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Dave Mckean / Tra IA e l’incubi weird
D Dave Mckean è uno dei disegnatori più famosi del mondo. Raptor è un libro del 2021, che segue il suo capolavoro Black Dog e ne continua a modo suo i virtuosismi grafici. È stato di recente pubblicato dalle edizioni Comicon e presentato a Napoli durante l’omonimo festival. Ma prima di parlare di questo libro, una lunga premessa. Era interessante ascoltare a Napoli la sua conferenza e le sue conversazioni, perché nel 2022 McKean ha pubblicato un libro sperimentale, il primo libro con immagini completamente generate dall’Intelligenza Artificiale, dal titolo molto diretto: Prompt. Il libro ha infatti come sottotitolo Conversations with Artificial Intelligence. L’autore descrive tre conversazioni sulla creatività con l’Intelligenza Artificiale, e ne estrae qualcosa che… assomiglia alle illustrazioni di Dave McKean, ma proprio di brutto. In effetti lo stile di Dave si prestava molto, dato che da sempre è un mix di schizzi, disegno realistico, pittura, collage fotografico, e Photoshop (del cui uso è stato pioniere). In più, essendo molto famoso, il web è pieno della sue immagini, per cui è bastato chiedere alla IA: “ fai questa immagine nello stile di Dave McKean”, e la IA aveva tutte le informazioni a cui attingere per fare i suoi remix. Il risultato era abbastanza grezzo, e saltavano agli occhi tutte le allucinazioni create dalla piattaforma, ma in questo caso l’autore le aveva usate in maniera molto consapevole. Dopodiché cosa è successo lo sappiamo tutti: le IA hanno fatto passi da gigante, e non abbiamo ancora visto niente, ogni giorno acquisiscono la capacità di svolgere compiti complessi con sempre maggiore efficienza. Un articolo oggi diceva che l’IA forse pensa, forse no, ma se lo fa è in un modo che noi non possiamo capire… Cosa è successo dopo a Dave? Lui dice che la sua prima tentazione è stata quella di chiudersi in camera e di rannicchiarsi nel letto in posizione fetale. Di non fare più niente, sentendosi ormai inutile. Poi gli è passata, e ha dichiarato che la IA per produrre immagini è qualcosa che non va: azzera ogni soddisfazione, toglie l’esperienza e la riflessione che si producono quando cerchi di sforzarti di inventare delle immagini nuove. Che per carità, non è mica così ingenuo da non sapere che ogni artista è il mix della propria cultura grafica e della cultura precedente, ma così no. Non è post-umano, è disumano. L’intelligenza artificiale sta ridefinendo confini e obbligando a porci degli interrogativi fondamentali: cosa ci rende umani? E adesso torniamo a Raptor: com’è? Raptor  è un graphic novel che si muove su due piani: la vita reale, dove Arthur, uno scrittore inglese all’inizio del 900, cerca di mettersi in contatto con lo spirito della moglie morta, e, contemporaneamente,  un altro piano dimensionale, in un universo medievale-fantastico, dove un falconiere presta il suo servizio per combattere mostri lovecraftiani. I due piani sono destinati a convivere  e a fondersi. Arthur è personaggio storico realmente esistito, perché si tratta nientemeno che di Arthur Machen, lo scrittore che in  epoca vittoriana ci ha consegnato il classico horror Il grande Dio Pan, seguito da I tre Impostori, un romanzo a episodi dove alcuni racconti fantastici si intrecciano tra loro attraverso la testimonianza di tre diversi narratori. A I tre impostori, un opera considerata fondamentale per la letteratura weird, si lega la stella “decadente” del giovane Machen, oscurata tra i contemporanei dal talento e dalla fama del  più noto  Oscar Wilde. E’ curioso oggi il ritorno di  interesse per un autore come Machen,   scrittore e membro delle Golden Dawn (società magico-letteraria),  che fa capolino in maniera abbastanza sostanziale anche nel nuovo romanzo di un altro pilastro del mondo del fumetto, Alan Moore. Il Grande Quando – the Big When – questo il titolo – è il primo di una serie di romanzi fantasy-esoterici che ci terrà compagnia nei prossimi anni. Ma questa è un’altra storia. Raptor non è un libro labirintico come potrebbe esserlo una graphic novel di autori contemporanei come Chris Ware o Daniel Clowes, ma potremmo comunque definirlo un libro senza una vera direttiva, privo di una trama lineare, fatto più di suggestioni che di storie avventurose. Il lettore può divertirsi con i costanti cambi di segno e di registro visivo di MacKean, cosa che poi fa parte del suo DNA. Con il tempo il suo modo di disegnare si è fatto ancora meno realistico, debitore delle avanguardie del novecento, con improvvisi squarci astratti, per poi  magari deviare a sorpresa verso stilemi espressionisti. MacKean costruisce un libro non facile, e a un certo punto consiglierei di abbandonare l’ansia e l’affanno di capire ad ogni costo tutte le simbologie contenute nell’opera,  per lasciarsi  catturare dai suoi mondi fantastici, dove non è poi neppure così terribile perdersi. Presto forse anche virtualmente nella realtà digitale, visto che dopo l’esperienza di Prompt l’autore non ha rinunciato all’idea di utilizzare tecnologie di alto livello per portare i lettori a immergersi nei suoi universi. In un modo nuovo, che – parole sue – la tecnica  sta preparando, ma che al momento non è ancora alla portata di tutti.   L'articolo Dave Mckean / Tra IA e l’incubi weird proviene da Pulp Magazine.
Graphic-novel di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza: la militarizzazione avanza
Va avanti sempre più spedita la propaganda della “cultura militarizzata” che punta da alcuni anni anche al pubblico dei fumetti, il quale, a parte i nostalgici e/o affezionati storici, si avvicina anche alla fascia di età 20-30. Avendo a disposizione sempre nuove risorse finanziarie pubbliche, al contrario delle case editrici pienamente sul mercato, che arrancano, alzano i prezzi di copertina o chiudono, le forze dell’ordine cooptano prestigiosi disegnatori, tutti di “bocca buona”, per realizzare improbabili graphic novel, certamente non all’altezza creativa delle storie che coinvolgono personaggi come Dylan Dog, Tex o Nathan Never. Vediamo, ad esempio, cosa partorisce la mente creativa della casa editrice di Polizia Moderna, dove è nata la saga auto-definita sul loro sito web, totalmente “made in Polizia di Stato”. Come tutti sanno, in Calabria, si è accumulato negli anni un know-how che ci fa eccellere in tutto il mondo nell’ambito del business della cocaina. D’altra parte, tutte le statistiche contenute in diversi studi sulla devianza e la criminalità organizzata ci dicono che gli omicidi In particolare quelli per mafia sono in calo drastico fin dagli anni Novanta, con oltre 3mila omicidi contro i poco più di 300 degli anni ’20 del 2000. Nasce quindi l’esigenza di inventarsi un nuovo ruolo alle forze dell’ordine, non più intente a sventare sparatorie nelle strade come ci descrivevano i film delle saghe “poliziottesche” degli anni ’70, ma a infondere sicurezza nella popolazione. Questa, dal canto suo, era ed è sempre più alle prese con un’altra forma di insicurezza, quella della precarietà lavorativa, delle emergenze climatiche, della caduta in basso dei salari e del potere d’acquisto delle famiglie, solo per citarne alcune. Questo ruolo protettivo quasi “materno” delle forze dell’ordine, che saranno sempre più impegnate nel sedare rivolte sociali e non più ad arrestare mafiosi incalliti, viene impersonata appunto da questi personaggi grotteschi ben disegnati, ma inseriti in sceneggiature che dire improbabili è farle un complimento! Vediamo quali sono, appunto, queste storie avventurose, quasi marziane, attraverso la presentazione del sito web della Polizia di Stato dell’ultimo numero del commissario Mascherpa impegnato in una terra infestata dalla ‘ndrangheta: «Marta e Mascherpa, si concedono una fuga d’amore sulla Sila innevata (ma col cambiamento climatico occorre andare in altissima quota per trovare neve! n.d.r.) , ma nel corso di un’escursione in slitta accadrà l’impossibile. In aiuto arriveranno i colleghi della polizia di montagna, per fortuna presenti sul posto per il servizio di sicurezza sulle piste da sci (sono anni che le piste da sci sono il più delle volte chiuse per assenza di neve, n.d.r.) Le indagini che seguiranno porteranno a sgominare una banda di criminali anche grazie all’intervento dei Nocs. Nel frattempo a Cosenza una ragazza si risveglia stordita e sta quasi per cadere dal cornicione di un palazzo storico, ma verrà salvata e aiutata da una psicologa della Polizia di Stato a ricostruire cosa è accaduto e ad affrontare una terribile verità». Come si può notare, c’è proprio un corto-circuito, un compiacimento tutto autoreferenziale verso personaggi che forzatamente vengono inseriti per dipingere ruoli accudenti e salvifici che in realtà potrebbero benissimo, e spesso già lo sono, essere svolti, per esempio, dal soccorso alpino o da associazioni di auto-mutuo aiuto per il presunto stato di disagio psicologico di cui soffrirebbe la ragazza del fumetto. Lo stile fumettistico è stato preso in prestito in passato anche per i famosi calendari, come quello del 2019 che sottolineava con enfasi come «ad ogni tavola, sono associati i nuovi segni distintivi di qualifica, che consentono di cristallizzare, anche graficamente, l’identità civile della Polizia di Stato. I nuovi segni di qualifica saranno adottati dalla Polizia di Stato nel prossimo anno e offriranno la possibilità di proiettare l’Istituzione verso il futuro, chiudendo il percorso di smilitarizzazione intrapreso con la riforma del 1981». Purtroppo non bastano dei nuovi segni di qualifica, oppure una legge, per trasformare una cultura militare in una di “servizio civile”, lo spirito repressivo legalitario è sempre più spesso all’esercizio arbitrario ed illecito della forza tipico degli anni ’70, permangono e spesso, come in questi ultimi anni, subiscono un’accelerazione dettata da chi sta al governo. Potendo contare sulle nostre tasse per produrre questi capolavori artistici per fini propagandistici, il prezzo di copertina viene interamente devoluto alla sezione Assistenza della Polizia di Stato – Piano Marco Valerio, istituito per sostenere i figli minori dei dipendenti della Polizia di Stato affetti da gravi patologie. Questa sorta di “welfare aziendale” pagato, anche se indirettamente, sempre dalle nostre tasse, va ad aggiungersi a tutti gli altri benefit degli appartenenti alle forze dell’ordine non ultimo quelli introdotto dall’ultimo ex-decreto sicurezza, che offre ai poliziotti la tutela legale gratuita in caso di controversie penali e civili. D’altra parte quest’opera di mistificazione, purtroppo, viene portata avanti anche colpendo fasce di età inferiori, quelle che abitualmente giocano a colorare le figure di alcuni album, con favole e personaggi vari. Nel “Carabifantasy da colorare”, ideato dai creativi della II Sezione ufficio Cerimoniale Stato Maggiore V Reparto presso il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, troviamo la carabiniera-Biancaneve, un carabiniere-cacciatore nerboruto che protegge un Cappuccetto Rosso intento a fare il saluto militare e la linguaccia, al lupo cattivo che scappa, è un carabiniere-Geppetto che accoglie tra le sue braccia un Pinocchio di legno. Accudimento, quasi materno, protezione, difesa dei più deboli, immagine rassicurante e pacificatrice e onnipresente, questi sono i concetti che tentano di veicolare nel pubblico dei più piccoli le forze dell’ordine nell’intento strategico di normalizzare un approccio alla vita e alla convivenza tra persone ispirato alla logica militare. Stefano Bertoldi, Osservatorio contro la militarizzazione delle Scuole e delle Università
Molfest 2025, Festival della cultura POP e cosplay a Molfetta: ma che ci fanno le Forze Armate?
Si è aperta ieri, venerdì 27 giugno 2025, a Molfetta in provincia di Bari il Molfest, il Festival della Cultura POP e del cosplay, che proseguirà per tre giorni tra stand, spettacoli in costume e stage in giro per le strade e le piazze principali della città. Si presuppone che nell’arco dei tre giorni l’iniziativa richiami migliaia di adolescenti e giovani da tutto il Mezzogiorno, attratti e attratte dalla moda del momento, cioè dai travestimenti aventi come tema i personaggi dei cartoni animati, dei fumetti, dei videogiochi e dei manga, i famosi anime giapponesi. Il Festival è patrocinato dalla Città di Molfetta e ha come partners Radio Norba, il più grande network radiotelevisivo del Sud, Junior TV e Super Six, canali tematici per bambine e bambine, insieme al CNR e a tante altre aziende di videogiochi e realtà legate al mondo giovanile dei fumetti. Tra gli espositori, invece, figurano nell’apposita pagina del sito (clicca qui) aziende di abbigliamento, di giochi da tavolo, carte collezionabili, accessori, fumetti, videogiochi, case editrici, tatuaggi, maglie ispirate ai manga giapponesi, il tutto per affascinare i ragazzi e le ragazze. Eppure, senza figurare tra i partner e gli espositori, il Molfest, il Festival della cultura POP risulta costellato di stand delle Forze Armate, dalla Marina Militare all’Aeronautica, all’Esercito alla Polizia Penitenziaria, che occupano nel complesso un’area maggiore rispetto agli altri spazi dedicati allo specifico argomento del Festival, una sproporzione che è sintomatica del clima guerrafondaio che stiamo vivendo in questi ultimi giorni con il Governo che obbedisce al diktat della NATO e aumenta la spesa per la difesa al 5% del PIL nazionale. Ma, quindi, cosa ci fanno le Forze Armate al Molfest, il Festival della cultura POP con tantittime/i bambine/i nei loro stand? Perché un tale sfoggio di divise e simulatori di strumenti di morte, come cacciabombardieri, portaerei, elicotteri, visori, largamente sponsorizzati da Leonardo SpA, la maggiore industria di costruzione ed esportazione di mezzi di guerra? In tempi di totale disimpegno morale, di generale indifferenza nei confronti dei massacri e dei genocidi in corso per mano di governi fanatici e di militari fuori controllo, qual è il rapporto tra la cultura POP e le Forze Armate? In realtà, le risposte circostanziate ai nostri interrogativi, e questo capita ormai da molto tempo, rimarranno inevase, giacché l’unico motivo per cui le Forze Armate sono presenti in tutte le manifestazioni in cui accorrono i/le giovani obbedisce ad un progetto ben definito, esplicitato chiaramente nel Programma di Comunicazione del Ministero della Difesa del 2019 (clicca qui per il documento) e anche in quello più recente del 2025 (clicca qui per il documento), in cui risulta chiaro l’obiettivo delle Forze Armate, cioè quello di aggredire tutti gli spazi, dalle scuole alle manifestazioni pubbliche in cui sono presenti i/le giovani e presentare la prospettiva di arruolamento, dal momento che, come afferma anche il generale Leonardo Tricarico, «Se venissimo attaccati non potremmo difenderci. I nostri militari? Non bastano». Sono anni, ormai, che come Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università denunciamo questa indebita invasione di spazi pubblici della società civile per fare reclutamento e presentare, come scrivono nei loro documenti, «la Difesa e le Forze Armate come elementi essenziali del sistema nazionale e internazionale di sicurezza, al servizio della protezione delle nostre libertà», legittimando uno slogan, ormai diventato istituzionale, secondo il quale «Si vis pacem, para bellum». E, in particolare, la presenza delle Forze Armate al Molfest rientra in una delle “azioni specifiche” del Programma di Comunicazione 2025, infatti: «Per azioni specifiche si intendono le iniziative di comunicazione con cui il Dicastero intende proiettarsi all’esterno. Si continueranno ad utilizzare i tradizionali canali di interazione, ma per tutti vale il tassativo indirizzo che su questi canali, sempre, si dovrà far riferimento a un’unica realtà identitaria che si sintetizza con il termine “DIFESA”. In particolare i canali sono: eventi e attività aperti alla partecipazione della società civile, quali saloni, mostre, convegni, incontri culturali, seminari nelle scuole, ecc. continueranno a svolgere una funzione importante quali occasioni per esprimere le eccellenze peculiari della Difesa. Le manifestazioni di interesse dovranno essere individuate sulla base di criteri che tengano conto di idonei criteri tematici, geografici e temporali, della reputazione delle società organizzatrici, della pertinenza dei contenuti e dell’adeguatezza dei contesti di svolgimento». Prepariamoci, dunque, in tutti gli spazi e in tutti i settori della società civile a questa subdola e aggressiva strategia di comunicazione delle Forze Armate, compatte sotto “l’identità linguistica” #DIFESA, che, mentre mostra gli aspetti più ludici e accattivanti della strumentazione a loro disposizione, contribuiscono a normalizzare l’universo simbolico che legittima le guerre che domani i nostri figli e le nostre figlie affronteranno, giacché quello del 5% del PIL nazionale non è che un investimento economico che dovrà, in qualche modo, dare i suoi frutti. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, Puglia
Alan Moore, Oscar Zarate / Accadde nel 1989
Dopo aver rivoluzionato l’universo superomistico con Watchmen (1987) e Batman: The Killing Joke (1988), l’ultima cosa che ci si poteva aspettare da Alan Moore era probabilmente un horror esistenziale come Un piccolo omicidio (1989), obliquamente calato nello memoria e nello spirito del suo tempo: i ruggenti anni ’80 e la fine della Guerra Fredda. Malgrado le numerose ristampe, si tratta infatti di un’opera relativamente poco conosciuta nel corpus dell’autore inglese, almeno rispetto a saghe come In Hell, La lega degli straordinari gentlemen, V per Vendetta.  A riprova dell’anomalia di quest’opera, c’è anche il fatto che l’idea della storia non è sua ma del disegnatore Oscar Zarate, illustratore e fumettista argentino emigrato nel Regno Unito e ritrovatosi in mezzo alla new wave britannica di Neil Gaiman, Grant Morrison, Mark Millar, Garth Ennis, Dave Gibbons e appunto, Alan Moore, ritagliandosi per lo più un ruolo relativamente umile con biopic a fumetti di Lenin, Freud, Thomas Girtin, ecc. Da notare che Oscar Zárate vanta anche trascorsi nel mondo della pubblicità come il protagonista di Un piccolo omicidio.  Qui Timothy, uno yuppi quarantenne, sul punto finalmente di svoltare, ha infatti appena ricevuto da una importante agenzia di New York l’incarico della sua vita per il lancio di un brand beverage tipo Pepsi Cola nella Russia di Gorbačëv che si sta timidamente aprendo alla cultura e al consumismo occidentali. Ma nel suo viaggio verso l’Europa, Timothy è perseguitato da un ragazzino, apparentemente inafferrabile, che sembra fare di tutto per ucciderlo mentre ripercorre a ritroso le città e i luoghi mentali che, anche simbolicamente, hanno segnato la sua esistenza, tra il thatcherismo rampante di Londra e il plumbeo laburismo di Sheffield, la sua small town.  Nella prima parte Moore fa un vero capolavoro nel rappresentare una comunità individualistica che si nega come società per riconoscersi nell’idea di mobilità e di frammentazione sociale, attraverso le conversazioni e i dialoghi captati a mezz’aria nel gossip delle feste, nelle chiacchiere dell’ufficio, in business class o in metropolitana. Ma è solo tornando a Sheffield, tra le case popolari dell’età Macmillan, che Timothy scoprirà la persistenza di una certa  cultura working class che ritrova in primo luogo nei gesti e nelle abitudini dei genitori assieme alle reliquie imbarazzanti e fin troppo ben conservate della sua gioventù: dalla prima, e da sempre vetusta, automobile, dal colore improponibile e con l’adesivo di Rock against the racism ancora incollato sul parabrezza – che il padre con la coppola alla Andy Capp non usa, restando fedele alla bicicletta – alla ex moglie dei vent’anni, ora appesantita dal secondo matrimonio, a differenza del nostro yuppie che non si è mai sentito pronto per gli impegni genitoriali. Proprio tra le rovine operaie di Sheffield Timothy affronterà  i falsi ricordi della sua infanzia e nel contempo la resa dei conti finale  con la sua nemesi bambina, sempre più pestifera e risentita, approdando alla fine, inaspettatamente, anche alla sospirata idea per la campagna pubblicitaria,  destinata a troneggiare trionfalmente sulla Piazza Rossa. Oscar Zarate, che cita Hugo Pratt e Milton Caniff tra i suoi ispiratori giovanili, sembra qui aver metabolizzato anche la lezione cromatica della scuola italiana del tempo e in particolare del gruppo Valvoline. Un Moore forse mai così libero e sperimentale si intesta l’altro 50% di questo graphic novel – tra le altre cose, vincitore dell’Eisner Award (1994), oggi meritoriamente riedito da Mondadori con un’intervista agli autori di Jaime Rodriguez come postfazione. “Penso che Un piccolo omicidio sia uno dei fumetti migliori che abbia mai scritto, di certo uno dei più belli a vedersi”. Riletto oggi ci sta tutto.     L'articolo Alan Moore, Oscar Zarate / Accadde nel 1989 proviene da Pulp Magazine.
[2025-06-19] CRACK! Fumetti dirompenti Edizione Carne , venti anni di fumetti underground, la migliore stampa autoprodotta del pianeta. @ CSOA Forte Prenestino
CRACK! FUMETTI DIROMPENTI EDIZIONE CARNE , VENTI ANNI DI FUMETTI UNDERGROUND, LA MIGLIORE STAMPA AUTOPRODOTTA DEL PIANETA. CSOA Forte Prenestino - via Federico delpino, Roma, Italy (giovedì, 19 giugno 04:00) csoa Forte Prenestino 19-20-21-22 GIUGNO 2025 FORTEPRESSA LA BAGARRE Presentano CRACK! FUMETTI DIROMPENTI CRACK! CARNE FESTIVAL INTERNAZIONALE DI ARTE DISEGNATA E STAMPATA XX ANNI DI CRACK! FESTIVAL Ogni autor3, e ogni lettor3, di fumetto ha sperimentato la pratica di incarnarsi nei suoi disegni e nelle sue storie. Ogni personaggio che viene disegnato porta con sé questa capacità che si trasmette tra chi scrive e disegna e chi legge. Siamo corpi e ci muoviamo sulla carta nel mondo. Sappiamo, perché lo abbiamo imparato nei modi più diversi, a volte dolorosi, che il corpo ha una dimensione pubblica e un’assegnazione nei dispositivi di gerarchia sociale.  Corpi che contano e corpi che non contano. Corpi-persona e corpi-cose. Corpi cui si riconoscono il potere, il diritto di produrre e far valere le proprie rappresentazioni, e corpi che sono solo CARNE. Carni-cose. Su questa assegnazione riflette quest’anno il festival, nello spazio vasto, o forse brevissimo, che separa carnalità da carneficina. C’è una relazione costante fra corpo-carne-morte. In un corpo morto la CARNE, da giunto materiale che tiene assieme le infinite connessioni del corpo, è destinata a un processo di consunzione e putrefazione che le scioglie e le separa. Ma questo avviene anche ad un corpo vivo di un essere non ammesso all’umano: la CARNE è una cosa, destinata ad un trattamento funzionale. Ad essere spartita e distrutta. La Palestina è un paradigma doloroso di questo. CARNE segue le due edizioni precedenti nelle relazioni tra cibo e corpo, gusto e disgusto: vogliamo riflettere sulla carne e sui corpi, sui diritti che incarnarsi può dare o togliere. Se L’umano è un’attribuzione di potere, razzista, suprematista e patriarcale, noi proponiamo di restare CARNE, carne viva e con la disponibilità di scegliere specie e genere. Per recidere la connessione tra non-umanità e irrilevanza dobbiamo decostruire le relazioni di potere che si instaurano, anche nel mondo delle immagini: le nostre visioni mostrano le possibilità della CARNE deviante, mutante. Rivendichiamo la nostra essenza subumana. Questa edizione del festival rappresenta anche un momento particolare nel nostro percorso. Dopo una prima edizione provvisoria e solo romana nel 2003 nasce l’idea di rendere questo incontro tra autoproduzioni un appuntamento aperto orizzontale e annuale. Nel 2005 prende il nome di Crack! fumetti dirompenti e da lì in poi centinaia di presenze vitali hanno riempito i labirintici sotterranei della nostra Madre Fortezza il CSOA Forteprenestino. Per un festival autoprodotto vent’anni di vita sono un tempo impensabile: abbiamo accolto riflessioni, immagini e mutazioni così molteplici e irripetibili da non riuscire ancora a pensare di raccoglierne una storia. Difficile anche solo tenere gli occhi aperti tutto questo tempo. Per questo ci sembra importante oggi più che mai portare un ringraziamento a questa comunità del segno radicale che ha dato, e continua a dare, chiavi immaginarie molteplici per una liberazione del vedere e del vivere. CARNE e esistenze insostituibili: grazie. iil programma completo su https://crack.forteprenestino.net/
[2025-07-01] Bande de Femmes - Festival Femminista di Fumetti e Illustrazione @ Pigneto
BANDE DE FEMMES - FESTIVAL FEMMINISTA DI FUMETTI E ILLUSTRAZIONE Pigneto - Pigneto, 00176 Roma RM (martedì, 1 luglio 10:00) 📣 Save the date! Bande de Femmes torna a Roma dall’1 al 5 Luglio con un’edizione più ribelle, colorata e transfemminista che mai! 🎨🔥 Mostre, talk, laboratori, fumetti, illustrazioni e storie che cambiano la prospettiva. 💥 Segna le date, chiama lə amicə, prepara gli sketchbook o le note per gli appunti. La rivoluzione visiva sta per cominciare! 📌 Stay tuned, segui il sito: BDF 2025 - Bande De Femmes e attenzione che in alcuni casi serve prenotarsi!
Wally Pain / 30 anni e sentirne tutto il peso
Ci azzardiamo ad affermare che il traguardo dei 30 anni è di notevole rilevanza affettiva quasi per chiunque, e quando arriva si organizzano grandi feste, viaggi, insomma si ricrea una situazione perché resti indelebile nella memoria. Bene, 30 anni non parla di questo. Sì, c’è il titolo che fa riferimento all’età ma qui l’autrice Luana Francesca Belsito in arte Wally Pain (Cosenza, classe 1992) racconta ben altro. Sotto la superficie di un numero c’è un mondo che viene riletto e criticato con pungente eleganza. Tre percorsi tutti al femminile che corrono alternandosi su binari temporali differenti per poi intersecarsi a un capolinea chiamato oggi. Negli anni ’60 incontriamo Giuditta, madre casalinga di due bambini, una passione per la lirica e il sogno nel cassetto di calcare i palchi dell’opera. Saltiamo sul binario degli anni ’90 per conoscere Anna che si destreggia tra il successo professionale e la scoperta di un figlio desiderato in arrivo. Torniamo al presente con Ginevra, anche lei trentenne,  la sua vita sentimentale ha subìto un brusco stop e quella professionale è ancora in fase allestimento.  Tre storie, tre vite che denunciano una società insensibile nei confronti delle donne costrette a subire pressioni sul lavoro e in famiglia, a fare scelte tanto difficili quanto coraggiose, a rinunciare ai propri sogni e desideri per prendersi cura degli altri e ancora lasciare un posto sicuro per lanciarsi a capofitto in un’avventura senza rete. L’orgoglio e la determinazione di Anna, Giuditta e Ginevra sono il fulcro del graphic novel che le vede protagoniste silenziose del mondo di ieri e oggi, ma va anche sottolineata l’incredibile forza che contraddistingue le donne in questa lettura toccante e attualissima.  Wally Pain racconta se stessa sul suo account Instagram, attraverso le sue tavole in gouache, acquerello e pennarelli. Ha un seguito di oltre 17000 followers e un canale seguitissimo in cui condivide lavori inediti. Dopo l’esordio di Corpi, sempre pubblicato da Feltrinelli nel 2023,  con cui si distingue  per la schiettezza quasi brutale, Wally torna in libreria per evidenziare quanta strada ancora ci sia da fare nella lotta per il riconoscimento dei diritti delle donne e per la parità di genere. Nonostante gli anni passino la donna fatica a ottenere soddisfazioni personali e professionali, comprensione e sostegno, a essere “vista” dalla società. Una nuova vita può essere un ostacolo alla carriera per Giuditta e motivo di rottura in famiglia, Anna invece non riesce a dialogare con la madre e i colleghi maschi la sfruttano accumulando pratiche sulla sua scrivania. Giuditta vive un fallimento nel fare marcia indietro tornando a vivere dai suoi dopo una delusione amorosa.  Con dialoghi precisi e puntuali, privi di fronzoli, l’autrice arriva al cuore della questione con  un tratto netto, sensibile e riconoscibile. L’epilogo potrebbe essere una pillola troppo amara da ingoiare perché  la verità fa male e spesso preferiamo non vederla. Ecco perché la lettura di questo graphic novel,  che tratta questioni sociali fondamentali, è consigliata a tutte le età e per tutte le generazioni.  Luana Francesca Belsito è  un’appassionata di filosofia, in particolare di Emil Cioran e di Kierkegaard, un’amante dell’opera lirica e una cinefila. A dissipare ogni dubbio – se mai ce ne fossero – sulla maturità e la profondità poliedrica di questa giovane illustratrice e fumettista, ci pensa lei stessa spiegando che la scelta del nome d’arte deriva da un connubio fra classico e moderno. “Wally” è infatti un omaggio all’opera del compositore Alfredo Catalani mentre Pain è un personaggio tratto dai manga di Naruto. L'articolo Wally Pain / 30 anni e sentirne tutto il peso proviene da Pulp Magazine.
[2025-05-22] Holdenaccio presenta: Senza Rabbia Non Vale Nulla @ Serra del Parco Delle Energie Ex Snia
HOLDENACCIO PRESENTA: SENZA RABBIA NON VALE NULLA Serra del Parco Delle Energie Ex Snia - Via Prenestina, 175, 00176 Roma RM (giovedì, 22 maggio 19:00) il 22 maggio ci vediamo a Roma, Ex-Snia, con quella scugnizza benevola di Diletta Bellotti alle ore 19 per presentare il mio fumetto, "senza rabbia non vale nulla" 🖤🧃🔥 🚩IL LIBRO ~ Holdenaccio racconta la sua Taranto, per raccontare in realtà la difficoltà di tutta una generazione nel trovare una collocazione in un mondo che non si è nemmeno preso la briga di fare delle promesse che poi tanto non manterrà. Anto torna in città dopo anni passati a Torino, non per inseguire un sogno, ma semplicemente il miraggio di una vita dignitosa, e quando torna scopre che gli stessi interessi economici che hanno tenuto per decenni in scacco la città stanno cercando di cementificare un’area in cui risiedono alcuni tra i suoi migliori ricordi di infanzia.
Sadagari / Sporcarsi le mani con il mondo
Diritto al malessere è l’opera d’esordio di Sasha De Maria, in arte Sadagari, grafico, illustratore e attivista. Si tratta di un lavoro molto denso, a metà strada tra la graphic novel e il saggio autobiografico, contraddistinto da un uso ossessivo, quasi barocco, dell’estetica ASCII e 8 bit. Le ampie tavole che danno forma al libro, spesso riempite all’inverosimile, si susseguono tra loro in una sorta di clonazione soft dell’estetica noise, accompagnate da slogan, ricordi personali e riflessioni critiche. Ne risulta un testo in bianco e nero piuttosto voluminoso, dai toni tanto cupi quanto disperati, che rompe con la tradizione del testo illustrato per seguire un’originale ibridazione tra grafica e quella che è stata denominata “theory” (una versione minoritaria e ribelle della teoria critica accademica, sviluppatasi sulle riviste, prima cartacee poi online, tra la fine degli anni Novanta e i primi vent’anni del Duemila).   Come si può evincere dal titolo, il filo conduttore del libro è il diritto a esperire fino in fondo il proprio malessere psicofisico, a divenirne autocoscienti e a manifestarlo apertamente. Diritto negato dal sistema capitalista poiché non compatibile con l’attuale paradigma produttivo, fondato sulla competizione e sul miglioramento di sé. Questo il tema portante dell’opera, che prende le mosse dalla neurodivergenza per approdare alla sofferenza psichica in generale, in quanto prodotto dello sfruttamento sistemico. In breve, si tratta di una sorta di ricontestualizzazione delle considerazioni intimiste e delle bordate teoriche canonizzate da Mark Fisher – non a caso padre putativo della theory. Fin qui, Diritto al malessere rappresenta indubbiamente una novità dal punto di vista formale: una modalità espressiva che, per l’appunto, pesca a piene mani dall’attività di grafico del suo autore – anziché dal fumetto classico o dai libri illustrati; ma anche un dispositivo narratologico che prende spunto dal web. Si potrebbe dire che l’idea stessa di concepire il medium-libro alla stregua di una riproduzione tattile di un sito, incarni i limiti una generazione che non conosce altro che internet, che non abita altro che il nomadismo digitale e l’impermanenza, ma che desidera anche fissare in qualche modo questa stessa esistenza rizomatica ed effimera. Serve tempo per consumare e metabolizzare l’opera di Sadagari – e non poco. Questo tipo di testo, ancor più del romanzo o del saggio classici, sembra richiedere una particolare dose di attenzione, non essendo fondato su un solo meccanismo ma su una sovrapposizione di strategie narrative, toni e registri anche molto diversi tra loro. Dal punto di vista contenutistico, per quanto appassionata e radicale, l’opera dà mostra di tutti i limiti che (in modo piuttosto stereotipato) si possono attribuire alla giovane età dell’autore. Mi riservo questa considerazione dal retrogusto ageista in virtù del tempo trascorso assieme al mio, di malessere. La radicalità del testo, infatti, non ha mancato di riportarmi alla mente il mio stesso desiderio di “universalizzazione” (nel mio caso si è trattato addirittura di una “assolutizzazione”) della sofferenza. Negare ogni possibilità di sintesi dialettica tra sé stessi e il mondo è una strategia fallimentare nel momento stesso in cui rifiuta di confrontarsi non solo con il reale ma con quella stessa istanza che, all’altro capo della barricata, non manca mai di riconoscere il proprio autoproclamato nemico. Se, da un lato, infatti, non vi è istante in cui non siamo consapevoli di essere malati, dall’altro, siamo anche profondamente ripugnati dal dover trafficare con ciò che ci circonda. Un’etica e, forse, un’estetica della purezza che offre più problemi che soluzioni. Lo stesso autore, d’altro canto, attraverso la sua professione e la sua produzione artistica, è testimone della possibilità di una sintesi concreta tra autenticità, lotta e sofferenza. Non intendo scendere troppo nei particolari, ma mi pare che il libro – come molti altri testi recenti – vada incontro a una banalizzazione e, peggio ancora, a una riduzione a slogan dei temi trattati. La costruzione di un codice che non è più a misura di individuo ma che, al contrario, assoggetta gli individui a concetti e parole d’ordine. L’effetto è che molte delle idee espresse nel libro appaiono confuse e, a volte, contraddittorie, là dove la lucidità di visione è l’elemento più rilevante anche all’interno di una filosofia o critica del malessere.  Un esempio pratico. Ciò è particolarmente vero nel caso dei disturbi psichiatrici che confinano con la sfera antisociale e che, negli ultimi anni, sono divenuti oggetto di una vera e propria persecuzione da parte delle attiviste e degli attivisti digitali. Sto parlando, ovviamente, del disturbo borderline, del disturbo antisociale e del disturbo narcisistico. Come si configura questo asse “perverso” del malessere, rispetto alla proposta di Sadagari? Il diritto al malessere consentirebbe di rimuovere lo stigma sui disturbi del gruppo B, promuovendone l’espressione e la presa in carico collettiva. D’altra parte, tuttavia, senza un adeguato processo terapeutico (D.B.T. e Schema Therapy) non è neppure remotamente possibile approdare a un superamento del conflitto autodistruttivo al quale tali disturbi danno luogo.  Detto questo, trovo perfettamente comprensibile che le nuove generazioni siano in cerca di una via di fuga – tanto concreta quanto immaginaria – o di forme di vita sottrattive (come nel caso degli hikikomori), anziché di nuove strategie di conflitto. Si tratta, in fondo, di un lascito inscritto nel fallimento dell’attivismo stesso dinanzi ai nuovi media digitali, nonché all’egemonia del mediattivismo promosso da agenti economici quali case editrici e influencer. Da questo punto di vista, Diritto al malessere incarna, forse, il primo vagito di un nuovo modo di pensare e rappresentare il pensiero su carta, nonché il primo passo verso un percorso artistico e personale che ci si augura possa guadagnare in organicità e affilatezza senza perdere in radicalità. L'articolo Sadagari / Sporcarsi le mani con il mondo proviene da Pulp Magazine.