Più fondi, non meno tutele
Continua la discussione sul preruolo. Come tutte le discussioni
sull’università, se queste arrivano con continuità ai quotidiani (e ai blog)
mainstream, si deve agli interessi concretissimi di alcune parti dell’accademia
italica in grado di mobilitare canali di comunicazione che, sulle questioni di
interesse generale, restano rigorosamente silenti. Qui ripubblichiamo la
risposta delle Assemblee precarie di diverse università ad una lettera,
pubblicata da Scienza in rete, una delle tante pensosamente critiche sul
contratto di ricerca, che adesso affollano blog e quotidiani.
Abbiamo letto con attenzione la lettera aperta sulle criticità del nuovo
Contratto di ricerca (CDR) pubblicata il 15 aprile scorso. Pur apprezzando
l’intenzione della docente e dei docenti firmatari di aprire un dibattito,
riteniamo urgente e necessario chiarire alcuni punti fondamentali che riguardano
il presente e il futuro del lavoro nella ricerca.
L’argomento principale della critica rivolta al CDR è il suo costo, ritenuto
troppo elevato per il sistema universitario italiano. A questa critica si
accompagna la richiesta implicita di ritorno all’ormai abolito assegno di
ricerca o a forme contrattuali ad esso affini. Entrambi i punti, per le precarie
e i precari della ricerca universitaria, sono irricevibili. Le ragioni sono
molteplici:
1. il CDR è uno strumento che garantisce una corresponsione economica consona
al ruolo, non soltanto per lo stipendio netto mensile, ma soprattutto in
termini di durata temporale e diritti contrattuali (per stare a due esempi
soltanto, entrambi basilari in qualsiasi forma di lavoro degna di essere
definita tale: le tredici mensilità e il TFR);
2. il CDR favorisce la continuità del rapporto di lavoro e rafforza le
condizioni di tenuta occupazionale. Si spiega così, alla luce del diritto
del lavoro, il suo presunto costo eccessivo: al di là della remunerazione,
la posta in gioco sono i contributi pensionistici, il diritto alla
maternità/paternità e ai relativi congedi, l’indennità di disoccupazione, la
tutela contro il licenziamento illegittimo, la tutela contro ogni forma di
discriminazione (di genere, età, orientamento sessuale, religione),
l’accesso agli ammortizzatori sociali nei periodi di crisi o sospensione
didattica.
Dichiarare il CDR insostenibile, va da sé, equivale a dichiarare insostenibili i
diritti appena elencati. Non si tratta di privilegi, sembra paradossale anche
solo doverlo ribadire, ma di diritti: soglie minime della civiltà giuridica e
della legalità costituzionale.
Non è tutto. Nella lettera sopra citata emerge una contraddizione evidente: si
criticano le borse di ricerca, perché considerate prive di tutele, ma
contestualmente si propone di tornare alla forma dell’assegno o di ammettere le
cosiddette borse “junior/senior” proposte dal ddl 1240 attualmente sospeso per
risparmiare. Il che vale a dire che si vuole più flessibilità, ma a netto
discapito della dignità delle ricercatrici e dei ricercatori. Questo approccio
non fa che perpetuare un sistema fondato sull’ingiustizia e sullo sfruttamento
mascherato da gavetta (quest’ultima accettabilissima e anzi costitutiva alla
professione, se non fosse che è interminabile, solo in Italia, e in nessun altro
Paese civile del mondo).
Il vero nodo della questione, che la lettera si astiene clamorosamente dal
menzionare, è che la ricerca pubblica in Italia è sottofinanziata in modo
sistemico, da anni e su scala strutturale. Continuare a spostare il dibattito
sulle forme contrattuali, anziché affrontare – indignandosi in massa come
personale universitario strutturato e non – il tema della scarsità delle
risorse, equivale a distorcere la prospettiva e disinnescare ogni reale
possibilità di riforma.
Come precarie e precari della ricerca, sappiamo perfettamente che nessuna
singola forma contrattuale, da sola, CDR compreso, potrà mai farsi carico della
complessità del pre-ruolo accademico. Ma se l’attenzione resta fissa sul costo
del CDR, ignorando il quadro complessivo, si finisce per legittimare un sistema
in cui la sopravvivenza della ricerca è affidata alla capacità di attrarre fondi
esterni, spesso provenienti dal settore privato, e dove il finanziamento
ordinario si riduce a quota marginale. In un simile scenario, la competizione
per le risorse sostituisce la progettualità, l’interesse collettivo viene
scalzato dalla logica del rendimento immediato (o presunto tale), e il lavoro
scientifico perde la sua funzione pubblica. Due elementi devono essere chiari e
non negoziabili. Primo: le ricercatrici e i ricercatori non cercano sostegni
alla formazione né premi all’eccellenza; chiedono un lavoro tutelato, stabile,
che permetta loro di progettare il proprio futuro entro un orizzonte
professionale e di vita chiaro. Secondo: una ricerca realmente autonoma ha
bisogno di investimenti pubblici significativi e vincolati, che ne garantiscano
l’indipendenza, la continuità e l’accesso non condizionato.
Senza queste premesse, ogni dibattito sul “come” contrattualizzare rischia di
trasformarsi in una schermaglia tecnica che elude il punto politico essenziale:
una società democratica investe nella ricerca come asset strategico, non come
settore residuale da rendere competitivo a suon di risparmi e precarietà.
Beninteso: nell’invitare la firmataria e i firmatari della lettera a non
separare il dibattito sulle forme contrattuali dalla necessaria attenzione al
quadro complessivo, non intendiamo, in alcun modo e per nessun motivo, ignorare
gli aspetti più tecnici delle loro osservazioni. Come ricercatrici e ricercatori
riteniamo che, invece di adattarsi a qualsiasi condizione di lavoro e perdere
inesorabilmente terreno in termini di capacità attrattive, sarebbe molto più
costruttivo per il sistema universitario italiano sollecitare il governo a
mettere in campo provvedimenti che rendano sostenibile il nuovo contratto di
ricerca.
Alcune criticità potrebbero essere superate anche con semplici misure di buon
senso. Data la durata biennale del contratto, ad esempio, sarebbe banalmente
auspicabile che lo stanziamento dei fondi del finanziamento ordinario venisse
calibrato almeno su uno stesso lasso di tempo, in modo tale da permettere alle
università di programmare congruamente le proprie attività di reclutamento e
offrire al corpo dei ricercatori precari prospettive di impiego meno incerte.
Anche le problematiche inerenti la gestione dei fondi derivanti da donazioni
potrebbero essere superate tramite semplici strumenti correttivi, come
l’introduzione di versioni “light” del CDR da utilizzare esclusivamente per
fondi di breve durata, a condizione che vengano mantenuti gli stessi diritti
essenziali. D’altra parte, è necessario che anche enti come AIRC o Telethon
aggiornino le loro policy di finanziamento, adattandosi al nuovo contesto
normativo. Sorprende, sempre su questo punto, l’osservazione della firmataria e
dei firmatari della lettera sul problema della tassazione dei fondi provenienti
da Enti del Terzo Settore. È sicuramente un nodo delicato, ma non può essere
affrontato con una visione così parziale. È paradossale che si sollevi oggi il
problema della “tassazione” di questi fondi, quando da anni sappiamo che una
quota significativa delle donazioni finisce regolarmente in campagne
pubblicitarie, gadget promozionali e costi di raccolta fondi: una forma di
“spreco accettato” in nome della visibilità e dell’efficacia comunicativa.
Possibile che si consideri più tollerabile finanziare uno spot televisivo
piuttosto che garantire ferie, maternità, malattia e contributi pensionistici a
chi lavora ogni giorno nei laboratori? Se davvero vogliamo che ogni euro donato
“vada alla ricerca”, allora iniziamo a considerare anche i diritti dei
ricercatori come parte integrante e irrinunciabile di ogni progetto.
Ribadendo tutto questo, riteniamo in ogni caso utile aprire una riflessione su
possibili strumenti correttivi: servirebbe ad esempio un’esenzione specifica per
i contratti di ricerca finanziati da enti del terzo settore, oppure un
meccanismo fiscale che consenta di detrarre tali oneri a favore della ricerca.
L’obiettivo deve però restare chiaro: tutelare al tempo stesso l’efficacia delle
donazioni e i diritti contrattuali di chi porta avanti, concretamente,
l’attività scientifica. Per quanto riguarda, invece, le attività finanziate con
bandi premiali di natura esclusivamente pubblica (che raramente hanno una durata
inferiore ai due anni) teniamo a precisare anche come rientri nelle
responsabilità del P.I individuare con quale strumento contrattuale inquadrare
le ricercatrici e i ricercatori da impiegare nel progetto. Se ci fosse una
volontà autentica di riconoscere dignità al lavoro della ricerca, l’impegno di
tutti andrebbe incanalato nel rendere i progetti che saranno banditi da ora in
avanti compatibili con strumenti che riflettono una scelta di civiltà come il
CDR, invece di auspicare il ritorno a forme di lavoro ancora più precarie. Resta
ovviamente ferma la nostra disponibilità al dialogo su eventuali accorgimenti
tecnici che rendano questo strumento più facilmente adattabile al funzionamento
attuale della ricerca, a patto che questi non intacchino in un alcun modo i
diritti elementari che abbiamo descritto sopra e che non venga persa di vista
l’esigenza principale del sistema universitario italiano.
A lungo termine soltanto un finanziamento stabile e in grado di offrire
condizioni di lavoro dignitose a tutte e a tutti potrà garantire un
funzionamento sano del nostro sistema.
Coordinamento del Precariato Universitario di Siena
Assemblea Precaria di Trento
Assemblea Precaria Universitaria di Torino
Assemblea Precaria Universitaria di Milano
Assemblea Precaria di Genova
Assemblea Precaria Sapienza
Ricercatori Precari Ca’ Foscari