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Il cibo come strumento di soprusi e di morte in Palestina
Dallo zaatar vietato ai datteri espropriati: come il colonialismo di insediamento ha colpito l’agricoltura e la cultura gastronomica palestinese. “Perché hai questo sacchetto? Perché se un giorno non potrò comprarmi da mangiare a Londra, avrò il mio cibo: zaatar. E gli ho chiesto: Do you know zaatar? ”. Si sono allontanati e mi hanno lasciato da sola nel mio silenzio e nelle mie perplessità: come hanno occupato il nostro paese per trent’anni e non sanno distinguere il timo macinato (lo zaatar) dalla polvere da sparo? O hanno paura dello zaatar perché fa bene alla memoria e vuole eliminarla totalmente?” ( Viaggio dopo viaggio , Salman Natur). Il cibo è il nostro carburante, ci diciamo spesso. Però, forse, non è una cosa di cui ci occupiamo abbastanza: magari prestiamo più attenzione alla benzina che mettiamo nell’auto. Nelle nostre concitate vite trangugiamo pasti di fretta, troppo spesso e senza riflettere su ciò che abbiamo nel piatto. Eppure produzione e consumo di cibo sono le funzioni principali che gli esseri umani svolgono sulla terra per la propria sopravvivenza. Danno forma alle nostre città, visto che le stesse sono nate, quasi ovunque nel mondo, intorno ai mercati; creare le reti e le connessioni, poiché il trasporto delle risorse alimentari disegna e trasforma le vie di comunicazione; determinano anche conflitti, sin dai tempi dell’antichità. Oggi in Palestina, in quello che ormai è definito, anche in sede giuridica, come genocidio (il 16 settembre 2025 una commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite, dopo una lunga indagine, lo afferma come tale in quanto sono stati commessi quattro dei cinque atti che, secondo il diritto internazionale, identificano questo tipo di crimine contro l’umanità), il cibo ha assunto un ruolo terribile: è stato usato per affamare la gente della Striscia di Gaza, per costringerla a evacuare e, purtroppo, per ucciderla in massa, come intento di pulizia etnica. In pratica, come ha più volte ricordato Rula Jebreal, il cibo è diventato un’arma di guerra. La connessione tra l’occupazione della Palestina e il cibo è, però, molto più profonda e antica: già dalla fase iniziale del colonialismo di insediamento, tutto è ruotato intorno alla terra e ai suoi frutti. Una bellissima, quanto tragica, ricostruzione degli avvenimenti la si può trovare nel famoso testo di Ilan Pappe Dieci miti su Israele , pubblicato nel 2022 e tradotto in Italia da Edizioni Tamu, in cui l’autore, attraversando le varie fasi del progetto sionista a partire dalle prime colonie del diciannovesimo secolo fino a oggi, ci rende noto come tutto sia nato ben oltre un secolo fa. D’altra parte, come potrebbe non essere così, se la questione nodale del progetto colonialista israeliano riguarda l’appropriazione di terra? Non tutte le colonizzazioni hanno avuto questo obiettivo: ad esempio, gli stati europei che si sono macchiati di crimini efferati nella cosiddetta tratta atlantica attingevano all’Africa per il commercio degli schiavi da usare come manodopera nelle piantagioni americane e, infatti, per questo motivo, nel 1680 fu istituita la Royal African Company , promuovendo l’arrivo massiccio di schiavi nelle colonie inglesi. Nel colonialismo di insediamento israeliano, invece, la terra è al centro dell’interesse: in quell’area geografica e in nessun’altra si sarebbe mai potuto riprodurre allo stesso modo. Infatti, come noto, il progetto sionista, traendo origine da un’interpretazione, a detta di molti, tra cui Moni Ovadia, assolutamente restrittiva del libro del Levitico , fa coincidere il diritto all’acquisizione della terra promessa con la creazione dello stato-nazione israeliana. Le conseguenze del progetto di insediamento sono state, quindi, da subito di grande impatto, in senso negativo, per l’agricoltura palestinese, ma anche per la cultura culinaria plurimillenaria della Palestina. Il sionismo si è occupato con una certa dedizione della persecuzione delle sue radici culturali. Parliamo del famoso zaatar, considerato un simbolo nazionale palestinese che lega le persone alla propria terra e cultura. Si tratta di una miscela di erbe e spezie composta tradizionalmente da timo, sesamo e sommacco e usata come merenda energetica dagli studenti, dai lavoratori, dai bambini, per lo più nella fase che precede il pranzo, a metà mattinata. Lo zaatar, usato su pane, verdure, carne, pesce e persino nelle insalate, viene consumato da secoli sia in Palestina che in tutto il Medio Oriente, elemento di resistenza culturale, un modo per mantenere viva la connessione con la terra di origine, specialmente per la diaspora palestinese. Nel 1977, con una legge, lo stato di Israele ne ha vietato la raccolta, applicando sanzioni penali ai palestinesi, ma non agli israeliani. Questa politica è vista come un tentativo di tagliare il legame dei palestinesi con la loro terra e la loro cultura. I dati sugli arresti confermano questa supposizione: tra il 2004 e il 2016, tutti i 61 imputati accusati per la raccolta di questa pianta erano palestinesi, secondo un articolo di NenaNews: “Solo un anno dopo la Giornata della terra Israele emanò una legge che vietava la raccolta dello zaatar perché ‘pianta protetta’. Facendo così però, osserva il giornalista Hammud, Tel Aviv non solo ha giustificato il suo furto delle terre dei palestinesi, ma si è anche appropriata dei loro elementi culturali”. akkoub Una sorte analoga è toccata all’akkoub, “una pianta selvatica difficile da raccogliere a causa della sua posizione montanara e delle foglie spinose. Ha un sapore simile al carciofo. Nella cultura araba e palestinese in particolare, viene utilizzata per la preparazione di cibi e per scopi curativi, e queste culture rispettano e si identificano con questa pianta” (dal sito della Fondazione Slow Food per la biodiversità che lo ha inserito nelle piante da preservare). Sempre sullo stesso tema, va citato il bellissimo docufilm Foragers , girato sulle alture del Golan, in Galilea ea Gerusalemme, che, attraverso l’utilizzo della finzione, del documentario e di filmati d’archivio, mostra scene di inseguimenti tra i raccoglitori e le pattuglie israeliane, momenti di difesa nelle aule del tribunale e momenti in cucina. Un caso a parte e molto controverso è rappresentato dai datteri, quelli che noi mangiamo a Natale: accade che i datteri coltivati dai contadini di Jenin, di antica produzione autoctona, a causa della sottrazione delle terre, rischiando di sparire dal patrimonio della biodiversità del pianeta, tant’è che è nata un’impresa sociale, Al Reef, che dal 1993 supporta i piccoli produttori della Cisgiordania costretti ad affrontare le limitazioni delle autorità israeliane e le violenze dei coloni. In Italia, sulle nostre tavole, essi vengono sostituiti dai più famosi datteri della Valle del Giordano; quest’ultima è una varietà introdotta successivamente nel deserto del Negev e nei kibbutz israeliani, cooperative agricole sostenute dal governo israeliano e operanti prevalentemente in territori occupati, cioè aree dove il colonialismo di insediamento israeliano e il controllo militare causano l’espropriazione di terra palestinese, la demolizione delle case e, sempre più spesso, uccisioni indiscriminate. I datteri israeliani sono venduti in Italia attraverso la rete Naturasì che, proprio a causa di critiche provenienti da alcuni consumatori che chiedevano di boicottare tali produzioni, ha ritenuto doveroso pubblicare un chiarimento che riportiamo in calce. Infine, va fatto un breve accenno alla notizia che sta girando molto sul web circa l’intreccio esistente tra il nostro pomodoro “pachino” e l’agroindustria israeliana: tale ortaggio, che la stragrande maggioranza delle persone pensa sia un prodotto tipico di Pachino, Portopalo di Capo Passero, Noto e Ispica, in provincia di Siracusa, viene invece prodotto grazie a semi di proprietà della multinazionale Hazera Genetics, che ha sede centrale nei Paesi Bassi e in Israele, con filiali in 11 paesi, oltre a una rete di distribuzione che serve oltre 130 mercati. Tutto è iniziato nel 1989, quando l’azienda sementiera ha selezionato questa varietà e ha iniziato a fare affari con i contadini siciliani e il consorzio IGP. Sì, si tratta proprio di affari, poiché i frutti ottenuti non sono in grado di riprodurre il seme che, quindi, deve essere sempre riacquistato. Non possiamo affermare, in questo caso, che vi sia un diretto coinvolgimento della multinazionale nelle azioni criminali agite dal governo israeliano. Certo è che il rischio che vi siano complicità in atto andrebbe considerato e verificato per tutte le aziende che hanno sede o investimenti in Israele. In definitiva, se siamo ciò che mangiamo, l’attenzione al cibo deve essere centrale nella lotta alle violazioni documentate che il popolo palestinese subisce costantemente dalla fine dell’Ottocento. La vera origine del pachino – L’Indipendente NenaNews alreeffairtrade.ps RaiNews YouTube Fondazione Slow Food NaturaSì Hazera Genetics Nives Monda
Le economie di prossimità e il boicottaggio delle complicità con l’apartheid israeliano
GLI SPLAI PROMOSSI DA BDS: UNO STRUMENTO CONTRO L’OCCUPAZIONE ILLEGALE E IL GENOCIDIO, CON EFFETTI DIRETTI SULLE CITTÀ TURISTICHE Abbiamo già parlato su queste pagine del BDS, del movimento globale che promuove campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l’apartheid e il colonialismo d’insediamento israeliano e che sostiene il semplice principio che i palestinesi hanno gli stessi diritti del resto dell’umanità. Una delle campagne di boicottaggio più incisive del BDS, partita nel 2019, è la campagna che promuove il protagonismo delle piccole economie locali presenti nelle città e nei territori: librerie, associazioni culturali, artigiani, artisti, aziende agricole, circoli ARCI, affittacamere, gruppi di acquisto, bar, ristoranti possono aderire al movimento sottoscrivendo un manifesto di adesione, con cui prendere posizione contro l’occupazione militare e l’apartheid israeliani, impegnandosi a non partecipare in alcun modo alle gravi israeliane dei diritti umani e delle libertà fondamentali del popolo palestinese. Ad oggi, in Italia, vi sono oltre 500 SPLAI ufficialmente registrati sul sito del movimento. La campagna agisce su due livelli. Il primo riguarda l’organizzazione dei rapporti con i propri fornitori, in quanto aderendo all’iniziativa lo spazio accetta di non acquistare prodotti e servizi di imprese – israeliane e internazionali – implica nelle violazioni dei diritti dei palestinesi, come ad esempio la Coca-Cola oppure i servizi di AXA Assicurazioni. Il secondo livello è quello diretto all’accoglienza e al consumo: lo spazio si impegna a rompere ogni complicità con la politica sionista anche nel momento in cui si rapporta con i propri avventori, soci, partner. Ad esempio, uno spazio culturale che si dichiara SPLAI non ospiterà né parteciperà a eventi culturali, accademici e sportivi finanziati o sponsorizzati da Israele o che ne coinvolgano i suoi rappresentanti ufficiali, nel rispetto delle linee guida sul boicottaggio culturale. Un terzo livello, non esplicitamente dichiarato nei contenuti della campagna, è quello della rete che si può venire a creare quando più realtà di una stessa area cittadina sottoscrive tale impegno. Questa può essere, infatti, una conseguenza piuttosto che un presupposto della campagna, ma in alcune situazioni può rappresentare davvero uno strumento formidabile di boicottaggio e agire da moltiplicatore nella condanna delle complicità: intere porzioni di territorio possono, infatti, diventare spazi di libertà. Si pensa, in particolare, all’effetto che questa forma di “zonizzazione” degli SPLAI può avere nelle città e nelle aree turistiche. Nel mese di maggio scorso, Bari e Napoli sono state teatro di due eclatanti vicende: l’aggressione alle “Donne in nero”, che hanno subito intimidazioni in pubblica piazza solo perché manifestavano pacificamente e silenziosamente, recando striscioni con scritte come “stop genocidio”, “no al riarmo” e, dopo pochi giorni, la provocazione ai danni dei titolari de La Taverna a Santa Chiara, accusati e denunciati per antisemitismo a causa della loro adesione alla campagna SPLAI. Piccola digressione: a tal proposito, torna molto utile un chiarimento pubblicato sulla pagina di BDS Italia, leggiamo: “Il 19 luglio 2024 la Corte Internazionale di Giustizia ha confermato la discriminazione sistemica e sistematica che differenzia i palestinesi dagli ebrei israeliani. Ha dichiarato Israele colpevole di apartheid e la sua occupazione militare illegale, ordinando a Israele di porre fine all’occupazione militare della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est. Quindi dichiararsi spazio libero dall’apartheid non ha nulla a che vedere con l’antisemitismo. Ne è la prova anche il fatto che molti ebrei in tutto il mondo hanno fatto propria la denuncia dei crimini dell’apartheid e del colonialismo israeliano e sono solidali con i pieni diritti dei palestinesi. Tornando al nostro argomento, va evidenziato che Bari e Napoli, quali mete turistiche, sono scalo aereo per molte persone provenienti da tante città del mondo e quindi anche da Tel Aviv: direttamente, come nel caso di Napoli, o con scalo, nel caso di Bari. In particolare, un Capodichino atterra tre voli al giorno provenienti dalla città israeliana. Fermo restando il principio – che è doveroso ribadire – che non tutti gli israeliani sono complici del genocidio o coinvolti nelle occupazioni illegali, è evidente, però, che nemmeno si può negare che vi sia un grande flusso di viaggiatori in transito su questa tratta e che, pertanto, massima deve essere l’allerta rispetto al rischio di trovarsi a passeggiare nelle strade delle nostre città accanto a criminali e assassini che si aggirano tra noi tranquillamente. Può sembrare un’affermazione forte ma questa è, purtroppo, la triste verità: sono ormai alla ribalta della cronaca le notizie circa flussi di transito di militari, politici e funzionari del governo israeliano, implicati direttamente nei crimini di guerra che si stanno commettendo nella Striscia di Gaza, e che vengono a riposarsi in Sardegna, nelle Marche e, appunto, in Puglia e Campania. Di questo e tanto altro, in materia di boicottaggio ma anche di sanzioni che devono essere operate dai governi del mondo in attuazione delle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia, si è discusso il 20 settembre scorso con Omar Barghouti, co-fondatore del BDS, nel corso di un’iniziativa che si è tenuta a Zero 81, organizzata da un gruppo di attivisti e attiviste napoletane su impulso di BDS Italia, alla quale hanno partecipato oltre 120 persone. Si è evidenziato che la vigilanza sulla nostra sicurezza, come l’accertamento delle violazioni del diritto internazionale, spettano ovviamente alle istituzioni preposte; né bisogna favorire la nascita di situazioni in cui si possa verificare il fenomeno della “caccia all’uomo”. La creazione di una rete di SPLAI nelle città turistiche può essere, però, un modo non violento e del tutto legittimo per agire dal basso, come forma di cittadinanza attiva, contro le violazioni dei diritti umani. Le economie di prossimità, quando sono sane, fanno parte integrante delle comunità locali e agiscono in modo non predatorio nei confronti della città e dello spazio pubblico. Possono rappresentare un anticorpo di legalità, un presidio che si integra con i diritti degli abitanti, anche contro i fenomeni di espulsione dovuti alla turistificazione. Se tale comportamento viene mutato nel boicottaggio, le piccole attività, diventando SPLAI, connettono il piano territoriale con quello globale nella lotta per l’affermazione dei diritti del popolo palestinese e per la sua autodeterminazione. Nives Monda
Il silenzio è complicità: Napoli risponde con la piazza
Il 6 maggio oltre mille persone in Piazza Municipio per esprimere solidarietà con il popolo palestinese e sostegno a Nives Monda. Una Napoli che si scopre ancora una volta città di resistenza, evocando le Quattro Giornate. Napoli, 6 maggio 2025 – In meno di quarantott’ore, oltre mille persone si sono radunate in Piazza Municipio. Erano insegnanti, impiegati, studenti, artisti, famiglie intere. A unirli, la volontà di non restare in silenzio. La vicenda che ha coinvolto Nives Monda, titolare della Taverna Santa Chiara, e una coppia di turisti israeliani ha fatto il giro del web in poche ore. Un diverbio, una ripresa video diventata virale, accuse reciproche. Ma Napoli ha capito che dietro quella scintilla si nascondeva un incendio più vasto. L’episodio è stato il pretesto, non il centro. Al cuore, la guerra in corso nella Striscia di Gaza, la sofferenza di un popolo, la necessità di rompere un silenzio che altrove è complicità. La manifestazione, nata come flash mob, si è trasformata in un momento di intensa partecipazione civile. Il clima era teso, a tratti apertamente ostile verso l’amministrazione comunale, con rabbia e indignazione espresse a voce alta. La percezione diffusa era quella di una presa di posizione istituzionale sbilanciata, che ha offeso la sensibilità di chi da mesi osserva e denuncia la catastrofe umanitaria in Palestina. La rabbia si è trasformata in una domanda collettiva di giustizia. Non una giustizia giudiziaria, ma umana, politica, simbolica. Napoli, città della pace e della resistenza, ha scelto di schierarsi. E proprio la parola “resistenza” è risuonata più volte dal palco. Gli attivisti hanno ricordato che questa è la città delle Quattro Giornate, la città che nel 1943 si liberò da sola dall’occupazione nazifascista. Una memoria viva, che si rinnova oggi nel gesto di chi scende in piazza contro l’ingiustizia e la guerra. Una Napoli che non dimentica e che non accetta di restare spettatrice. FOTO DI GIULIA Tra gli interventi più intensi, quello di Giulia, studentessa palestinese di seconda generazione e attivista del Centro Culturale Handala Ali. La sua voce, ferma e vibrante, ha attraversato la piazza come un richiamo alla coscienza collettiva. Rivolgendosi al balcone del Comune, ha interpellato direttamente il primo cittadino: “Perché, caro sindaco, mentre noi oggi siamo in piazza, il nostro popolo viene sterminato! Viene lasciato morire di fame. I nostri giornalisti vengono uccisi per raccontare ciò che lei non vuole raccontare. Netanyahu ha dichiarato l’assedio totale della nostra terra, Gaza, alla vigilia di un’invasione che impedisce la sopravvivenza e la vita del nostro popolo. E lei, sindaco, è arrivato solo dopo, solo dopo che abbiamo detto che Netanyahu è un criminale di guerra.” Poi, con forza, ha concluso tra gli applausi: “Chi tocca Nives tocca tutti noi. E chi oggi resta in silenzio è complice.” Padre Alex Zanotelli ha aperto il suo intervento con un ringraziamento sentito alla piazza: “Prima di tutto, un grazie a tutti voi che siete scesi in piazza: guardate che le cose non cambiano se noi non ci diamo da fare, se non protestiamo per quello che sta avvenendo.” Poi ha parlato di Gaza con voce angosciata e parole chiare: “Io sono molto angosciato per quello che sta avvenendo a Gaza. Siamo davanti a un genocidio, è inutile che lo neghiamo. C’è ormai la chiara idea di far morire la popolazione.” Con forza, ha denunciato anche il silenzio della memoria europea: “È assurdo che i sopravvissuti dei regimi nazifascisti non abbiano detto nulla.” E ha concluso: “Questa città ha un cuore che batte forte per la pace, e oggi lo dimostra.”  Omar Suleiman, presidente della comunità palestinese napoletana, ha pronunciato un discorso appassionato e senza mezzi termini. Ha ricordato i bombardamenti che hanno devastato Sama, le centrali elettriche, gli aeroporti, e Damasco: “Oggi quei criminali occupano già più della metà della Siria, parte del Libano. Domani toccherà alla Giordania, all’Egitto, perché vogliono la Grande Israele: dal Mediterraneo al Nilo.” Ma ha aggiunto con fermezza: “La resistenza del popolo palestinese impedirà che questo piano venga realizzato.” E ha alzato il tono, trasformando la bandiera palestinese in un simbolo universale: “La bandiera della Palestina oggi rappresenta una rivendicazione per una vita migliore, per un lavoro giusto, per un’università che insegna, per un futuro per tutti i popoli. E allora la Palestina continuerà a lottare.” Con indignazione ha domandato: “Dove è finita l’umanità? Dove sono i valori della democrazia e della libertà? Dove sono i valori occidentali del diritto alla vita?” E ha denunciato: “Sotto i nostri occhi si compie un genocidio da due anni. E siamo tutti complici con la nostra indifferenza.” Ha chiesto con forza il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Italia e della comunità internazionale. Poi ha evocato la storia della città che lo ospita: “Napoli è la città delle Quattro Giornate, che ha mandato a calci nel culo i nazifascisti!” Il suo appello finale è risuonato come un’esortazione urgente: “Scendete per le strade subito, cittadini di Napoli! Non restate in silenzio come fanno troppi capi di Stato. Noi ci aspettiamo tanto dal popolo, perché noi non ci fermeremo finché non si liberi l’ultimo pezzo della nostra terra.”  Claudio De Magistris era presente in rappresentanza del fratello Luigi. Poi è arrivato il momento di Nives Monda. Salita sul palco con la voce spezzata dall’emozione, ha rivolto un chiaro messaggio al sindaco e all’assessora Armato: “Non ho ricevuto alcuna solidarietà da parte vostra.” Dalla folla si è subito levato un grido corale: “Vergogna! Vergogna!” Nives ha raccontato i fatti, ricordando le minacce ricevute e lo straordinario abbraccio umano che l’ha sostenuta: “Da sabato la mia vita è cambiata. Ho ricevuto insulti, minacce, ma anche tanto affetto. E questo affetto oggi è qui, grazie a tutte e tutti voi. È nato in modo spontaneo e sincero.” Poi, con determinazione, ha chiarito: “Io non ho paura. L’unica verità è che io non ho offeso né cacciato nessuno. Ho soltanto preso una posizione all’interno della campagna Spazi Liberi dall’Apartheid Israeliana, che prevede naturalmente l’immediato boicottaggio delle politiche sioniste.” Un intervento lucido, netto, che ha saputo unire la testimonianza personale alla battaglia collettiva per i diritti e la giustizia.  Accanto agli interventi, numerose associazioni hanno partecipato attivamente alla manifestazione: tra queste l’ANPI, il Centro Culturale Handala Ali, reti per i diritti umani e altre realtà di base. Molti i giovani, moltissimi i cartelli scritti a mano, un tappeto di voci diverse unite da un messaggio condiviso: fermare il massacro, rompere il silenzio. Nel frattempo, mentre Napoli gridava la sua vicinanza al popolo palestinese, la guerra nella Striscia continuava a mietere vittime. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, aggiornati al 6 maggio 2025, oltre 52.000 palestinesi sono stati uccisi, in gran parte civili, tra cui migliaia di bambini. L’operazione militare israeliana su Rafah ha visto più di 50 bombardamenti nelle ultime 24 ore. L’accesso agli aiuti umanitari è quasi del tutto bloccato, e oltre 1,7 milioni di persone – il 75% della popolazione di Gaza – è sfollato. Gli ospedali non funzionano, le ambulanze vengono colpite, le scuole sono diventate obitori. La Corte Internazionale di Giustizia ha emesso misure urgenti chiedendo a Israele di prevenire atti che possano configurare un genocidio, ma Tel Aviv ha proseguito l’offensiva. Egitto e Qatar continuano una fragile mediazione. L’ONU è paralizzata da veti incrociati, mentre milioni di persone nel mondo scendono in piazza. A Napoli come a New York, a Londra come a Città del Messico, la parola d’ordine è una: cessate il fuoco. In questo scenario, l’episodio della Taverna Santa Chiara, con tutta la sua complessità, con le sue ombre e le sue voci è diventato simbolo. Simbolo di un’Italia che non vuole chiudere gli occhi. Di una Napoli che sa guardare oltre il fatto di cronaca, per toccare la carne viva della storia. Una città che non ha paura di parlare, di esporsi, di mettere in discussione anche le sue istituzioni quando serve. E oggi, serve. Il flash mob si è concluso con un lungo applauso. Non era di rito. Era un applauso sentito, per chi prende posizione, per chi rischia di essere travolto dall’odio per un gesto di coscienza. E per chi, come Nives Monda, ha scelto di non tacere. In mezzo alle bandiere palestinesi, ai canti, alle lacrime, spiccava un cartellone sorretto da due mani ferme: “Art.11: l’Italia ripudia la guerra”. Poco dopo, dalla folla, si è levato un coro spontaneo e potente: Bella ciao. Un canto di resistenza. Ieri come oggi. E Napoli continua a rispondere. Accoglie quelle urla, le fa proprie, e rilancia. Un nuovo appuntamento è già stato annunciato: “Tutti giù per terra”, flash mob contro il genocidio del popolo palestinese, in programma il 21 giugno sul lungomare partenopeo. Un gesto simbolico, un grido corale, per dire ancora una volta: non nel nostro nome.   Altre foto  di Lucia Montanaro   Fonti principali: ONU – UN OCHA Gaza Humanitarian Reports, maggio 2025 Ministero della Salute di Gaza (via Al Jazeera, Reuters, AP) Corte Internazionale di Giustizia – Misure provvisorie, gennaio-marzo 2025 Lucia Montanaro