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Tutte le guerre sono guerre dei banchieri
SEGUENDO IL DENARO Quando pensiamo agli imperi nel corso della storia, ci vengono in mente esempi come l’Impero Romano, l’Impero Britannico o l’Impero Americano. In altre parole, associamo automaticamente l’idea di impero a un particolare luogo del pianeta. Fino a non molto tempo fa, questa associazione automatica era un errore comprensibile. Nell’era moderna, però, questa tendenza a collegare indiscutibilmente gli imperi a particolari aree geografiche terrestri è un errore che ha contribuito a far cadere in  confusione la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Allo stesso modo, quando pensiamo alla storia delle guerre e delle conquiste, tendiamo a collegare particolari eventi a personalità particolari. Per esempio, leggiamo di Napoleone e delle sue gigantesche ambizioni che sono state lo stimolo dei “suoi” grandi successi e infine della sua prigionia. Sorge però la domanda: Chi ha finanziato queste imprese gigantesche? Chi ha pagato il suo esercito? Chi ha pagato il conto per tutte le armi, i rifornimenti da viaggio e le munizioni necessarie? Era un re a fornire il denaro? E se così fosse, era il denaro del re o di qualcun altro? Ora facciamo un salto al ventunesimo secolo negli Stati Uniti. Chi decide quali guerre devono essere combattute? Immagino che, se siete arrivati a leggere fin qui, abbiate almeno il sospetto che queste decisioni e attribuzioni non siano decise esclusivamente dai presidenti degli Stati Uniti e dalle loro amministrazioni. E se vi dicessi che, in quasi tutti i casi, questi funzionari governativi hanno ben poco a che fare con il decidere contro chi gli Stati Uniti vanno in guerra? “Allora chi decide?”, potreste pensare. L’ATTUALE SISTEMA MONETARIO È UNO SCHEMA PONZI PREDATORIO L’attuale sistema monetario occidentale è stato messo insieme dai banchieri più potenti del mondo, ma non deve essere per forza così com’è. “Il sistema monetario è così com’è perché coloro che lo gestiscono scelgono che rimanga così”, dice l’ex gestore di hedge fund e analista economico Alex Krainer.(1) Il sistema monetario, che è gestito dagli oligarchi bancari e dal sistema bancario, raggiunge i suoi fini attraverso l’uso della violenza fisica (militare), economica e psicologica. “Come mai?”, vi starete chiedendo. Il sistema è strutturato in modo tale da richiedere una crescita costante per rimanere in vita. In questo senso il sistema esistente è come una bicicletta. Se l’accumulazione si ferma, se il movimento in avanti (la crescita) si ferma, la bicicletta si ribalta e il ciclista cade. Quando un banchiere vi concede un prestito, diciamo 100.000 dollari per un mutuo, dovete restituirlo con gli interessi. In generale, nel tempo, finirete per ripagarlo due volte, per un totale di circa 200.000 dollari. Il problema è che solo il capitale, solo 100.000 dollari, entra in circolazione. Gli ulteriori 100.000 che sono necessari per saldare il vostro prestito devono essere guadagnati e quindi estratti da un insieme complessivo di denaro che non include altro che le assegnazioni di capitale. Questo crea una situazione dove la crescita non è solo vantaggiosa per i banchieri, è anche essenziale per mantenere a galla l’intero sistema. In altre parole, il sistema monetario è un enorme schema predatorio di prestito di denaro che intrappola finanziariamente le sue prede in cicli di indebitamento. Mentre tutto questo accade, il sistema bancario accumula continuamente riserve finanziarie offshore non tassate e “intoccabili” che ammontano complessivamente a oltre 50 TRILIONI di dollari e sono in continua crescita.(1a) TUTTE LE GUERRE MODERNE SONO GUERRE DEI BANCHIERI PER IL PROFITTO E LA CONQUISTA Come conseguenza logica di tutto ciò che è stato detto finora, l’unico modo per mantenere una crescita continua è uscire da determinati mercati una volta che questi sono saturi. In altre parole, se la crescita è essenziale per la sopravvivenza dell’attuale sistema e la crescita non è più possibile all’interno di una determinata regione, i produttori di profitto devono trovare nuovi mercati, nuove regioni, nuove risorse e nuovi obiettivi di sfruttamento, altrimenti il sistema collasserà. Negli Stati Uniti, in Europa e in Canada, abbiamo visto sempre più città sprofondare nella tossicodipendenza, nel suicidio e nella povertà. Questo perché le banche hanno spinto la classe politica controllata dai loro finanziatori a creare una sempre maggiore crescita e quindi profitti (per i banchieri) all’estero. Tutto questo è avvenuto a spese delle popolazioni dei Paesi citati. Questo feticismo della crescita è la vera causa di fondo della continua spinta bipartisan per un numero sempre maggiore di guerre in Medio Oriente, Europa dell’Est e ovunque sia possibile l’espansione e il saccheggio imperialista. Per fare un esempio: La ricchezza di risorse dell’Ucraina è stimata in 15 trilioni di dollari, mentre quella della Russia è stimata in 70 trilioni di dollari. Chiunque abbia dedicato un minimo di tempo a studiare l’attuale guerra tra Russia e Ucraina, prendendo in considerazione i punti di vista provenienti da fonti occidentali e non occidentali (fonti al di fuori della narrazione occidentale), sa che il “Progetto Ucraina” era in cantiere da quasi vent’anni.(1b) Dal 2019 al 2022, per tre anni, il denaro e le armi statunitensi sono stati riversati in Ucraina per prepararla al ruolo di ariete, di esercito per procura contro la Russia. Questa non è un’illazione. È un fatto documentato che il governo e le forze armate statunitensi stavano contemplando di utilizzare la popolazione ucraina come esercito per procura almeno dal 2019.(2),(2a) Allo stesso modo, il governo statunitense aveva un piano per intraprendere “7 guerre in 5 anni in Medio Oriente” a partire dal 2003.(3) Queste guerre sono state intraprese per espandere la portata del sistema bancario statunitense e per estrarre risorse da questi Paesi ormai bombardati e martoriati. I nostri media occidentali tradizionali ci dicono che queste guerre, compreso il recente scontro con l’Iran, sono state intraprese per prevenire lo sviluppo e/o l’uso di armi di distruzione di massa, per contrastare il ‘male’, per diffondere la democrazia o per “scopi umanitari”. Parlerò in modo molto diretto: queste scuse che sono state usate per iniziare e intensificare le guerre sono tutte storie per bambini. Il nostro sistema elettorale, il nostro sistema politico e i nostri media tradizionali sono ormai in larga misura controllati da oligarchi, dal sistema bancario, che è legato direttamente al complesso militare industriale. In un certo senso, è così da molto tempo. Nel corso degli ultimi decenni gli Stati Uniti sono passati da una democrazia problematica ma funzionante a quella che oggi è essenzialmente un’oligarchia che ha mantenuto solo la forma esteriore di una democrazia.(4) Se non credete a questi fatti così come li ho presentati, allora date un’occhiata a ciò che l’Università di Harvard e il Guardian hanno detto in merito. IL SISTEMA MONETARIO PUÒ ESSERE CAMBIATO (UN RECENTE ESEMPIO DELLA VITA REALE NELLA GERMANIA DEL 21° SECOLO) Alcuni sostengono che le carenze dell’attuale sistema monetario globale siano semplicemente parte integrante dell’accordo e che non potrebbe essere altrimenti. Questa è una sciocchezza. Fino a circa 15 anni fa, uno dei maggiori successi economici del pianeta è stata la Germania. Era la superpotenza esportatrice numero uno al mondo. Il valore delle esportazioni tedesche era persino superiore a quello della Cina fino a poco più di un decennio fa. Ciò è accaduto perché il sistema bancario tedesco aveva una politica che non si limitava a concedere prestiti senza interessi alle piccole imprese, ma le sosteneva anche, offrendo loro consulenza, accompagnandole a conferenze, ecc. Le banche che erogavano questi prestiti erano  piccole banche regionali, il 70% delle quali erano enti senza scopo di lucro. In altre parole, queste banche non erano interessate a profitti enormi solo per sé stesse. C’era un aspetto reciprocamente vantaggioso in ciò che stava accadendo. Ciò ha permesso a queste aziende di sviluppare le proprie attività nel tempo senza la costante pressione di dover rimborsare rapidamente i prestiti a tassi di interesse elevati.(5) Sfortunatamente, la Germania alla fine ha ceduto al modello bancario basato sulla finanza, promosso dagli Stati Uniti, e ha iniziato la deindustrializzazione circa un decennio fa. Il risultato di questo cambiamento è stato disastroso. La Germania è sull’orlo della recessione da quasi tre anni. DOBBIAMO SMETTERE DI FINGERE Ultimamente è stato raggiunto un nuovo punto di svolta. Forse è successo un giorno o due fa, o una settimana o due fa, o un anno o due fa? Non sono sicuro del momento esatto in cui è successo (per voi). Il fatto è che voi, che state leggendo, sapete di cosa sto parlando. Forse nella vostra testa state pensando che non siete sicuri di cosa sto parlando. Nel vostro cuore, però, lo sapete. È ora che voi e io smettiamo di prenderci in giro. Dimenticate la vostra fedeltà a Donald Trump o al Partito Democratico per un momento. Le persone con un buon lavoro hanno difficoltà a pagare l’affitto e la situazione si fa sempre più difficile. E voi lo sapete. Vedete il modo in cui i prezzi sono saliti alle stelle, praticamente a intervalli di pochi mesi, nel corso degli ultimi anni. Ma l’economia “sta andando bene”, ci dicono sempre. Sapete che vi stanno mentendo. Sapete che le guerre in cui siamo stati costantemente coinvolti nel corso degli ultimi venticinque o più anni, sono state tutte puttanate. Sapete che i canali di informazione che guardate sulle TV tradizionali trasmettono per lo più sciocchezze quando si tratta di guerra e di guerre potenziali. Sapete che gli Stati Uniti e Israele hanno violato per anni tutte le leggi internazionali in vigore. Dai, lo sapete benissimo! Dovreste essere dei cretini per non saperlo. Ma non siete cretini. O lo siete? Ora basta. A parte le battute, niente di tutto questo è più un segreto. Il difetto principale, il percettibile peccato centrale che sta generando tutto questo caos e questo sconvolgimento è nel sistema monetario. In altre parole, non c’è nulla di magico in ciò che sta accadendo, tecnicamente parlando. La domanda è: cosa ci vorrà per spingere le persone ad approfondire questi temi? Forse sarà necessario un qualche tipo di risveglio spirituale? Onestamente, non so cosa ci vorrà. Forse tutti noi dobbiamo iniziare a porci seriamente la domanda: “Voglio vivere e, se sì, in quali condizioni? In che tipo di mondo voglio vivere?”. FONTI: 1-https://youtu.be/cvPVTp9e1eI?si=48bcvC8K6bWlMVC5 1a-https://gfintegrity.org/50-trillion-offshore-with-james-s-henry/ 1b-https://www.theguardian.com/world/2004/nov/26/ukraine.usa#:~:text=But%20while%20the%20gains%20of,rigged%20elections%20and%20topple%20unsavoury 2-https://www.rand.org/pubs/research_reports/RR3063.html  2a-https://www.pressenza.com/2024/08/the-us-calculated-sacrifice-of-the-ukrainian-population/ 3-https://www.youtube.com/shorts/TJpGoKqPM0k 4-https://www.hks.harvard.edu/faculty-research/policycast/oligarchy-open-what-happens-now-us-forced-confront-its-plutocracy 5- andare al minuto 22:50 in – https://www.youtube.com/watch?v=LM2b_youfAg&t=1662s -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dall’inglese di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Mark Lesseraux
Perché vado per la terza volta in Ucraina
Un’amica mi ha chiesto tempo fa: “Si può sapere cosa cavolo vai a fare in Ucraina? Vuoi farti ammazzare?” Iniziamo dalla seconda questione: mi piace vivere e non mi sono votato al martirio, anche perché, essendo sostanzialmente agnostico/ateo (pur di cultura cristiana) non avrei paradisi, Valhalla, Valchirie o Vergini ad aspettarmi in un’ipotetica vita eterna in cui, con tutta la buona volontà possibile, non credo né ho mai creduto. Morire per un missile russo a Leopoli, a Kiev o a Odessa?  È possibile tanto quanto morire in un incidente stradale sulla Pontina o sul Grande Raccordo Anulare di Roma, facendo escursioni in montagna o nuotando in uno dei mari italiani. Potrebbe paradossalmente essere maggiore e più “mirata” la possibilità di essere fatto fuori dai servizi segreti ucraini o alleati vari. E’ già successo. Qui confido nel buon senso: perché creare un casino internazionale quando basta non farmi entrare o al limite espellermi? Inoltre confido nella mia irrilevanza: posso scrivere ciò che voglio, ma la potenza di fuoco dei menestrelli di corte, della scorta mediatica dei signori della guerra, del fatto che in “tempo de guera: più bugie che tera” rendono per loro assolutamente irrilevante qualsiasi cosa io possa scrivere. Allora perché vado? Perché le nostre innumerevoli irrilevanze sono semi gettati al vento, brace che sotto la cenere potrebbe tornare a essere fuoco, umile goccia che scava la pietra o meglio ancora goccia che costruisce colonne quando una stalattite si salda con una stalagmite. Ho la stessa ambizione del colibrì che vuole spegnere l’incendio della foresta gettando la sua gocciolina d’acqua o della “piccola pietra” che Emilio Guarnaschelli, comunista torinese vittima del terrore staliniano, decise di portare a Mosca, rifugiandosi là come perseguitato politico italiano durante il regime fascista. Voleva contribuire all’edificazione della città di quella “futura umanità” cantata nelle centinaia di lingue in cui è tradotta l’Internazionale. Io faccio la mia parte, meglio di piangersi addosso o di spargere depressione. Del resto, già ora, centinaia e centinaia di migliaia di persone, se non milioni, in Italia, in Europa e nel mondo, e tra le quali tante e tanti giovanissimi, la loro parte la fanno tutti i giorni, in mille modi diversi e senza il bisogno di scrivere lettere aperte. Questi meritevoli sforzi mi paiono tuttavia poco coordinati per non dire disarticolati o polverizzati, rendendoli poco efficaci politicamente. Perché io vado proprio in Ucraina, quando abbiamo decine di guerre dimenticate e un genocidio ostentato e addirittura rivendicato in diretta? Torno per la terza volta in Ucraina perché lì c’è una guerra tra potenze nucleari, anche se la Nato non invia truppe ma armi, tecnologia e addestratori militari. Una guerra in cui è in corso lo sterminio sistematico di un’intera generazione di giovani maschi ucraini e di altrettanti giovani russi (uguali per numero, ma non certo in termini proporzionali rispetto alle rispettive popolazioni). Una guerra che è sostanzialmente rimossa proprio dalla mia parte politica, perché per mobilitarsi sente l’istintivo bisogno di schierarsi con una delle parti in conflitto secondo l’infantile logica binaria e manichea che ci vuole a fianco dei buoni contro i cattivi. Eppure sembrerebbe tanto facile dire che siamo contro la guerra e contro chi l’ha promossa, non ha voluto impedirla e ora la alimenta. Siamo contro una delle guerre più pericolose per i destini del genere umano. Se Kiev venisse bombardata a tappeto, trasformandola in una sorta di Gaza, allora sì che la mia vita sarebbe in grave pericolo, ma tanto quanto quella degli abitanti di Pietroburgo e Mosca, e di conseguenza Roma, Parigi, Berlino e Londra. (Madrid sarebbe risparmiata insieme a Dublino, a Bratislava e a chi pur tra mille esitazioni ha provato a non farsi trascinare nel bellicismo suicida). In quanto a me i nazionalisti russi (cioè i tre o quattro che mi hanno letto) mi hanno accusato di essere filo ucraino, che per loro significa sostanzialmente essere filonazista, per aver definito “truppe di invasione” i soldati della Federazione Russa che dalla Bielorussia tentarono di arrivare a Kiev (attraversando peraltro la foresta chiusa in quanto iper-contaminata dal plutonio di Chernobyl). Attenzione, non reputo necessariamente invasori i soldati russi entrati in Crimea e nel Donbass! Mentre i nazionalisti ucraini (sempre i tre o quattro che mi hanno letto) si sono stracciati le vesti perché, davanti alla Casa dei Sindacati di Odessa, città da sempre cosmopolita, imponente edificio oramai chiuso, abbandonato e addirittura cancellato da Google Maps, ho definito quella orrenda strage, pianificata dai neonazisti ucraini, il punto di non ritorno che portò alla guerra civile iniziata nel 2014. Sarei quindi filo Putin e giacché Putin sarebbe il nuovo Hitler, sarei di nuovo filonazista. Una guerra civile che ha distrutto uno stato binazionale. Una guerra civile in cui dopo otto anni di sostanziale indifferenza della comunità internazionale, bloccata dai veti incrociati espressi nelle risoluzioni presentate al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, si è inserita con le sue truppe d’invasione la Federazione Russa, che, per quanto provocata dalla Nato, ha anch’essa violato il diritto internazionale (lo dice anche Francesca Albanese). Altri tre o quattro lettori di entrambi gli schieramenti mi hanno detto, bontà loro, che, benché in buona fede, dovrei studiare la Storia (scritta suppongo dagli storici degli opposti schieramenti). Replico rivendicando di essere pacifista, internazionalista e quindi comunista poiché il capitalismo sta alla guerra come i nuvoloni neri stanno alla pioggia. Replico che sto dalla parte dei renitenti alla leva e dei disertori di entrambi gli schieramenti, che ormai sono d’accordo soltanto sul fatto che l’obiezione di coscienza sia il più grave dei delitti… Replico, come sostenne con la sua vita il socialista riformista Giacomo Matteotti, che il nazionalismo porta alla guerra e la guerra porta al fascismo. Infine, come mi ha insegnato il redattore umanista di Pressenza Olivier Turquet, è inutile disperarsi: “Signori della Guerra, vi spazzeremo via con Pace, con Forza, con Allegria!” Mauro Carlo Zanella
L’unica salvezza dell’umanità sta nel rendere la guerra un tabù
Le notizie da Gaza ci straziano il cuore. Dopo decenni dalla condanna dello sterminio nazista degli ebrei non avrei immaginato che un governo israeliano sarebbe diventato il più efficace seminatore di odio anti-semita della storia: talmente efficace da togliere dalle mani di noi difensori del popolo ebraico ogni strumento. Ho firmato decine di appelli, ho partecipato a decine di cortei, ma ormai non posso mettere a tacere una domanda insinuante che proviene dalla mia stessa coscienza: davvero sono convinto che con questi segni di protesta raggiunga altro obiettivo che addormentare – provvisoriamente – il mio senso d’impotenza? Come mi capita nei momenti più bui della vita, provo a farmi consulente filosofico di me stesso: a guardare il problema in sé, a cercarne eventuali soluzioni, senza lasciarmi coinvolgere del tutto dagli inevitabili blocchi emotivi. L’obiettivo principale, e più urgente, è la cessazione di questo genocidio in Medio Oriente. Chi ha il potere d’intervenire a tale scopo? In probabile ordine: il governo di Netanyahu; i dirigenti di Hamas; Trump; l’Unione Europea; il governo italiano (nella modesta misura in cui può condizionare le istituzioni elencate). Moltiplicare le iniziative di protesta, di condanna, di sdegno verso una o alcune o tutte queste istituzioni ci avvicina o ci allontana dall’obiettivo principale? Se scendiamo in piazza in 10 cittadini/e o in un milione di essi/e, con slogan o senza slogan, bruciando questa o quella bandiera, ci avviciniamo di un centimetro alla méta? La storia delle idee e delle pratiche nonviolente mi suggerisce altro. Se vedo due energumeni che se le danno di santa ragione, il mio primo compito è ricostruire le origini della lite (stabilendo chi ha più torto dell’altro) o interromperla? Se avessi la forza per farlo, bloccherei i due contendenti (e, in caso di pericolo esiziale del più debole dei due, ricorrendo a qualsiasi arma), ma se non ho questa forza, che posso fare? Per prima cosa – probabilmente – spegnere le tifoserie che, alle spalle dei due contendenti, si sgolano per incitare alla lotta e supportare con ogni mezzo il proprio combattente. Approfittando del privilegio (immeritato) di non essere un congiunto di israeliani assassinati il 7 ottobre del 2023, né di palestinesi sterminati da quella data a oggi, potrei proporre (personalmente o come associazione, rivista, centro studi, sindacato, partito, chiesa etc.)  un movimento planetario e trasversale di superamento del tradizionale paradigma bellicista. Penso a un movimento essenzialmente culturale, basato su alcuni pochi principi etici condivisibili da (quasi) tutte le ideologie religiose e politiche, imperniato sulla convinzione che ormai l’umanità sia a un bivio: o un mutamento antropologico o il suicidio. E’ un po’ come se, dopo millenni in cui l’umanità avesse parlato in latino, dovesse transitare in un universo mentale, valoriale, linguistico inedito: l’inglese o il cinese. Provo a spiegarmi meno rozzamente a partire dalla tragedia odierna di Gaza. Ci sono possibilità che i governanti attuali trovino un accordo, una tregua che non sia di poche ore ? Pare che lo farebbero solo se temessero di essere sommersi da un’ondata di rivolta popolare. Un movimento di opinione inedito, innovativo, che coinvolgesse (la maggioranza de): * gli elettori del governo di Netanyahu * gli elettori del governo di Hamas * gli elettori di Trump * gli elettori del Parlamento europeo e (indirettamente) della Commissione europea * gli elettori del governo italiano. A meno di soluzioni insurrezionali violente (talmente improbabili che non è il caso di esaminarne vantaggi e svantaggi) non vedo altre vie per disarmare i contendenti in Palestina, in Russia, nelle altre decine di fronti in guerre armate disseminate sul pianeta: uno schieramento così compatto delle opinioni pubbliche nazionali e internazionali da far temere a chi detiene oggi il potere di poterlo perdere nel caso di pervicacia. Ciò è possibile solo se, nel nome del rifiuto di ogni violenza armata, si scompongono gli attuali schieramenti (pro Questo, pro Quello…) e si ricompongono due nuovi schieramenti (formati da sostenitori dell’uno e dell’altro fronte): lo schieramento di chi ritiene che l’unica salvezza dell’umanità stia nel rendere la guerra un tabù (come per esempio dichiara l’articolo 11 della Costituzione repubblicana, l’articolo meno rispettato da tutti i vertici dello Stato italiano negli ultimi 80 anni) e lo schieramento di chi ritiene accettabile la guerra (sia pure come extrema ratio in considerazione di motivazioni ideologiche, religiose, politiche, economiche o d’altro genere). Sino a quando lo schieramento dei negazionisti della guerra non diventerà, culturalmente e poi anche elettoralmente, prevalente sullo schieramento possibilista, non credo ci sia speranza di interrompere i conflitti bellici in corso. Tale schieramento potrebbe diventare maggioritario solo se: * l’opinione pubblica venisse informata adeguatamente degli orrori di ogni guerra passata e presente (compito degli storici e dei giornalisti) * l’opinione pubblica si educasse all’ascolto delle “ragioni” dell’una e dell’altra parte, al di là di qualsiasi schieramento partigiano unilaterale (compito dei politici e degli opinion leaders) * l’opinione pubblica si convincesse di una verità lapalissiana: quale che sia l’esito di un conflitto all’ultimo sangue in corso, alla fine risulterebbero danneggiati sia gli eventuali ‘sconfitti’ sia gli eventuali ‘vincitori’. Capisco benissimo le mille motivazioni etiche ed emotive, che spingono a cortei, sit in, manifestazioni di protesta i fautori dell’uno o dell’altro schieramento in guerra (ovviamente avvertendo più condivisione con certi schieramenti e meno – o nessuna – con altri), ma, nel sincero rispetto di ogni altra opzione, intendo dedicare tutte le poche energie disponibili a lavorare perché (nel micro, nel meso e nel macro) si diffonda – sino a diventare “senso comune” – il principio gandhiano: “Occhio per occhio rende il mondo cieco”.   Redazione Italia
Oggi come allora, bambini e bombe
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa toccante testimonianza di Romana Olivieri Canneti, 92 anni, che ricorda i bombardamenti a Napoli vissuti da bambina e li collega alle sofferenze provocate dalle tante guerre attuali. Guardo la televisione e ascolto i telegiornali con immagini di guerre. I tanti bambini disperati, le loro famiglie mi fanno ripensare alla mia guerra e a me bambina che viveva tanti anni fa quelle stesse sofferenze. Era il 1943 ed io avevo 10 anni. I continui bombardamenti a Napoli avevano portato mio padre a decidere di trasferirsi a Maddaloni, dove la numerosa famiglia poteva vivere in una relativa tranquillità. Mio padre, sarto di abiti da uomo eleganti e raffinati, ora poteva solo girare cappotti e giacche, scucendo e ricucendo stoffe già usate. Correva affannato a Napoli per recuperare cibo e il necessario per noi e mai dimenticava un pensiero per i più piccoli, un gioco, un libro. Cinque figli nati tra il 1923 e il 1933 e la speranza di tornare negli USA, sì, perché proprio nel 1922 i miei genitori si erano imbarcati a New York per far conoscere la giovane sposa americana alla famiglia italiana di Giovanni Olivieri, mio padre. Vissero la loro vacanza tra soggiorni a Ischia e viaggi in Italia, per poi scoprire che presto sarebbero diventati genitori. La guerra interruppe i rapporti con i parenti oltre oceano e tutto cambiò. La casa in via Chiaia a Napoli, il teatro, gli abiti alla moda… Le sirene che annunciavano gli attacchi aerei, il rifugio …. Sento ancora lo scoppio delle bombe, il silenzioso pregare, la nonna che chiamava i più piccoli per distrarci con giochi e racconti e affidava tutti alla Madonna con una preghiera: “La Madonna stende il manto per coprirci tutti quanti. Sempre lodata sia la Vergine del Carmine Maria.” E la preghiera correva e diventava più veloce al rumore delle bombe che cadevano. La tessera concedeva 150 grammi di pane al giorno, tutto era razionato, ma la mamma pur di far mangiare i suoi bambini scambiava con i contadini abiti, borse, stole di pelliccia. Almeno però eravamo insieme. Era il 1943. Gli americani sbarcarono a Salerno e la mamma vedeva i “suoi” soldati a un passo, come sembrava più vicina la possibilità di tornare a parlare con i fratelli e i genitori. Lei raccontava e raccontava della sua famiglia per tenere viva la memoria e trasmetterla a noi. Ma la guerra non è solo quella delle bombe. Si ammalò: appendicite, mi dissero. Mio padre corse all’ospedale da campo americano … Una semplice operazione l’avrebbe salvata, ma non fu così. Mentre gli americani trionfanti entravano in una Napoli liberata, io piangevo la mia mamma. Quanti bambini, quante mamme e quanti papà dovranno soffrire ancora per guerre senza fine? Redazione Italia
Le nuove guerre dei contractors Usa
El Salvador, Ecuador, Congo, Haiti In El Salvador a progettare il trasferimento di immigrati illegali dalle galere al CECOT, la prigione lager antiterrorismo; in Ecuador a sostenere la lotta al narcoterrorismo; in Repubblica Democratica del Congo a proteggere le risorse minerarie; ad Haiti a condurre operazioni militari contro le gang […] L'articolo Le nuove guerre dei contractors Usa su Contropiano.
#nowar - #RIARMO E NUOVE #GUERRE: tutto quello che non ci raccontano. La #Nato, la corsa al riarmo e gli attori principali: gli Stati Uniti, l'Europa, #Israele. Il ruolo delle basi militari americane in Italia e le menzogne del governo italiano https://www.youtube.com/watch?v=_m9x2ARuY7s
I 35 anni della Legge 185/90: preservare controllo e trasparenza su export di armi
Si celebra oggi, 9 luglio 2025, il trentacinquesimo anniversario dell’entrata in vigore della Legge 185 del 1990 che regola l’export di armamenti italiani: una data importante a ricordo di una pietra miliare dell’azione per la Pace e il Disarmo nel nostro Paese, oltre che un’occasione per riconoscere e fare memoria del ruolo cruciale delle campagne promosse su questi temi dall’associazionismo e dalle azioni collettive. La normativa italiana sulla esportazione di armi è infatti nata a seguito della pressione della società civile, sempre più consapevole dei problemi derivanti dal mantenere segreto e dominato solamente da valutazioni economiche un commercio dagli impatti così devastanti (sulle persone e sulla Pace). Grazie a questa visione innovativa e aperta la Legge 185/90 si è configurata come un passaggio avanzato e importante, riuscendo così ad ispirare ed  anticipare i meccanismi e i criteri delle norme internazionali che oggi regolano il commercio di armi, come la Posizione Comune dell’Unione Europea e il Trattato internazionale sui trasferimenti di armamenti ATT. La Legge 185/90 si basa infatti sul principio che la vendita di armi non possa essere considerata un semplice business, ma debba essere legata alla politica estera, al rispetto dei diritti umani e al ruolo di promotrice di Pace dell’Italia sancito dall’articolo 11 della Costituzione. Un altro elemento rilevante e fondamentale è quello della trasparenza, declinato in particolare attraverso la Relazione annuale che il governo deve inviare al Parlamento, trasmettendo tutti i dati sull’esportazione di armi. Proprio dall’analisi di tali dati la società civile – in particolare la nostra Rete Italiana Pace e Disarmo – nel corso degli anni ha potuto gettare luce su decisioni relative all’esportazione di armi prese dai vari governi non sempre in linea con i criteri della norma. Tanto è vero che sempre di più, con il passare del tempo, si è arrivati a una situazione per cui la maggior parte della vendita di armi italiane viene autorizzata verso Paesi non UE e non NATO. Senza dimenticare i casi evidenti di non allineamento con le norme previste dalla Legge, o quelli con palesi violazioni della stessa: le bombe e missili verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che le utilizzavano per bombardare civili in Yemen, il caso dei bossoli italiani coinvolti nella repressione in Myanmar, le munizioni autorizzate verso la Repubblica Dominicana ma trovate in Senegal, le licenze di vendita di armamenti rilasciate verso un Paese come Israele… Tutti casi che evidenziano come l’esportazione di armi sia un aspetto troppo importante per essere gestito in maniera opaca, come successo nei decenni di scandali prima della Legge 185/90, e dunque l’importanza fondamentale di tale norma, che ci ha permesso di avere dati ed elementi chiari e ufficiali, riuscendo così a contrastare vendite problematiche o a esercitare pressione sul sistema di politico-economico che sostiene e favorisce il complesso militare-industriale (come ad esempio nel caso della “Campagna Banche Armate“). E ci ha permesso anche di ricostruire (anno per anno) il volume del commercio di armi italiane, inserendolo anche nel quadro globale. Anche oggi nel trentacinquesimo anniversario dell’entrata in vigore della Legge 185/90 (e così come sottolineato più volte nel passato recente) la Rete Italiana Pace Disarmo chiede al Parlamento di tornare a occuparsi in maniera seria di esportazione di armi (in un quadro di controllo complessivo su dinamiche e impatti di questo tema, non certo in termini di “aiuto” per l’industria militare), portando la positiva esperienza italiana anche in sede internazionale. In un mondo sempre più insicuro e sferzato da conflitti armati diventa cruciale rafforzare e implementare il Trattato internazionale sui trasferimenti di armi ATT e i suoi criteri, recuperare un effettivo allineamento con le prescrizioni della Posizione Comune UE, indagare tutti i casi in cui materiali d’armamento italiani (ed europei) sono stati autorizzati o spediti verso luoghi di conflitto, alimentando la violenza. Il primo passo su questo cammino è ovviamente quello di rigettare la proposta di modifica peggiorativa della Legge che è attualmente in discussione alla Camera dei Deputati (dopo una prima approvazione al Senato) a seguito di un DDL di iniziativa governativa. Una proposta davvero inaccettabile e deleteria, che non solo diminuirebbe il controllo sull’export di armi e l’allineamento con i criteri della Legge (e del Trattato ATT), ma porterebbe anche a un grave indebolimento dei meccanismi di trasparenza oggi comunque presenti. Ancora una volta è la società civile (fondamentale già quaranta anni fa per giungere alla Legge con la campagna “Contro i mercanti di morte”) a essersi messa in moto in prima persona per contrastare le spinte verso decisioni che favorirebbero solo gli interessi armati a discapito di Pace e sicurezza globali e del rispetto dei diritti umani e della vita di intere popolazioni. Nonostante il recente rinvio del voto in sede di Commissioni Esteri e Difesa della Camera la Campagna “Basta favori ai mercanti di armi” (sostenuta da oltre 200 organizzazioni della società civile) sta continuando la propria mobilitazione, monitorando l’iter parlamentare, per impedire che le idee innovative e importanti della Legge 185/90 vengano definitivamente messe in soffitta. E impedire che si ritorni a una completa assenza di controllo sul commercio di armamenti, situazione che sarebbe oggi ancora più pericolosa, vista la stagione di riarmo che stiamo vivendo. Rete Italiana Pace e Disarmo
Mezzo mondo come Gaza?
Come sarà il mondo di domani? Gran parte di esso, oltre la metà, sarà come è adesso Gaza e come era stata, ormai quasi un secolo fa e oltre, gran parte della comunità ebraica europea. Si sta avverando la tremenda profezia di Primo Levi: è successo, può succedere ancora. Intere popolazioni, giudicate superflue o dannose, si ritroveranno rinchiuse entro confini invalicabili, senza poter andare altrove perché nessuno le vuole, condannate allo sterminio con bombardamenti, caccie all’uomo, o per fame, sete, malattie non curate, accampate in territori lunari perché tutto quello che avevano deve essere distrutto per comprometterne la sopravvivenza. Gaza – come ha rilevato Ida Dominejanni – è un esperimento per abituare i popoli a convivere con lo sterminio altrui e ad accettarlo come inevitabile; proprio come i governi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti stanno abituando anno dopo anno i loro cittadini – noi – a convivere e ad abituarsi allo stillicidio di rastrellamenti, deportazioni, annegamenti, morti, torture, violenze di ogni genere inflitte alla “genti in cammino” (people on the move) che cercano di abbandonare le loro terre di origine perché lì la vita è diventata impossibile, ma che nessun altro Paese accetta, se non per il tempo necessario a spremere dai loro corpi, dalle loro famiglie, dalle loro vite, tutto quello di cui è ancora possibile appropriarsi. Fantapolitica? No, semplice previsione di quello che non vogliono farci vedere i nostri governanti, i media che li assecondano, gli accademici e gli intellettuali che chiudono gli occhi. Entro la fine del secolo – ne abbiamo già consumato un quarto – più di metà della Terra sarà inabitabile: qualunque provvedimento venga preso oggi, i ghiacci delle calotte polari e dei ghiacciai continueranno a sciogliersi, il livello del mare a crescere e gran parte delle terre costiere, con il loro entroterra, verranno sommerse. I fiumi cesseranno di scorrere regolarmente, alternando piene devastanti a periodi di siccità, i raccolti continueranno a soffrirne, le foreste a bruciare senza acqua per spegnerle, le epidemie a imperversare. Crisi climatica e ambientale e migrazioni sono strettamente connesse: più si faranno sentire gli effetti della prima, destinati a crescere, più il numero dei profughi ambientali aumenterà in modo esponenziale. Ad accrescerne gli effetti concorrono poi le guerre a cui i governi di tutto il mondo stanno destinando i fondi che hanno negato e continuano a negare alla “transizione” (in realtà, alla conversione ecologica, che non è solo un processo tecnico ed economico, ma anche e soprattutto culturale, sociale, morale e democratico e che per questo viene osteggiata con sempre maggior ipocrisia). Gaia Vince (Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023) e Parag Khanna (Il movimento del mondo, Fazi, 2023), due studiosi che hanno cercato di guardare il futuro, concordano nel delineare un panorama come questo, ma loro sono ottimisti. Vince immagina che metà della popolazione mondiale, in fuga dalle terre di origine, troverà ospitalità nelle aree subartiche del pianeta, rese fertili e praticabili dal riscaldamento globale; le migrazioni giovano sia a chi le fa che a chi le accoglie, sostiene. Inoltre, tra un secolo la geo-ingegneria potrà restituire poco per volta vivibilità al pianeta devastato. Khanna, altrettanto fiducioso nei benefici della tecnologia, sostiene che essa – grazie soprattutto ad aria condizionata, colture idroponiche, desalinatori, energie rinnovabili e molto denaro – creerà isole vivibili anche in aree desertiche, énclave aperte alle persone dotate di professionalità e spirito di iniziativa, provenienti da tutte le parti del mondo. Per tutti gli altri, quelli non qualificati, la recuperata vivibilità delle aree subartiche offrirà comunque l’opportunità di una vita da schiavi. Nessuno dei due prende però in considerazione che l’alternativa possa essere invece uno scenario “alla Gaza”. Ma questo è. Come pensiamo che possano sopravvivere in territori devastati dalla catastrofe climatica e ambientale le popolazioni che li abitano oggi? Dove pensiamo che possano trasferirsi, senza essere respinti, tutti coloro che “a casa loro” non potranno più vivere? O addirittura che una casa loro non l’avranno più, perché sommersa dalle acque, o bruciata dalla siccità o dagli incendi? E come pensiamo che reagiranno i governi dei Paesi – “sviluppati” o no che siano – nei quali cercheranno rifugio quelle popolazioni tutte intere, se già ora, di fronte all’arrivo alla spicciolata delle avanguardie di quelle genti in cammino, i governi degli Stati forti mettono in atto politiche di respingimento basate sempre più sugli strumenti e le modalità della guerra? La vera guerra a cui ci stanno preparando. Se proiettate su uno scenario di lungo periodo – quello in cui, diceva Keynes, siamo tutti morti – le misure per respingere i migranti adottate oggi dai governi appaiono sì ciniche e spietate, ma anche risibili e inadeguate. Ma in realtà fungono da scuola per addestrare tutti noi ad accettare come normali quelle politiche di sterminio: esattamente come ci succede per Gaza. Ovviamente tutto questo ha delle ripercussioni anche sugli Stati che “si difendono dall’invasione” dei profughi: militarizzazione, sospensione o abolizione di diritti e welfare, violazione delle convenzioni, razzismo di Stato e fascismo. Gli Stati Uniti di Trump stanno aprendo la strada a tutti gli altri Stati, retti da tempo da governanti che aspettavano solo di dovergli “baciare il culo”. D’altronde la strada è quella anche senza Trump. Di fronte a prospettive del genere, purtroppo evidenti, l’inerzia nei confronti della crisi climatica e ambientale mostrata dai nostri governanti – tutti proiettati a combatterne le conseguenze e non le cause – ma anche quella dei popoli, cioè di noi tutti, sembra paradossale. Ma si spiega con il senso di impotenza che tutti – governi e forze politiche comprese – avvertono anche se cercano in tutti i modi di non prenderne atto. E’ la dismisura tra le dimensioni di questi processi e la capacità di agire di una popolazione atomizzata, senza riferimenti culturali, sociali e politici condivisi, se non quelli “di piccola e piccolissima taglia”: le mille associazioni e comitati a cui molti di noi partecipano senza trovare alcun riscontro nel mondo della politica. Potremmo però indirizzarle meglio, quelle pratiche, per costruire le ridotte da cui affrontare il futuro feroce che incombe: rendere il più possibile resilienti e vivibili i territori che abitiamo, mostrare che l’accoglienza – anche su scala ridotta – può tradursi in benefici per tutti, far conoscere e valorizzare le esperienze positive, battersi in tutti i modi per il disarmo. Troppo poco? E che altro, per ora? Guido Viale
Mani Rosse Antirazziste ricevute dal Prefetto di Forlì
Un’ampia rappresentanza di Mani Rosse Antirazziste Forlì ha incontrato il Prefetto dottor Rinaldo Argentieri, che ci ha accolto  in Prefettura,  per reiterare le richieste per  il rispetto  dei diritti umani a Gaza e il riconoscimento  della Palestina, con l’aggiunta , dovuta alle nuove  guerre che Israele  e Stati Uniti impongono  al mondo,  del non coinvolgimento delle  basi  militari nel nostro territorio e del nostro spazio  aereo per attività  di guerra in Iran e Medio Oriente.  Le nostre richieste arriveranno ai ministri di competenza, con accompagnamento di osservazioni personali del Prefetto sulla nostra presenza attiva in città. È solo una voce che si aggiunge alle tante altre più importanti nel Paese, ma siamo grati e grate di sentirci  ascoltati/e  considerati/te  nel nostro  impegno per sconfiggere  il silenzio. E grazie a voi tutti e tutte per averci permesso di essere  Mani Rosse Antirazziste. Redazione Romagna