Da Jujuy a Buenos Aires. Reportage sulla lotta indigena contro l’estrazione del litio(disegno di manincuore)
Dal numero 12 (maggio 2024) de Lo stato delle città.
«Noi, dopo che hanno pascolato, i lama li leghiamo tutti insieme e li mettiamo
dentro l’ovile, ben stretti. E io così mi sento quando saliamo al Subte [la
metropolitana di Buenos Aires], come gli animali da pascolo» – mi ha detto un
giorno Flavia, trent’anni, oggi presidente della comunità indigena di Santuario
de Tres Pozos, situata nella regione di Salinas Grandes y Laguna de Guayatayoc,
nella provincia argentina di Jujuy. «Poi quando si apre la porta, scappano
tutti». È ormai scesa dalle scale mobili e si è messa in attesa della metro,
insieme alle sue compagne di lotta del Tercer Malón de la Paz. «Prima di venire
qui non ero mai salita su un Subte. All’inizio le scale mobili mi spaventavano,
non riuscivo a salire da sola. Allora qualcuno mi spingeva e mi aiutava, per più
di tre volte ho rischiato di cadere» – l’arrivo della metro ha interrotto la
risata di Flavia.
Siamo saliti sulla linea D, in direzione dell’Hotel Hilton a Puerto Madero. Dal
22 novembre 2023 vi si riunivano ministri e impresari per il secondo vertice
argentino sul litio, perciò il Malón aveva organizzato, fuori dall’albergo, un
presidio di contestazione con finalità informative. Il brusio della
metropolitana si riempì di un canto: «Cinco siglos resistiendo, cinco siglos de
coraje, manteniendo siempre la esencia…».
All’uscita dal vagone Wili, la guida spirituale di questa nuova comunità urbana
in lotta, continuava a soffiare nella sua conchiglia. Il suono che ne usciva
sovrastava il frastuono della metropolitana in ripartenza. Il Tercer Malón de la
Paz è arrivato a Buenos Aires il primo agosto del 2023. Erano circa duecento
persone, membri di più di cento comunità indigene di tutte le regioni della
provincia di Jujuy, situata nel nord-ovest dell’Argentina, al confine con Cile e
Bolivia. Hanno attraversato tutte le provincie nordoccidentali del paese per
avvicinare il loro grido di protesta ai luoghi del potere istituzionale. Sono
giunti fin qui per contestare la riforma costituzionale della loro provincia,
volta a favorire l’estrazione del litio dalla loro terra.
IL MALON DE LA PAZ
La parola “malón” appartiene al lessico colonizzatore castigliano e veniva
utilizzata per significare un’offensiva rapida e inaspettata da parte degli
indigeni ai danni di uno stanziamento colono o criollo. Il significato è
cambiato con il primo Malón de la Paz quando, era il 1946, 174 indigeni del
pueblo kolla partirono dalla regione di Cochinoca nell’altopiano andino della
regione del Jujuy per camminare in direzione di Buenos Aires. Nella capitale il
governo di Juan Domingo Peron era prossimo all’insediamento e intendeva
realizzare una riforma agraria. Certi di vedere ascoltato e riconosciuto il loro
diritto di preesistenza ancestrale e dunque alla restituzione di terra
appropriata o acquistata compulsivamente dallo Stato, i manifestanti camminarono
per duemila chilometri da Jujuy a Plaza de Mayo. Eppure, non fu mantenuta la
promessa di restituire le terre. E poche settimane dopo le forze della milizia
navale, armate di spranghe e gas lacrimogeni, procedettero allo sgombero del
primo Malón de la Paz. I maloneros furono caricati su un treno già predisposto
sulla linea ferroviaria alle spalle dell’Hotel degli immigranti – dove erano
stati alloggiati, per quanto immigranti non fossero –, comunicante direttamente
con la stazione di Retiro; li scortarono fino a Jujuy, dove ancora oggi i popoli
originari non vedono applicato il loro diritto all’esercizio della possessione
ancestrale delle terre che abitano, lavorano e difendono.
Sono passati quasi ottant’anni e la politica di sfruttamento del potere
istituzionale ai danni dei popoli originari e delle loro terre ricche di risorse
naturali prosegue indisturbata. Un tempo i coloni estraevano l’oro, ma oggi la
ricchezza ha cambiato nome e colore: l’oro si è fatto bianco e si chiama litio.
In nome della riconversione energetica all’elettrico, le imprese mondiali
insistono nel risucchiare su larga scala le risorse non rinnovabili nascoste nel
cuore del pianeta. È la cosiddetta rivoluzione verde: il Consiglio Mondiale
dell’Energia ha affermato che le risorse di petrolio si esauriranno entro una
cinquantina di anni. Perciò al combustibile fossile nelle automobili si comincia
a sostituire il motore elettrico, la marmitta si trasforma in batteria al litio.
Il sole e il vento sono intermittenti, il litio c’è e si sa anche dove.
L’ottanta per cento delle risorse mondiali si trova in un triangolo di terra che
tocca Cile, Bolivia e Argentina. Quest’ultima è la nazione eletta: le
multinazionali hanno già avviato più di sessanta progetti minerari nel paese,
nelle provincie di Catamarca, Salta e Jujuy. Il territorio argentino vince la
gara della dinamite mineraria perché qui i grossi investitori devono pagare solo
il tre per cento delle regalie allo Stato e non subiscono nessuna restrizione né
controllo sull’esportazione. «Così l’Argentina diventerà la fornitrice di più
della metà del litio necessario a soddisfare la domanda mondiale», annunciava
fieramente qualche anno fa Mauricio Macri, presidente del paese dal 2015 al
2019.
In pochi anni il valore di una tonnellata di carbonato di litio è passato da
duemila a dodicimila dollari. Per produrre una tonnellata di questo minerale
servono due milioni di litri di acqua. Per costruire un’auto elettrica
(equivalente a circa diciassettemila cellulari) sono necessari più di quattro
chili di litio. Una Tesla S contiene una batteria di sei chili di litio. Due
milioni di litri d’acqua provenienti dalle Ande di Jujuy si trasformano così in
duecento auto elettriche prodotte da compagnie europee, nordamericane,
australiane, cinesi, giapponesi e poi distribuite nei rispettivi paesi. Come? Si
pompa l’acqua salmastra già a disposizione nelle immense saline jujeñe e la si
colloca in enormi piscine la cui superficie equivale a varie migliaia di stadi
di calcio. Sotto la radiazione solare l’acqua evapora, il carbonato di litio si
deposita. Dopodiché deve essere separato, usando la calce, e poi lavato, e per
lavarlo è necessaria acqua pura, di sorgente, che è l’acqua che beve la gente
delle comunità dell’altopiano argentino.
Le miniere di litio sono miniere d’acqua. Esce più acqua di quella che entra nel
sistema, e quest’ultima, quella che vi ritorna, rientra contaminata dalle
sostanze tossiche disperse durante la separazione del litio. Il punto della
questione attuale, quella gridata per le strade di Buenos Aires dal Tercer Malón
de la Paz, non si ferma dunque alla difesa e alla tutela della preesistenza dei
popoli originari e del loro diritto a disporre liberamente e rispettosamente
delle risorse della terra che abitano, ma consiste anche nel prendere coscienza
che la cosiddetta “energia verde” corrisponde in realtà all’ennesimo dispositivo
di distruzione dell’ecosistema.
Iber mi ha riferito i dati sul processo estrattivo del litio. Eravamo
sull’autobus che ci portava verso la sede del SERPAJ (Servicio Paz y Justicia),
le cui avvocate si sono occupate di appoggiare e fortificare legalmente le
rivendicazioni del Tercer Malón. Iber ha ventiquattro anni ed è di Alfarcito,
una piccola comunità situata nella regione di Salinas Grandes, la stessa da cui
proviene Flavia. Lì si concentra la maggior parte delle risorse di litio
argentine e per questo la lotta contro i progetti di esplorazione per l’apertura
di nuove miniere cominciò già nel primo decennio del Duemila. Iber è nato nella
lotta. Prima di scendere dall’autobus mi ha detto: «Oggi siamo in guerra, perché
è una guerra questa. Tra chi vuole difendere la Madre Terra e chi vuole
continuare a venderla per profitto. Stiamo lottando per l’acqua, perché sia
libera e ce ne sia per tutti e per tutte. Se perdiamo questa guerra, domani la
guerra sarà tra di noi: io e il mio vicino di casa arriveremo a litigare per un
bicchiere d’acqua». Poi è squillato il suo cellulare e una voce diceva: “Cinco
siglos resistiendo”.
LA RIFORMA DI MORALES
Dopo una lunga battaglia nell’ambito dei diritti umani indigeni, cinque secoli
dopo l’inizio della colonizzazione e della resistenza a essa, nell’agosto 1994,
la Costituzione Nazionale Argentina accolse l’articolo 75, che all’inciso 17
stabilisce la responsabilità del Congresso ad “ammettere la preesistenza etnica
e culturale dei popoli originari, garantire il rispetto della loro identità
culturale e linguistica, riconoscere la persona giuridica delle comunità e la
possessione comunitaria delle terre che tradizionalmente occupano e infine
assicurare la partecipazione dei popoli originari nella gestione delle loro
risorse naturali e degli interessi che le riguardano”. Grazie all’incorporamento
di questi statuti normativi, sul finire degli anni Novanta alcune, ma non tutte,
delle comunità originarie dislocate nel territorio jujeño si videro legalmente
riconosciuta la personalità giuridica, nonché assegnati i titoli di possessione
delle porzioni territoriali di insistenza, assegnazione avvenuta in parte in
forma comunitaria e in parte direttamente a famiglie o singoli.
Nonostante la sussistenza di questi baluardi costituzionali e dei conseguenti
atti notarili, lo scorso giugno a Jujuy è stata approvata, senza previa
consultazione dei popoli originari, una riforma provinciale, promossa dal
governatore Gerardo Morales, che ha facilitato il via libera alle procedure
estrattiviste nei territori indigeni e ha autorizzato misure repressive ai danni
di qualsiasi tentativo di resistenza. Per via del carattere federale del governo
argentino, infatti, le province sono considerate “antecedenti” all’unificazione
dello stato-nazione e mantengono un forte potere di autonomia. Per questo ogni
provincia dispone di una Carta Costituzionale ed è su di essa che Morales ha
agito. Il governatore è riuscito a modificare 66 dei 212 articoli della Carta
provinciale, la maggioranza dei quali riguardavano il tema delle risorse
naturali. Dichiarando il litio come “risorsa strategica” e stabilendo al minimo
la quota di interessi da tributare allo Stato, la nuova riforma sancisce il
contratto di svendita del sottosuolo jujeño alle multinazionali estere.
Mentre nel governo di Jujuy si discuteva la riforma, Flavia, Iber, Wili e tutto
il Tercer Malón de la Paz, erano in marcia sulla Ruta che da Abrapampa cammina
verso la capitale di Jujuy. All’alba del 16 giugno Morales ha annunciato
l’approvazione della riforma provinciale. Dopo un giorno di mobilitazione a San
Salvador de Jujuy, con i popoli originari uniti ai docenti già in protesta per
la rivendicazione di un salario degno, il Malón ha organizzato un blocco
stradale lì dove si incontrano la Ruta 9 e la 52, quella che porta all’area di
Salinas Grandes, la più minacciata dagli interessi speculativi. Il blocco era
un’azione di protesta volta anche a informare i passanti sull’incostituzionalità
della riforma. Vi sono confluite quasi duecento comunità, per un totale di più
di quattrocento persone. I cortes, i blocchi stradali, sono stati un grande
esperimento di gestione comunitaria della lotta.
Il blocco avveniva su tre fronti: a nord e sud della ruta 9, per i veicoli
provenienti rispettivamente dalle regioni al confine con la Bolivia e dalla
capitale jujeña, e sulla ruta 52, per bloccare qualsiasi accesso alla zona di
Salinas. L’intento era tanto quello di generare scompiglio e sensibilizzazione,
quanto di impedire il passaggio di camion trasportanti calce o altri elementi
necessari alla estrazione e separazione del litio già in corso nel Salar de
Olaroz, centocinquanta chilometri dopo Salinas. Si lasciavano circolare solo i
veicoli sanitari o le auto con a bordo minori e anziani. Uno dei ruoli
principali, nonché di maggiore responsabilità, nel funzionamento dei cortes era
pertanto quello di chi circolava tra i veicoli fermi in strada, distribuendo
materiali informativi sull’incostituzionalità della riforma e cercando di
dialogare con gli autisti più spazientiti. Ogni ruolo veniva scandito da turni
di quattro o sei ore. Oltre a chi volantinava, c’era chi si impegnava a
sorvegliare ed eventualmente rafforzare le barricate, costruite con massi e
pezzi di legna. La cucina del campo era gestita in modo comunitario: si teneva
sempre acceso il fuoco, per smorzare le basse temperature invernali e poter
riscaldare i pasti provenienti dalla non troppo lontana Tilcara. Lì infatti, nel
campo base di un gruppo di militanti, si cucinavano grosse quantità di zuppa e
carne stufata per poi distribuirle nei tre blocchi di Purmamarca, il paese più
vicino al luogo del presidio. Di notte ci si turnava per fare da guardia
all’accampamento mentre sulle colorate montagne che sovrastano l’incrocio
stradale erano presenti gruppi di vedetta pronti ad avvisare dell’arrivo di
veicoli delle forze del supposto ordine.
E infatti, forti dei nuovi decreti costituzionali che proibivano espressamente
blocchi stradali totali così come qualsiasi altro ostacolo alla libera
circolazione, alle sei di mattina, poi alle tre e alle sette del pomeriggio del
17 giugno 2023, sono arrivate puntuali le repressioni. La fanteria e la polizia
federale hanno iniziato a colpire chiunque avesse a tiro, usando pallottole di
gomma e gas lacrimogeni di nuovo brevetto. Hanno distrutto cellulari e
videocamere, caricato uomini e donne sui camion pronti a partire verso la
questura. A Tilcara, a pochi giorni dall’inizio del Carnevale del 2024, Maria mi
ha raccontato la sua esperienza di lotta nei cortes mentre cucivamo la bandiera
che avrebbero utilizzato durante la parata del collettivo femminista delle Cari
Chupi (belle facce). Mi ha mostrato con orgoglio la sua cicatrice sul polso
destro e mi ha detto che non c’era praticamente nessuna e nessun manifestante
che non riportasse il segno di un proiettile di gomma sulle gambe o sulle mani
usate per proteggersi la faccia. La fanteria sparava ad altezza viso ed è così
che tre uomini hanno perso la vista da un occhio. Mi ricordo di quando dagli
occhi di Karen, bardati dietro due spesse lenti nere che la riparavano dal sole
accecante delle Salinas, è colata una grossa lacrima mentre ripercorreva i fatti
del 17 giugno e mi chiedeva di non parlarne più. Karen, insieme a Santiago,
rappresentanti della comunità di Pozo Colorado, sono stati detenuti per una
decina di giorni nel carcere di Jujuy. Oggi anche loro sono imputati nelle
centinaia di cause che il governo provinciale porta avanti in nome della
criminalizzazione delle proteste di giugno.
Nonostante le repressioni, i cortes sono proseguiti per settimane, continuando a
informare i veicoli di passaggio sulla pericolosità della nuova riforma. Non
sono mancati episodi di resistenza a nuovi tentativi di attacco delle forze
armate. Gridato l’annuncio dalle vedette d’altura, erano spesso le donne a
schierarsi in prima linea e a lanciare contro le guardie olio bollente e pietre.
«Sembrava una guerra civile – mi ha raccontato uno dei militanti di Tilcara –,
dato anche l’alto numero di familiari e conoscenti impiegati nelle forze di
polizia locale».
E quella guerra civile sembrava anche sostenibile, per quanto indicibilmente
stancante e dolorosa, fin quando il 20 agosto, a una settimana dalla sconfitta
nelle primarie come candidato alla vice-presidenza dell’Argentina, Gerardo
Morales ha mandato un plotone dell’esercito non più in assetto anti-sommossa,
bensì dotato di armi belliche vere e proprie. Il plotone ha proceduto allo
sgombero e allo smantellamento definitivo dell’accampamento. Il traffico di
Jujuy è stato ripristinato senza più interruzioni. I grossi camion di calce
hanno ricominciato a raggiungere le miniere di Olaroz Chico e le auto della
Toyota, una delle principali case automobilistiche giapponesi, bramosa di
batterie al litio, hanno ripreso a fermarsi sulla ruta 52 per proporre alle
comunità locali nuovi accordi di esplorazione.
IL MALON A BUENOS AIRES
Un mese prima, il 25 luglio 2023, il Tercer Malón de la Paz aveva preso la
decisione collettiva di cominciare il cammino verso Buenos Aires e ho passato
giornate intere con loro nella capitale. A Buenos Aires Flavia mi ha raccontato
il costante aumento delle visite da parte delle imprese nella sua comunità di
Santuario de Tres Pozos, che vive soprattutto di estrazione del sale,
allevamento di lama, turismo e artigianato. Il villaggio di Santuario lo fondò
suo nonno, costruendolo a poco a poco, a partire da una scuola. Flavia è nata a
casa sua, del nonno, «anche per questo sto lottando – mi ha detto – non voglio
che quel luogo venga distrutto». Suo nonno è morto il 26 maggio 2023, non c’è
stato abbastanza tempo per stare con il dolore prima del nuovo caos generato
dalle repressioni nei cortes di Purmamarca. «Eppure, io da qui mi porto una
nuova famiglia». Eravamo nella sua tenda, nell’accampamento di Plaza Lavalle,
sotto la Corte Suprema che ormai da più di quattro mesi non offriva ascolto né
udienza alle rivendicazioni del Malón. Come nominò la parola “famiglia” il vento
forte di quella sera buttò a terra il suo telefono, che appoggiato su un asse
del tetto faceva da torcia per illuminare il viso di Flavia e la whipala che le
stava dietro, la bandiera dei popoli originari. Abbiamo riso al buio.
Fuori dalla tenda di Flavia era una sera come un’altra. Alcune maloneras si
godevano il ritmo di una samba cantata da Ivan, un altro dei giovani del Malón.
José, che per trent’anni ha lavorato in una miniera di rame, per poi cominciare
a unirsi alle lotte sindacali fino ad arrivare a Buenos Aires con il Malón,
aveva il piede gonfio per una qualche infezione. Wili glielo massaggiava, poi lo
ha lasciato riposare in un secchio pieno di ghiaccio. Raul, uno dei più
impegnati nel lavoro di approfondimento dei diritti indigeni, masticava coca
mentre leggeva al computer. Iber era appena tornato con le bocce piene d’acqua.
Era andato a riempirle davanti al teatro Colón, dall’altro lato della piazza,
perché dalla parte dell’accampamento le autorità cittadine avevano tagliato la
distribuzione idrica alle fonti pubbliche, per rendere più scomoda la permanenza
degli indios di questa fase della storia.
L’abuelita Sabina intrecciava tranquilla fili di tutti i colori nel suo piccolo
telaio portatile. Yamil, un altro giovane, lottava contro il sonno e cercava di
studiare: doveva tornare a San Salvador per dare un esame di ingegneria.
Fabiana, una senzatetto adottata dall’accampamento di Plaza Lavalle, veniva a
chiedere con la sua andatura claudicante un piatto di zuppa. Estela lo riscaldò
e Monica glielo servì fumante. Per pranzo, come ogni lunedì, aveva cucinato un
gruppo di donne e uomini salteñi che risiedono da tempo a Buenos Aires e che
partecipavano così alla lotta delle loro sorelle e fratelli. Un uccello cantava
alla luna calante di quella notte. Era stata la giornata internazionale di lotta
all’estrattivismo, il 4 dicembre. Il Tercer Malón aveva aperto il corteo che
partiva dall’obelisco di Avenida 9 de Julio fino a Plaza de Mayo, a suon di
canti e del motto “Arriba los derechos! Abajo la reforma!”. Erano tutte e tutti
stanchi, e presto sarebbero andati a dormire.
Da agosto a dicembre Plaza Lavalle è stata attraversata da migliaia di persone,
alcune delle quali hanno porto ascolto e gesti di adesione alla lotta, che
fossero un pacco di pasta, una chitarra per fare musica insieme, un cartellone
preparato per la manifestazione del giorno, e magari tradotto in una lingua
altra dal castigliano, per poter cogliere l’attenzione di un turista di
passaggio, o insomma una delle infinite modalità possibili per allargare la
cassa di risonanza di questa storia che ha urgenza e portata di coinvolgimento
universale. Persino il 19 novembre 2023, giorno della vittoria elettorale di
Javier Milei, la piazza del Malón è stato un luogo dove versare lacrime e
stringersi nel silenzio e nella forza di un abbraccio. Ricordo che Wili ha
insitito e alla fine, mentre cominciavano a levarsi suonate di clacson e grida
moleste come «Viva la libertad, carajo!», abbiamo giocato a calcio e per un
attimo i pensieri sono rotolati insieme al pallone. Durante la partita Wili è
caduto molte volte e a gioco finito mi ha detto: «Sai cosa significano tutte
queste cadute? Che abbiamo ancora qualcosa da fare su questa terra». Per questo
Yamil, tornato all’accampamento con un altro esame superato sul libretto, si
dichiarava felice di avere rallentato il suo percorso di studi per unirsi a una
lotta in nome della giustizia. Quando tornò a Plaza Lavalle urlando «Jallalla!»,
il grido che sempre si ripete a sostegno della lotta delle comunità andine del
nord-ovest argentino, produsse un’eco che durò fino all’ultimo pomeriggio del
Malón a Buenos Aires.
L’ombra del potere di Milei, il nuovo presidente nazionale di estrema destra,
era sceso sul Jujuy e sull’intera Argentina. Il Tercer Malón de la Paz ha
annunciato in conferenza stampa la sua ritirata, prevista per la notte tarda del
15 dicembre. Si preparava così a lasciare la capitale argentina senza aver
visto, da parte dei due governi succedutisi al potere durante la sua permanenza
in città, alcuna mossa in direzione dell’obiettivo principale della sua lotta:
l’abolizione della riforma provinciale di Jujuy sulla base della sua
incostituzionalità, tanto procedurale quanto contenutistica. Anzi,
l’insediamento del nuovo presidente Milei già lascia intuire ciò che da tempo il
popolo jujeño profetizzava: la riforma provinciale, tanto nella sua parte
impegnata a criminalizzare le proteste, quanto nella sua più generale ottica
produttivistica, è un perfetto laboratorio in cui sperimentare misure da attuare
poi su scala nazionale.
Il sole stava per tramontare. I lavori di smontaggio delle tende si sono
fermati: è giunta la notizia di un guasto meccanico al pullman che da Jujuy
stava muovendo verso la capitale per poi riprendere il viaggio in direzione
contraria. Era fermo a settecento chilometri di distanza in attesa di una
riparazione, che probabilmente sarebbe potuta avvenire solo la mattina seguente.
Solo Wili ha proseguito i preparativi del suo bagaglio. Non sarebbe tornato
subito in Jujuy col resto del Malón, aveva intenzione di fermarsi ancora un paio
di settimane nella provincia di Buenos Aires per continuare un percorso di
formazione spirituale con un vecchio saggio della zona. Mentre mi indicava un
punto del cielo sopra il teatro Colón, da dove ogni giorno vedeva sorgere il
sole, mi ha detto: «I nostri anziani dicono che siamo esseri solari». Secondo la
cultura andina indigena il sole, e con esso il pianeta Terra e l’umanità tutta,
sono recentemente entrati in un nuovo ciclo temporale chiamato Pachacuti.
Significa ritorno all’anteriore, a tutta la saggezza anteriore che invoca la
cura della Madre Terra e delle future generazioni. Mentre continuava a disarmare
la sua tenda Wili ha aggiunto: «Noi abbiamo lasciato questo messaggio alla
società qui a Buenos Aires affinché ne prenda consapevolezza, perché è l’unica
forma di sopravvivenza, se no scompariremo tutti». Scioglieva un nodo, poi un
altro. Suo nonno aveva partecipato al primo Malón de la Paz. Ha rimosso il telo
di plastica che gli faceva da copertura anti-pioggia. Il sole tramontava, Wili è
partito col suo sorriso. Il pullman era sempre fermo nella provincia di Córdoba.
Il Malón è andato a dormire ancora incerto sull’orario di partenza, ma ben
convinto che era tempo di tornare al territorio, a progettare da lì nuove
strategie di resistenza e difesa collettive.
Eppure, l’assalto è avvenuto prima del previsto. All’alba dell’indomani, a sei
mesi esatti dal giorno dell’approvazione della riforma incostituzionale, non è
stato il pullman ad arrivare, bensì, come settantasette anni prima, in pieno
rispetto della ciclicità della storia, la polizia della città. Li hanno
svegliati alle sei di mattina, entrando nelle tende, e intanto già cominciavano
a “bonificare” (questo il lessico usato dalle forze dell’ordine) il lato
dell’accampamento dove fino alla sera prima c’erano la cucina e la dispensa,
gettando nel tritarifiuti tutto ciò che non era stato ancora imballato, e cioè
gli alimenti per la colazione e per il lungo viaggio fino a Jujuy. Il Malón così
risvegliato ha cercato un dialogo: spiegava il ritardo imprevisto, sosteneva
l’inutilità di questa misura di forza visto l’annuncio della partenza imminente,
chiedeva dunque pazienza affinché potessero finire di disarmare l’accampamento
seguendo i propri criteri e aspettare l’arrivo del mezzo di trasporto. Ma il
capo della polizia ripeteva di «dover pulire immediatamente questa spazzatura» e
infine far arrivare una squadra di polizia federale che contava un’ottantina di
uomini e donne, a fronte della trentina di persone rimaste. I poliziotti
filmavano le azioni dei lavoratori di Buenos Aires Ciudad Verde e di un’azienda
privata, convocati per lo smantellamento completo dell’accampamento, l’arrivo
trionfante delle forze federali, il coordinamento delle operazioni da parte dei
capisquadra e le strette di mano forti e complici tra gli stessi. Più o meno in
questa sequenza hanno montato le immagini nel video che è comparso il pomeriggio
stesso sulle pagine social della Policía de la Ciudad de Buenos Aires, con la
didascalia scritta in maiuscolo: “Si è posto fine alla fattoria a Tribunales – e
con ordine”. Seguiva il cartello finale: “Proteggere i porteñi, rafforzare
l’ordine, rispetto alla polizia della città”.
Io con la mia telecamera seguivo la nonna Sabina, che si aggirava tra le forze
dell’ordine con il fuoco sacro «per togliere la malaonda». Poi con disinvoltura
ha chiesto a un poliziotto di spostarsi. Stava in piedi sopra alla Pachamama, e
cioè a un punto del giardino della piazza dove era stato fatto un buco,
all’arrivo del Malón in agosto, per offrire omaggi alla Madre Terra, chiederle
accoglienza e protezione durante il periodo di permanenza in quel luogo. Poi ha
ripreso il suo cammino, emanante essenza di terra e foglie di coca, rapida e
sicura, dicendo tra sé: «Facciano ciò che vogliono con noi, però con lei non
possono fare ciò che vogliono, lei è l’autorità più forte e più potente ed è
grazie a lei che viviamo».
Il Malón è salito sul pullman alle quattro del pomeriggio del 16 dicembre 2023.
Subito prima erano canti, lacrime e sorrisi, abbracci e saluti con le persone
che nel corso di quei quattro mesi e mezzo hanno accompagnato la lotta. Il Malón
che partiva verso Jujuy ringraziava a pugno chiuso la città che restava, a
ricordare che questa lotta è di tutte e di tutti, e non il capriccio di “poveri
indios selvaggi”, perché è la lotta in difesa della vita contro il sistema
neoliberista che sfrutta e fagocita ogni pezzo di terra, ogni goccia d’acqua,
ogni essere umano in nome del profitto. (agnese giovanardi)