Forum Droghe, L’Altro Diritto, La società della Ragione e Ristretti Orizzonti – vuole offrire uno strumento di lotta in più per denunciare e ribadire “l’illegalità costituzionale, la prepotenza e la violenza istituzionale del decreto legge sicurezza approvato dal governo con un bliz l’11 aprile 2025”. “Attraverso il digiuno – sottolineano nel comunicato le realtà promotrici – vogliamo solidarizzare con tutte e tutti coloro che stanno già subendo le conseguenze violente del DL sicurezza, e allargare al massimo il fronte della protesta contro un provvedimento che limita gravemente lo spazio civico, criminalizza il dissenso pacifico e mette a rischio i diritti fondamentali di cittadine e cittadini”. La campagna ha già superato i 300 partecipanti e proseguirà fino al 30 maggio, vigilia della manifestazione nazionale a Roma contro il DL sicurezza chiamata dall’Assemblea Nazionale Rete No DDL Sicurezza – A Pieno Regime. Qui tutte le informazioni e il link al modulo predisposto per l’adesione. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto il segretario di Forum Droghe, Leonardo Fiorentini, con cui siamo entrati nel dettaglio di questa azione di protesta, delle sue finalità e della sua presentazione al Senato proprio mentre alla Camera era in corso una riunione di maggioranza sul DL sicurezza durante la quale sarebbe stata data l’indicazione, secondo quanto si apprende, di procedere in maniera blindata sul provvedimento. Ascolta o scarica