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Connetti la tua rabbia. Intervista a Lee Lai
Nata a Melbourne nel 1993, Lee Lai è una fumettista transgender asiatica australiana che vive in Canada. Vincitrice di numerosi premi per artisti under 35, debutta nel 2021 con la graphic novel Stone Fruit, di cui Cannon (Coconino Press, 2025, 304 pagine, € 24) è un seguito ideale che porta avanti la sua lucida esplorazione delle relazioni umane nella società contemporanea.  L’abbiamo intervistata in occasione di Lucca Comics & Games 2025. PULP: In premessa alle mie domande: Cannon ha un’estetica quasi del tutto uniforme, uno stile realistico in bianco e nero. Tuttavia alcune scelte spezzano questa uniformità,  la prima è un uso particolare che fai di alcuni uccelli che compaiono in determinate situazioni. Qual è il loro ruolo? LL: Si tratta di gazze ladre, e compaiono ogni volta che la protagonista prova rabbia oppure un senso di perdita del controllo, e ogni tanto compaiono quando si trova con personaggi che stanno affrontando emozioni negative a loro volta e da lungo tempo, come suo nonno. La gazza ladra è una soluzione versatile nella scrittura in quanto porta con sé una moltitudine di simbolismi: nella cultura orientale sono un simbolo di buona fortuna e di connessione, mentre nella cultura occidentale significano sfortuna o un presagio negativo. Per me è utile pensare alle differenti interpretazioni che possiamo dare alla rabbia, che può rivelarsi un’energia produttiva e necessaria o anche distruttiva. PULP: Il secondo elemento che spezza l’uniformità dell’estetica di Cannon è la virata sul rosso di alcune tavole,  di regola bianco e nero. Qual è il senso di questa scelta? LL: Come le gazze ladre, il rosso compare quando la protagonista è arrabbiata. Il mio libro è soprattutto un’esplorazione del ruolo che la rabbia gioca nella nostra vita. Il rosso appare anche quando qualcuno sta guardando un vecchio film horror in videocassetta. Scrivendo Cannon mi sono innamorata dell’horror e negli anni che ho impiegato a realizzare il libro mi sono resa conto che il genere non lesina le allegorie. Il body horror e la violenza sono usati per esplorare temi delicati come i traumi e il lutto e lo fanno in modi che spesso approdano all’isteria fino a sfociare nella comicità e nel trash. Credo sia questo aspetto dell’horror che piace a molti spettatori. Credo che allo stesso modo la rabbia si manifesti talvolta in maniera isterica, a quel punto quando una persona perde il controllo diventa comica o addirittura ridicola. L’isteria è il collegamento tra la rabbia e l’orrore che io rappresento con il colore rosso. PULP: Il 2025 è stato un’ottima annata per il genere horror che sembra stia tornando attuale in quanto racconta qualcosa della nostra società. Che ne pensi? LL: Sono d’accordo. Credo che abbiamo fame di storie che confermano la nostra esperienza del mondo che ultimamente è diventata terrificante. Forse lo è sempre stata ma negli ultimi anni lo è di più, e trovo conferme di questo quando vedo la paura affrontata in maniera creativa. PULP: Un altro aspetto che colpisce nel tuo fumetto è il ruolo dei nastri di auto rilassamento. Uno dei personaggi principali l’ascolta in cuffia mentre sta correndo, talvolta in parallelo con le scene di sesso. Qual è il significato di questa scelta? LL: Qualche volta ho usato questo parallelo con le scene di sesso. Credo che il ruolo del nastro sia di incoraggiare l’ascoltatore a calarsi nel proprio corpo. Ironicamente, alcune delle scene di sesso sono piuttosto cerebrali e poco, come dire, incarnate. Penso che i nastri abbiano due funzioni: una è di mostrare che la protagonista sta facendo di tutto per gestire sé stessa prima di rendersi conto che la gestione di sé potrebbe non essere la migliore delle risposte. L’altra funzione è quella di uno strumento che salda le scene tra di loro. In questo graphic novel ho davvero voluto sfidare me stessa nella scrittura di diverse scene, con diversi personaggi, che si svolgono nello stesso frangente temporale. Rendere questo in un fumetto può essere difficile ma volevo proprio raccontare in parallelo ciò che i diversi personaggi stavano passando nello stesso momento e come ciò influenzasse le loro interazioni. PULP: Abbiamo sostituito la cura di sé con la gestione di sé o siamo sempre stati così? LL: Questa è una domanda esistenziale. Credo di essere diventata sempre più critica nei confronti dell’idea della gestione del sé e della mercificazione della salute portata avanti dall’industria del benessere e non mi sorprende che tutto ciò sia più popolare che mai essendo il nostro stile di vita più sregolato e malsano che mai. Ma d’altra parte come puoi pensare al benessere con un genocidio in corso? In definitiva credo di aver messo una discreta dose di cinismo in questo libro e nella mia vita, anche se le strategie di gestione del sé alla fine un senso ce l’hanno. PULP: Le scene di sesso e i corpi nudi che disegni sono di un realismo dimesso. Ciò ha un significato? LL: Si tratta dei corpi e delle scene di sesso che voglio disegnare perché sono i corpi che vedo intorno a me e che amo. Ho sempre amato i corpi di ogni genere, sono meravigliosi da guardare e ti dirò che mi sono sentita ingannata quando, dopo aver guardato film e scene di sesso da adolescente, ho sperimentato l’intimità in prima persona e mi sono resa conto che è completamente diversa, è meno patinata e molto più onesta, più tenera e talvolta più comica, a volte addirittura imbarazzante, è una vasta gamma di cose. E trovo bello mostrare che si tratta di qualcosa di pratico più che politico, mi dà una grande soddisfazione. PULP: Trovi che la rappresentazione dei corpi fatta dai media mainstream sia una forma di biopolitica? LL: Sì, ed è impressionante. Credo che oggi in particolare lo sia e non sono contraria, lo trovo divertente, mi lascia stupita. Vedi, nei film e nei programmi TV degli anni ’70 il canone estetico dei corpi era molto più rilassato. Ora siamo in quest’era dove tutto è posticcio, come in un film della Marvel, e le aspettative sono alte come mai prima, ogni corpo dev’essere fottutamente pompato tanta gente ne soffre. PULP: Qual è lo sguardo sulle relazioni umane che fai trasparire dalla graphic novel? LL: La rabbia può essere istruttiva se la sappiamo ascoltare, il conflitto e il confronto aspro a volte sono necessari e possono essere trasformativi. Non sempre, ma talvolta sì, anche se non credo di avere risposte semplici a riguardo perché non credo che ce ne siano. Credo ci siano solo diversi dettagli confusi e che il meglio che possiamo fare sia essere onesti con noi stessi. PULP: In Cannon è molto presente l’elemento dell’identità: etnica, sessuale, generazionale. Come interagiscono queste identità fra loro? LL: l’identità può essere un’arma distruttiva, l’ho visto succedere in molti modi anche nel mondo dell’editoria. Credo di aver sviluppato più indecisione che mai nei confronti dell’idea di identità. Quand’ero più giovane per me era molto importante capire quale fosse la mia per orientarmi nel mondo ma adesso il mondo sta cadendo a pezzi comunque. Credo che dovremmo scartare una certa idea di identità ma credo anche che l’individualismo possa danneggiare il senso di comunità così come ogni cosa può essere uno strumento per avvicinare le diverse comunità. Non credo di avere un’opinione definitiva sull’argomento, ma credo che continuerà a saltar fuori nel mio lavoro perché è così che organizziamo il nostro spazio sociale, più che mai in senso polarizzante.  PULP: Una dei protagonisti lavora con la scrittura ma ha problemi a scrivere come vorrebbe. Ciò rispecchia un problema che tutti abbiamo con una pratica antica e naturale come sederci in cerchio e condividere storie? LL: Credo che lei abbia problemi perché non è connessa con la sua comunità in molti sensi. Credo che se fosse circondata da pari e da mentori che la portino a farsi le giuste domande e la incoraggino non farebbe tutta questa fatica e non farebbe scelte creative che la portano a tradire le persone che ha intorno. Credo che la mia strategia principale per proteggermi come artista sia fare fronte comune con altri fumettisti, poeti, scrittori e artisti visuali e discutere tutti insieme le nostre idee per mettere in atto le strategie che ci permettono di continuare con il nostro lavoro. L'articolo Connetti la tua rabbia. Intervista a Lee Lai proviene da Pulp Magazine.
David B. / Il grande male di vivere
P arliamo nuovamente di David B, ma questa volta provando a entrare nel mondo del fumettista francese attraverso l’adito del suo capolavoro più famoso.  Se ci sono infatti libri che con la loro apparizione segnano un prima e un dopo, non c’è dubbio che il nostro modo di intendere le graphic novel è cambiato per sempre dopo “Il grande male”, di cui Coconino propone ora una ristampa in edizione economica. La sua pubblicazione in Francia, in sei volumi a partire dal lontano 1999,  ci consegna infatti per la prima volta un autore di fumetti che prova, riuscendoci,  a mettersi completamente a nudo nell’autonarrazione della propria problematica adolescenza e della crescita come giovane adulto. Certo, il punto di vista autobiografico non è mai stato completamente estraneo al fumetto, e già artisti del calibro di Art Spiegelman e Robert Crunch, per fare due esempi illustri presi a caso,  non si erano tirati indietro quando si è trattato di “metterci la faccia”, comparendo all’interno di una propria opera.  Il caso di David B. è però sostanzialmente diverso, confrontabile, almeno in Europa, forse soltanto con Persepolis, l’autobiografia disegnata di Marjane Satrapi che vedrà la luce di lì a pochissimo. Se la durata è già di per sé un sintomo eloquente del processo creativo, va sottolineato che L’Ascension du Haut Mal è stato scritto nell’ arco di 20 anni, come una forma di interminabile autoterapia che vede Pierre-François crescere in conflitto con la grave malattia del fratello Jean-Christophe, un evento destinato a  sconvolgere  i Beauchard e a mutare radicalmente le loro vite. Si tratta di una strategia terapeutica che, ironicamente,  fa da contrappunto proprio alle varie terapie “alternative” e ai rispettivi guru, di volta in volta entusiasticamente appoggiati dalla madre, nell’incedere di una storia crudamente grottesca nei suoi risvolti umani. Siamo del resto nei primi anni ‘70 e la scia della cultura hippy, ormai riciclata come folklore mainstream, approda ora per disperazione anche nella borghese e acculturata famiglia Beauchard. La malattia,  il “grande male” del titolo, è infatti l’epilessia, un “male oscuro” che in forma grave è a fatica riconoscibile e, al tempo, incurabile per la medicina ufficiale. Anche il fumetto, tuttavia,  si rivela ben difficilmente prescrivibile come terapia di gruppo, e nessuno dei familiari di Pierre-François infatti si riconoscerà nella versione offerta dal libro (tanto meno la sorella, praticamente espunta dalla ricostruzione).  Qui David è un bambino combattivo e violento, che impara a crescere con i suoi mostri e a tradurre il suo furore nell’impeto della creatività. Perché Il grande male è,  soprattutto, questo:  l’evoluzione del suo sguardo sulla malattia del fratello.  E il conflitto tra i due esplode filtrato anche attraverso il grandangolo delle rispettive aspirazioni adolescenziali: quelle di  Pierre-François che alla fine assume il nom del plume di David B. per simpatia  con le vittime della Shoah, e quelle di un risentito Jean-Christophe che, privato di un infanzia,  si identifica con i peggiori autocrati del secolo scorso come Hitler e Stalin. Se si trattasse solo di questo,  faremmo però fatica a intendere la grandezza e l’originalità di quest’opera, oggi che quasi ogni graphic novel alza in pratica il sipario sui traumi giovanili del suo autore o della sua autrice,  riaffermando la regola fumettistica della autofiction.  La sua unicità consiste invece nel documentare, in parallelo al subbuglio esistenziale di  Pierre-François, l’avanzamento del mondo visionario di David B. Mentre assistiamo alla maturazione della sua vicenda umana, non possiamo infatti fare a meno di osservare come spettatori incantati un universo grafico in gestazione che sembra germinare direttamente dal quel composto di inquietudini e di esplorazioni giovanili che rendono Il grande male un grande romanzo di formazione. Un orizzonte artistico che,  tra demoni e fantasmi più o meno amichevoli, fonda la propria cosmologia attingendo da un crogiolo pressoché inestinguibile di stili, di culture e di epoche. Un mondo perturbante e notturno, ma non per questo meno familiare, impastato della stessa sostanza dei sogni o degli incubi,  dove le ombre delle figure che si allungano verso Pierre-François non rispettano  le leggi della prospettiva ma solo le proporzioni del suo inconscio.  Un mondo in bianco e nero che ad ogni tavola paga fino in fondo il  suo debito –  largamente riconosciuto dall’autore – con Hugo Pratt, Will Eisner, José Muñoz.     L'articolo David B. / Il grande male di vivere proviene da Pulp Magazine.
Distopia, distopia, per piccina che tu sia… Intervista a Simone Angelini
Simone Angelini, classe 1980, nasce a Chieti e collabora con riviste come “Linus” e “Alias Comics”, l’inserto del “Manifesto”. Una dozzina di anni fa inizia il sodalizio con lo scrittore e fumettista Marco Taddei. La loro graphic novel più famosa è la pluripremiata Anubi, pubblicata nel 2015, e che gli vale tra gli altri il premio Boscarato.  Rifrazione Fantasma (Coconino Press, 2025, p. 264, euro 17,96), è la nuova graphic novel distopica di Angelini, con un tono leggero e un’estetica colorata che racconta la vicenda di Falco Lomuncolo, un ex ingegnere che esce di carcere dopo una detenzione lunga anni e si ritrova in un mondo che non riconosce più, dominato dai social network e da onnipresenti droni spia che controllano costantemente la vita delle persone. Sarà una sua vecchia invenzione la chiave della personale ribellione. Rifrazione Fantasma è un’opera divertente da leggere e ricca di spunti, che riflette sulla società contemporanea con ironia e lucidità. In occasione di Lucca Comics and Games 2025 abbiamo intervistato l’autore.  PULP: Nella tua opera Rifrazione Fantasma troviamo una serie di elementi di world building distopico, la popolazione è sottoposta ai “crediti universali” e ha assunto una pigmentazione in “pantone caramello”, insieme a tanti altri elementi che compongono un quadro preciso. Vogliono essere un affresco politico? Di che genere? SA: Sicuramente sono riferimenti… Mi piace dire che è una realtà che si muove con qualche secondo di sfasamento rispetto alla nostra, quindi non troveremo sicuramente una fantascienza estrema, con elementi impensabili. Rappresenta una realtà vicina alla nostra, ma si potrebbe anche parlare di retrofantascienza, nel senso che nessuno vieta di pensare che stiamo muovendoci in una società meno progredita della nostra, ma più sviluppata sotto il punto di vista tecnologico, sotto alcuni aspetti. Utilizzare quegli elementi è servito anche per creare quel contatto con la nostra realtà e, quindi, per avviare una sorta di riflessione senza prendere una posizione, aprendo un dialogo che susciti un ragionamento nel lettore e porti in superficie degli elementi che pensavo potessero essere di riflessione anche per un nostro contemporaneo. PULP: Uno di questi elementi in particolare, la volgarità come fattore di decurtazione del credito sociale, suscita due domande. La prima: fai una satira di quella che qualcuno chiama cancel culture e dell’idea che una certa parte politica sia eccessivamente suscettibile? La seconda domanda è: si tratta di una citazione da Demolition Man? SA: Demolition Man non lo ricordo assolutamente; è un film che penso di aver visto circa trent’anni fa e la mia memoria ormai è quella che è. Il riferimento al contemporaneo, quindi alla cancel culture, c’è sicuramente. Vivo in questa realtà e mi piace ragionare su queste cose. Però è anche una riflessione leggera, o un voler tornare all’infanzia, quando i genitori ti dicevano: “Hai detto una parolaccia, adesso metti le cento lire dentro al salvadanaio”. Più o meno, è anche un voler riflettere sull’infantilizzazione che stiamo subendo come cittadini: ci stanno trasformando in bambini in cui a gestire tutto è chi sta in alto e che, come un genitore, decide cosa è giusto e cosa è sbagliato, come ci dobbiamo muovere e parlare. Quindi, era un po’ riflettere anche su tutto questo utilizzando un escamotage narrativo.  PULP: Secondo te perché la distopia sembra essere un genere tanto attuale, sempre sul pezzo nel descrivere i nostri tempi? SA: Io in realtà penso che ci sia un modo di fare fantascienza e distopia che è molto evidente. A me piace invece la fantascienza che non ti fa capire subito cosa vuole dirti. Ti lancia un messaggio che devi capire solo dopo un po’ che stai leggendo o guardando un film, che ti fa ragionare. Quando invece è un qualcosa di spiattellato e rappresentativo diretto, non stiamo parlando di quello, non c’è più la parte del ragionamento che sicuramente è importante che ci sia. Questa importante presenza di racconti distopici non può che farmi piacere, perché è giusto che ci sia, è giusto che si rifletta non soltanto con i post sui social di gente che ti dice “questo è giusto, questo è sbagliato”, ma anche leggendo e facendo ragionare la nostra testa, raccogliendo informazioni tramite le opere culturali. PULP: Visto che parli molto dei social network nel tuo libro, secondo te, oltre a essere strumenti di platformizzazione, di controllo, di omologazione, hanno anche spazi di libertà? SA: Gli spazi ci sono, senza dubbio. Non sono assolutamente una persona che pensa a chissà quale tipo di cospirazione, però dobbiamo anche riflettere sul fatto che i social network sono strumenti di multinazionali, che devono fare denaro, fondamentalmente, a meno che non parliamo dei social network indipendenti che si muovono su reti indipendenti. Ma quelli di larga fruizione sono tutte macchine per far soldi. Dipende molto da come li utilizziamo: se ci lasciamo trascinare nell’utilizzo standard che ci viene suggerito dagli algoritmi — da tutti questi algoritmi infernali che stanno brevettando — siamo semplicemente un ingranaggio di quel sistema per fare soldi. A quel punto, la libertà magari si dovrebbe trovare fuori da quei sistemi. PULP: Parliamo ora dell’aspetto visuale di Rifrazione Fantasma. Il volume ha un’estetica anni ‘80 che sembra ispirarsi anche alla grafica pubblicitaria dell’epoca. Come l’hai costruita e che ispirazione hai preso? È una scelta deliberata o lavori sempre così? SA: In realtà, questo è un lavoro che spicca subito graficamente. Non dico che sia distante dai miei lavori precedenti, però gli ho dedicato un tempo diverso. È un tipo di riflessione diverso, perché è un libro che è nato, come idea, circa quindici anni fa. Non è una storia nata adesso, quindi ho avuto tanto tempo per pensarlo e solo nell’ultimo anno l’ho materialmente disegnato. Avevo già in mente come farlo, e l’estetica che sono andato a scegliere è un’estetica non direttamente ispirata agli anni ’80; volevo un’estetica colorata e stravagante. Le spalline imbottite provengono dalle mie ricerche, dai miei archivi e da cose che vorrei mettere nei fumetti e che sono riuscito a incastrare in questo libro. Poi sicuramente io sono un figlio degli anni ’80, sono nato esattamente nel 1980 e quindi sicuramente ho portato nel libro questi elementi. Rileggendo il libro, ho ripensato a Ritorno al futuro e a tante altre fonti d’ispirazione che sul momento ho usato senza pensarci. PULP: Il personaggio di Falco Lomuncolo è uno smanettone, non è un semplice utente della tecnologia, ma è uno che ci mette mano. È un po’ il Tuttle di Brazil, è quella persona che si trova nella posizione di ribellarsi, volente o nolente. Rappresenta dunque la generazione hacker degli anni ’80 e ’90, quando un po’ tutti mettevano le mani nei computer, facendo anche pirateria e violando la legge? SA: Sì, sicuramente è come dici. Cioè, lui è il figlio di quegli anni lì. Appunto, facendo leva sulla sua passione da smanettone, è arrivato a essere un ingegnere per l’esercito. Falco arriva da quel mondo, dal poter mettere mano alle cose e crearle. Come ho detto prima, non utilizza la tecnologia in modo preconfezionato. Lui quella maniera la rifiuta, lui spacca i sistemi che gli vengono lanciati contro, come la sfera drone che lo perseguita. Preferisce tornare a lavorare sul progetto che stava realizzando per l’esercito e che aveva sviluppato da ragazzino, semplicemente per andare a spiare le compagnucce di scuola nel bagno, diventando invisibile. Per lui la tecnologia non è fatta di massimi sistemi, ma risponde a un bisogno diretto. PULP: Il mondo di Rifrazione Fantasma è pieno di occhi che ci guardano, e un fattore di liberazione è l’invisibilità. Perché Falco diventa invisibile attraverso il sudore? C’è una simbologia dietro? SA: In realtà no, è qualcosa che mi è venuto in mente così. Non essendo io uno scienziato, né un tecnico in grado di inventare qualcosa, ho dovuto pensare a una tecnologia che smaterializzasse le persone, non avendo minimamente idea di come poterla rendere un minimo credibile. Quindi, con la sospensione dell’incredulità, ho pensato questa cosa. Questo elemento ha sviluppato anche altre parti del libro, il bisogno di arrivare a Falco quando suda è andato a influenzare anche il suo look e certe scene di fuga.   L'articolo Distopia, distopia, per piccina che tu sia… Intervista a Simone Angelini proviene da Pulp Magazine.
Frank Miller / Il maestro è stanco
Dario il re di Persia appartiene a una casata destinata alla grandezza, alla testa di una grande nazione guerriera che si estende a perdita d’occhio. C’è tuttavia un osso troppo duro anche per lui, un popolo fiero e orgoglioso che dà del filo da torcere a tutta la sua casata, dal figlio Serse al discendente suo omonimo: i greci. I cittadini delle poleis, capitanati da generali del calibro di Temistocle, Milziade e Leonida, si oppongono ai persiani ingaggiandoli in una lotta che negli anni innaffia l’albero della gloria con fiumi di sangue. Ed è proprio dalla Grecia, per la precisione dalla Macedonia, che giunge il sovrano destinato a mettere tutti gli altri in ombra: Alessandro il Grande, le cui gesta echeggiano nei secoli nonostante la sua vita sia terminata anzitempo in giovane età.  Frank Miller è uno di quegli autori che, nella Storia del fumetto, segna un prima e un dopo la sua venuta. La sua opera è letteralmente imprescindibile e, soprattutto per quanto riguarda i comics, ha cambiato la poetica con una profondità che non è possibile ignorare. Già la sua prima run su Daredevil, a cavallo tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, ha avvicinato il linguaggio dei fumetti a quello del cinema con un ciclo noir metropolitano di un’intensità e di una classe che in pochi altri casi si erano viste e che hanno cambiato la percezione di un personaggio, Daredevil, fino a quel momento un po’ in cerca di un’identità sua in grado di lasciare un segno, quell’identità che sarebbe esplosa con il ciclo Born Again, un racconto titanico, febbrile e doloroso da cui non è possibile prescindere per chi si approccia oggi alla scrittura delle storie del diavolo rosso. Ma è con Batman: Il ritorno del cavaliere oscuro che il lavoro di Miller raggiunge la sua espressione più alta. La storia di questo Bruce Wayne futuribile, anziano e ferito, che ritorna in sella in una Gotham che il caos e la ferocia non hanno mai abbandonato, è la sintesi della visione milleriana del fumetto e della vita, un western di frontiera dal taglio anarchico di destra, in cui un eroe solitario cala sui banditi che spadroneggiano su un villaggio portando loro una giustizia feroce e primitiva in difesa di un ordine naturale che precede la legge e le istituzioni, rappresentate da un Superman tenuto al guinzaglio dal governo americano, contro cui Batman non esita a scontrarsi.  Se l’uomo pipistrello e il diavolo rosso sono stati personaggi con cui Miller si è ripetutamente misurato dando vita a opere di qualità stellare – incredibili Batman Anno Uno ed Elektra vive ancora – le sue opere creator owned hanno prodotto classici altrettanto importanti: da Sin City, l’universo narrativo noir nichilista il cui adattamento cinematografico lo ha visto debuttare alla regia, a 300 il successo planetario in cui Frank racconta la sua versione della battaglia delle Termopili, un’opera che reinterpreta liberamente la storia per creare un manifesto artistico e politico che racconta la maturazione piena di un artista e la sua presa di posizione in un mondo che di lì a poco sarebbe stato segnato dal concetto di scontro di civiltà. Successivamente è arrivato il declino: se All Star Batman and Robin, the boy wonder non funzionava e DK2, seguito di Il ritorno del cavaliere oscuro, funzionava ancora meno, Holy Terror è uno scivolone tremendo, di qualità altalenante dal punto di vista visivo, tirato via nella scrittura a voler essere generosi e becero nelle prese di posizione politiche, letteralmente una reazione scomposta agli attentati dell’11 settembre 2001. Successivamente Miller ha mitigato i toni delle proprie dichiarazioni, esagerati anche per via di una situazione personale non sempre semplice e di una risposta dura dei fan a una fase creativa non certo felice, ma dal declino non si è mai ripreso. Ed è qui che Xerxes – la caduta della casa di Dario e l’ascesa di Alessandro si colloca nel percorso milleriano: un tentativo di exploitation del successo di 300 poco riuscito come tutte le sue ultime opere. Azzeccato nella logica – una forma di esplorazione metafisica di un’idea molto personale dell’antica Grecia – si percepisce in ogni pagina la stanchezza di un maestro un tempo grande. Miller vorrebbe portare avanti l’evoluzione dell’estetica della sua epopea spartana ma finisce per fare l’imitazione di sé stesso. Il suo tratto è l’ombra di quel che era, ha perso il dettaglio e la plasticità delle figure, nelle scene di lotta manca il dinamismo di un tempo e il maestoso groviglio di gioielli che fu il Serse di 300 qui diventa una figura piatta, una macchia nera su cui si affastellano pezzi d’oro senza un progetto estetico solido alla base. L’essenzialità maestosa degli sfondi rocciosi ha lasciato il posto a una messa in scena scarna e vuota. La volontà sarebbe quella di inserire una dimensione mistica e psichedelica al racconto, ma il risultato è povero. La scrittura, vorrebbe sfruttare le possibilità di una narrazione sincopata, non del tutto lineare, che salta nel tempo, ma la lettura risulta sconnessa, i vari momenti stanno poco insieme e gli stacchi di continuità sono più fastidiosi che altro. Una logica dietro a certe scelte c’è, ed è pure ambiziosa, ma l’esecuzione non è all’altezza. Frank Miller ha ancora la mente di un maestro ma ha perso la mano, ha in testa una storia grande ma non ha più i mezzi per raccontarla e questo fa male. Umanamente  si perdona lo scivolone a uno che ha formato lo sguardo di milioni di lettori di fumetti, che ha elevato il medium intero, trasformandolo in una forma di narrazione a tratti più vitale delle sorelle più blasonate, ma le opere, perché lo stato di un artista si valuta anzitutto da quelle, gridano la sua stanchezza. E questo è inequivocabile: Xerxes – la caduta della casa di Dario e l’ascesa di Alessandro è il segmento di una striscia negativa che si spera finisca presto ma che presa da sola non riesce a non apparire per quello che è: un tentativo di correre nella scia di un capolavoro passato con il fiato drammaticamente corto. L'articolo Frank Miller / Il maestro è stanco proviene da Pulp Magazine.
Štěpánka Jislová / L’amore è facile ?
Scordatevi la classica graphic novel sull’amore, che se fosse un romanzo verrebbe subito categorizzata nei romance, tanto di moda oggi. Questo per il lettore è invece un viaggio introspettivo che scava nel profondo di ognuno partendo dall’esperienza personale dell’autrice, la ceca Štěpánka Jislová, considerata una delle voci più interessanti della nuova scena fumettistica internazionale. “Stretta al cuore” è infatti un’opera già tradotta in oltre dieci Paesi tra cui Francia, Germania, Stati Uniti e Brasile e arriva in Italia grazie alla lungimirante casa editrice Eris che ha fatto un ottimo lavoro di scouting.  Il contenuto è pesante, per nulla superficiale.  Inevitabilmente tocca  corde sensibili perché, diciamocelo, parlare d’amore non è mai facile, soprattutto se, come in questo caso, la protagonista confessa un abuso subito in età adolescenziale. Il trauma si ripercuoterà con un effetto a catena sulle sue relazioni, sessuali e affettive. Il percorso a ritroso nei ricordi che compiamo attraverso di lei fa nascere riflessioni anche dentro di noi, obbligandoci a soffermarci, a nostra volta, sul nostro vissuto. Al mancato supporto psicologico dopo l’abuso corrisponde l’autoanalisi che la ragazza si costringe a compiere su se stessa, per trovare  risposte alle domande che l’hanno finora allontanata dagli altri. Fondamentalmente le stesse sollevate con perplessità dai suoi coetanei. La generazione di riferimento è infatti una e ben precisa: quella dei ragazzi degli anni ’00, definiti millennial, con pochi strumenti a disposizione e uno spirito di ribellione forte almeno quanto la spinta a omologarsi agli altri. Una generazione che voleva essere vista e ascoltata ma che non sapeva nulla di grooming o gaslighting pur vivendoli sulla propria pelle.  Ora, la narrazione ci accoglie nel mondo di Štěpánka un passo alla volta, ce ne descrive l’ infanzia in cui cercava in tutti i modi di attirare l’attenzione dei genitori senza riuscirci,  circostanza con cui prova a spiegarsi in seguito perché non sia stata in grado di costruire una relazione sana e duratura, non sia dotata di un’autostima particolarmente vibrante o perché non abbia molti amici. A questo si aggiungono il disagio di parlare dell’abuso subito e ad alta voce a qualcuno. E l’istinto che la porterebbe a giustificare il suo carnefice. Durante questo viaggio incontreremo anche Michalhe che con lei inizierà una frequentazione di natura in apparenza solo sessuale. Come Štěpánka ha un passato difficile alle spalle perché le parole dette dai padri sono dure da digerire e creano crepe già in giovane età. I cliché sono i soliti: un uomo non deve piangere, un maschio deve essere virile e forte, non può avere i capelli lunghi e deve andare a letto con molte ragazze. Forse è per questo che a modo loro i due giovani si riconoscono nelle rispettive fragilità anche se ammetterlo vorrebbe dire abbattere i muri che li hanno protetti fin qui. Attraverso i loro diari e le loro parole scopriremo quanto i due hanno in comune,  si completano con i loro punti deboli e si intersecano come i pezzi di un puzzle chiamato amore. La verità è che le risposte non stanno in nessun libro, che la vita non si studia ma si vive, appunto, caduta dopo caduta. Un passaggio importante della graphic è però quella dedicata ad un interessantissimo approfondimento della teoria dell’attaccamento, basata sugli studi di John Bowlby e Mary Ainsworth e su esperimenti condotti negli anni ’60 e ’70 che hanno analizzato e classificato i diversi tipi di interazione tra il bambino e il caregiver. In sostanza, osservando il comportamento del bambino in presenza di un genitore e come esplora il suo ambiente, si può già intuire che tipo di impronta l’adulto stia trasmettendo al figlio. Questa interazione avrà provatamene anche un impatto sulle sue relazioni in età adulta. L’epilogo commovente conclude non una storia “d’amore” ma semmai una storia che tratta di amore, con un linguaggio semplice che parla a tutti a cuore aperto, rivoltando questo sentimento vitale in ogni aspetto. L'articolo Štěpánka Jislová / L’amore è facile ? proviene da Pulp Magazine.
Ana María Matute / L’infanzia inquietante
Ana Maria Matute nel risvolto di copertina racconta di non aver pensato all’inizio che I bambini tonti diventasse un vero libro: lo scriveva a frammenti, in luoghi diversi, su foglietti improvvisati, mentre attendeva il marito. Proprio lui raccolse quei pezzi sparsi, che altrimenti sarebbero andati perduti. Così, quasi per caso, nacque quello che Matute considera uno dei suoi libri più cari.  In effetti i ventitré racconti brevi di Ana María Matute sono delle pepite che risaltano nell’impaginazione inframezzata anche da qualche pagina bianca che sembra lasciata per sbaglio nella prima parte del libro edito da Canicola: piccoli lampi sull’infanzia, racconti scabri, inquietanti, refrattari a qualsiasi etichetta, che si collocano in una zona liminare, dove la crudeltà convive con la grazia e il mistero con la misera banalità quotidiana. A volte il racconto è solo un fermo immagine. La loro potenza sta proprio in questa indeterminatezza, in una scrittura che dice senza spiegare, che apre fenditure e slabbra ferite.  “E il giorno di Pasqua, quando il bambino dello straccivendolo si sedette alla tavola (…) vide, sopra la tavola, spellata, la testa del suo amico. Che lo guardava, per l’ultima volta, con quello sguardo che non aveva mai visto in nessun altro.” Con questo colpo di scena finisce L’agnellino di Pasqua una folgorazione che non viene spiegata né commentata ma che – ovviamente – confida nel lettore: chi legge deve saper cogliere da solo la crudeltà insita nella scena, deve intuire l’abisso che si apre tra la creatura bambino e il sadismo inconsapevole dei genitori. Fa venire in mente il povero bambino con le orecchie rosse maltrattato implacabilmente da Reiser nei suoi fumetti. Anche lì il lettore è messo di fronte a un meccanismo familiare spietato, dove l’infanzia diventa bersaglio della derisione, senza che l’autore si premuri di aggiungere spiegazioni.  È la stessa dinamica che troviamo nel celebre antecedente di Una modesta proposta di Jonathan Swift, dove l’autore suggeriva di cucinare i bambini irlandesi per sfamare i poveri.  Matute, Reiser, Swift – in modi diversi – si affidano alla complicità di chi legge. Non infantilizzano il lettore, non lo accompagnano con morali o spiegazioni rassicuranti. Lo pongono, piuttosto, davanti a un vuoto etico, scandaloso e rivelatore che obbliga a pensare, a provare disagio, a riconoscere la violenza implicita nelle strutture sociali e familiari – cosa che in media siamo abbastanza disponibili a fare – ma anche che esistono bambini tonti o addirittura bambini brutti e cattivi. L’infanzia non è solo una proiezione dei nostri pensieri e delle nostre cure, i bambini “Semplicemente non appartengono al mondo degli adulti”.  Parole di Ana Maria nell’intervista immaginaria che accompagna i racconti, costruita con frasi, interventi e scritti dell’autrice. È un’operazione che restituisce la voce dell’autrice, la sua visione dell’infanzia e della letteratura, e che dialoga: qui la finzione editoriale è uno strumento critico. Purtroppo, non altrettanto riuscita appare la seconda parte del volume, occupata dai contributi grafici prodotti in un laboratorio – fatto quando e dove non si sa – da vari autori. L’idea era quella di tradurre in fumetti l’universo dei racconti, ma il risultato delude: là dove Matute lascia in sospeso, evoca, disorienta, i fumetti tendono a spiegare, giustificare, addomesticare. Gli atti inspiegabili dei bambini diventano allegorie esplicite; l’infanzia, che per Matute è un mondo separato, ostile alle categorie adulte, viene ridotta a simbolo morale o pedagogico. È come se la radicale oscurità dei racconti fosse stata schiarita, smorzata, ricondotta a un senso condiviso. A questo si aggiunge una resa grafica che non aiuta: il tratto medio, la scelta quasi esclusiva di grigi spenti, l’assenza di segni davvero memorabili rendono i fumetti più simili a un esercizio scolastico che a un’opera compiuta. Viene da pensare che, se un laboratorio di narrazione produce un tale scarto rispetto alla forza originaria dei testi, la lezione sia proprio che non sempre la mediazione collettiva serve: i racconti di Matute parlano da soli, e con una potenza che nessuna illustrazione qui riesce a eguagliare. Scritti nel decennio dei Cinquanta, I bambini tonti mostrano un’infanzia che Matute libera da ogni cliché: non angeli né vittime, ma figure ambigue, crudeli, misteriose. È una libertà che rifletteva anche un sentire femminile in trasformazione, stanco di farsi carico dei bambini come destino inevitabile. Oggi, al contrario, la retorica dell’inclusività più superficiale e sciatta non sembra tollerare il “bambino cattivo” se non come vittima. Così si perde la possibilità di pensare l’infanzia come un mondo a sé, irriducibile all’innocenza o alla colpa. È questa libertà che i racconti di Matute illuminano con la loro forza scabra, e che i fumetti dell’edizione finiscono invece per addomesticare.  Ana María Matute (1925–2014) è stata una delle grandi narratrici spagnole del Novecento, considerata in Spagna una voce centrale della generazione dei “ragazzi della guerra” con riferimento alla guerra civile spagnola. I bambini tonti comparve in Italia per la prima volta nel 1964 per Lerici, in un’edizione accompagnata dalle tavole dell’artista e grafico Magdalo Mussio.  L'articolo Ana María Matute / L’infanzia inquietante proviene da Pulp Magazine.
Tom King / La nuova fattoria degli animali
Nel rifugio per animali Mansfield, la vita di Lucky è arrivata al capolinea. Tra pochi istanti uno dei guardiani verrà a prenderlo e lo porterà nella stanza denominata Abbattimento Animali. Il suo ultimo conforto è Fifi, una gattina che, tramite un buco fra le loro gabbie, riesce a parlargli. Proprio a lei Lucky affida il suo messaggio, le sue ultime parole che contengono il seme di una rivoluzione. Sull’onda emotiva del suo discorso, in parte motivazionale e in parte una sinistra profezia, Fifi coinvolge Titan, un altro cane impulsivo ma eroico in una rivoluzione che porta gli animali a cacciare gli umani e a prendere il controllo del rifugio. A quel punto cani, gatti e conigli fondano una nuova società in cui ognuno di loro dovrebbe essere libero. In teoria. Nella pratica i conflitti, le faziosità e i giochi di potere trasformano un’utopia in un sinistro regime autoritario capitanato da Piggy, un cane becero quanto carismatico, che trasforma il rifugio in un incubo febbrile che governa tramite un patto con quello che, fino al giorno prima, era il diavolo: gli esseri umani. Quando una storia diventa un classico, quando entra nel mito consegnandosi all’immaginario collettivo come patrimonio della cultura, una delle pratiche a cui si espone sono i retelling. Il mercato editoriale è pieno, per certi versi infestato, di opere che tornano sulle trame dei classici e le narrano di nuovo adattandole alla sensibilità contemporanea. Con risultati alterni, c’è da dirlo, perché per misurarsi con una storia che ha trasceso il tempo bisogna essere in grado di aggiungere qualcosa a una o più opere che potrebbero aver detto tutto. Una di queste storie è La fattoria degli animali, di George Orwell, rivisitata da Tom King con il suo Animal Pound. Certo l’impresa non è delle più semplici, la statura dell’autore di alcune opere imprescindibili del canone contemporaneo è immensa e questo suo libro, insieme a 1984, manipola archetipi profondi, forse contemporanei alla nascita della riflessione politica tout court. Ma King, forse il destino letterario è intuibile dal cognome, uno sprovveduto certo non è, sceneggiatore solido come pochi e caposaldo della scena fumettistica statunitense.  Per rendere l’idea del lento scivolamento verso un sinistro incubo di morte e oppressione, si potrebbe dire che nel rifugio Mansfield una rana abita insieme a cani, gatti e conigli. Non una rana vera, ma un anfibio metaforico, quello che fa il bagno nella pentola sui fornelli accesi e non si accorge che, poco per volta, sta bollendo viva. Certo, qualcuno tra i protagonisti sembra percepire che le cose poco a poco sfuggono di mano ma nessuno sembra voler agire, sono tutti troppo dubbiosi, troppo poco sicuri, troppo indecisi per agire. Ma soprattutto sono pochi. La massa segue il capo carismatico, la massa ragiona per slogan, la massa non ama il cambiamento e se gliela sfili da sotto i piedi un centimetro per volta, la libertà, non si dà troppa pena per difenderla perché lottare è rischioso, è faticoso, e fintanto che chi finisce sbranato in un cespuglio non è uno dei tuoi non penseresti nemmeno che qualcosa possa accadere a te. Sono i conigli, i più deboli, a farne le spese almeno inizialmente e non a caso sono diffidenti, perché quando non hai zanne, artigli o muscoli poderosi la tua paura è tutto quel che hai per sopravvivere, o quantomeno per provarci. Il nucleo della storia, la riflessione di fondo, rimane quella di Orwell la cui integrità non risente del trasporto in un’epoca contemporanea che si rivela tristemente adatta a recepirne il senso. Piggy è il leader carismatico contemporaneo. Volgare, rumoroso e con una forte connessione agli istinti più bassi, è il borghesotto che in tutta la sua miseria flirta con le lusinghe della seduzione autoritaria espressa con un messaggio terra terra, tanto comprensibile che non può non farti sentire intelligente anche se non lo sei, un gaslighting costante che capisci senza sforzo, o almeno così ti sembra, e a quel punto accetti la trasformazione del mondo intorno a te in tutto ciò da cui le cassandre provano ad avvertirti ma tu non le ascolti, perché il loro messaggio non è confortante.  Animal Pound è l’opera di uno sceneggiatore di thriller solido e padrone del mezzo che stacca verso la profondità nel realizzare un fumetto politico inquietante nella propria attualità, una rilettura che riesce a rendere attuale una storia senza tempo. L'articolo Tom King / La nuova fattoria degli animali proviene da Pulp Magazine.
Dave Mckean / Tra IA e l’incubi weird
D Dave Mckean è uno dei disegnatori più famosi del mondo. Raptor è un libro del 2021, che segue il suo capolavoro Black Dog e ne continua a modo suo i virtuosismi grafici. È stato di recente pubblicato dalle edizioni Comicon e presentato a Napoli durante l’omonimo festival. Ma prima di parlare di questo libro, una lunga premessa. Era interessante ascoltare a Napoli la sua conferenza e le sue conversazioni, perché nel 2022 McKean ha pubblicato un libro sperimentale, il primo libro con immagini completamente generate dall’Intelligenza Artificiale, dal titolo molto diretto: Prompt. Il libro ha infatti come sottotitolo Conversations with Artificial Intelligence. L’autore descrive tre conversazioni sulla creatività con l’Intelligenza Artificiale, e ne estrae qualcosa che… assomiglia alle illustrazioni di Dave McKean, ma proprio di brutto. In effetti lo stile di Dave si prestava molto, dato che da sempre è un mix di schizzi, disegno realistico, pittura, collage fotografico, e Photoshop (del cui uso è stato pioniere). In più, essendo molto famoso, il web è pieno della sue immagini, per cui è bastato chiedere alla IA: “ fai questa immagine nello stile di Dave McKean”, e la IA aveva tutte le informazioni a cui attingere per fare i suoi remix. Il risultato era abbastanza grezzo, e saltavano agli occhi tutte le allucinazioni create dalla piattaforma, ma in questo caso l’autore le aveva usate in maniera molto consapevole. Dopodiché cosa è successo lo sappiamo tutti: le IA hanno fatto passi da gigante, e non abbiamo ancora visto niente, ogni giorno acquisiscono la capacità di svolgere compiti complessi con sempre maggiore efficienza. Un articolo oggi diceva che l’IA forse pensa, forse no, ma se lo fa è in un modo che noi non possiamo capire… Cosa è successo dopo a Dave? Lui dice che la sua prima tentazione è stata quella di chiudersi in camera e di rannicchiarsi nel letto in posizione fetale. Di non fare più niente, sentendosi ormai inutile. Poi gli è passata, e ha dichiarato che la IA per produrre immagini è qualcosa che non va: azzera ogni soddisfazione, toglie l’esperienza e la riflessione che si producono quando cerchi di sforzarti di inventare delle immagini nuove. Che per carità, non è mica così ingenuo da non sapere che ogni artista è il mix della propria cultura grafica e della cultura precedente, ma così no. Non è post-umano, è disumano. L’intelligenza artificiale sta ridefinendo confini e obbligando a porci degli interrogativi fondamentali: cosa ci rende umani? E adesso torniamo a Raptor: com’è? Raptor  è un graphic novel che si muove su due piani: la vita reale, dove Arthur, uno scrittore inglese all’inizio del 900, cerca di mettersi in contatto con lo spirito della moglie morta, e, contemporaneamente,  un altro piano dimensionale, in un universo medievale-fantastico, dove un falconiere presta il suo servizio per combattere mostri lovecraftiani. I due piani sono destinati a convivere  e a fondersi. Arthur è personaggio storico realmente esistito, perché si tratta nientemeno che di Arthur Machen, lo scrittore che in  epoca vittoriana ci ha consegnato il classico horror Il grande Dio Pan, seguito da I tre Impostori, un romanzo a episodi dove alcuni racconti fantastici si intrecciano tra loro attraverso la testimonianza di tre diversi narratori. A I tre impostori, un opera considerata fondamentale per la letteratura weird, si lega la stella “decadente” del giovane Machen, oscurata tra i contemporanei dal talento e dalla fama del  più noto  Oscar Wilde. E’ curioso oggi il ritorno di  interesse per un autore come Machen,   scrittore e membro delle Golden Dawn (società magico-letteraria),  che fa capolino in maniera abbastanza sostanziale anche nel nuovo romanzo di un altro pilastro del mondo del fumetto, Alan Moore. Il Grande Quando – the Big When – questo il titolo – è il primo di una serie di romanzi fantasy-esoterici che ci terrà compagnia nei prossimi anni. Ma questa è un’altra storia. Raptor non è un libro labirintico come potrebbe esserlo una graphic novel di autori contemporanei come Chris Ware o Daniel Clowes, ma potremmo comunque definirlo un libro senza una vera direttiva, privo di una trama lineare, fatto più di suggestioni che di storie avventurose. Il lettore può divertirsi con i costanti cambi di segno e di registro visivo di MacKean, cosa che poi fa parte del suo DNA. Con il tempo il suo modo di disegnare si è fatto ancora meno realistico, debitore delle avanguardie del novecento, con improvvisi squarci astratti, per poi  magari deviare a sorpresa verso stilemi espressionisti. MacKean costruisce un libro non facile, e a un certo punto consiglierei di abbandonare l’ansia e l’affanno di capire ad ogni costo tutte le simbologie contenute nell’opera,  per lasciarsi  catturare dai suoi mondi fantastici, dove non è poi neppure così terribile perdersi. Presto forse anche virtualmente nella realtà digitale, visto che dopo l’esperienza di Prompt l’autore non ha rinunciato all’idea di utilizzare tecnologie di alto livello per portare i lettori a immergersi nei suoi universi. In un modo nuovo, che – parole sue – la tecnica  sta preparando, ma che al momento non è ancora alla portata di tutti.   L'articolo Dave Mckean / Tra IA e l’incubi weird proviene da Pulp Magazine.
Graphic-novel di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza: la militarizzazione avanza
Va avanti sempre più spedita la propaganda della “cultura militarizzata” che punta da alcuni anni anche al pubblico dei fumetti, il quale, a parte i nostalgici e/o affezionati storici, si avvicina anche alla fascia di età 20-30. Avendo a disposizione sempre nuove risorse finanziarie pubbliche, al contrario delle case editrici pienamente sul mercato, che arrancano, alzano i prezzi di copertina o chiudono, le forze dell’ordine cooptano prestigiosi disegnatori, tutti di “bocca buona”, per realizzare improbabili graphic novel, certamente non all’altezza creativa delle storie che coinvolgono personaggi come Dylan Dog, Tex o Nathan Never. Vediamo, ad esempio, cosa partorisce la mente creativa della casa editrice di Polizia Moderna, dove è nata la saga auto-definita sul loro sito web, totalmente “made in Polizia di Stato”. Come tutti sanno, in Calabria, si è accumulato negli anni un know-how che ci fa eccellere in tutto il mondo nell’ambito del business della cocaina. D’altra parte, tutte le statistiche contenute in diversi studi sulla devianza e la criminalità organizzata ci dicono che gli omicidi In particolare quelli per mafia sono in calo drastico fin dagli anni Novanta, con oltre 3mila omicidi contro i poco più di 300 degli anni ’20 del 2000. Nasce quindi l’esigenza di inventarsi un nuovo ruolo alle forze dell’ordine, non più intente a sventare sparatorie nelle strade come ci descrivevano i film delle saghe “poliziottesche” degli anni ’70, ma a infondere sicurezza nella popolazione. Questa, dal canto suo, era ed è sempre più alle prese con un’altra forma di insicurezza, quella della precarietà lavorativa, delle emergenze climatiche, della caduta in basso dei salari e del potere d’acquisto delle famiglie, solo per citarne alcune. Questo ruolo protettivo quasi “materno” delle forze dell’ordine, che saranno sempre più impegnate nel sedare rivolte sociali e non più ad arrestare mafiosi incalliti, viene impersonata appunto da questi personaggi grotteschi ben disegnati, ma inseriti in sceneggiature che dire improbabili è farle un complimento! Vediamo quali sono, appunto, queste storie avventurose, quasi marziane, attraverso la presentazione del sito web della Polizia di Stato dell’ultimo numero del commissario Mascherpa impegnato in una terra infestata dalla ‘ndrangheta: «Marta e Mascherpa, si concedono una fuga d’amore sulla Sila innevata (ma col cambiamento climatico occorre andare in altissima quota per trovare neve! n.d.r.) , ma nel corso di un’escursione in slitta accadrà l’impossibile. In aiuto arriveranno i colleghi della polizia di montagna, per fortuna presenti sul posto per il servizio di sicurezza sulle piste da sci (sono anni che le piste da sci sono il più delle volte chiuse per assenza di neve, n.d.r.) Le indagini che seguiranno porteranno a sgominare una banda di criminali anche grazie all’intervento dei Nocs. Nel frattempo a Cosenza una ragazza si risveglia stordita e sta quasi per cadere dal cornicione di un palazzo storico, ma verrà salvata e aiutata da una psicologa della Polizia di Stato a ricostruire cosa è accaduto e ad affrontare una terribile verità». Come si può notare, c’è proprio un corto-circuito, un compiacimento tutto autoreferenziale verso personaggi che forzatamente vengono inseriti per dipingere ruoli accudenti e salvifici che in realtà potrebbero benissimo, e spesso già lo sono, essere svolti, per esempio, dal soccorso alpino o da associazioni di auto-mutuo aiuto per il presunto stato di disagio psicologico di cui soffrirebbe la ragazza del fumetto. Lo stile fumettistico è stato preso in prestito in passato anche per i famosi calendari, come quello del 2019 che sottolineava con enfasi come «ad ogni tavola, sono associati i nuovi segni distintivi di qualifica, che consentono di cristallizzare, anche graficamente, l’identità civile della Polizia di Stato. I nuovi segni di qualifica saranno adottati dalla Polizia di Stato nel prossimo anno e offriranno la possibilità di proiettare l’Istituzione verso il futuro, chiudendo il percorso di smilitarizzazione intrapreso con la riforma del 1981». Purtroppo non bastano dei nuovi segni di qualifica, oppure una legge, per trasformare una cultura militare in una di “servizio civile”, lo spirito repressivo legalitario è sempre più spesso all’esercizio arbitrario ed illecito della forza tipico degli anni ’70, permangono e spesso, come in questi ultimi anni, subiscono un’accelerazione dettata da chi sta al governo. Potendo contare sulle nostre tasse per produrre questi capolavori artistici per fini propagandistici, il prezzo di copertina viene interamente devoluto alla sezione Assistenza della Polizia di Stato – Piano Marco Valerio, istituito per sostenere i figli minori dei dipendenti della Polizia di Stato affetti da gravi patologie. Questa sorta di “welfare aziendale” pagato, anche se indirettamente, sempre dalle nostre tasse, va ad aggiungersi a tutti gli altri benefit degli appartenenti alle forze dell’ordine non ultimo quelli introdotto dall’ultimo ex-decreto sicurezza, che offre ai poliziotti la tutela legale gratuita in caso di controversie penali e civili. D’altra parte quest’opera di mistificazione, purtroppo, viene portata avanti anche colpendo fasce di età inferiori, quelle che abitualmente giocano a colorare le figure di alcuni album, con favole e personaggi vari. Nel “Carabifantasy da colorare”, ideato dai creativi della II Sezione ufficio Cerimoniale Stato Maggiore V Reparto presso il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, troviamo la carabiniera-Biancaneve, un carabiniere-cacciatore nerboruto che protegge un Cappuccetto Rosso intento a fare il saluto militare e la linguaccia, al lupo cattivo che scappa, è un carabiniere-Geppetto che accoglie tra le sue braccia un Pinocchio di legno. Accudimento, quasi materno, protezione, difesa dei più deboli, immagine rassicurante e pacificatrice e onnipresente, questi sono i concetti che tentano di veicolare nel pubblico dei più piccoli le forze dell’ordine nell’intento strategico di normalizzare un approccio alla vita e alla convivenza tra persone ispirato alla logica militare. Stefano Bertoldi, Osservatorio contro la militarizzazione delle Scuole e delle Università
Molfest 2025, Festival della cultura POP e cosplay a Molfetta: ma che ci fanno le Forze Armate?
Si è aperta ieri, venerdì 27 giugno 2025, a Molfetta in provincia di Bari il Molfest, il Festival della Cultura POP e del cosplay, che proseguirà per tre giorni tra stand, spettacoli in costume e stage in giro per le strade e le piazze principali della città. Si presuppone che nell’arco dei tre giorni l’iniziativa richiami migliaia di adolescenti e giovani da tutto il Mezzogiorno, attratti e attratte dalla moda del momento, cioè dai travestimenti aventi come tema i personaggi dei cartoni animati, dei fumetti, dei videogiochi e dei manga, i famosi anime giapponesi. Il Festival è patrocinato dalla Città di Molfetta e ha come partners Radio Norba, il più grande network radiotelevisivo del Sud, Junior TV e Super Six, canali tematici per bambine e bambine, insieme al CNR e a tante altre aziende di videogiochi e realtà legate al mondo giovanile dei fumetti. Tra gli espositori, invece, figurano nell’apposita pagina del sito (clicca qui) aziende di abbigliamento, di giochi da tavolo, carte collezionabili, accessori, fumetti, videogiochi, case editrici, tatuaggi, maglie ispirate ai manga giapponesi, il tutto per affascinare i ragazzi e le ragazze. Eppure, senza figurare tra i partner e gli espositori, il Molfest, il Festival della cultura POP risulta costellato di stand delle Forze Armate, dalla Marina Militare all’Aeronautica, all’Esercito alla Polizia Penitenziaria, che occupano nel complesso un’area maggiore rispetto agli altri spazi dedicati allo specifico argomento del Festival, una sproporzione che è sintomatica del clima guerrafondaio che stiamo vivendo in questi ultimi giorni con il Governo che obbedisce al diktat della NATO e aumenta la spesa per la difesa al 5% del PIL nazionale. Ma, quindi, cosa ci fanno le Forze Armate al Molfest, il Festival della cultura POP con tantittime/i bambine/i nei loro stand? Perché un tale sfoggio di divise e simulatori di strumenti di morte, come cacciabombardieri, portaerei, elicotteri, visori, largamente sponsorizzati da Leonardo SpA, la maggiore industria di costruzione ed esportazione di mezzi di guerra? In tempi di totale disimpegno morale, di generale indifferenza nei confronti dei massacri e dei genocidi in corso per mano di governi fanatici e di militari fuori controllo, qual è il rapporto tra la cultura POP e le Forze Armate? In realtà, le risposte circostanziate ai nostri interrogativi, e questo capita ormai da molto tempo, rimarranno inevase, giacché l’unico motivo per cui le Forze Armate sono presenti in tutte le manifestazioni in cui accorrono i/le giovani obbedisce ad un progetto ben definito, esplicitato chiaramente nel Programma di Comunicazione del Ministero della Difesa del 2019 (clicca qui per il documento) e anche in quello più recente del 2025 (clicca qui per il documento), in cui risulta chiaro l’obiettivo delle Forze Armate, cioè quello di aggredire tutti gli spazi, dalle scuole alle manifestazioni pubbliche in cui sono presenti i/le giovani e presentare la prospettiva di arruolamento, dal momento che, come afferma anche il generale Leonardo Tricarico, «Se venissimo attaccati non potremmo difenderci. I nostri militari? Non bastano». Sono anni, ormai, che come Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università denunciamo questa indebita invasione di spazi pubblici della società civile per fare reclutamento e presentare, come scrivono nei loro documenti, «la Difesa e le Forze Armate come elementi essenziali del sistema nazionale e internazionale di sicurezza, al servizio della protezione delle nostre libertà», legittimando uno slogan, ormai diventato istituzionale, secondo il quale «Si vis pacem, para bellum». E, in particolare, la presenza delle Forze Armate al Molfest rientra in una delle “azioni specifiche” del Programma di Comunicazione 2025, infatti: «Per azioni specifiche si intendono le iniziative di comunicazione con cui il Dicastero intende proiettarsi all’esterno. Si continueranno ad utilizzare i tradizionali canali di interazione, ma per tutti vale il tassativo indirizzo che su questi canali, sempre, si dovrà far riferimento a un’unica realtà identitaria che si sintetizza con il termine “DIFESA”. In particolare i canali sono: eventi e attività aperti alla partecipazione della società civile, quali saloni, mostre, convegni, incontri culturali, seminari nelle scuole, ecc. continueranno a svolgere una funzione importante quali occasioni per esprimere le eccellenze peculiari della Difesa. Le manifestazioni di interesse dovranno essere individuate sulla base di criteri che tengano conto di idonei criteri tematici, geografici e temporali, della reputazione delle società organizzatrici, della pertinenza dei contenuti e dell’adeguatezza dei contesti di svolgimento». Prepariamoci, dunque, in tutti gli spazi e in tutti i settori della società civile a questa subdola e aggressiva strategia di comunicazione delle Forze Armate, compatte sotto “l’identità linguistica” #DIFESA, che, mentre mostra gli aspetti più ludici e accattivanti della strumentazione a loro disposizione, contribuiscono a normalizzare l’universo simbolico che legittima le guerre che domani i nostri figli e le nostre figlie affronteranno, giacché quello del 5% del PIL nazionale non è che un investimento economico che dovrà, in qualche modo, dare i suoi frutti. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, Puglia