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In occasione della Congo Week, intervista con il dottor Joseph Kakisingi di Bukavu (Kivu, Rdc)
Ogni anno dal 2009 a ottobre si tiene la «Breaking the Silence Congo Week» (www.congoweek.org), una settimana internazionale di azione e riflessione che ha diversi obiettivi: rompere il silenzio sulla guerra che colpisce la regione del Kivu nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), denunciare la complicità internazionale, commemorare le vittime ma anche celebrare «l’enorme potenziale umano e naturale che esiste nel paese». In questa occasione abbiamo intervistato il dottor Joseph Kakisingi, ginecologo, direttore del Centro Ospedaliero San Vincenzo di Bukavu. Il dottore è stato invitato in Italia in occasione della marcia per la pace Perugia-Assisi del 19 ottobre scorso. Ha tenuto diversi incontri, organizzati anche dall’associazione Colibrì di Mantova che sostiene vari progetti nel settore sanitario proprio nelle zone del Congo colpite dalla guerra. La sua attività si svolge da tempo in una situazione di guerra e occupazione… Il centro ospedaliero Saint-Vincent, nel comune di Kadutu a Bukavu porta cure di qualità alle comunità economicamente meno abbienti. Sono anche direttore e co-fondatore dell’organizzazione non governativa (Ong) Santé et Développement, nata per l’aiuto alle donne sfollate vittime e sopravvissute alla violenza sessuale. La struttura si occupa delle cure mediche, dell’accompagnamento psicosociale e del reinserimento nella comunità. Via via, l’organizzazione si è diversificata aggiungendo altre attività, tra cui la gestione della malnutrizione in ambienti chiusi, i programmi di sicurezza alimentare e i programmi di risposta gestiti dalle comunità. Ho inoltre riunito le organizzazioni umanitarie congolesi nel Consiglio nazionale dei forum delle Ong umanitarie e di sviluppo, il cui obiettivo è quello di sensibilizzare sulla situazione umanitaria nella Rdc e sulla risposta umanitaria a livello locale, affinché i finanziamenti arrivino direttamente nelle comunità, in modo più efficace, adeguato, diretto. Qual è la situazione umanitaria a Bukavu e Goma e in generale nelle zone sotto il controllo della milizia detta M23/Afc appoggiata dal Ruanda? Le due città sono isolate da tutto. I mezzi di sostentamento sono bloccati. Gli operatori umanitari allertano il mondo sulla grande crisi con le sue conseguenze sulla salute e sulla sicurezza alimentare. Alcuni operatori umanitari sono presi di mira perché accusati di far conoscere alla comunità internazionale ciò che le autorità de facto non vorrebbero far vedere. Molti di loro sono costretti a fuggire. Sono stato costretto a lasciare Bukavu per rifugiarmi altrove. Eppure, siamo fra coloro che lottano affinché i civili non diventino vittime collaterali della guerra. È vero che l’aiuto internazionale manca? Dopo la presa di Goma e la caduta di Bukavu, all’inizio del 2025, tutti i campi di sfollati che si trovavano nei dintorni e che ricevevano assistenza umanitaria sono stati smantellati. Si tratta di due milioni di persone che oggi sono senza casa e senza alloggio. Con la mancanza di sicurezza, con tante barriere, milizie, l’accesso alle comunità è molto difficile e pericoloso. A volte per raggiungere i beneficiari bisogna attraversare le linee del fronte. I centri di cura della malnutrizione non sono più riforniti, gli ospedali non hanno più accesso ai farmaci, i mercati sono vuoti. Dove ci sono difficoltà nell’inoltro degli aiuti, i casi di malnutrizione si moltiplicano, l’angoscia legata all’insicurezza e alla guerra cresce. Nella città di Bukavu i casi di problemi di salute mentale sono triplicati rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Non c’è solo questo blocco sull’accesso umanitario, ma anche la mancanza di finanziamenti. All’inizio di quest’anno, l’Usaid (l’agenzia statunitense per gli aiuti internazionali) ha annunciato il taglio dei finanziamenti per gli aiuti umanitari. Ma i suoi fondi costituivano il 70% dei fondi per la Rdc. Il blackout aggrava una situazione già grave. I mezzi disponibili attualmente non coprono nemmeno il 10% dei bisogni umanitari espressi. Le organizzazioni umanitarie locali cercano di mobilitare fondi sul posto. Ma a livello internazionale si dimentica di parlare della crisi congolese che è grave e drammatica, con oltre nove milioni di morti, trent’anni di crisi, e tutto quello che vediamo oggi di violenza, stupri, uccisioni. Tutto questo richiede più attenzione e più sostegno internazionale verso la popolazione congolese. Gli accordi “di pace” porranno fine a questa guerra trentennale? Gli accordi di Washington e Doha hanno dato molta speranza alle comunità che vivono nelle zone occupate. Ma sempre più questa speranza sta svanendo. Non si vede niente, si vede piuttosto l’aggravarsi della situazione della sicurezza, gli scontri che continuano… Cosa fare dunque? Cosa possono fare i popoli del mondo, le organizzazioni internazionali, gli Stati? Il Congo è un paese-soluzione per il pianeta! Nel senso che ha il secondo polmone del mondo (la foresta pluviale del bacino del Congo) e anche tanti minerali strategici per la stessa transizione ecologica, necessaria alla lotta contro il riscaldamento climatico. Purtroppo, questa ricchezza, invece di essere una forza, diventa una maledizione per il paese: le multinazionali, invece di venire a trattare normalmente con il Congo affinché si mettano in atto scambi vincenti tra noi che abbiamo le materie prime e loro che ne hanno bisogno, passano con mezzi barbari, provocano guerre che uccidono e usano violenza, e il risultato è anche il furto di minerali. Quanta ingiustizia! Il mondo dovrebbe proteggere il Congo anche perché il Congo aiuta il mondo. Chiediamo alle multinazionali di passare a un commercio etico, basato su rapporti che garantiscano benefici anche per i territori dai quali le materie prime vengono estratte. Quello che chiedo alla comunità internazionale, ai popoli, ai giovani, è di contrastare queste pratiche illecite, in particolare esigendo la tracciabilità dei minerali utilizzati nella produzione di alcune attrezzature oggi molto necessarie. Bisogna assicurarsi che non siano minerali di sangue, minerali che vengono estratti in zone occupate militarmente e dove i lavoratori vengono pesantemente sfruttati in questa attività. Redazione Italia
Testimonianza da Bukavu sotto occupazione
Un giovane giornalista di Bukavu (di cui non citiamo il nome per sua sicurezza) racconta la vita sotto l’M23 (23 Marzo), il movimento ribelle che fa da paravento all’occupazione ruandese della Repubblica Democratica del Congo orientale, che si è estesa da Goma e dalle aree circostanti del Nord-Kivu a Bukavu e alle aree circostanti del Sud-Kivu, a partire da febbraio 2025. Una denuncia delle ingiustizie ma anche parole di speranza. Nel frattempo, il Qatar ha fatto una proposta di pace alla RD Congo e al Movimento ribelle; il dialogo dovrebbe riprendere; sul terreno, però, continuano gli scontri, i morti e una volontà espansiva, particolarmente da parte dell’M23 Nel Kivu sotto la morsa dell’M23: oppressione e resilienza Un giovane giornalista di Bukavu (di cui non citiamo il nome per sua sicurezza) racconta la vita sotto l’M23 (23 Marzo), il movimento ribelle che fa da paravento all’occupazione ruandese della Repubblica Democratica del Congo orientale, che si è estesa da Goma e dalle aree circostanti del Nord-Kivu a Bukavu e alle aree circostanti del Sud-Kivu, a partire da febbraio 2025. Una denuncia delle ingiustizie ma anche parole di speranza. Nel frattempo, il Qatar ha fatto una proposta di pace alla RD Congo e al Movimento ribelle; il dialogo dovrebbe riprendere; sul terreno, però, continuano gli scontri, i morti e una volontà espansiva, Verso la fine dell’occupazione dell’M23? A Katana, un villaggio nel Sud Kivu, una donna m’ha chiesto di recente: «Quando se ne andranno queste persone?». Le ho risposto che sono in corso iniziative per mettere fine alla guerra. Stiamo ancora aspettando di vedere segnali di pace. All’inizio di luglio, abbiamo visto camion carichi di giovani congolesi addestrati nelle fila dell’M23 arrivare in città. L’indottrinamento li avrà trasformati in ribelli? È difficile credere che un giovane che conosce la storia dal 1998 possa essere convinto che siano venuti per liberarci: alcuni giovani si uniscono al movimento per necessità, altri per interesse personale, sperando in denaro e lavoro. Si dice tuttavia che molte di queste reclute addestrate, arrivate a Bukavu, siano fuggite. Una sfida dell’Accordo di Washington è la previsione della partenza delle truppe ruandesi. Nell’esercito ruandese, e quindi nell’M23, ci sono anche Congolesi, tutsi e hutu, provenienti dai territori di Rutshuru e Masisi, che non sono poi così diversi da coloro che provengono direttamente dal Ruanda. Questo complicherà il rimpatrio. Il testo dell’Accordo menziona più volte i ribelli ruandesi delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), e l’M23 solo quando si parla dei colloqui di Doha: il Ruanda ha così visto convalidata la sua tesi di essere in Congo per difendersi dalle FDLR. C’è anche una debolezza del governo congolese, che ha inviato ai colloqui esperti che non hanno familiarità con la situazione che stiamo vivendo. La scorsa settimana, 7.000 soldati congolesi sono arrivati a Uvira da Kalemie. Secondo quanto riferito, sarebbero dispiegati nella pianura di Ruzizi. Le Forze Armate della RD Congo (FARDC) si stanno preparando a riconquistare le città occupate? La situazione è confusa. Vivere sotto il dominio dell’M23 L’insicurezza rimane elevata. Pochi giorni fa, sono stati trovati due cadaveri in città, entrambi con un proiettile in testa, tipico modus operandi dell’M23. L’altro ieri sera, l’ufficio della Società Civile di Walungu è stato vandalizzato. Ieri è stato ucciso il vicepresidente del Quadro di concertazione della Società civile di Kabare. Le perquisizioni domiciliari alla ricerca di armi avrebbero dovuto essere effettuate alla presenza del capo della strada, ma ora una dozzina di soldati dell’M23 entrano all’improvviso e perquisiscono ovunque. I nostri figli sono traumatizzati. Furti con scasso, rapine a mano armata e altri episodi di insicurezza sono comuni, con autori ignoti. Malattie imperversano a Bukavu e nelle zone circostanti, come il colera a Luhihi, il morbillo a Shabunda e così via. L’economia in generale non funziona: le banche rimangono chiuse, il che ha colpito in particolare imprenditori, funzionari pubblici e operatori di organizzazioni non governative (ONG), molte delle quali hanno chiuso. Il governo congolese paga i dipendenti pubblici tramite moneta elettronica, ma devono versare una percentuale elevata, che va dal 4 al 10%. Alcuni utilizzano piccoli servizi bancari, ma pagano commissioni bancarie aggiuntive. Il tasso di cambio non è stabile. Il cittadino comune, invece, è normalmente meno colpito dalla chiusura delle banche: con il piccolo capitale di poche decine di dollari che aveva all’arrivo dell’M23, continua ad andare in Ruanda per acquistare beni (verdure, frutta, carne, tuberi, ecc.) da rivendere. Non c’è più alcun accesso alla pianura di Ruzizi, da cui provenivano riso, manioca, pesce essiccato, ecc. Molti camion entrano nella città di Bukavu attraverso il Ruanda, provenienti dalla Tanzania. Chi trae maggiore vantaggio da questa situazione sono i grandi commercianti che collaborano con l’M23, mentre i cittadini comuni, oberati di tasse, ne subiscono le conseguenze più gravi. Viaggiare all’estero è molto difficile: il Burundi rifiuta i documenti di immigrazione rilasciati dai ribelli; si è costretti a passare attraverso il Ruanda, recarsi a Kasindi, vicino a Butembo, acquistare un documento rilasciato dalle autorità congolesi e, con questo, entrare in RD Congo. A Bukavu, la REGIDESO (ente che garantisce la fornitura d’acqua pubblica) non è più in grado di acquistare autonomamente i prodotti per la depurazione dell’acqua: secondo un comunicato stampa del Sindacato degli agenti dell’azienda, l’M23 incassa il 50% dei ricavi. Nonostante il disaccordo degli agenti, l’M23 ha recentemente nominato un vicedirettore presso la SNEL (Società nazionale di energia elettrica), un incarico che non è mai esistito. Il vicegovernatore, scelto dall’M23, ha nominato un comitato direttivo per l’Istituto di Tecniche Mediche (ISTM), il che non rientra nelle sue competenze, e gli studenti hanno protestato. Informazione imbavagliata Le condizioni dell’informazione si stanno facendo più cupe. La Società civile non può esprimersi, i media sono imbavagliati. Alcuni hanno deciso di collaborare con l’M23, altri hanno preso le distanze e abbandonato la lotta. La caccia all’uomo è più mentale: siamo in una paura mentale, abbiamo paura di fare ciò che va fatto, ma almeno, come difensori dei diritti umani, continuiamo a documentare tutto ciò che accade nel Paese e nella zona occupata. Meno di due settimane fa, le autorità dell’M23 hanno riunito i dirigenti dei media tradizionali e i fornitori di servizi internet e hanno dato loro delle linee guida: devono trasmettere un’immagine positiva dell’M23 come liberatore e prestare molta attenzione a ciò che sta accadendo a Minembwe, dove i Banyamulenge (popolazione d’origine ruandese che abita gi altopiani del Sud-Kivu, ndt) vengono uccisi. Ai giornalisti è inoltre vietato parlare di ciò che sta accadendo altrove nella RD Congo. A volte siamo costretti a guardare senza fare nulla, e questo crea un senso di frustrazione e stanchezza. Quando ci vedono, sanno comunque che non siamo d’accordo con loro. Hanno detto ai piccoli commercianti di Katana, mentre chiedevano tasse illegali: «Sappiamo che non ci amate, voi amate i vostri fratelli Wazalendo (partigiani congolesi, ndt), quindi dovete pagare le nostre tasse». Regolamenti di conti e solidarietà Molte persone si sono uccise a vicenda per piccoli conflitti, con le armi lasciate ovunque (dai militari in fuga, ndt)… Il compositore congolese Idengo, ucciso a bruciapelo a Goma, cantava: «Ci stanno invadendo, perché ci sono mancati amore e unità». L’M23 non potrebbe essere forte senza i complici congolesi. Molti hanno approfittato di questa situazione di assenza dello Stato per accusarsi a vicenda e fare soldi. Danno denaro come forma di corruzione all’M23 per fare del male, per vincere una causa senza giustizia. È così che i cantieri si stanno moltiplicando a Bukavu. Il 16 febbraio scorso, giorno del suo arrivo, l’M23 ha sequestrato sei Land Cruiser del progetto PICAGEL: come poteva qualcuno venuto dal Masisi o dal Ruanda sapere di questo deposito? D’altra parte, questa guerra ha mostrato una certa solidarietà tra noi; le persone cercano di unirsi per incoraggiarsi e sostenersi a vicenda. Ad esempio, il proprietario di una casa ha detto al suo inquilino di non preoccuparsi di pagare l’affitto e di andare da lui, insieme alla sua famiglia, ogni volta che fosse rimasto senza cibo. Delle donne vendono il pesce trasportandolo sulla testa. Conoscono le famiglie che sono loro clienti abituali. Dicono: «Prendi il pesce, mi darai i soldi più tardi». Ci sono questi piccoli gesti di solidarietà. Nella nostra comunità di base, contribuiamo ogni settimana ad aiutare i malati. Giovani giornalisti aiutano gli orfanotrofi: ce ne sono molti che attualmente sono in difficoltà perché i benefattori non danno più soldi. Alcune scuole e università hanno accettato che i genitori paghino a rate i contributi scolastici, finché l’M23 non ha imposto tasse. Qualcuno era stato ucciso e il suo corpo giaceva su una scalinata pubblica vicino a Pageco; la vista era insopportabile. Una donna di passaggio ha preso il suo pagne e lo ha coperto. Quando qualcuno è in lutto o è malato in ospedale, le persone vanno a trovarlo e lo aiutano, proprio come prima. Segnali di resilienza La gioia e la festa non sono scomparse. Chi non capisce pensa che siamo in combutta con i ribelli, ma è una forma di resistenza. Nei mercati pirata sui marciapiedi della città, le donne non se ne sono andate: si possono ancora trovare vestiti, pomodori, carne… Il vicegovernatore ha dato loro 72 ore per andarsene; i soldati sono arrivati persino con le armi, hanno portato via due o tre donne, ma pochi minuti dopo le donne sono tornate e hanno rioccupato gli spazi. Le donne vedono questi luoghi come favorevoli alla vendita, soprattutto in questo periodo di crisi, e inoltre non potrebbero permettersi di pagare un posto al mercato. Così l’M23 è tornato con le fruste e ha picchiato tutti quelli che incontrava. Le donne hanno perso molte delle loro merci, ma un’ora dopo, altre sono tornate a vendere nello stesso posto. L’M23 si è rassegnato o sta preparando un’operazione più energica? Queste donne non hanno altre fonti di sostentamento per le loro famiglie. La stragrande maggioranza delle persone non è d’accordo con questa occupazione e, sebbene ci troviamo in una situazione di impotenza, stanno esprimendo il loro malcontento, persino nei bus, nelle piazze e sui social media: è già un rimedio, una forma di resilienza. È difficile da controllare! Un giorno, vicino a Piazza Indipendenza, un giovane membro dell’M23 ha costretto i passeggeri a scendere da un bus parcheggiato male e voleva arrestare il conducente. Una donna ha reagito: «Sai, tutto questo finirà!». L’uomo ha detto: «Dimmi cosa mi farai dopo. Chiamo il servizio di sicurezza e ti spiegherai davanti a loro». La maggior parte delle persone presenti ha sostenuto la donna. Alcuni si sono scusati per lei; l’uomo è stato costretto ad accettare le scuse e la donna se n’è andata. I giovani sono la speranza C’è speranza, non solo per il Kivu, ma per tutti i paesi della subregione e anche per il Ruanda, soprattutto per i giovani ruandesi. Sono congolese, ma ho molti amici ruandesi, sia hutu che tutsi. Come economista, ho svolto da loro servizi di consulenza. Il futuro della subregione dipende dai suoi giovani, se saremo consapevoli del nostro ruolo nel cambiare il sistema messo in atto dai nostri leader e se sarà possibile lavorare insieme. Dico ai giovani ruandesi: «Voi non avete molto spazio per l’agricoltura, noi sì. Venite da noi, voi avete la tecnologia, noi lo spazio… Lavoriamo per abbandonare le divisioni politiche, affinché i nostri leader capiscano che trent’anni sono sufficienti!». Mobutu ha regnato per 32 anni, Kagame è al suo 30° anno di occupazione della Repubblica Democratica del Congo. Presto questo finirà. Speriamo di entrare in una nuova fase di una subregione riconciliata, non per piacere, ma anche perché giustizia è stata fatta. Dobbiamo fare della giustizia uno dei pilastri della riconciliazione, prima di tutto tra tutti noi Congolesi, perché tra noi ci sono molti traditori; tra ruandofoni e non ruandofoni; che chi ha fatto del male agli altri risponda alla giustizia; riconciliazione tra tutti i popoli della subregione, tra i Tutsi e gli Hutu del Ruanda, i Tutsi e gli Hutu del Burundi. Dovremmo imparare dai nostri errori: siamo tutti vittime perché abbiamo messo al potere persone impreparate e prive di competenze utili alla comunità. Penso che il futuro del Sud Kivu, della Repubblica Democratica del Congo e della subregione sarà migliore, ma abbiamo bisogno di giovani consapevoli, politici consapevoli e della volontà di fare le cose in modo diverso. Possiamo fare del Congo un grande Paese per le generazioni future, una forza trainante per lo sviluppo di tutta l’Africa, ed è possibile. (testimonianza del 7 luglio 2025 rivista il 14 agosto 2025)         La Bottega del Barbieri
Conflitto RDC-Rwanda: prove di pacificazione
È notizia di giovedì 19 giugno che siano in corso delle trattative per un possibile accordo di pace fra la Repubblica Democratica del Congo e il Rwanda, accordo che potrebbe mettere fine a decenni di guerra e sfollamenti interni della popolazione congolese. L’accordo verrà formalizzato a Washington il 27 giugno. L’accordo, mediato da Stati Uniti […]