L’oro bianco che divora la vita
> La corsa al litio, chiave per la transizione energetica, sta devastando
> ecosistemi unici e violando i diritti delle popolazioni indigene in Cile,
> Argentina e Bolivia. Per estrarre una tonnellata di litio sono necessari due
> milioni di litri d’acqua, in aree in cui questa risorsa è sia sacra che
> scarsa. Il litio viene venduto come energia pulita, ma il vero costo viene
> pagato dalle comunità indigene e dalla biodiversità. È tempo di chiedere una
> transizione giusta, in cui il futuro non sia costruito su nuove ingiustizie.
Nel cuore del cosiddetto “triangolo del litio”, formato da Argentina, Bolivia e
Cile, si trova oltre il 60% delle riserve mondiali di questa risorsa,
fondamentale per le batterie delle auto elettriche, dei telefoni cellulari e dei
sistemi di accumulo dell’energia rinnovabile. Il litio è stato definito l’oro
bianco del XXI secolo, una promessa energetica che, lungi dall’essere pulita e
giusta, sta portando a una nuova forma di estrattivismo predatorio.
Per produrre una sola tonnellata di litio sono necessari due milioni di litri
d’acqua. Si tratta di una cifra spropositata in regioni dove l’acqua è già
scarsa e dove le alte paludi andine, le saline e i fragili ecosistemi dipendono
da un equilibrio idrico estremamente sensibile. Ma ben più drammatico è il
prezzo umano: ancora una volta, i popoli indigeni sono le vittime invisibili del
progresso altrui.
In Cile, le comunità degli Atacameño hanno alzato la voce contro la devastazione
delle loro saline ancestrali e la riduzione delle loro fonti di acqua dolce,
fondamentali per la vita, l’agricoltura e la loro visione del mondo. In
Argentina, i popoli Kolla, Atacama e Likan Antai, tra gli altri, denunciano che
i loro territori vengono occupati o venduti senza una consultazione preventiva,
libera e informata, violando i diritti sanciti da convenzioni internazionali
come la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).
Sotto la pressione delle multinazionali e il discorso della transizione
energetica verde, i governi vendono il litio come un futuro rinnovabile. Ma
dietro questa facciata, si perpetua il modello coloniale di saccheggio, dove il
profitto va lontano e il danno rimane in patria. Le promesse di sviluppo locale
si dissolvono in contratti opachi, territori inquinati e corsi d‘acqua secchi.
È ironico che una cosiddetta energia “pulita” nasca da una ferita aperta nella
terra. La biodiversità delle saline – fenicotteri andini, microrganismi unici,
specie endemiche – sta scomparendo. Il silenzio del deserto è rotto da
macchinari, strade e trivellazioni, mentre le voci di coloro che si sono presi
cura di questi ecosistemi per secoli vengono ignorate o soppresse.
A cosa serve una batteria pulita se è costruita sull’ingiustizia? Chi definisce
che cosa è progresso? E quante volte ancora i popoli indigeni dovranno pagare il
prezzo per il futuro di altri?
La transizione energetica non può essere costruita su nuove ingiustizie.
Sostituire i combustibili fossili con batterie al litio non è un progresso se si
limita a spostarne la vittima: dal pianeta al deserto, dal clima all’acqua, dal
petrolio ai popoli indigeni.
Le multinazionali, in combutta con i governi nazionali e provinciali, sono
sbarcate nel nord dell’Argentina, del Cile e della Bolivia con la promessa di
lavoro e sviluppo. Ma in molti casi i posti di lavoro sono precari, i salari
irrisori mentre i contratti firmati ignorano completamente le comunità locali. I
veri custodi del territorio non partecipano alle decisioni che lo riguardano.
La Convenzione 169 dell’OIL, ratificata da questi Paesi, richiede la
consultazione preventiva, libera e informata delle popolazioni indigene prima
che vengano avviati progetti sulle loro terre. Ma questo obbligo legale viene
sistematicamente ignorato. La giustizia, quando interviene, di solito arriva
tardi e con timore.
PROPOSTE E PERCORSI ALTERNATIVI
1. Consultazione e consenso vincolante: qualsiasi progetto estrattivo deve
essere consultato in modo reale e rispettoso con le comunità indigene,
garantendo che la loro decisione sia vincolante. Non si tratta di “
informare” le comunità, ma di rispettare la loro autodeterminazione.
2. Controllo comunitario delle risorse: le comunità dovrebbero possedere e
gestire le risorse nei loro territori. Invece di essere emarginate,
dovrebbero essere al centro del modello produttivo, con benefici diretti e
sostenibili.
3. Tecnologie alternative: è urgente investire in batterie senza litio basate
sul sodio, sul grafene o su altre alternative meno distruttive. Alcune
esistono già, ma le pressioni del mercato ne frenano lo sviluppo.
4. Miniere urbane: il recupero dei metalli dai dispositivi elettronici usati –
il cosiddetto “urban mining” – può ridurre significativamente la necessità
di sfruttare nuovi territori.
5. Responsabilità internazionale delle imprese: le imprese che estraggono litio
nel Sud Globale devono essere soggette a rigorosi norme internazionali in
materia di diritti umani e ambiente, sotto il controllo di organismi
indipendenti.
6. Corridoi bioculturali protetti: escludere le aree sacre, gli ecosistemi
fragili e i territori indigeni da qualsiasi sfruttamento. Trasformarli in
corridoi di conservazione con il sostegno internazionale.
Nelle comunità Kolla, Atacama, Diaguita e Likan Antai, le nonne insegnano ai
bambini a parlare con l’acqua, a prendersi cura della terra come se fosse parte
del corpo. Si tratta di popoli che non hanno “risorse”, ma relazioni sacre con
il loro ambiente. Vedere il litio come una “risorsa” da estrarre e vendere è una
visione estranea, imposta e violenta.
Come è già successo per il petrolio, il coltan e l’oro, la corsa al litio
rischia di lasciare una scia di distruzione e di oblio. Ma siamo ancora in tempo
per evitare che la storia si ripeta.
Questo “oro bianco”, che abbaglia le grandi potenze e le multinazionali, non
deve continuare a macchiare le mani di chi non è mai stato ascoltato. Non ci può
essere transizione ecologica senza giustizia climatica, sociale e culturale. E
questa giustizia inizia con l’ascolto, il rispetto e la protezione di coloro che
da millenni vivono in armonia con la Terra.
Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid.
Pedro Pozas Terrados