Giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro: l’ivg in pillole
Da 47 anni in Italia esiste una legge che consente il diritto all’interruzione
volontaria di gravidanza: la legge 194 del 1978. E da 47 anni le donne
continuano a dover richiedere alle istituzioni e ai presidi sanitari che quel
diritto e quella legge siano rispettati. Cosa resa complicata da una quantità di
questioni ma soprattutto da quella possibilità, per il personale sanitario,
unico a poter intervenire, di dichiararsi obiettore di coscienza rifiutandosi,
perciò, di eseguire gli interventi.
Dal 2020 il ministero, per rendere meno invasiva l’interruzione, ha introdotto
l’aborto farmacologico, cioè la possibilità per la donna che non vuole portare
avanti una gravidanza di assumere, entro la settima settimana, due farmaci che
la interrompono. Questa procedura può essere eseguita in ambulatorio o in
consultorio con la possibilità di assumere la seconda compressa a casa propria.
> Un grande passo avanti, dunque, se non che questa possibilità viene rallentata
> se non addirittura ostacolata nuovamente dalla obiezione di coscienza, tanto
> che ci sono intere regioni che ancora non praticano l’interruzione volontaria
> di gravidanza (ivg). Al fondo, la ragione è sempre la stessa: condizionare la
> libertà di scelta delle donne in base a orientamenti politici o ideologici di
> chi dovrebbe garantirla.
A distanza di 5 anni, solo il Lazio, la Toscana, l’Emilia-Romagna e ora anche la
Sardegna applicano la circolare ministeriale del 2020. «Si assiste così, da
parte delle altre regioni, – scrive Vittorio Agnoletto nella sua rubrica Diritti
in salute ospitata da anni da Radio Popolare di Milano – ad uno spreco di
risorse preziose (economiche e professionali), mentre contemporaneamente le
donne vengono esposte a percorsi di obiezione e violenza ostetrica e
psicologica, che ne mettono a rischio la salute». A questo proposito, ecco cosa
si legge nella più recente relazione ministeriale sulla applicazione della legge
194: «l’aborto farmacologico, ove possibile, è meno invasivo e più sicuro per la
salute delle donne». Da qui la sollecitazione alla sua applicazione su tutto il
territorio nazionale.
Prendiamo “il caso” della Sardegna che ha la percentuale di interventi di
interruzione della gravidanza quasi tre volte superiori a quelli della media
nazionale ma, mentre gli interventi con ricovero ordinario sono il doppio della
media nazionale, quelli di aborto farmacologico in regime ospedaliero sono
inferiore rispetto alla media nazionale (il 38,1% contro il 51,3% nazionale).
Per queste ragioni è sempre più urgente per la regione l’introduzione delle
procedure farmacologiche non più unicamente nelle strutture ospedaliere ma nei
consultori e anche nel proprio domicilio.
> Nelle altre 15 regioni italiane si fa finta di niente e si prende tempo,
> eppure sarebbe importante non solo per creare situazioni di minore tensione
> nelle donne ma anche per contribuire a non ingorgare gli ospedali.
Di recente l’Istituto Superiore di Sanità ha messo a punto una mappa delle
strutture dove si piò praticare l’aborto (Epicentro). Funziona come una
piattaforma online dove è possibile navigare regione per regione, visualizzando
tutte le strutture sanitarie – ospedali, consultori, ambulatori – che hanno
effettuato almeno un’ivg nel corso dell’anno precedente. Uno strumento utile,
peccato però che non fornisce informazioni sull’obiezione di coscienza e non si
può sapere nemmeno quanti del personale sanitario si rifiutano di operare, e
spesso neppure i dati sono aggiornati. Tra le regioni che si distinguono per
responsabile latitanza, il Molise, l’Abruzzo e ci sono ospedali pubblici in
Italia nei quali non viene praticata neppure una sola interruzione di gravidanza
nell’arco di un anno.
“Siamo convinte – dichiarano le responsabili dell’Area Stato Sociale e Diritti
della CGIL nazionale – che sia fondamentale difendere la piena
autodeterminazione delle donne non solo rispetto all’accesso all’ivg, nel solco
della legge 194 del 1978, ma anche sulle modalità: farmacologica o meno, in casa
propria o in ambulatorio. Abbiamo quindi accolto l’invito dell’Associazione Luca
Coscioni a sostenere e rilanciare la campagna Aborto senza ricovero anche nella
nostra Regione che, attraverso una raccolta di firme su base regionale e online,
ha l’obiettivo di intervenire direttamente sui Consigli regionali invitandoli ad
approvare procedure chiare, definite e uniformi per l’aborto farmacologico in
regime ambulatoriale, per garantire a tutte le donne la possibilità di scegliere
e autodeterminarsi”
L’HIV RIALZA LA TESTA
Nel nostro paese, il numero delle persone che convivono con l’infezione da HIV è
stimato attorno a 140mila. Nel 2023 ci sono state 2.349 nuove diagnosi, in
costante aumento dal 2020 e di cui 491 in Lombardia. Sempre nel 2023 sono stati
532 i nuovi casi di AIDS conclamato, nel 2022 erano 443.
Come ormai accade da anni, la maggioranza delle persone diventate HIV positive
nel 2023 hanno saputo di essere sieropositive con grande ritardo: ovvero, solo
quando si sono manifestati i primi sintomi ed erano già in una fase avanzata
dell’infezione. Questo è il risultato dell’assenza delle campagne di
prevenzione. Le conseguenze ricadono sia sul singolo, perché le terapie
antiretrovirali dovrebbero iniziare subito dopo l’avvenuta infezione; sia sulla
comunità, perché chi non sa di essere positivo in media presta meno attenzione
alle pratiche di sesso sicuro. Ricordiamoci infatti che la trasmissione avviene
nella stragrande maggioranza dei casi per via sessuale.
È bene ricordarsi che l’HIV non è scomparso e che un uso corretto del
profilattico può evitare l’infezione.
L’immagine di copertina è Giulia Tomassetti Pellegrini
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