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«Valentina, mi vergogno del mio Paese!» – Lettera di un tedesco a una babushka ottantaquattrenne russa
A 80 anni dalla fine della guerra, la Germania si sta nuovamente preparando alla guerra. E ancora una volta l’obiettivo è la Russia. Ho colto questa occasione per scrivere a una mia amica russa anziana – i nomi e i luoghi sono stati resi anonimi – nata poche settimane dopo l’invasione tedesca. Ci conosciamo da oltre un quarto di secolo e in questo periodo ci siamo visitati spesso, in Russia e in Germania. Lei rappresenta tutti i miei amici in Russia, anzi, in tutta l’area post-sovietica, compresa l’Ucraina, l’ovest e il Donbass. Valentina, amata babushka (significa nonna o donna anziana in russo, Ndt) al quarto piano del complesso residenziale sovietico in una città di mezzo milione di abitanti nella provincia russa! Ti scrivo con grande preoccupazione e infinita tristezza. 84 anni fa sei venuta al mondo nel momento più sbagliato possibile! Nel bel mezzo della più terribile delle guerre. E siamo stati noi tedeschi a scatenarla. È costata la vita a quasi 27 milioni di cittadini sovietici. Non hai mai conosciuto tuo padre. Era uno dei giovani uomini che sono stati mandati al fronte fin dall’inizio e lì sacrificati. Una tua sorella è morta poco dopo, ancora bambina, di fame e malattie. LA GUERRA Lascio che sia tu a raccontarlo. Quando ci siamo conosciuti alla fine degli anni Novanta, mi hai scritto: > Quando sento la parola “Germania”, la prima cosa che mi viene in mente è “la > guerra”. Ci sono due ragioni per questo. La prima l’ho vissuta in prima > persona. Sono nata nell’agosto del 1941, due mesi dopo l’inizio della guerra. > Avevo tre giorni quando mio padre partì per il fronte, dove morì dopo quattro > mesi. Non ho mai visto mio padre in vita mia, e ho sempre desiderato averne > uno. Era una situazione tipica per tutti i bambini del dopoguerra. Solo pochi > uomini tornarono dal fronte. > > Mia madre mi raccontò degli anni della guerra: nel villaggio dove vivevamo non > c’erano truppe tedesche; rimasero sull’altra sponda del fiume. A 13 chilometri > dal nostro villaggio c’era, e c’è ancora oggi, una stazione ferroviaria molto > grande – direi una delle più grandi del nostro Paese – che i tedeschi > bombardarono. > > Mia madre fu evacuata dal villaggio insieme a tre dei suoi cinque figli (di 6 > e 4 anni e io) a circa 100 chilometri più a est. Viaggiammo in treno, > ovviamente senza comfort né riscaldamento, ma era già inverno. Avevo pochi > mesi e quando i miei pannolini erano bagnati, mia madre se li avvolgeva > intorno al corpo per asciugarli un po’ con il calore del suo corpo. A volte > eravamo costretti a scendere dal treno perché gli aerei tedeschi ci > bombardavano. Ci sedevamo da qualche parte non lontano dal treno, a volte > nella neve, mia madre con noi bambini. Una volta l’aereo volava così basso che > si poteva vedere il volto del pilota. Mia madre raccontava che rideva; > ricordava ancora il suo volto dopo 50 anni. Pensava che fosse un aereo da > ricognizione. Le donne si chinavano sui loro bambini, anche se tutte sapevano > che così facendo non potevano salvarli dalle bombe. Ma tutte le madri sono > così. > > Durante l’evacuazione abbiamo vissuto in un altro villaggio. In quella casa > c’era anche una donna con dei bambini. Non avevano molto da mangiare e poi > siamo arrivati anche noi! Ma il cibo, di solito patate e pane, veniva sempre > distribuito tra tutti quelli che erano in casa. In primo luogo lo ricevevano i > bambini. Siamo rimasti evacuati per alcuni mesi. Avevo altri due fratelli, di > 14 e 16 anni. Sono rimasti nel nostro villaggio e, come tutti i loro coetanei, > hanno dovuto scavare trincee. Durante la guerra, una delle mie sorelle è morta > di fame e malattie all’età di quasi cinque anni. > > Anche dopo la guerra la vita è stata molto difficile. Di giorno mia madre > lavorava nel kolchoz (azienda agraria collettiva sovietica, Ndt.), per lo più > nei campi, a sette chilometri da casa nostra. Di solito faceva il tragitto a > piedi. E di notte cucinava il pane per il kolchoz, potendo tenere > gratuitamente un decimo della produzione. È così che ci ha sfamati tutti. Non > ho quasi mai visto mia madre dormire. A volte, quando ci ripenso, non riesco a > capirlo: come può un essere umano sopportare una cosa del genere? Doveva > essere molto forte. Io, per esempio, non posso dire con certezza se sarei > altrettanto forte. Ricordo ancora che tutti i bambini, nonostante la fame e le > devastazioni, volevano andare a scuola e per lo più studiavano con piacere. E Gennadij, il tuo defunto marito, mi scrisse allora di quel periodo: > Anche dopo la guerra la vita era complicata, soprattutto alla fine degli anni > Quaranta. C’era fame. Mia madre era costretta a macinare la farina dai gusci > dei semi di girasole. Oggi per me è inconcepibile, ma allora mangiavamo > quello. Poiché mia madre non riusciva a frantumare completamente i gusci, > nella farina spesso rimanevano piccoli pezzetti. Tutto ciò che mia madre > cucinava lo mangiavamo con il sangue in bocca, perché questi pezzetti ci > laceravano le gengive. > > Non so perché, ma oggi non associo più la Germania alla guerra. La Germania di > oggi è un paese diverso con una generazione diversa. Ma tutti noi, tedeschi e > russi, dobbiamo trarne le conseguenze e non dimenticarlo. So che gli studenti > tedeschi imparano molto poco sulla guerra durante le lezioni di storia e > alcuni credono fermamente che siano stati solo gli inglesi e gli americani a > vincere la guerra. Non è la strategia migliore nascondere proprio uno dei > fatti più importanti della storia. E ora ancora una volta tu: > Il secondo motivo per cui associo la Germania alla guerra sono i film > dell’epoca sovietica. C’erano sempre film sulla guerra in cui i tedeschi > apparivano disgustosi, rozzi e brutali. Ma direi che ora non odio questo Paese > e i tedeschi. Ora in questo Paese, come in Russia, vive un’altra generazione. > Ci sono ancora persone che hanno vissuto la guerra. Ma non dovrebbero > insegnare l’odio alle generazioni più giovani, bensì raccontare com’era, > affinché i giovani possano trarne le proprie conclusioni. “NON PROVIAMO ODIO” “Non proviamo odio.” – “Oggi in Germania vive una generazione diversa.” – “Non abbiamo combattuto contro i tedeschi, ma contro i fascisti.” – “Non dobbiamo dimenticare; dobbiamo raccontarlo alle giovani generazioni, affinché non si ripeta!” Quante volte ho sentito queste frasi dal 1996! Durante i miei corsi di formazione interculturale per il Goethe Institut e altre organizzazioni tedesche nell’ex Unione Sovietica. A Mosca, a Jelez (regione della Terra Nera), a Kazan sul Volga, a Ufa sugli Urali, a Novosibirsk e a Irkutsk, non lontano dal Baikal. A Minsk e nella provincia bielorussa. Ad Almaty e nella steppa kazaka. A Kiev, a Donetsk e nelle piccole città del Donbass orientale. E sono sempre stato io ad affrontare questo argomento. Mai le mie partecipanti russe, bielorusse, kazake o ucraine. Mai e in nessun luogo sono stato guardato in modo strano perché sono tedesco. Che dono prezioso ci avete fatto. Che grandioso contributo alla civiltà per un mondo più pacifico! (Da noi questo contributo è ancora più sconosciuto dei crimini che i nostri padri e nonni hanno commesso da voi nell’Unione Sovietica). Se solo molte più persone qui in Germania potessero vederlo e apprezzarlo! LA FINE DELLA GUERRA FREDDA Valentina, tu sei una bambina russa della guerra, io sono un bambino tedesco occidentale della Guerra Fredda. Ho assorbito il timore dei russi fin dalla nascita. Per metà della mia vita ho avuto paura della guerra. Una guerra che avrebbe distrutto completamente entrambi gli Stati tedeschi! Quanto ero felice dopo la fine della Guerra Fredda, così positiva per noi tedeschi. (Per voi, per te non lo è stata. È iniziato un periodo difficile, lo so.) Che grandi opportunità politiche si sono aperte per un breve e meraviglioso battito di ciglia della storia mondiale per il nostro comune continente eurasiatico! Si profilava già all’orizzonte un continente di pace e cooperazione per i prossimi cento anni. Michail Gorbaciov, che io ammiro e che tu non apprezzi, nel 1990 a Bonn parlò addirittura di “pace eterna”… Poco più di un decennio fa, noi tedeschi eravamo il secondo popolo più amato in Russia dopo quello bielorusso. E adesso? Noi, “l’Occidente”, abbiamo rovinato tutto! Non abbiamo mostrato abbastanza rispetto nei confronti vostri e del vostro Paese, al quale dobbiamo essenzialmente la fine pacifica della Guerra Fredda e la riunificazione. Negli Stati Uniti hanno subito esultato con sfacciato trionfalismo: “Per grazia di Dio l’America ha vinto la Guerra Fredda!” E poi l’Occidente, ubriaco di vittoria e accecato dall’arroganza, ha sistematicamente ignorato per decenni il vostro bisogno di sicurezza. La colpa principale – la maggior parte del mio Paese non è d’accordo con me su questo – di ciò che sta accadendo ora in Ucraina e di ciò che potrebbe ancora accadere è quindi nostra! (So che preferiresti che non ne parlassi. Non vuoi avere nulla a che fare con la politica. Ma purtroppo la politica si “interessa” a noi! Non possiamo sfuggirle). SI RICOMINCIA… Valentina, ora sei anziana e malata, e tutto sta per ricominciare! I politici e i media stanno letteralmente scatenando una guerra contro il tuo Paese, la Russia. Eppure nessuno di loro ha idea di cosa stia parlando: non sanno più cosa significhi la guerra, ammesso che lo abbiano mai saputo. Hanno perso ogni contatto con la realtà e giocano pericolosamente con i pesi. Il tono diventa ogni giorno più stridente, la data viene continuamente anticipata: 2030, 2029… ora dovremmo aver già alle spalle l’ultima estate di pace… Secondo il nostro Cancelliere federale, che non ne ha mai abbastanza, non siamo già più “in pace” e il nostro Ministro degli Esteri promette che la Russia rimarrà “sempre un nemico”. (La nostra ex ministra degli Esteri, femminista convinta, voleva già “rovinarvi” tre anni e mezzo fa). Ogni giorno ci sono nuove notizie terrificanti sulla cosiddetta guerra ‘grigia’ e “ibrida” che il vostro Paese starebbe già da tempo conducendo contro di noi. Una guerra contro la Russia sarebbe “inevitabile”, “Potrebbe essere stasera”, titolano i media. Farneticano di “capacità bellica” e “potenza di combattimento”. I genitori sono invitati a “sacrificare” i propri figli. Diplomazia e comprensione sono ormai parole offensive! Chiunque sostenga una politica di distensione, chiunque ricordi Willy Brandt ed Egon Bahr, viene sommerso da scherno e derisione. Con il vostro presidente, che per molto tempo ha voluto collaborare con noi, «non si può parlare». Secondo loro, egli capisce solo il «linguaggio della forza». E così hanno avviato – “non importa quanto costa” – un programma di riarmo da miliardi di euro finanziato dal debito pubblico, che porterà noi e i nostri figli alla rovina anche senza una guerra. L’anno prossimo qui saranno nuovamente dispiegati missili a medio raggio che potrebbero colpire anche la tua città. Valentina, mi sento male! E mi vergogno da morire. Non riconosco più il mio Paese. Mai nella mia vita avrei creduto possibile ciò che sta accadendo qui ora! No, la gente qui in Germania non vuole la guerra. Non vuole un’escalation, ma non fa nulla per impedirla! Invece si affanna su mille questioni secondarie. I nostri politici, che non ho votato, e i nostri media mainstream, che scrivono tutti la stessa cosa, glielo hanno martellato nella testa per anni e ha funzionato: ora hanno più paura del vostro presidente che di una guerra che, nel peggiore dei casi, potrebbe trasformarsi in una guerra nucleare. Valentina, 84 anni fa sei venuta al mondo nel bel mezzo della più terribile delle guerre – e in che modo raccapricciante la tua vita sta ora volgendo al termine! NON VI CONSIDERERÒ MAI NEMICI! Ci può essere solo una conseguenza: noi, le cosiddette persone comuni di tutti i paesi, dobbiamo ora restare uniti. Non dobbiamo permettere che ci rendano nuovamente nemici e ci mettano gli uni contro gli altri. Valentina, oltre 35 anni fa, nell’autunno del 1988, ho organizzato con alcuni amici un viaggio di pace e riconciliazione nell’Unione Sovietica: a Minsk, Mosca e Leningrado. Volevamo vedere con i nostri occhi e sentire con le nostre orecchie quali crimini i tedeschi avevano commesso contro la popolazione locale durante la seconda guerra mondiale. A Chatyn, in Bielorussia, nel cimitero che ospita 186 villaggi bielorussi dati alle fiamme, abbiamo incontrato spontaneamente persone provenienti dalla Siberia e abbiamo chiesto loro perdono a nome di tutti i cittadini sovietici. E lì, noi tedeschi e russi, abbiamo potuto solo piangere insieme in modo straziante! Noi, perfetti sconosciuti, ci siamo abbracciati. Da allora, e forse anche prima, ho impresso nel mio DNA che questo non deve mai più ripetersi! Noi esseri umani, che viviamo in Russia, Germania o Ucraina (occidentale e Donbass), apparteniamo tutti allo stesso mondo. Non siamo sulla terra per ucciderci a vicenda e distruggere il nostro prezioso e unico pianeta. Mai, cara babushka della provincia russa, considererò te e i tuoi connazionali dei nemici! La guerra deve finire, la corsa verso l’abisso deve essere fermata il più rapidamente possibile. Dobbiamo tutti imparare di nuovo a rispettarci, ad ascoltarci, a perdonarci. Prima o poi, in un futuro che speriamo non troppo lontano, i nostri paesi dovranno tornare ad essere amici. Per i nostri figli e nipoti. Abbiamo solo questa opzione per il futuro! Farò tutto il possibile per questo. Ogni giorno. Finché ci sarò. Te lo prometto. -------------------------------------------------------------------------------- Questo articolo è stato ripreso da Pressenza per gentile concessione di Globalbridge. La sua diffusione è consentita solo con l’esplicito consenso di globalbridge.ch. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid con l’ausilio di traduttore automatico. Pressenza Berlin
La pace è possibile, amplificate le nostre voci!
Nel secondo anniversario del 7 ottobre, riceviamo e volentieri diffondiamo questo messaggio di Maoz Inon che in quel tragico giorno ha perso entrambi i genitori. Inizialmente dati per dispersi, forse rapiti e resi ostaggi, Bilha e Yakovi Inon vennero poi trovati carbonizzati all’interno del kibbutz in cui vivevano a poca distanza dal muro. Lungi dal cedere alla disperazione o alla pulsione di vendetta, Maoz Inon ha scelto fin da subito la via del perdono, come ha raccontato in una quantità di interviste rintracciabili on line, in particolare alla BBC quando in lacrime si dichiarò in lutto non solo per la perdita dei suoi genitori amatissimi, ma per il bagno di sangue che inevitabilmente sarebbe seguito, come infatti è stato. Da quel giorno, insieme al compagno Aziz Abu Sarah, non ha smesso di promuovere eventi di pace, in tutte le possibili occasioni: incontri alle Nazioni Unite, all’Arena di Pace di Verona con Papa Francesco e più recentemente ricevuto dal suo successore, e soprattutto promotore di grandi Eventi di Pace in Israele: il 1 luglio 2024 riempiendo un intero stadio a Tel Aviv, e poi con il Peace Summit di Gerusalemme, 8 e 9 maggio, ben due giorni di Pace No Stop. Ed eccolo oggi con questo messaggio, che lungi dall’allinearsi a chissà quali urgenze, circa i negoziati in discussione proprio in queste ore, rappresenta una chiara dichiarazione d’intenti, per il raggiungimento di una Pace Possibile che però non potrà essere facile né immediata: sarà necessario tanto lavoro, entro un certo arco di tempo che Maoz descrive come vera e propria missione, entro l’anno 2030. E avrà bisogno del sostegno di tutti noi: nel ruolo di compagni di viaggio e, ovunque sia possibile, come amplificatori del suo messaggio e di quanti si stanno impegnando insieme a lui. -------------------------------------------------------------------------------- Cari amici, colleghi, sostenitori e partners, state ricevendo questa messaggio perché, a un certo punto, le nostre strade si sono incrociate: con alcuni di voi è successo anni fa, con altri più recentemente. Per anni, il mio sogno è stato quello di creare spazi di condivisione, tra israeliani e palestinesi; di riunire persone di comunità diverse perché potessero incontrarsi, connettersi, capirsi a vicenda. Il mio primo passo verso la realizzazione di questo sogno è stato quasi vent’anni fa a Nazareth, con l’apertura del Fauzi Azar Inn. Eccomi insieme a Odette Azar Shomar e Marwa Taha Abu Rany nella sala principale del Beit Fauzi Azar Nel 2005, prima di aprire il Fauzi Azar Inn, ho riunito la mia famiglia per condividere la mia visione mediante una semplice presentazione di dieci diapositive: in che modo una struttura di accoglienza potesse andare oltre il potenziale commerciale, rafforzando la comunità locale. Una diapositiva mostrava la foto di un’antica dimora araba che avevo trovato online, un’immagine di come il sogno avrebbe potuto realizzarsi, un giorno. Alla fine della presentazione, nella stanza c’era silenzio. I miei genitori si sono scambiati uno sguardo e poi hanno pronunciato le parole che hanno messo in moto tutto quanto: “Maoz, se davvero vuoi fare questa cosa, noi siamo con te”. Sono diventati i miei primi partner, i miei primi sostenitori e insieme abbiamo trasformato il sogno in realtà. Quello stesso spirito mi guida ancora oggi. Come molti di voi sanno, i miei amati genitori, Yaccovi e Bilha, sono stati uccisi nell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Da quel tragico giorno, mi sono dato una nuova missione: fare tutto il possibile per contribuire al raggiungimento della pace, tra israeliani e palestinesi, affinché altri non subiscano lo stesso destino della mia famiglia. I miei genitori, Yaccovi e Bilha, con il mio primogenito, poco dopo l’apertura del Fauzi Azar Inn, nel 2006 Questa settimana ricorre il secondo anniversario del 7 ottobre. La guerra continua a imperversare, le sofferenze a Gaza sono inimmaginabili e il governo estremista israeliano persegue politiche che danneggiano sia i palestinesi che gli israeliani, compresi gli ostaggi rimasti. È stato facile sentirsi a volte senza speranza. Ma ora, più che mai, e alla vigilia di un potenziale piano di pace, il nostro lavoro di costruttori di pace è urgente. La speranza non è qualcosa che possiamo solo cercare di mantenere viva in noi, è qualcosa che tutti noi creiamo con l’azione. Come dice il mio caro amico e partner Aziz Abu Sarah: > “Se proprio dovete dividerci, non divideteci tra israeliani e palestinesi. > L’unica divisione è tra coloro che credono nella giustizia, nella pace e > nell’uguaglianza e coloro che ancora non ci credono”. Per promuovere questa visione, Aziz e io abbiamo lanciato InterAct, un’organizzazione senza scopo di lucro con una missione davvero audace: raggiungere la pace entro il 2030. InterAct costruisce fiducia, promuove il dialogo e crea spazi condivisi dove israeliani e palestinesi possono incontrarsi da pari a pari. Negli ultimi due anni, ci siamo resi conto che il nostro messaggio è come l’acqua per chi si trova nel deserto: vitale, rigenerante e disperatamente necessario. Vogliamo condividere questo nutrimento con tutti quelli che cercano speranza e cambiamento. Maoz Inon and Aziz Abu Sarah speak at SESSION 1 at TED2024: The Brave and the Brilliant, on Monday, April 15, 2024. Vancouver, BC, Canada. Photo: Ryan Lash / TED   L’anno scorso, Aziz e io abbiamo aperto la convention TED 2024 con la nostra conversazione di guarigione. Da allora, abbiamo condiviso il nostro messaggio con milioni di persone attraverso i media e anche di persona, con migliaia di persone, compresi leader di profilo mondiale, come il compianto Papa Francesco e il suo successore, Papa Leone XIV. Momenti che rappresentano per noi delle pietre miliari, perché ci ricordano che il mondo è disposto ad ascoltare, e che il cambiamento è a portata di mano. Quando ho condiviso per la prima volta il mio sogno di aprire una guesthouse, i miei genitori mi hanno sostenuto e mi hanno dato il coraggio di iniziare. Oggi, mentre perseguo il sogno ancora più grande della pace, vi chiedo di sostenermi allo stesso modo. Aiutatemi a diffondere il nostro messaggio: condividete la nostra storia con i vostri amici, le vostre comunità e le vostre reti. Più voci si uniscono, più forte e inarrestabile diventa il nostro appello alla pace. Come parte di questo viaggio, ho intenzione di inviare aggiornamenti sui nostri sforzi ogni poche settimane. Potete anche visitare il sito web InterAct per vedere i prossimi eventi. Se mi trovo nella vostra zona, mi farebbe molto piacere incontrarvi.   E per chi lo vorrà, sarà possibile partecipare, in vari modi. Per esempio inoltrando questo messaggio ad altri, invitandoli ad  iscriversi alla mailing list; organizzando incontri pubblici, diffondendo il nostro messaggio sui media e vari social network, condividendo il nostro TED talk. Restiamo in contatto, con amore e nel segno della pace, che entro il 2030 dovrà essere non più una speranza ma una solida realtà.   Maoz Inon Daniela Bezzi
Oltre la vendetta e verso la riconciliazione: un’utopia possibile
Cosa significa oggi superare la vendetta e il risentimento?   Come si traduce questa speranza nei diversi campi dell’esperienza sociale, dalla giustizia all’educazione, dal diritto internazionale alla quotidianità dei rapporti sociali?   È questa forse un’utopia in movimento?   Oggi come non mai nella storia, è divenuto urgente un passo consapevole in direzione di una riconciliazione sincera. Occorre un coraggioso atto di trasformazione personale e sociale.   Nell’ambito del Simposio Internazionale del Centro Mondiale di Studi Umanista dal titolo Utopie in movimento si svolgerà il 10 maggio 2025 al Parco di Studi e Riflessione di Attigliano (Terni) una giornata interamente dedicata al tema Oltre la vendetta, con la partecipazione di Gherardo Colombo, Luciano Eusebi, Stefano Tomelleri, Marcello Bortolato, Annabella Coiro, Loredana Cici e Vito Correddu. Per partecipare in presenza iscriversi su: https://www.csusalvatorepuledda.org/iscrizionesimposio Per seguire on line su piattaforma Zoom e ricevere le password di collegamento: https://2025.worldsymposium.org/it/registration La partecipazione è gratuita La vendetta oggi Quanto è lecito oggi chiedersi sulla vendetta, quando essa risulta per molte persone superata e archiviata dalla moderna giustizia? Ha senso approfondire questo meccanismo così antico, se esso sembra quasi essere “innato” nella specie umana e quindi parte della stessa “natura” umana? È la riconciliazione profonda, personale e sociale, il cammino da percorrere oggi per uscire dalla trappola del risentimento e della violenza? Senza volerci addentrare in uno studio esteso sulle origini e sullo sviluppo storico del meccanismo psicologico e sociale della vendetta, intendiamo soffermarci in questo breve articolo soprattutto su alcuni aspetti. Per poter comprendere quanto ancora oggi la vendetta sia presente nei rapporti interpersonali, sociali e istituzionali è necessario partire dal radicato meccanismo culturale “colpevole-punizione”. Secondo la definizione di Silo del 2008, la vendetta va intesa come “la credenza profonda di vedere una soluzione nel far patire all’altro quello […] che l’altro ha fatto patire a noi stessi o ad altre persone”, ma anche “la credenza per la quale far soffrire l’altro compensa quello squilibrio cosmico che si è prodotto per l’ingiustizia che l’altro ha commesso”. Ossia, nella punizione inclusa nella vendetta, si stabilisce un’equivalenza speculare in cui la violenza subita deve essere compensata e riequilibrata da altrettanta (se non maggiore) violenza, che possa “far patire all’altro” la stessa sofferenza provocata. Paradossalmente si crede che al male sia necessario contrapporre altro male. Si crede che per porre termine alla violenza sia necessario operare altra violenza. Posto in questi termini risulta evidente che tale meccanismo punitivo più che offrire una soluzione e rendere quindi possibile il superamento della sofferenza e della violenza, non faccia altro, nella pratica, che perpetuare la catena di violenza di cui osserviamo quotidianamente gli effetti. Nella vendetta e nella punizione risiede dunque una sostanziale forma di violenza, giacché queste non sono possibili senza che si cerchi e si punisca un colpevole. È proprio nella ricerca del colpevole che risiede la possibilità di vendicarsi o di punire. Si può affermare quindi che la stessa ricerca di un colpevole, in ottica punitiva o vendicativa, sia un atto violento, seppur considerato legittimo nella mentalità comune o perfino nei sistemi giudiziari. Quando si invoca “giustizia”, quindi, cosa si sta chiedendo veramente? Si sta chiedendo proprio che il colpevole paghi il suo debito con il gruppo sociale o con l’individuo danneggiato. Il colpevole, avendo rotto le regole, gli equilibri, non ha più diritto di essere parte di quel gruppo, di quella società. Il male viene inflitto al colpevole per riequilibrare il danno che ha arrecato. Ossia una vendetta mascherata, sofisticata, ma pur sempre una vendetta. Solo dopo aver pagato, il colpevole ha diritto a essere riammesso all’interno della società, senza mai sentirsi riabilitato del tutto. Certamente il meccanismo vendicativo non attraversa solo i codici e le leggi, ma si estende ai rapporti sociali, ai rapporti personali e in sintesi all’intera cultura. È sufficiente osservare quanto tale “sentimento” sia presente in modo massiccio nella produzione cinematografica. Moltissimi film e serie TV hanno come motore principale una vendetta, privata o pubblica, dal famosissimo Kill Bill di Tarantino, a Old Boy (parte di una trilogia sulla vendetta), a Revenant, ecc. Oltre alla produzione dedicata alla vendetta individuale, nella produzione cinematografica e televisiva c’è anche quella che si svolge all’interno delle aule di tribunale. Simbolo tra tutti è il film Il momento di uccidere di Schumacher del 1996, in cui addirittura il pregiudizio razziale (l’imputato è un nero) viene superato e integrato attraverso il riconoscimento dell’atto di vendetta che l’uomo compie. Il potere, inoltre, nel corso dei secoli, ha storicamente rafforzato questa dinamica, facendo della vendetta, come gestione delle modalità punitive, una forma di controllo sociale. Le gerarchie — religiose, politiche, familiari — hanno spesso istituzionalizzato la punizione come unica via per garantire l’ordine. La giustizia si è così trasformata in un meccanismo di restituzione violenta, perpetuando un ciclo che non risolve mai veramente il dolore originario, ma lo moltiplica, lo tramanda, lo tramuta in rancore e paura. Il meccanismo vendicativo-punitivo è così pervasivo nella cultura e nelle relazioni sociali da apparire oggi quasi come “innato”, qualcosa da cui non si è possibile assolutamente prescindere e dal quale sembra, a volte, dipendere la stessa esistenza di una civiltà. Al contrario la compensazione del danno subito con altro danno non è la sola risposta possibile di fronte a un evento violento che offende o arreca un danno. Esistono molti altri modi per tentare di riequilibrare la situazione, di lenire la sofferenza o di riconciliare le parti e sono numerosi quelli che darebbero la possibilità di uscire dalla logica colpevole-punizione, in cui invece le società sembrano ancora imprigionate. Se la vendetta è una costruzione culturale, allora questa può essere smontata e sostituita.  Avere come proposito di una società umana quello di conoscere la verità è auspicabile ed entusiasmante, ma se tale processo termina nello stabilire chi sono i colpevoli e quali i nemici da combattere, allora stiamo chiudendo l’orizzonte della stessa verità che volevamo trovare. La riconciliazione non è rassegnazione. Riconciliazione, al contrario, è ribellione contro l’ingiustizia e il risentimento. Riconciliazione significa vedere coraggiosamente la verità di ciò che è accaduto e spingere lo sguardo oltre la sofferenza e la violenza. Vediamo come oggi si moltiplicano le esperienze di giustizia riparativa o trasformativa, di educazione alla nonviolenza, di pratiche sociali e politiche che scelgono il dialogo e la riconciliazione al posto della logica del colpevole. Dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica, al lavoro delle Comunità di Pace in America Latina, dai programmi scolastici basati sull’empatia fino ai movimenti che promuovono un’etica della compassione e della cura. L’utopia di un mondo senza vendetta non solo è desiderabile, ma è già in atto. In che modo l’essere umano vincerà la sua ombra? Forse fuggendola? Forse lottando incoerentemente contro di essa? Se il motore della storia è la ribellione contro la morte, ribellati, ora, contro la frustrazione e la vendetta.» (Silo, 1981) Fulvio De Vita