No justice no PeaceLe recenti dichiarazioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a
proposito del livello estremamente basso degli stipendi in Italia e del
conseguente aumento dei lavoratori poveri (+ 9% nell’ultimo anno secondo i dati
Eurostat) sembravano trasudare più tristezza che indignazione, come se ci
trovassimo di fronte ad una catastrofe naturale assolutamente imprevedibile a
cui gli umani non possono porre rimedio.
Eppure nel resto d’Europa e negli USA non è andata così, per esempio a Detroit
USA una stagione formidabile di lotte operaie (eh sì, esistono ancora!) nel
settore dell’auto ed indotto ha portato nel 2024 ad aumenti salariali medi del
30%. In Europa negli ultimi 20 anni l’aumento medio dei salari è stato, al netto
dell’inflazione, di circa il 3%, mentre in Italia le retribuzioni sono scese del
4,5%. E’ un divario che si è fatto ancora più netto negli ultimi tre anni cioè
da quando l’inflazione è cresciuta di più: rispetto al 2021 i lavoratori
tedeschi hanno perso il 4,1% del loro potere d’acquisto, i francesi l’1,5, gli
spagnoli l’1,9, gli italiani il 6,4.
Ma anche se mai volessimo prendere per buono ( e non lo vogliamo neanche un po’)
il principio liberista secondo il quale lo Stato non deve interferire nelle
contrattazioni tra le parti sociali, qualche contraddizione salta agli occhi,
come ad esempio quella che in Italia ci sono poco meno di 3.700.000 dipendenti
pubblici i cui rinnovi contrattuali dipendono direttamente dallo Stato, il
quale, dopo un ingiustificabile ritardo, nel 2024 ha proposto aumenti inferiori
ai tassi di inflazione accumulati degli ultimi anni (la CGIL si è infatti
rifiutata di firmare l’accordo) ufficializzando con atti formali il suo
protagonismo nella diminuzione del salario reale dei lavoratori.
Così come l’oltraggioso rifiuto governativo di discutere una proposta di legge
per il salario minimo o l’abrogazione del reddito di cittadinanza ci parlano di
un’assoluta indifferenza della politica di fronte agli sforzi di milioni di
cittadin3 di arrivare alla fine del mese.
Neanche la sinistra è esente da responsabilità circa il malessere crescente in
particolare dei giovani (Do you remember Job’s act?), infatti secondo l’ISTAT la
riduzione dei salari reali può essere “…associata alla crescente diffusione di
tipologie contrattuali meno tutelate a bassa intensità lavorativa, alle quali si
è aggiunta negli ultimi anni l’erosione esercitata dalla crescita
dell’inflazione” (ISTAT, rapporto annuale 2024). Non a caso il rapporto mostra
come il rischio povertà diventi più concreto se si lavora part time o si ha un
contratto a tempo determinato o un lavoro autonomo/parasubordinato.
Anche qui, non sono solo i privati cattivoni ad utilizzare forme contrattuali
“atipiche” ma ormai da anni anche ministeri, aziende pubbliche, ospedali,
scuole, enti locali applicano contratti che vanno dagli ex co.co.co, ai
contratti a prestazione d’opera, ai part time e via precarizzando.
Se a questo aggiungiamo anche un sistema fiscale che grava perlopiù sulle spalle
dei lavoratori dipendenti e un sistema previdenziale ormai interamente
contributivo, che nella migliore delle ipotesi garantirà una pensione pari al
60% o meno dell’ultimo stipendio prefigurando per i trenta/quarantenni di oggi
una vecchiaia di povertà dopo 43 o 44 anni di lavoro e a quasi 70 anni di età,
avremo chiaro il quadro di un Paese in cui la polarizzazione della ricchezza ha
raggiunto un livello che ha pericolosamente stravolto le basi stesse della
Costituzione e della democrazia in quanto tale.
Ci stiamo intossicando con i frutti velenosi della finanziarizzazione che non si
interessa solo di speculazioni borsistiche o immobiliari, che non ciba i suoi
mega fondi solo con i profitti delle Hi-Tech ma rastrella capitali attraverso i
fondi pensione, nei quali i lavoratori sono spinti a depositare il tfr, o
attraverso le assicurazioni che vanno sostituendo sempre più il welfare state
con quello aziendale, decretando tra le altre cose la morte del sistema
sanitario nazionale e un’inflazione che flagella ormai da anni le buste paga di
tutti i lavoratori dipendenti determinata, per la prima volta nella storia del
capitalismo dal ‘900 ad oggi, da un eccesso di profitti e capitali circolanti
invece che dalla crescita dei salari.
Ora se tutto questo è terribilmente legale, come facciamo a non indignarci di
fronte all’ipocrita piagnisteo istituzionale? Come facciamo a non vedere quanto
la potenza finanziaria dei grandi fondi e delle loro lobby, illegali in Italia
ma tranquillamente tollerate nei palazzi del potere, abbia minato e corrotto il
dibattito politico istituzionale e i processi decisionali?
Come facciamo a non accorgerci di come gli assetti proprietari dei media main
stream indirizzino l’informazione propinandoci da anni paradossi del tipo: “per
superare la disoccupazione giovanile chi è occupato deve lavorare di più e più a
lungo”, “bisogna ridurre il costo del lavoro per essere più competitivi sui
mercati internazionali” o peggio “i ricchi non vanno tassati così investono i
profitti e stiamo tutti meglio”.
Tutto ciò ha aumentato a dismisura la polarizzazione della ricchezza
penalizzando il mercato interno e riducendo pesantemente le tutele per i più
deboli, isolando il dissenso e riducendolo ad un cupo rumore di fondo.
Il punto è che oggi indignarsi non basta più, bisogna provare a ribaltare
questo sistema e forse, inconsapevolmente, il suggerimento sul che fare ce lo
dà, paradossalmente, proprio il Presidente Mattarella quando nel suo intervento
di venerdì sottolinea che senza equità sociale, senza stipendi dignitosi, non
può esserci pace.
La sua preoccupazione deve diventare il nostro impegno quotidiano, rilanciare il
conflitto sociale è conditio sine qua non per un cambio radicale nelle politiche
salariali ma anche per una nuova soggettiv/azione che, nell’incontro delle
lotte, definisca nuovi ambiti di protagonismo politico di tutte le forme del
lavoro subordinato e del non lavoro.
Generalizzare le lotte di categoria legandole alla difesa dei servizi e alla
lotta contro il riarmo e la guerra, farle incontrare e intrecciarle con
l’ecologismo e le azioni dirette di Ultima Generazione o di altri gruppi
giovanili, andare a votare per i referendum su lavoro e cittadinanza sono oggi
le risposte possibili ad uno sfruttamento che si è ormai diffuso ad ogni ambito
della nostra vita e che, con l’estendersi delle guerre, sembra minacciare
finanche la nostra stessa esistenza. Insomma è tempo di Rivolta!
Redazione Palermo