Ballare sul genocidio. Musica, boicottaggio e grandi festival internazionali(archivio disegni napolimonitor)
“Stai dando a un’organizzazione il permesso implicito di essere complice del
genocidio in Palestina, per poi fare donazioni a chi riesce a sopravvivere. Non
ha davvero alcun senso ed è profondamente ipocrita. Hai potere nell’industria e
potresti usare il tuo privilegio con intelligenza. Stai facendo una stronzata!”.
“Hai passato così tanto tempo a suonare in Israele e il pubblico ti ha dato
tutto il supporto e il rispetto di cui avevi bisogno. È triste e deludente
vedere che non dici una parola sugli ostaggi israeliani o sulle persone
innocenti uccise al festival musicale Nova. Vergognati!”.
“Ecco un artista con le palle! Finalmente!”.
Alla fine di maggio 2025, questi tre commenti dai toni decisamente divergenti
sono apparsi sotto lo stesso post Instagram. E non sono stati gli unici. In
poche ore, il comunicato di Dixon, nome di punta della scena techno e house
berlinese, di commenti ne ha raccolti oltre tremila. Il post, molto atteso dai
fan e dalla comunità EDM in generale, riguardava la sua partecipazione al Field
Day, festival elettronico previsto per il 4 giugno a Brockwell Park, Londra,
dove sarebbe stato uno degli headliner insieme a Peggy Gou.
In quei giorni il Field Day era sulla bocca di tutti. Una lettera aperta firmata
da duecentotrenta artisti – tra cui Ben Ufo, Brian Eno e Robert del Naja – aveva
chiesto una presa di posizione forte da parte del festival contro il genocidio
in Palestina e l’aderenza alle linee guida del BDS. La mancata risposta del
Field Day, diventata poi tardiva, e, secondo molti, rimasta insufficiente, aveva
convinto diversi artisti a passare all’azione. Nelle tre settimane precedenti al
festival la line up del Field Day si era letteralmente dimezzata, con oltre
venti artisti che hanno scelto di ritirarsi. Proprio mentre le cancellazioni
iniziavano a prendere piede, Dixon ha pubblicato un post per confermare il
proprio set, annunciando che avrebbe devoluto interamente il proprio cachet a
un’organizzazione umanitaria attiva nella Striscia di Gaza. La scelta di Dixon
ha scontentato molti, e per ragioni evidentemente opposte. Alla fine, pur
decimato nella line up, il festival si è svolto regolarmente. Ma qual era il
problema del Field Day?
Dopo una quindicina di edizioni in crescita, nel 2023 Field Day è passato sotto
la proprietà di Superstruct Entertainment, una società britannica attiva nella
produzione di festival musicali diventata in pochi anni un gigante del settore.
Dalla sua fondazione nel 2017, Superstruct ha condotto un’aggressiva campagna di
acquisizione, inglobando oltre ottantacinque cosiddetti macrofestival, tra cui
Szieget (Ungheria), Mighty Hoopla (UK), Parookaville (Germania),
Øyafestivalen (Norvegia), Hideout (Croazia), Flow Festival (Finalndia), Zwarte
Cross (Olanda) e dozzine di altri. Insomma, che siate animali da festival o
semplicemente avete viaggiato per ascoltare dal vivo i vostri artisti preferiti
negli ultimi anni, è molto probabile che abbiate fatto tappa anche voi a un
evento targato Superstruct.
Il passaggio non è stato traumatico come ci si potrebbe aspettare. Nella maggior
parte dei casi, l’acquisizione ha riguardato non solo il marchio e le licenze,
ma anche l’intero team di produzione dietro i singoli festival, assicurando
continuità alle scelte artistiche e consolidando il lavoro fatto negli anni con
una generosa iniezione di capitale. La campagna acquisti di Superstruct si è
fatta più serrata nel post-pandemia, quando molti festival di successo erano
sull’orlo della bancarotta. In quel periodo, il passaggio a una compagnia con
grosse disponibilità finanziarie è stato visto da molti addetti ai lavori come
un’ancora di salvezza – o una strada obbligata – per un comparto devastato da
due anni di cancellazioni, incertezze e contributi statali insufficenti.
Insomma, fin qui niente di nuovo. It’s capitalism, baby.
I problemi veri iniziano nel giugno 2024, quando Superstruct Entertainment viene
comprata per 1.7 miliardi di dollari da Providence Equity Partners L.L.C., a sua
volta parte di Kohlberg Kravis Roberts & Co – meglio noto come KKR, dai nomi dei
tre fondatori. KKR è un fondo fiduciario a stelle e strisce con cinquemila
dipendenti, sedi in una ventina di paesi e un portafoglio di investimenti
stimato poco sopra i settecento miliardi di dollari. Come è lecito aspettarsi,
un fondo di questo tipo non è un esempio di finanza etica. KKR investe
letteralmente in tutto il pianeta e in qualunque cosa possa generare profitti:
telecomunicazioni e sanità, energie rinnovabili e sviluppo software, raccolta
differenziata e costruzioni. E anche nella pulizia etnica.
In Israele, KKR detiene quote di società operanti nel settore della
cybersicurezza, dell’elaborazione dati e della produzione di armi. È anche
azionista di maggioranza in una cordata di compagnie che offrono e pubblicizzano
investimenti immobiliari nei territori occupati. Il corto circuito è servito: un
comparto che lavora offrendo esperienze culturali e ricreative orientate (almeno
sulla carta) alla promozione della diversità, della tolleranza e della pacifica
convivenza si ritrova dalla sera alla mattina tra gli asset di un conglomerato
che letteralmente investe nel genocidio. Come in un gioco di matrioske, nella
più piccola c’è il tuo dj preferito – ma la più grande è sporca di sangue.
Dopo il Field Day, l’attenzione si è concentrata sulla Spagna. Qui il dibattito
è cresciuto per diversi motivi. In primo luogo, Superstruct in Spagna ha fatto
man bassa, acquisendo oltre venti dei festival più amati, tra cui Sónar, Viña
Rock, Resurrection Fest, Monegros, Arenal Sound e FIB. In secondo luogo, il
sostegno alla causa palestinese nel paese è forte e trasversale, e include
(almeno in parte) anche il governo in carica. Infine, i festival in questione
non hanno solo un notevole peso economico, ma sono parte integrante
dell’identità di un paese che nel giro di trent’anni ha visto crescere la
produzione culturale, la qualità della vita e i diritti civili – seppur con
tutte le contraddizioni del caso; e che dalla sera alla mattina si ritrova alle
dipendenze di un fondo che fa profitti col genocidio.
Il primo a finire sotto i riflettori è stato il Sónar, festival simbolo di
Barcellona e riferimento europeo per gli appassionati di musica elettronica.
Poche settimane prima dell’inizio, una lettera aperta firmata da ottanta artisti
ha chiesto al festival di aderire alle raccomandazioni del PACBI (The
Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel), una delle
entità al cuore del movimento BDS. Le richieste avanzate dal PACBI nei confronti
del Sónar riguardavano inizialmente solo gli accordi di sponsorizzazione con
McDonald’s e Coca Cola. Dopo un po’ di tentennamenti Sónar ha mollato gli
sponsor, e PACBI ha rilanciato con la richiesta di una formale presa di distanza
dagli investimenti di KKR e aderenza alle linee guida del BDS in termini di
politica culturale. Come già il Field Day, Sónar ha preso tempo, probabilmente
sperando che la polemica sfumasse. Alla fine, una tardiva presa di distanza c’è
stata, assieme a dei chiarimenti circa la destinazione dei profitti. Nel mentre,
circa cinquanta artisti hanno cancellato la propria esibizione. Sónar è comunque
riuscito ad assorbire il colpo – per usare un eufemismo – segnando un record di
161 mila presenze tra il 18 e il 20 giugno. I biglietti per l’edizione 2026 sono
già in vendita.
In attesa che il calendario porti un altro festival sotto i riflettori (mentre
questo pezzo viene ultimato stanno iniziando le cancellazioni per il Monegros)
ci sembra il caso di prendere spunto dalla vicenda per provare a buttare giù
delle considerazioni di carattere più generale sul rapporto tra forme di
protesta dal basso, politiche culturali e il funzionamento dell’industria
musicale nel post-pandemia.
Iniziamo col dire che il boicottaggio spontaneo e diffuso a opera di artisti e
pubblico dei festival targati KKR è sicuramente un’ottima notizia – per più di
una ragione. Non solo testimonia la sempre più trasversale condanna delle
politiche dello stato d’Israele, ma contribuisce a mantenere alta l’attenzione
mentre Gaza scivola via dalle prime pagine dei giornali a causa del
moltiplicarsi delle tensioni internazionali. Inoltre, cosa forse ancora più
importante, segnala la diffusione di una serie di soglie etiche che tanta gente
non è più disposta a superare e che riguardano la propria connivenza, anche
involontaria, con il genocidio in corso. La pressione sui social costringe gli
artisti a prendere posizione, e di conseguenza i festival, che devono dare conto
delle assenze nella line up anche agli spettatori meno informati. Ci sono però
altri fattori da considerare se si vuole sperare che questa campagna spontanea
possa diventare qualcosa di più, e magari forgiare alleanze più ampie.
In primo luogo è bene ricordare che un boicottaggio, per essere efficace, deve
dotarsi di coordinamento, obiettivi chiari e una strategia per raggiungerli. Per
esempio, le linee guida ufficiali del BDS identificano gli eventi o i prodotti
culturali da boicottare in quelli che ricevono finanziamenti diretti o indiretti
da governo o istituzioni israeliane, ne alimentano la propaganda, o normalizzano
l’occupazione. Le stesse linee guida sono inoltre esplicite nell’indicare che il
boicottaggio deve essere il più possibile mirato e avanzare richieste
specifiche, che di solito consistono nella cancellazione di un accordo di
collaborazione, sponsorizzazione o partecipazione. E questo non è esattamente il
caso dei festival in questione, dove artisti e pubblico al momento procedono in
ordine sparso, e dove il legame con l’occupazione è obliquo e, in molti casi,
decisamente sgradito.
In Spagna, assieme al dibattito è montato anche il disagio di chi si è trovato,
suo malgrado, nell’occhio del ciclone. Il legame tra i singoli festival e KKR
non è diretto, ma frutto di una catena di operazioni finanziarie che avvengono
senza il coinvolgimento né il consenso dei diretti interessati. Macchine
complesse come Sónar o Monegros impiegano migliaia di persone tra produzione,
direzione, comparto tecnico e logistico, oltre agli artisti che – non
dimentichiamolo – sono anch’essi lavoratori. Parlando con diverse di queste
figure, i sentimenti più diffusi sono sconforto e senso di impotenza. Il fatto
che larga parte del dibattito si svolga sui social con modalità che oscillano
tra callout e shitstorm contribuisce ad aumentare la frustrazione di chi, da un
giorno all’altro, si è ritrovato suo malgrado dalla parte sbagliata della
storia.
Tra quelli che soffrono la contraddizione ma non riescono a partecipare
direttamente al boicottaggio ci sono molti lavoratori che non hanno la
possibilità economica di rifiutare ingaggi. Per gli artisti di piccolo e medio
calibro pesano le penali previste per le cancellazioni e il rapporto con le
proprie agenzie. Tra gli artisti maggiori, che sicuramente avrebbero la
possibilità economica di cancellare, molti fanno riferimento a una rete di
relazioni personali che li legano a determinate organizzazioni attraverso
traiettorie condivise negli anni. Per le persone che hanno fondato e diretto
questi festival, ora legate a Superstruct da contratti pluriennali, l’unica via
d’uscita sarebbe rassegnare le dimissioni, pagare importanti penali e vedere il
lavoro di anni andare alle ortiche o passare nelle mani di qualcuno che la
contraddizione non la sente neanche. Sono scelte non impossibili ma sicuramente
non prive di conseguenze, che sarebbe più facile sostenere collettivamente
avendo chiaro il risultato che si vuole ottenere.
In assenza di coordinamento e obiettivi tangibili sembra però difficile segnare
un punto che vada al di là di quanto già elencato. Se affondare il singolo
festival è difficile, come dimostrano il Field Day e il Sónar, colpirne dozzine
è praticamente impossibile. E anche se lo fosse, cosa si otterrebbe sul lungo
termine? Superstruct è poca roba per KKR, la cui penetrazione nel tessuto
economico rende inoltre difficile, se non impossibile, tenersene del tutto alla
larga. In Spagna, per esempio, il fondo ha partecipazioni importanti nella prima
compagnia telefonica del paese, MasMovil, nella catena di ristoranti Telepizza,
nel parco divertimenti Port Aventura, e in decine di altre società. Nel Regno
Unito, lo scorso anno è stato a un soffio dall’acquisire Thames Water, la
società idrica di Londra. E via così in decine di altri paesi. In altre parole,
l’eventuale collasso di Superstruct non sarebbe un grosso colpo per KKR, mentre
disporre delle macerie potrebbe essere un compito titanico per il comparto
musicale europeo. E allora, che fare?
Quello che tanti artisti, fan e lavoratori solidali stanno manifestando nel modo
che riescono a permettersi (boicottaggi, comunicati, cancellazioni, devoluzioni
del cachet in beneficenza, denunce dal palco, rinuncia al lavoro, e chi più ne
ha più ne metta) è l’espressione di un disagio profondo a cui si cerca di
trovare una soluzione individuale. E se fosse invece proprio questo disagio –
nella sua dimensione collettiva – il dato da cui ripartire per provare a
ribaltare il tavolo?
Il problema della presenza tossica di KKR non dovrebbe essere un affare del
singolo festival, artista o spettatore. È invece un problema strutturale del
settore culturale spagnolo e, per alcuni versi, europeo. Come tale, non può
essere affrontato solo con scelte e sacrifici individuali, senz’altro
ammirevoli, che hanno l’effetto di risolvere il malessere dei singoli senza
tuttavia riuscire a intaccare lo stato delle cose. Il disagio, lo sconforto e la
frustrazione andrebbero invece coltivati, condivisi, formalizzati e sbattuti sul
tavolo con tutto il loro peso. Pensiamo a una piattaforma o una lettera aperta
che coinvolga tutte le organizzazioni, gli artisti, i lavoratori, e la comunità
degli spettatori e chiami in causa il governo e la società civile. Non per
offrire soluzioni che sarebbero necessariamente parziali, ma precisamente per
ingigantire la questione a tutti i livelli e farla diventare un problema
condiviso. Qualcosa del tipo: “Hey, abbiamo questo grosso problema – così grosso
che non è più solo nostro, ma anche vostro. Qualche idea per venirne fuori
insieme?”.
L’onere della prima mossa in questo senso spetta senz’altro ai festival, che
nella maggior parte dei casi hanno gestito la situazione in maniera pasticciata
e debole. Comunicati generici e poco efficaci, evidentemente affidati a uffici
stampa non avvezzi a gestire questo tipo di questioni, non hanno fatto che
peggiorare la situazione. Invece di arroccarsi su posizioni difensive o tentare
di salvare il salvabile, i festival dovrebbero invece giocare in attacco,
canalizzando il malessere che accomuna tutte la parti coinvolte per provare a
rispedirlo al mittente.
Ci sono già stati alcuni segnali di apertura in questa direzione. Il ministro
spagnolo della cultura Ernest Urtasun ha affermato a maggio che “KKR non è il
benvenuto in Spagna” esprimendo “preoccupazione” per la sua penetrazione nel
settore della cultura. L’amministrazione di Rivas Vaciamadrid ha rescisso
l’accordo con Sharemusic!, altra partecipata di KKR che organizza festival
musicali, a partire dal prossimo anno. La creazione di una piattaforma comune
potrebbe non solo amplificare ulteriormente le ragioni della protesta, ma anche
incentivare il supporto istituzionale e, sul lungo termine, attivare la
creazione di protocolli automatici di controllo o di una legislazione specifica
che regoli gli investimenti nel settore della cultura.
Infine, la situazione dovrebbe servire da monito per una riflessione più ampia
sulla direzione della musica dal vivo. Il dogma della crescita a tutti costi
negli ultimi venti anni ha avuto un impatto particolarmente forte sulla scena
della musica elettronica, riconfezionandone le spinte più anti-normative in
favore di un pubblico generalista. Ma prima o poi arriva il conto da pagare.
Oltre una certa soglia, i numeri iniziano a diventare appetibili proprio in
quanto numeri, e non per quello che c’è dietro: cultura, sperimentazione,
comunità. I grandi festival possono sembrare delle navi da guerra nello specchio
d’acqua della musica dal vivo, ma nell’oceano del grande capitalismo finanziario
sono poco più che zattere in balia delle onde – e dei pescecani.
Voci in disaccordo con la logica dei macro-festival iniziavano a farsi sentire
anche prima dell’arrivo di KKR, per motivi che vanno dall’appiattimento
dell’esperienza all’impatto ambientale insostenibile. Ma se i dischi non si
vendono più, lo streaming paga quasi zero, club e locali chiudono e i piccoli
festival indipendenti soffrono l’aumento dei costi e della burocrazia, il peso
dei grandi eventi nell’economia del settore cresce in modo esponenziale, fino a
diventare irrinunciabile. È tempo, insomma, di ripensare il modo in cui la
musica dal vivo si produce, si consuma e si performa. (brian d’aquino)