Oltre la vendetta e verso la riconciliazione: un’utopia possibileCosa significa oggi superare la vendetta e il risentimento?
Come si traduce questa speranza nei diversi campi dell’esperienza sociale, dalla
giustizia all’educazione, dal diritto internazionale alla quotidianità dei
rapporti sociali?
È questa forse un’utopia in movimento?
Oggi come non mai nella storia, è divenuto urgente un passo consapevole in
direzione di una riconciliazione sincera. Occorre un coraggioso atto di
trasformazione personale e sociale.
Nell’ambito del Simposio Internazionale del Centro Mondiale di Studi Umanista
dal titolo Utopie in movimento si svolgerà il 10 maggio 2025 al Parco di Studi e
Riflessione di Attigliano (Terni) una giornata interamente dedicata al tema
Oltre la vendetta, con la partecipazione di Gherardo Colombo, Luciano Eusebi,
Stefano Tomelleri, Marcello Bortolato, Annabella Coiro, Loredana Cici e Vito
Correddu.
Per partecipare in presenza iscriversi su:
https://www.csusalvatorepuledda.org/iscrizionesimposio
Per seguire on line su piattaforma Zoom e ricevere le password di collegamento:
https://2025.worldsymposium.org/it/registration
La partecipazione è gratuita
La vendetta oggi
Quanto è lecito oggi chiedersi sulla vendetta, quando essa risulta per molte
persone superata e archiviata dalla moderna giustizia?
Ha senso approfondire questo meccanismo così antico, se esso sembra quasi essere
“innato” nella specie umana e quindi parte della stessa “natura” umana?
È la riconciliazione profonda, personale e sociale, il cammino da percorrere
oggi per uscire dalla trappola del risentimento e della violenza?
Senza volerci addentrare in uno studio esteso sulle origini e sullo sviluppo
storico del meccanismo psicologico e sociale della vendetta, intendiamo
soffermarci in questo breve articolo soprattutto su alcuni aspetti.
Per poter comprendere quanto ancora oggi la vendetta sia presente nei rapporti
interpersonali, sociali e istituzionali è necessario partire dal radicato
meccanismo culturale “colpevole-punizione”.
Secondo la definizione di Silo del 2008, la vendetta va intesa come “la credenza
profonda di vedere una soluzione nel far patire all’altro quello […] che l’altro
ha fatto patire a noi stessi o ad altre persone”, ma anche “la credenza per la
quale far soffrire l’altro compensa quello squilibrio cosmico che si è prodotto
per l’ingiustizia che l’altro ha commesso”.
Ossia, nella punizione inclusa nella vendetta, si stabilisce un’equivalenza
speculare in cui la violenza subita deve essere compensata e riequilibrata da
altrettanta (se non maggiore) violenza, che possa “far patire all’altro” la
stessa sofferenza provocata.
Paradossalmente si crede che al male sia necessario contrapporre altro male. Si
crede che per porre termine alla violenza sia necessario operare altra violenza.
Posto in questi termini risulta evidente che tale meccanismo punitivo più che
offrire una soluzione e rendere quindi possibile il superamento della sofferenza
e della violenza, non faccia altro, nella pratica, che perpetuare la catena di
violenza di cui osserviamo quotidianamente gli effetti.
Nella vendetta e nella punizione risiede dunque una sostanziale forma di
violenza, giacché queste non sono possibili senza che si cerchi e si punisca un
colpevole. È proprio nella ricerca del colpevole che risiede la possibilità di
vendicarsi o di punire.
Si può affermare quindi che la stessa ricerca di un colpevole, in ottica
punitiva o vendicativa, sia un atto violento, seppur considerato legittimo nella
mentalità comune o perfino nei sistemi giudiziari.
Quando si invoca “giustizia”, quindi, cosa si sta chiedendo veramente?
Si sta chiedendo proprio che il colpevole paghi il suo debito con il gruppo
sociale o con l’individuo danneggiato. Il colpevole, avendo rotto le regole, gli
equilibri, non ha più diritto di essere parte di quel gruppo, di quella società.
Il male viene inflitto al colpevole per riequilibrare il danno che ha arrecato.
Ossia una vendetta mascherata, sofisticata, ma pur sempre una vendetta. Solo
dopo aver pagato, il colpevole ha diritto a essere riammesso all’interno della
società, senza mai sentirsi riabilitato del tutto.
Certamente il meccanismo vendicativo non attraversa solo i codici e le leggi, ma
si estende ai rapporti sociali, ai rapporti personali e in sintesi all’intera
cultura. È sufficiente osservare quanto tale “sentimento” sia presente in modo
massiccio nella produzione cinematografica. Moltissimi film e serie TV hanno
come motore principale una vendetta, privata o pubblica, dal famosissimo Kill
Bill di Tarantino, a Old Boy (parte di una trilogia sulla vendetta), a Revenant,
ecc. Oltre alla produzione dedicata alla vendetta individuale, nella produzione
cinematografica e televisiva c’è anche quella che si svolge all’interno delle
aule di tribunale. Simbolo tra tutti è il film Il momento di uccidere di
Schumacher del 1996, in cui addirittura il pregiudizio razziale (l’imputato è un
nero) viene superato e integrato attraverso il riconoscimento dell’atto di
vendetta che l’uomo compie.
Il potere, inoltre, nel corso dei secoli, ha storicamente rafforzato questa
dinamica, facendo della vendetta, come gestione delle modalità punitive, una
forma di controllo sociale. Le gerarchie — religiose, politiche, familiari —
hanno spesso istituzionalizzato la punizione come unica via per garantire
l’ordine. La giustizia si è così trasformata in un meccanismo di restituzione
violenta, perpetuando un ciclo che non risolve mai veramente il dolore
originario, ma lo moltiplica, lo tramanda, lo tramuta in rancore e paura.
Il meccanismo vendicativo-punitivo è così pervasivo nella cultura e nelle
relazioni sociali da apparire oggi quasi come “innato”, qualcosa da cui non si è
possibile assolutamente prescindere e dal quale sembra, a volte, dipendere la
stessa esistenza di una civiltà.
Al contrario la compensazione del danno subito con altro danno non è la sola
risposta possibile di fronte a un evento violento che offende o arreca un danno.
Esistono molti altri modi per tentare di riequilibrare la situazione, di lenire
la sofferenza o di riconciliare le parti e sono numerosi quelli che darebbero la
possibilità di uscire dalla logica colpevole-punizione, in cui invece le società
sembrano ancora imprigionate.
Se la vendetta è una costruzione culturale, allora questa può essere smontata e
sostituita. Avere come proposito di una società umana quello di conoscere la
verità è auspicabile ed entusiasmante, ma se tale processo termina nello
stabilire chi sono i colpevoli e quali i nemici da combattere, allora stiamo
chiudendo l’orizzonte della stessa verità che volevamo trovare.
La riconciliazione non è rassegnazione. Riconciliazione, al contrario, è
ribellione contro l’ingiustizia e il risentimento. Riconciliazione significa
vedere coraggiosamente la verità di ciò che è accaduto e spingere lo sguardo
oltre la sofferenza e la violenza.
Vediamo come oggi si moltiplicano le esperienze di giustizia riparativa o
trasformativa, di educazione alla nonviolenza, di pratiche sociali e politiche
che scelgono il dialogo e la riconciliazione al posto della logica del
colpevole. Dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica, al
lavoro delle Comunità di Pace in America Latina, dai programmi scolastici basati
sull’empatia fino ai movimenti che promuovono un’etica della compassione e della
cura.
L’utopia di un mondo senza vendetta non solo è desiderabile, ma è già in atto.
In che modo l’essere umano vincerà la sua ombra?
Forse fuggendola? Forse lottando incoerentemente contro di essa?
Se il motore della storia è la ribellione contro la morte,
ribellati, ora, contro la frustrazione e la vendetta.»
(Silo, 1981)
Fulvio De Vita