Che cosa vuol dire transculturale? Parte II
LA TRANSCULTURA NON È SOLO LA PROPOSTA DI UNA DIREZIONE, UN TRANSITO FRA MONDI
CULTURALI DIVERSI INEVITABILMENTE DINAMICI, MA VUOLE INDICARE ANCHE UNA
TRASFORMAZIONE FRA COLORO CHE COSTRUISCONO UNA RELAZIONE
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Foto ed elaborazione di Giovanni Izzo
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Se è vero che le parole sottendono un pensiero quindi sono parole-pensiero,
anche il termine transculturale necessita di alcune spiegazioni per non cadere
nella trappola di parole criptiche e quindi incomprensibili. Questo rischio è
abbastanza frequente soprattutto quando si utilizzano in campo scientifico
(psichiatria transculturale, psicoterapia etc.) dove sono frequenti
classificazioni e definizioni spesso distaccate dalla realtà. Fenomeni come
l’emigrazione – un terremoto secondo Karl Jaspers -presenta anche aspetti
culturali spesso non considerati nella loro giusta rilevanza. Migranti,
rifugiati – persone non categorie – vengono in molti casi deprivati della loro
storia e della loro cultura. Noi, come operatori della salute mentale, quale
atteggiamento utilizziamo verso la loro sofferenza? I vecchi metodi frutto di un
pensiero “catastale” forse non sono sufficienti per avvicinarsi a quel qualcosa
di “di nuovo” che irrompe nelle nostri menti prima che nei nostri ambulatori,
servizi, centri di accoglienza. Siamo presi solo dallo “studiare un oggetto
esotico” e quindi interessante, lasciando inalterati i nostri modi di
osservare/agire? Quale scienza e con quali strumenti?
Queste interrogazioni – più che interrogativi – sono presenti nei nostri
processi di cura e di formazione professionale spesso non adeguati di fronte a
“nuovi utenti”. In questa sede possiamo accennare a un approccio transculturale,
consapevoli che è solo l‘inizio di un percorso articolato che cercheremo di
sviluppare più approfonditamente in seguito su queste pagine. Con tale metodo
intendiamo un attraversamento di culture durante il quale si è contaminati e si
contamina a sua volta, influenzandosi vicendevolmente, senza che una cultura
prevalga sull’altra, secondo gli insegnamenti dell’antropologo cubano Ferdinando
Ortiz (2025). Egli, coniando il termine di transculturacion “dando e prendendo“(
toma y daca) aveva espresso il dinamismo proprio di ogni processo culturale
aperto allo scambio paritario.
Deleuze la considerava una scienza “dei margini, degli interstizi della
liminarità”(Deleuze-Guettari,1980) connaturata alla dimensione dell’incontro e
della relazione con tutti gli imponderabili a cui questa modalità conduce. Una
sua possibile applicazione, la “psichiatria transculturale”, non deve
aggiungersi al già affollato mondo ”psy”come un nuovo modo di catalogare sintomi
e sindromi, ma di costruire una direzione di cambiamento nel processo di
osservazione, passando attraverso (non sopra) le modalità di esprimere le
sofferenze psichiche e le loro manifestazioni culturali. In questo passaggio fra
pratiche e saperi diversi che ogni incontro/scontro con culture altre sollecita
e provoca. si produce un arricchimento reciproco. Tale percorso offre la
possibilità all’osservatore, al terapeuta, al ricercatore, ad ogni operatore di
mettersi in discussione, di scommettersi per rendersi conto che il famoso
“oggetto” di studio è da tempo diventato soggetto. È qui fra noi, con tutto il
suo carico di sofferenza e di diversità. La sua presenza, tra l’altro, pare
continuamente chiederci come ci poniamo di fronte a quel “qualcosa che avanza”,
a “quello straniero” che ci costringe a guardarci, non solo a guardarlo. Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore, recita la poetessa Wisława Szymborska.
Una società complessa, divenuta da tempo multiculturale e multietnica – a
dispetto di chi voglia ancora negarlo – può mettere in difficoltà l’operatore
non preparato e porre in forse l’adeguatezza degli stessi i servizi in cui
lavora. Una “modalità transculturale” forse può aiutare in quegli
attraversamenti di altri mondi e modi di conoscenza associati alla possibilità
di modificare l’orizzonte della ricerca, della cura e, in generale,
dell’approccio ad eventi e persone provenienti da paesi diversi. Non aiuta certo
rimanere ancorati a una posizione culturo-centrica, secondo cui ogni società
pensa che la sua cultura sia “centrale” rispetto al “resto con cui viene in
contatto”. Ecco quindi l’idea di un viaggio, di una mobilitazione dentro e fuori
di sé, di preparazione a un nomadismo di pensiero-azione, necessario per
bagnarsi in altro e nell’altro, nell’altrove e nell’altrui. Se è vero che da
tempo l’immagine dell’osservatore inerte non va più bene, anche l’osservatore
che interagisce con l’oggetto della sua ricerca ha bisogno di ingranare
un’ulteriore marcia, quella dell’esploratore un po’ sporco, con i segni del
con-tatto. È un viaggio comunque assai poco esotico che si configura
specialmente come un processo di trasformazione del “viaggiatore”, all’interno
dei propri pregiudizi e visioni del mondo, previa sospensione delle sue vecchie
categorie di pensiero.
La transcultura non è solo la proposta di una direzione, un transito fra mondi
culturali diversi, ma vuole indicare anche una trasformazione fra i contraenti
della relazione che si costruisce. Una operazione rischiosa che richiede un
cambiamento, un diverso posizionamento lontani da facili la tentazioni di
“derive” più facili, più comode, più “alla moda”, consoni a un dibattito marcato
da consolidati stereotipi. Un messaggio fuori dal “solito” approccio statico e
auto confermante e pronto a divenire sociale e culturale e quindi “politico”,
nel senso più alto del temine (e a cui sembra non siamo più abituati).
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Che cosa vuol dire transculturale? Parte I
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Alfredo Ancora, Psichiatra e psicoterapeuta, Directeur Scientifique Université
Populaire “E. De Martino D. Carpitella” Paris, Ordinary member Society for
Academic Research on Shamanism, è condirettore della rivista “Transculturale”.
Si occupa di psichiatria e psicoterapia transculturale di gruppo, sciamanesimo,
problematiche migratorie e tradizioni popolari.
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