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Le primarie del Pacto Histórico in Colombia tra tensioni politiche e sfide future
A poco meno di un anno dalle elezioni, le tensioni nel paese sono cresciute su più fronti e la campagna elettorale ha fatto irruzione sullo scenario politico colombiano: tra riforme sociali, elezioni primarie delle sinistre e tensioni internazionali, il cammino verso le presidenziali che definiranno il futuro governo del paese, e la continuità o meno di un processo di trasformazione sociale, si iscrive in un contesto di pesanti ingerenze statunitensi nella regione. L’approvazione della riforma del lavoro dello scorso giugno ha sbloccato il cammino delle riforme sociali promesse dal governo e votate da milioni di persone alle scorse presidenziali. Si tratta di una delle questioni più importanti del programma politico progressista: l’approvazione al Congresso e al Senato è stata ottenuta solamente dopo imponenti mobilitazioni sociali, significative tensioni sociali e politiche nel paese e nelle istituzioni, fino all’annuncio di una consulta popolare, poi ritirata dallo stesso Petro dopo l’approvazione della riforma. Mentre l’ambivalente riforma delle pensioni, che istituisce un fondo minimo universale per tutte le persone escluse dal sistema pensionistico, ma al tempo stesso finisce per rafforzare i fondi privati, è stata approvata, ma poi sospesa dalla Corte Costituzionale, la riforma della salute è ancora blocccata al Senato e rappresenta l’ultima delle grandi riforme che il governo cercherà di approvare prima della fine del mandato di Gustavo Petro. LA VIOLENZA NEL PAESE La violenza, che caratterizza la storia e, in modi diversi, il presente del paese, si espande nei periodi elettorali, con un aumento degli omicidi contro i leader sociali nel paese, come denunciato dall’ONG Indepaz, che ha pubblicato un documento denunciando 158 leader sociali assassinati nel 2025 (fino all’11 novembre, data di pubblicazione del report), e 34 ex guerriglieri che hanno firmato la pace (nel 2024 erano stati rispettavamente 173 e 31). Intanto, dallo scorso giugno, la violenza politica ha fatto nuovamente irruzione sulla campagna elettorale, con l’attentato durante un comizio a Bogotà lo scorso giugno contro il candidato di estrema destra Miguel Uribe (poi deceduto dopo due mesi di ospedale, ad inizio agosto), colpito da un colpo di pistola alla nuca da un sicario minorenne (da chiarire ancora chi siano stati i mandanti). Una successiva accelerazione su grande scala si è avuta con gli attentati di fine agosto a Cali (autobomba di fronte ad una scuola militare, con sette morti e 78 feriti, tra i quali diversi civili) e nel territorio di Antioquia (12 poliziotti uccisi nell’abbattimento di un elicottero militare impegnato nell’attacco contro coltivazioni illecite)  quando diversi gruppi armati, legati alle dissidenze delle ex Farc e ai paramilitari del Clan del Golfo, hanno attaccato forze militari, in risposta all’offensiva militare dell’esercito colombiano. Nel pieno di uno scenario di profonda riconfigurazione delle logiche e delle forme del conflitto armato, come analizzato da Alejandro Cortés Ramirez, l’obiettivo della Pace Totale, proposto dal nuovo governo con l’obiettivo di costruire tavoli di negoziazione con le diverse formazioni armate che operano nel paese, si sta confrontando con la ripresa di  ondate di violenza: dopo la crisi nel Catatumbo precipitata nel mese di gennaio, gli sfollamenti forzati in diverse regioni del paese e le autobombe ad agosto, nelle scorse settimane in particolare sono stati effettuati una serie di bombardamenti da parte dell’esercito colombiano contro diversi gruppi armati in vari territori del paese. MOBILITAZIONI SOCIALI In questo contesto, negli scorsi mesi, si sono tenute una serie di mobilitazioni sociali e popolari in diverse città colombiane: in primo luogo, a fine settembre, diversi movimenti sociali del paese hanno organizzato a Bogotà la Cumbre Nacional Popular “La città per chi?”. Con la partecipazione di oltre millecinquecento militanti di organizzazioni popolari, per tre giorni all’Università Pedagogica nei laboratori, nelle assemblee e nelle riunioni centinaia di persone hanno discusso l’agenda di lotta dei movimenti popolari nel paese: dall’ecologia al femminismo, dalle economie popolari al diritto alla città, dalla sicurezza nei territori fino alle resistenze nel mondo dell’arte e della cultura, hanno costruito uno spazio di dibattito, articolazione e confluenza di movimenti provenienti da oltre quindici città e regioni del paese. L’ultimo giorno un corteo ha attraversato la zona finanziaria e i quartieri ricchi della città, reclamando diritti e giustizia sociale, e denunciando gli interessi e le violenze delle elite finanziarie e oligarchiche del paese. A metà ottobre, con lo slogan “Aquí en la lucha” decine di manifestazioni hanno attraversato il paese denunciando il ritorno e l’impunità del paramilitarismo e della violenza nei territori, rivendicando potere popolare e diritto alla città, sovranità nazionale contro le ingerenze statunitensi, fine del paramilitarismo e della criminalizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici ambulanti nelle città, denunciando l’impatto della turistificazione nei territori dei Caraibi. Nelle diverse città, nei blocchi stradali e nelle proteste di fronte alle istuituzioni, con l’occupazione simbolica di una serie di Ministeri (a cui il ministro degli Interni Bendetti ha risposto con gravi e preoccupanti dichiarazioni di criminalizzazione delle lotte sociali), i movimenti hanno chiesto un impegno del governo Petro nell’affrontare l’emergenza umanitaria, approvare le riforme sociali, gli accordi sottoscritti con le comunità nelle diverse regioni del paese. IN PIAZZA CONTRO L’INGERENZA DI TRUMP A fine ottobre, venerdì 24, in un momento di forti tensioni internazionali con il governo statunitense, il presidente Gustavo Petro ha convocato una mobilitazione nella centralissima Plaza de Bolívar a Bogotá. Denunciando le misure economiche e militari del governo degli Stati Uniti di Donald Trump che colpiscono la sovranità nazionale, dall’aumento dei dazi sui prodotti colombiani alle azioni armate nei Caraibi e sul Pacifico con il pretesto delle operazioni antidroga, Gustavo Petro ha annunciato nuove alleanze economiche globali per fare fronte a questa situazione. Ha poi rivendicato il tasso più alto di sequestri di cocaina degli ultimi decenni nel paese, segnalando come queste operazioni non abbiano comportato né i massacri, né le altissime cifre di morti che hanno caratterizzato la “guerra alla droga”, né esecuzioni extragiudiziali, come quelle che le forze militari statunitensi stanno compiendo negli ultimi mesi impunemente nei Caraibi e nel Pacifico. Non è un caso che la de-cecertificazione della Colombia, da parte degli Stati Uniti, rispetto alla lotta contro il narcotraffico sia arrivata proprio pochi mesi prima delle elezioni: Petro ha denunciato l’inclusione del suo nome, e di alcuni suoi familiari, assieme al ministro degli Interni Benedetti, nella cosiddetta Lista Clinton – ufficialmente la Specially Designated Narcotics Traffickers List (SDNT), amministrata dagli Uffici del Controllo di fondi stranieri del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti – una misura politica di pressione contro il governo colombiano che include l’impedimento di accedere al sistema finanziario. Una avanzata gravissima contro il governo progressista e contro la Colombia, assieme al ritiro dei fondi e degli aiuti nella cooperazione militare. Una manovra che interviene nella politica interna di un paese con l’obiettivo di delegittimare il governo e rafforzare l’estrema destra in vista delle elezioni: le condizioni che pone il segretario di Stato Rubio sono quelle di cooperare con gli Stati Uniti, come affermato poco prima di partire per Tel Aviv a sostenere il genocidio in Palestina. Dal palco di Plaza Bolivar, Petro ha qualificato questo atto come una persecuzione politica ed un affronto alla sovranità colombiana. L’attacco contro il governo ha sequestrato il numero più alto di tonnellate di cocaina negli ultimi decenni arriva come segnale politico, esplicitamente voluto da Trump, parte del nuovo progetto interventista ed imperialista statunitense in America Latina, alla pari con le portaerei militari di fronte alle coste venezolane. Infine, davanti alla piazza gremita di manifestanti, Gustavo Petro ha annunciato che il prossimo 20 luglio (anniversario dell’indipendenza colombiana) il suo governo presenterà al Congresso un progetto di legge per l’Assemblea Nazionale Costituente, con l’obiettivo di trasformare la struttura politica ed economica del paese secondo i principi di giustizia sociale, sovranità e partecipazione popolare. LE PRIMARIE DEL PACTO HISTÓRICO In questo clima teso nel paese, poche ore dopo la mobilitazione, si sono tenute domenica 26 ottobre le primarie del Pacto Histórico, che hanno visto la partecipazione di oltre 2 milioni e settecentomila votanti, un risultato definito come straordinario da diversi analisti politici e dallo stesso Pacto Histórico (le attese era di circa un milione e mezzo di votanti, per una consulta primaria inedita e senza che coincidesse con alcuna data elettorale nel paese). L’elezione ha definito sia il prossimo candidato unitario delle sinistre alle presidenziali del maggio del 2026, sia l’ordine delle liste per la Camera e il Senato, alle elezioni parlamentari del prossimo mese di marzo. Con oltre un milione e mezzo di voti, corrispondete al 65% delle preferenze, ha vinto la consulta popolare Iván Cepeda Castro, leader del Movimiento Nacional de Víctimas de Crímenes de Estado (Movice), figura di riferimento delle negoziazioni di pace con le FARC e con l’ELN, mentre al secondo posto, con poco meno di settecentomila voti, è arrivata Carolina Corcho, ex ministra della Salute del governo attuale, che sarà la prima candidata al Senato. Un voto significativo per il paese, che rilancia il Pacto Histórico come il principale partito a livello nazionale, e prepara le elezioni primarie del Frente Amplio annunciate per marzo, per definire la coalizione più ampia di centrosinistra che punterà alla continuità di un governo progressista nel 2026. Cepeda ha annunciato che lavorerà per una ampia coalizione e come punti salienti del programma, in continuità con il governo attuale, ha segnalato che punterà ad una rivoluzione etica, economica e ambientale, per consolidare la Colombia come una “potenza mondiale della vita”. Iván Cepeda è una figura di riferimento nel paese per le denunce contro il paramilitarismo, figlio di Manuel Cepeda, un dirigente del partito comunista assassinato dai paramilitari nel 1994, nell’ambito dello sterminio della Unión Patriótica, molto conosciuto per il processo portato avanti contro l’ex presidente Álvaro Uribe Vélez che, condannato in primo grado a a 12 anni a fine luglio per corruzione e frode procedurale , dopo un mese di arresti domiciliari è stato assolto in secondo grado, a fine ottobre. L’istanza decisiva passerà adesso alla Corte Suprema, l’istituzione più temuta dall’ex presidente, per la cui liberazione si è speso direttamente il presidente statunitense Trump in più occasioni. Allo stesso modo, Trump ha difeso Bolsonaro dopo la condanna per il tentato golpe, aumentando i dazi per i prodotti provenienti dal Brasile: non è un caso che le pressioni statunitensi sulla Colombia e su Petro sono arrivate puntuali dopo la condanna in primo grado dell’ex presidente. L’interventismo statunitense è stato decisivo anche in Argentina con il prestito a garanzia della stabilità del peso rispetto al dollaro condizionato dalla vittoria elettorale di Milei, annunciato poco prima delle elezioni di Midterm, che ha pesato sul voto di fine ottobre. MANOVRE DI GUERRA NEI CARAIBI I tentativi delle destre a livello nazionale, in articolazione con gli Stati Uniti, di screditare e colpire il governo colombiano si succedono senza sosta di settimana in settimana, mostrando quelle trame di potere e complicità che sono tornate al centro dello scenario e della contesa politico già diversi mesi fa, quando il presidente Gustavo Petro aveva denunciato il tentativo di golpe di Leyva, suo ex cancelliere, che aveva negoziato con esponenti del partito repubblicano statunitense una transizione post democratica in Colombia. Un tentativo fallito che ha però mostrato le implicazioni tra paramilitari, destra colombiana e il partito repubblicano statunitense, denunciate da Petro e da diversi media a livello internazionale. Queste manovre si situano all’interno di un nuovo scenario di scontro nei Caraibi, attraverso l’offensiva di Trump contro il Venezuela, atttraverso una riedizione della guerra alla droga, cominciato con la mobilitazione dei marines e delle navi portarei militari Usa nel Caribe, con le provocazioni e le minacce a pochi chilometri dalle coste venezolane, l’attacco contro il governo Petro in Colombia, i missili sparati contro presunte lance di narcotrafficanti, in alcuni casi contro pescatori colombiani e venezuelani nei Caraibi e sulle coste dell’oceano Pacifico, con oltre 79 esecuzioni extragiudiziarie accertate, veri e propri assassinii compiuti dalle forze militari Usa. La risposta di Petro arriva in occasione della riunione dell’ONU di fine settembre, con un discorso di denuncia dei venti di guerra nei Caraibi, e delle connivenze tra il partito repubblicano e il narcotraffico. Ieri intanto, è stata lanciata anche l’operazione Lancia del Sud, annunciata da Trump, con una ancora più grande mobilitazione militare che estende le operazioni già attive dal mese di agosto, con minacce dirette contro il Venezuela, e la destabilizzazione dell’area caraibica come nuovo teatro di operazioni di guerra. Le sfide della coalizione progressista in Colombia, così come quelle dei movimenti sociali e popolari che hanno l’obiettivo di costruire la pace con giustizia sociale, in questo scenario, diventano ancora più complesse ed urgenti, ed al tempo stesso decisive, per accumulare forze contro il regime di guerra, contro la riedizione del Plan Colombia, evocato come primo punto del programma elettorale a venire dall’estrema destra da parte dello stesso Álvaro Uribe Vélez, e per mantenere aperta la possibilità di un cambiamento sociale, di pace e giustizia in Colombia e in America Latina. Tutte le immagini in questo articolo sono di Sebastián Bolaños Pérez, fotografo e collaboratore di Dinamopress, da Bogotá, Plaza Bolivar, 24 ottobre 2025 SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le primarie del Pacto Histórico in Colombia tra tensioni politiche e sfide future proviene da DINAMOpress.
STATI UNITI: ACCORDO AL SENATO CHIUDE LO SHUTDOWN PIÚ LUNGO DI SEMPRE. L’INTERVISTA A MARTINO MAZZONIS
Raggiunto un accordo tra democratici e conservatori al Senato USA per mettere fine allo shutdown e finanziare il governo federale fino al 30 gennaio. I democratici hanno ottenuto la riassunzione dei dipendenti federali licenziati durante questo periodo e gli impiegati in congedo forzato riceveranno una retribuzione retroattiva. Il disegno di legge di spesa a breve termine impedisce all’Ufficio di Gestione e Bilancio di attuare ulteriori licenziamenti di massa fino fine gennaio 2026. Lo shutdown era iniziato alla mezzanotte del 1° ottobre 2025. In base al sistema federale statunitense, ogni anno il Congresso deve approvare dodici leggi di stanziamento per finanziare le varie agenzie federali oppure, se non lo fa in tempo, una risoluzione ponte per mantenere i finanziamenti al livello precedente. Se nessuna di queste misure viene adottata entro la mezzanotte della scadenza, il governo federale USA entra in uno stato di “shutdown”, ossia molte attività non essenziali del governo vengono sospese o limitate, migliaia di dipendenti federali vengono licenziati temporaneamente o continuano a lavorare senza paga. Nel caso specifico del 2025, la causa principale è stata il mancato accordo fra i partiti su un pacchetto di finanziamento che includesse — fra le altre cose — l’estensione di sussidi fissati dall’Affordable Care Act (ACA) per l’assicurazione sanitaria. Abbiamo cercato di capire le origini dello shutdown, come mai si allunga sempre di più, quali sono le conseguenze e i disagi che ha comportato con Martino Mazzonis, giornalista e americanista. Ascolta o scarica
USA: NEW YORK ALLE URNE PER IL NUOVO SINDACO, FAVORITO IL SOCIALISTA ZOHRAN MAMDANI
Giornata elettorale negli Usa. Si vota in Virginia e in New Jersey per eleggere i governatori, mentre in diverse città USA ci sono le amministrative. Occhi puntati sulla città di New York, dove i sondaggi vedono avanti il candidato della sinistra dem, il socialista Zohran Mamdani, quotato al 43%, rispetto all’ex dem e ora indipendente Andrew Cuomo (33%), supportato – di malavoglia – da Trump. Più staccato il repubblicano Curtis Sliwa, fondatore dei vigilantes Guardian Angels. 735mila newyorchesi, mai cosi tanti, hanno già votato via posta o in seggi elettorali appositamente allestiti per il voto anticipato. A New York l’elezione per il sindaco è ritenuta un primo test per la nuova era di Donald Trump. Intanto secondo quanto rivelato da un nuovo sondaggio di Washington Post, Abc News e Ipsos, cala l’indice di gradimento del presidente Donald Trump: la maggioranza degli statunitensi, il 64%, pensa che il presidente sia andato oltre i poteri conferitigli dal suo ruolo e che stia eccedendo nel tentativo di espandere i suoi poteri presidenziali. Il sondaggio segnala che la disapprovazione per l’operato del tycoon è al 59%, mentre l’apprezzamento si ferma al 41%, il livello più basso per un presidente all’inizio del secondo mandato. Nonostante questi dati, la corsa per le elezioni di metà mandato del 2026 rimane equilibrata, con i democratici al 46% e i repubblicani al 44% nelle preferenze per il Congresso. L’intervista a Marina Serina, cittadina italiana che vive a New York, che ha seguito la campagna elettorale di Zohran Mamdani e collaboratrice della rivista online Pressenza.Ascolta o scarica
VENEZUELA: IN ATTESA DELLE DECISIONI USA SU UN POSSIBILE ATTACCO, OLTRE 500 INTELLETTUALI SI APPELLANO ALLA PACE
Prove di sbarco dei Marines con esercitazioni a Porto Rico da parte degli Stati Uniti, davanti alle coste del Venezuela. Attaccata un’altra presunta imbarcazione di narcos venezuelani nei Caraibi, tre persone sono rimaste uccise. Il Venezuela è il nuovo nemico giurato degli USA e la Russia replica parlando di possibile invio di missili a Caracas. Per Trump, “Maduro ha i giorni contati”, ma non svela piani di attacco al Paese. Sulla crisi in corso nel mar dei Caraibi, abbiamo intervistato Giulia De Luca, giornalista Rai Radio 3 Mondo. Ascolta o scarica Oltre 500 tra intellettuali, docenti, attivisti e giornalisti, hanno firmato un “appello a difesa del Venezuela bolivariano e dei popoli del mondo, per la pace e la giustizia sociale”. Tra i firmatari Angelo d’Orsi, docente e storico del pensiero politico all’Università di Torino. Ascolta o scarica Riportiamo qui di seguito l’appello degli oltre 500 intellettuali italiani per il Venezuela. [ Per aderire inviare una mail a: appellovenezuela@gmail.com ] A difesa del Venezuela bolivariano e dei popoli del mondo, per la pace e la giustizia sociale. Contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela e il suo popolo si fa sempre più grave e concreta la minaccia di un intervento militare, una vera e propria aggressione armata, da parte degli Stati Uniti. Prima le minacce, sempre meno velate, di “sistemare” ora il Venezuela per poi “fare i conti” con Cuba e il Nicaragua. Poi, il dispiegamento di quattro navi da guerra e ora perfino delle portaerei in assetto di guerra davanti alle coste venezuelane. Poi ancora, i ripetuti attacchi armati contro le piccole imbarcazioni da pesca, attacchi che hanno già portato ai primi morti e feriti tra i pescatori venezuelani. Addirittura, l’incredibile “taglia” arbitrariamente messa sul capo del Presidente legittimo, da poco rieletto a larghissima maggioranza, della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolas Maduro. E, ultime solo in ordine di tempo, le notizie di un nuovo mandato alla Cia per sviluppare azioni sotto copertura e piani di guerra per rovesciare le autorità liberamente elette dal popolo venezuelano. La “menzogna di guerra”, questa volta, non è una provetta di presunte armi di distruzione di massa da agitare alle Nazioni Unite, come contro l’Iraq, né la presunta difesa dei diritti umani violati dal nemico di turno, come tante volte è successo alla vigilia di “rivoluzioni colorate” in giro per il mondo. La “menzogna di guerra”, il pretesto per l’aggressione, in questo caso è il presunto narcotraffico attraverso il Venezuela. Una menzogna falsa quanto tutte le altre, se è vero che le Nazioni Unite in prima persona hanno confermato che il Venezuela non ha nulla a che fare con il narcotraffico, che questo non avviene lungo le coste del Venezuela, e che anzi le autorità venezuelane sono attivamente impegnate per contrastarlo. Ciò che gli Stati Uniti vogliono è infatti ben altro. Intanto, mettere le mani sul petrolio, che è sempre più una risorsa fondamentale nella crisi energetica internazionale, e del quale il Venezuela dispone in quantità copiose, tanto è vero che detiene le riserve accertate di petrolio più vaste del mondo, oltre 300 miliardi di barili. E poi, porre fine alla rivoluzione bolivariana, un vasto processo di trasformazione politica e sociale a ispirazione bolivariana, socialista e umanista, che, inaugurato da Hugo Chavez nel 1999, prosegue oggi con Nicolas Maduro, e che ha portato alla nazionalizzazione delle risorse di petrolio e di energia, reinvestito gli introiti in politiche sociali, migliorato la condizione sociale (istruzione, salute, welfare) della popolazione e mantenuto una politica estera indipendente, sovrana e antimperialista. Per gli Stati Uniti, il fumo negli occhi. E oggi, il tentativo di aggressione armata contro il Venezuela non è solo una minaccia gravissima alla libertà e alla autodeterminazione del popolo venezuelano, e quindi alla libertà e alla indipendenza di tutti i popoli del mondo, ma è anche una minaccia diretta alla pace e alla sicurezza dell’intera regione, che può portare a una escalation di vasta portata e al rischio di un’ulteriore accelerazione della guerra su scala planetaria. Una minaccia alla pace e all’autodeterminazione, una minaccia alla giustizia e al diritto internazionale. Non possiamo restare a guardare. Tutti e tutte, cittadini, intellettuali, attivisti democratici, antimperialisti, pacifisti, avvertiamo l’esigenza di attivarci e di mobilitarci. Portiamo la nostra solidarietà presso le sedi diplomatiche della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Italia e, con le organizzazioni impegnate nella solidarietà internazionalista, moltiplichiamo le iniziative per fare conoscere la verità del Venezuela e per difendere le indiscutibili conquiste politiche e sociali della Rivoluzione bolivariana. Attiviamo la nostra solidarietà concreta, a difesa della pace e della libertà dei popoli, con immagini, post, contenuti, su tutti i canali online e i media sociali, per la pace e i diritti, contro l’imperialismo e le sue guerre. Definiamo insieme le modalità di una mobilitazione unitaria, di massa, a Roma e in tutte le città, a difesa del Venezuela bolivariano e di tutti i popoli in lotta, che resistono, a difesa della propria libertà e della propria autodeterminazione, per la pace e la giustizia sociale.
UCRAINA: SALTA IL VERTICE TRUMP-PUTIN DI BUDAPEST, RINVIATO A TEMPO INDETERMINATO
Sfuma il vertice Trump-Putin a Budapest. La Casa Bianca ha annunciato che i due presidenti ‘non si vedranno a breve’, dopo che il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha escluso una tregua immediata. Il 16 ottobre Trump aveva fatto sapere che avrebbe incontrato Putin nelle successive due settimane mentre il 21 ottobre il tycoon ha annunciato il rinvio a tempo indeterminato del vertice sull’Ucraina con Putin, previsto a Budapest entro la prossima settimana. Salta anche il previsto incontro tra il segretario di stato statunitense Marco Rubio e il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, previsto questa settimana. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto, il punto con Ennio Remondino, ex inviato in zone di guerra per la RAI e oggi curatore del blog Remocontro.it Ascolta o scarica
USA: TRUMP ALL’ONU TAGLIA CORTO SULLA PALESTINA, “RICONOSCERLA È UNA RICOMPENSA PER I TERRORISTI”
Discorso fiume del presidente USA Donald Trump all’80esima sessione dell’ONU a New York, che si è aperta oggi. Un’ora di discorso, quando il protocollo prevede interventi della durata di 15 minuti. Trump contro tutti, in primis contro le stesse Nazioni Unite e particolarmente concentrato sulle questioni di politica interna statunitense, glorificando il lavoro della sua amministrazione. Il Presidente ha dedicato poco tempo alle guerre in Ucraina e in Palestina. Nel primo caso ha ricordato che se fosse per lui la guerra non sarebbe mai iniziata. Nel secondo caso Trump ha ribadito nuovamente il pieno sostegno ad Israele sostenendo che “la creazione di uno Stato di Palestina sarebbe una ricompensa per i terroristi”, ricordando anche le sue richieste specifiche: “la liberazione di tutti gli ostaggi contemporaneamente”, cadaveri compresi, prima di intraprendere qualsiasi iniziativa per fermare il genocidio. Il tutto mentre, sempre all’Onu, altri 11 Stati – con la Francia capofila – hanno annunciato formalmente il riconoscimento dello Stato di Palestina, come già fatto da più di tre quarti degli Stati del mondo. Un uso strumentale dell’assemblea delle Nazioni Unite quello di Trump, che ha sparato a zero, tra l’altro, contro le energie rinnovabili, i migranti, Biden, i gruppi Antifa, la NATO. L’80esima sessione dell’assemblea delle Nazioni Unite verdrà alternarsi tutti i capi di stato e le varie delegazioni: domani sarà il turno di Meloni e Zelensky, venerdì quello di Netanyahu. Al termine del discorso di Trump, abbiamo contattato a New York la giornalista Marina Catucci che sta seguendo per conto di diverse testate la Settimana ad Alto Livello dell’80esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ascolta o scarica
USA: SCONTRO TRA GIUDICI FEDERALI E PRESIDENZA, L’ULTIMA PAROLA SPETTERÁ ALLA CORTE SUPREMA. L’INTERVISTA A MARTINO MAZZONIS
Giornata no per Donald Trump: dopo la bocciatura dei dazi dei giorni scorsi, oggi con due voti a favore e uno contrario, una corte d’appello federale della capitale statunitense ha reintegrato Rebecca Slaughter, commissaria della Federal Trade Commission (FTC) nominata da Biden e licenziata dal Tycoon, La Corte ha giudicato illegale il suo licenziamento, ma la Casa Bianca ha già dichiarato che presenterà ricorso alla Corte Suprema. Tuttavia, nell’ordinanza della Corte d’appello, si legge che “è improbabile che il governo vinca in appello perché qualsiasi sentenza a suo favore da parte di questa Corte dovrebbe sfidare i precedenti vincolanti, pertinenti e ripetutamente preservati della Corte Suprema” E non solo. Una Corte d’appello federale ha inoltre stabilito che l’uso del contestato Alien Enemies Act – il decreto voluto da Trump per deportare più rapidamente presunti membri di gang venezuelane – è illegale e ne ha bloccato l’uso in diversi stati del sud degli Stati Uniti. Secondo il giudice, Trump non può utilizzare una legge di guerra del 1798, invocata per la prima volta a marzo, per portare avanti il proprio piano di espulsioni in Texas, Louisiana e Mississippi. Infine l’ambasciatore americano Matthew Whitaker presso la NATO, ha bocciato la contabilità creativa degli stati dell’Unione Europea e anche l’Italia: il ponte sullo stretto di Messina non potrà essere pagato con i fondi NATO, ha detto l’ambasciatore. Su questi temi abbiamo intervistato il giornalista e americanista Martino Mazzonis. Ascolta o scarica
Perché la destra politicizza il denaro?
Con il licenziamento di Lisa Cook, Donald Trump ha cominciato a rompere l’ultimo dei tabù: l’indipendenza della Fed. Con buona pace di Federico Rampini, che ora dovrà cercare nuovi argomenti per celebrare la superiorità dell’Occidente nei confronti delle autocrazie e del Grande Sud, Trump non si è limitato a sbeffeggiare per mesi Jerome Powell, è «passato all’atto». I mercati sono ovviamente agitati, temendo il controllo politico della banca centrale più importante del mondo, quanto meno di quel pezzo di mondo che si autodefinisce davvero libero. Colpendo Lisa Cook, tra l’altro, Trump è riuscito a unire istanze strettamente economiche, ovvero il governo della moneta e del suo costo, con la politica del simbolico: Cook, prima donna nera nel board della Fed, è simbolo di ciò che il movimento MAGA qualifica come «capitalismo woke». Ma si tratta evidentemente di una mossa che, nel confermare la furia ideologica del trumpismo, fa anche saltare in aria le coordinate alle quali l’apologia dei tecnici del denaro (da Volcker a Draghi), negli ultimi decenni, ci aveva abituato. L’attacco alla Fed ha un primo, e fondamentale, obiettivo: far ripartire l’inflazione. E già qui, le bussole, funzionano poco. Non è l’inflazione un modo per ridurre il peso del debito per i debitori, ovvero per le fasce più povere della società che, per consumare, per esempio per acquistare una casa, debbono necessariamente indebitarsi? E non è – ancora – l’aumento dei prezzi, uno stimolo per gli imprenditori e gli investimenti, stimolo che, se ben gestito, favorisce la ripresa dell’occupazione? Sarebbe dunque, Trump, un vero amico della classe operaia e del ceto medio impoveriti, come insiste il movimento MAGA? Occorre allargare lo sguardo. I creditori contro i quali si vuole scagliare Trump, imponendo alla Fed l’abbassamento del costo del denaro e, a seguire, favorendo la dinamica inflativa, non sono tanto i miliardari americani, che comunque saranno favoriti dall’azzeramento delle tasse, ma tutti coloro che pagano l’enorme debito pubblico americano (ad agosto, oltre i 37 mila miliardi di dollari). > Il debitore mondiale non è più l’Europa, come subito dopo la Seconda guerra > mondiale, ma sono gli Stati Uniti d’America. L’inflazione è dunque un modo, come d’altronde lo fu in parte per Richard Nixon nel 1971, per «ristrutturare» unilateralmente il debito pubblico.    Pensate alla Grecia nel 2015. Un Paese povero, afflitto dal debito e martellato dai suoi creditori (banche, fondi di investimento, fondi previdenziali, ecc.), è sottoposto a una “cura” fatta di vessazioni, umiliazioni e, soprattutto, compressione del welfare, abbassamento dei salari reali, disoccupazione, suicidi, biografie spezzate, giovinezza rubata. Un impero, come gli Stati Uniti, procede diversamente. Dicevamo di Nixon: nel giorno di Ferragosto del 1971 (la scelta del giorno per l’incontro con Putin in Alaska sarà stata casuale?), dichiarò il dollaro non più convertibile in oro. Tutti coloro che possedevano dollari, per esempio diversi paesi europei (la Francia in testa), ma non solo, si sono tenuti la carta, senza poter ottenere l’oro che gli Stati Uniti, a Bretton Woods nel 1944, si erano impegnati a consegnare su richiesta. Un furto, tra l’altro accompagnato – e nessuno in questi mesi lo ha ricordato – dall’introduzione di dazi del 10%. Ovviamente c’è un problema: se la Fed abbassa il costo del denaro, e l’inflazione riparte, in giro per il mondo molti paesi che da decenni fanno incetta del dollaro, considerandolo valuta di riserva per eccellenza, potrebbero – come già in diversi stanno facendo – smettere di acquistare Titoli di Stato, che sono denominati in dollari e, alla forza del dollaro, della Fed e dell’economia americana più in generale, devono la loro affidabilità. Powell, più nello specifico, teme per i titoli a lunga scadenza, il cui rendimento l’altro ieri (26.08) è salito non poco, così come è aumentato il differenziale con quelli a breve scadenza. Segnale che, in prospettiva, l’affidabilità del debito americano si fa scarsa e, coloro che lo acquistano, pretendono rendimenti sempre più importanti. > La mossa di Trump, però, va letta insieme al Genius Act, ovvero al pieno > sostegno normativo della sua Amministrazione alle monete digitali private, le > stablecoin. Pur trattandosi di criptovalute, si definiscono stabili e non oscillanti/speculative perché ancorate a monete legali, quali il dollaro ovviamente. L’obiettivo di Trump è quello di rispondere alla crisi del dollaro, della sua funzione di comando politico sul mercato mondiale, attraverso la diffusione delle stablecoin. In tendenza, qualora si affermassero, e favorite dagli effetti di rete, le stablecoin potrebbero in parte realizzare il sogno del sodale di Pinochet, l’economista premio Nobel che, per difendere la libertà, riteneva giusto sostenere il fascismo (come Peter Thiel di Palantir, d’altronde): Friedrich von Hayek. In un saggio del 1976, dal titolo La denazionalizzazione della moneta, Hayek proponeva di far saltare in aria il monopolio della Fed sull’emissione di moneta legale, favorendo una molteplicità di monete private in competizione tra loro. Monete private espressione di un regime di free banking, sistema tutt’altro che marginale nel XIX secolo americano e che ha rallentato di diversi decenni, negli Stati Uniti, la nascita di una vera e propria banca centrale. Da non dimenticare, infatti, che la Fed nasce soltanto nel 1913, diversi secolo dopo la Bank of England (1694), ma anche oltre un secolo dopo la fondazione napoleonica della Banque du France (1800). Ora, sembrerebbe dunque che l’attacco di Trump alla Fed sia solo il rilancio delle più spericolate teorie neoliberali degli anni Settanta. Lo è, in parte, ma solo in parte. Il free banking è una tendenza, che si realizzerebbe compiutamente solo con stablecoin più che affermate su scala mondiale. La Commissione europea, qualora decidesse di promuovere un’interpretazione estensiva del suo Regolamento in merito (MiCA), aprendo così le porte alla piena fungibilità in zona euro delle stablecoin denominate in dollari, darebbe un grosso aiuto al progetto trumpiano. La realizzazione del progetto, però, non è immediata. Trump, in verità, sta parlando anche al suo mondo, al movimento MAGA. Sta dicendo agli «sconfitti della globalizzazione» che il Presidente fa sul serio, piegando la Fed all’autorità politica, del governo. > Come con la Corte suprema, si tratta di affermare che, chi vince le elezioni, > comanda: sulla giustizia e, soprattutto, sull’economia, in particolare sul > denaro. Non sarebbe la prima volta, nella storia, che l’estrema destra decide di politicizzare la moneta. Ci pensarono già due nazisti che andrebbero studiati con attenzione, la stessa con la quale li studiava il liberale Keynes: Hjalmar Schacht e Walther Funk. Il secondo, in particolare, progettò nel 1940 una «moneta generale», per l’Europa germanizzata, alternativa al dominio dell’oro, che, allora e anche se ancora per poco, voleva dire dominio della sterlina e della City di Londra. Trump non restituirà le fabbriche agli Stati Uniti, ma intanto sta acquisendo il controllo di Intel e US Steel – fatto non banale. Trump sta restituendo agli impoveriti l’immagine di una politica che non si genuflette ai tecnici e ai dogmi dell’economia. La socialista americana Alexandria Ocasio-Cortez il problema ce l’ha chiaro, tanto che, affidandosi (anche troppo) alla Modern Monetary Theory, sta tentando di fare, del denaro e del suo costo, dell’inflazione, temi su cui la sinistra prende parola – politicamente. In Europa, purtroppo, dopo il movimento Blockupy il tema è uscito dall’agenda delle sinistre – una parte delle quali, quando si tratta di denaro, passa la parola ai banchieri centrali o comunque agli economisti di professione. Un disastro, perché a breve, come segnala Ignazio Angeloni della BCE, le destre europee imiteranno Trump, impallinando la BCE con scopi tutt’altro che redistributivi. In ultimo, ma non per importanza: e se obiettivo di Trump fosse anche quello di controllare l’economia, dai dazi alla moneta, alle grandi corporation, per avanzare nella lunga preparazione della resa dei conti bellica con la Cina? D’altronde, gli anni Trenta tedeschi, questo ci insegnano.     Immagine di copertina da Kaboompics.com L'articolo Perché la destra politicizza il denaro? proviene da DINAMOpress.
ANALISI CRITICA DEI FATTI ECONOMICI CON ANDREA FUMAGALLI: LA CONFERENZA SULLA RICOSTRUZIONE UCRAINA; I DATI OCSE SUI SALARI REALI (E AL PALO) IN ITALIA; L’ORO ITALIANO NEI CAVEAU STATUNITENSI
Consueto appuntamento del venerdì mattina con l’Analisi critica dei fatti economici della settimana con l’economista e collaboratore di Radio Onda d’Urto Andrea Fumagalli. Nella puntata di venerdì 11 luglio viene approfondita la Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina a guerra ancora in corso e senza vedere all’orizzonte spiragli di tregua; un approfondimento anche sui dati economici, dai numeri Ocse sui salari reali in Italia – ancora fanalino di coda – e sui dati della produzione in calo a maggio, con il comparto auto in forte crisi; in ultimo un focus sulle riserve auree italiane nei caveau degli Stati Uniti che preoccupano gli economisti. La puntata di venerdì 11 luglio 2025. Ascolta o scarica.
PALESTINA: GI USA SANZIONANO FRANCESCA ABANESE PER AVER DENUNCIATO LE AZIENDE COMPLICI DEL GENOCIDIO A GAZA
Usa e Israele definiscono a Washington la loro idea di “tregua” tra campi di concentramento – come quello con il quale vogliono confinare 600mila palestinesi a Rafah – e riconoscimento di fatto dell’occupazione totale della Palestina, dalla Striscia di Gaza a gran parte della Cisgiordania. Hamas vuole che nel documento vi siano un impegno esplicito per la fine permanente dei combattimenti, il ritiro totale delle truppe di Tel Aviv dalla Striscia e l’esclusione della finta ong israelo-statunitense GHF dalla lista delle organizzazioni che gestiranno gli aiuti umanitari. Le trattative non sembrano quindi vicine alla firma di un accordo come vorrebbe, almeno nelle dichiarazioni, Trump. Nel frattempo, l’esercito israeliano prosegue il genocidio: almeno altri 13 palestinesi sono stati uccisi in un raid che ha colpito Deir el Balah. Altre 4 persone sono state uccise in un attacco sul campo profughi di Al Bureij. In totale sono almeno 24 i palestinesi massacrati dai bombardamenti israeliani soltanto nelle prime ore di stamattina. L’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari fa sapere che dal 7 ottobre 2023 sono stati uccisi più di 15.000 studenti a Gaza. Secondo un conteggio effettuato dalle autorità educative della Striscia il 1° luglio, “almeno 15.811 studenti e 703 membri del personale educativo sono stati uccisi, mentre 23.612 studenti e 315 membri del personale educativo sono stati feriti, molti dei quali con conseguenze fisiche o psicologiche permanenti”. Raid, aggressioni e demolizioni da parte delle forze di occupazione israeliane continuano anche in Cisgiordania, dov’è ogni giorno più esplicita la volontà di espandere gli insediamenti dei coloni, cacciare la popolazione locale e annettere i territori allo stato di Israele. Stamattina i coloni hanno aggredito una donna a Masafer Yatta, nell’area di Hebron. Demolite poi dai bulldozer israeliani due case a Salfit. A Betlemme invece gli israeliani hanno sottratto altra terra ai palestinesi per costruire una strada tra diversi insediamenti coloniali. L’esercito occupante, infine, ha assaltato il quartiere di Al-Hadaf di Jenin facendo irruzione in alcune abitazioni. I militari hanno perquisito e danneggiato alcune case ed effettuato arresti, tra intimidazioni e spari. Gli Usa, infine, imporranno sanzioni a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi occupati. Lo ha annunciato il segretario di stato Usa Rubio, che farnetica di “illegittimi e vergognosi sforzi di Albanese per fare pressione sulla Corte Penale Internazionale affinché agisca contro funzionari, aziende e leader statunitensi e israeliani”. La “colpa” di Albanese – per statunitensi e israeliani – è quella di aver presentato un dettagliato rapporto sulle aziende coinvolte nel business del genocidio in Palestina, molte delle quali sono statunitensi, da Amazon ad Alphabet, da Microsoft a Palantir e Lockheed Martin. Il collegamento con Meri Calvelli cooperante in Palestina per ACS Associazione di Cooperazione e Solidarietà e direttrice del Centro Vik. Ascolta o scarica