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L’India sconosciuta, incontro a Castronno (Varese)
Lunedì 10 novembre 2025, ore 21 Materia Spazio Libero, Via Confalonieri 5, Castronno (Varese) Un viaggio a due voci dentro un’India che nessuna agenzia di viaggio oserà mai proporvi e che anche per molti indiani resta abbastanza off limits. E’ la regione del Jharkhand che ci verrà raccontata attraverso le esperienze della giovane dottoranda Morgana Capasso e della giornalista Daniela Bezzi, che di questo ‘cuore nero dell’India’ si è a lungo occupata. Che cosa renda questa regione così poco battuta e ancor meno ‘attrattiva’ in termini turistici è presto detto: il 41% delle risorse minerarie dell’intero subcontinente indiano (in particolare ferro e carbone) giace nel sottosuolo di queste foreste antichissime, che per l’appunto danno il nome alla regione. Jharkhand significa infatti ‘terra di foreste’, abitate da tempo immemorabile da popolazioni adivasi (ovvero indigene), custodi di tradizioni, devozioni, saperi ancestrali di mirabile saggezza e bellezza. Basti pensare alle decorazioni murarie che in due periodi particolari dell’anno si rinnovano sulle facciate delle umili case di paglia e fango dei villaggi: un campionario di motivi e simboli, in evidente comunione con la natura circostante, che trasfigurano il paesaggio in uno straordinario teatro d’arte. Ma anche per questi villaggi la modernità avanza a grandi passi e soprattutto impattante è l’avanzata dell’estrattivismo che sempre più rapidamente sta mangiando intere fette di territorio con immense miniere a cielo aperto. Una forma di colonialismo interno, come infatti lo definiscono i movimenti ambientalisti indiani da anni attivi sul terreno, che nel concreto si traduce in continui espropri di terre, migrazioni forzate e durissima repressione per chi osa opporsi. E un modello economico che considera la terra esclusivamente come una risorsa da depredare, fa notare Morgana Capasso, che precisamente su questa dimensione del problema ha impostato il suo dottorato di ricerca, dopo la tesi magistrale non a caso intitolata Jal, Jangal, Jamin (ovvero acqua, foreste e terra), considerati gli elementi principali per la numerosa popolazione adivasi.   “Un modello che deve molto al sistema fondiario britannico, fondato sull’idea di massimizzazione del profitto e di messa a valore dei terreni. Concetti totalmente estranei alle comunità locali, e alla loro ben diversa concezione del rapporto con la natura, che si basa su criteri di cura, reciprocità e continuo dialogo con l’ambiente” aggiunge Morgana.     Redazione Varese
Repubblica Democratica del Congo, una questione dimenticata: un incontro coinvolgente a Cardano al Campo (Varese)
Al termine della Congo Week, promossa dall’organizzazione Friends of the Congo – FOTC ogni anno in tutto il mondo, anche in provincia di Varese è stata tenuta una serata divulgativa per informare e sensibilizzare in merito alla difficile situazione della Repubblica Democratica del Congo. Nella serata di domenica 26 ottobre, presso il Circolo Quarto Stato di Cardano al Campo, la giornalista indipendente Chiara Pedrocchi ha intervistato Evelyne Sukali, attivista e mediatrice culturale congolese, la dottoressa Rachele Ossola, ricercatrice e chimico ambientale di Source International e Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore Luca Attanasio. Il circolo era pieno di gente, tra cui molti attivisti del “Collettivo da Varese a Gaza”; il racconto dei tre ospiti è stato molto forte e ha portato delle testimonianze su una realtà complessa. Chiara Pedrocchi ha fatto una breve introduzione e dato informazioni di contesto per inquadrare la questione. Il Congo, in Africa centrale, è un Paese con una superficie grande come un terzo dell’Europa e con una popolazione di circa 81 milioni di abitanti con un’età media molto bassa, intorno ai 16 anni. La capitale Kinshasa ha circa 17 milioni di abitanti. Dal 1960 è una Repubblica democratica sulla carta, ma in realtà viene gestita ancora come una colonia, a causa dei tanti interessi economici che Europa, Stati Uniti e Cina hanno in quella terra. In tutto il Congo le miniere sotterranee e a cielo aperto sono ricchissime di materie prime come il rame, l’oro, l’uranio e il cobalto, il minerale utilizzato per la produzione di numerosi dispositivi elettronici e delle batterie al litio per alimentare le automobili e le biciclette elettriche che servono per la transizione energetica dei Paesi ricchi del mondo. Nella sola Kolwezi la totalità degli abitanti lavora, sfruttata e in condizioni durissime, per l’estrazione del cobalto. Il primo intervento è stato quello di Evelyne Sukali, una giovane donna congolese, divulgatrice e mediatrice culturale. Partita dal suo villaggio in Congo, è arrivata in Italia nel 2011 insieme a un gruppo di persone in cerca di un’opportunità di lavoro nel commercio. Il suo contatto Instagram, per chi volesse seguirla, è  https://www.instagram.com/evelynesukali87/ Il suo viaggio per arrivare a Lampedusa è durato 18 mesi ed è stato difficilissimo. Il racconto molto crudo di ciò che ha visto e vissuto ha lasciato il pubblico in un silenzio commosso. Ha parlato di strade inesistenti, mezzi di trasporto di fortuna e pericolosi come chiatte usate per il traposto del legname per attraversare un fiume, di serpenti e coccodrilli, di fame e di sete nel deserto, di forze allo stremo, di uomini armati, di guerra, di uomini e donne uccisi e brutalizzati. Tutto questo è stato affrontato con l’incertezza di quello che sarebbe successo dopo, con la paura di non farcela, con la caparbietà dello spirito di sopravvivenza. Infine, dopo il viaggio anche attraverso la Libia di Gheddafi, si sono imbarcati verso l’Italia dopo lo scoppio delle primavere arabe. Il viaggio in mare è durato due giorni e dopo aver perso i sensi, al risveglio in un ospedale di Lampedusa, circondata da uomini bianchi, la prima cosa che ha chiesto Evelyne è stata: “Sono viva?” Importante il messaggio lasciato dalla donna a chi ascoltava: all’inizio, quando le domandavano della sua storia, reagiva con rabbia perché la gente non comprendeva realmente ciò che aveva vissuto. Poi, anche grazie a un percorso di supporto psicologico, ha capito di dover incanalare la sua rabbia per fare informazione e così è diventata divulgatrice e intermediatrice culturale. Il secondo intervento è stato quello di Rachele Ossola, appena rientrata da un viaggio in Congo con l’associazione Source International, una Ong che lavora in tutto il mondo con le comunità che si trovano ad affrontare problemi di inquinamento ambientale e di salute, causati principalmente dalle industrie estrattive. Insieme ad altre associazioni presenti sul territorio, Source International si occupa di analizzare campioni di acqua, di terra e di aria, fornendo assistenza scientifica a supporto delle comunità locali, che possono così cercare di tutelare le proprie risorse e la propria salute. Rachele Ossola ha raccontato del suo recente viaggio a Kolwezi, detta la capitale del cobalto, perché fornisce la materia prima per circa il 70% del fabbisogno mondiale. Ha descritto cumuli di terra rossa, materiale di scarto delle miniere che vengono depositati nei pressi e creano un paesaggio particolare, che ricorda il Gran Canyon al contrario. In queste zone operano le grandi industrie estrattive e piccoli artigiani che cercano di recuperare dal materiale di scarto altro materiale da vendere. L’aria circostante è carica di particolato atmosferico che causa problemi respiratori e infiammatori. Il team di ricerca ha fatto diversi rilievi e ha portato in Italia i campioni per le analisi; saranno pronti tra un paio di mesi, ma già dai primi rilievi è stato evidenziato come i filtri utilizzati per la campionatura dell’aria fossero neri, pertanto molto carichi di particolato atmosferico. La campionatura dell’acqua dei pozzi a uso domestico, poi, aveva un ph intorno al 3.5, quindi molto acido; l’Organizzazione Mondiale della Sanità stabilisce che il giusto ph dell’acqua potabile dovrebbe essere compreso tra il 6.8 e l’8.5. Donne e bambini sono coloro che stanno più a contatto con l’acqua e ne pagano maggiormente le conseguenze. L’ultimo intervento è stato quello di Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio, ucciso in un agguato il 22 febbraio 2021, che ha portato la sua testimonianza in merito al lavoro svolto dal figlio in Congo e alle circostanze della sua morte, al momento non ancora del tutto chiarite. Nominato ambasciatore italiano in Congo nel 2017, Luca Attanasio aveva in precedenza lavorato in Marocco e Nigeria per sette anni; arrivato in Congo, si rese subito conto della situazione disastrosa delle comunità locali. Insieme alla moglie Zakia Seddiki Attanasio nel 2017 fondò l’associazione Mama Sofia a supporto dell’educazione e della formazione dei bambini e giovani in difficoltà e collaborò con il Premio Nobel per la Pace 2018, il Dott. Mukwege (ginecologo), che aveva fondato nel 1998 a Bukavu il Panzi Hospital per la cura delle donne vittime di atroci stupri. Attanasio era sempre in prima linea per aiutare sia gli italiani che vivevano in Congo che le comunità locali. Poi, il 22 febbraio 2021, a 25 Km da Goma, in un viaggio per una missione umanitaria su invito delle Nazioni Unite, fu ucciso insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista congolese Mustapha Milambo. Le indagini portarono all’arresto di sei congolesi, di cui cinque stanno scontando la pena dell’ergastolo, ma secondo il padre non vennero condotte in modo chiaro e trasparente. Il processo in Congo si svolse in un tribunale di fortuna, mentre in Italia non è ancora terminato. La famiglia non è stata supportata dalle istituzioni, tanto che il governo italiano non si è neanche costituito parte civile, il che avrebbe agevolato la ricerca della verità. A seguito della morte di Luca Attanasio, è nata l’associazione Amici di Luca Attanasio per far conoscere la sua figura e sensibilizzare i giovani sui temi della pace, dell’uguaglianza e della legalità. Il racconto del padre di Luca è stato molto commovente e dimostra come il dolore per la perdita di un figlio possa trasformarsi in una testimonianza di pace e di ricerca di giustizia e verità. Al termine della serata restano le domande: che fine ha fatto il Diritto Internazionale e cosa possiamo fare noi per rendere più giusto questo mondo? Le risposte sono sempre le medesime: informarsi, divulgare, sensibilizzare. Dove le istituzioni sono assenti, chi non vuole essere complice del lassismo e delle ingiustizie può unirsi, collaborare e prendere coscienza. Foto di Michele Testoni Monica Perri
Le materie prime del pianeta: I Paesi che comandano e i popoli che aspettano
> “Una mappa senza bandiere, ma con proprietari” IL MONDO SI SCRIVE CON LE MATERIE PRIME Il potere non sta nei discorsi, ma nel sottosuolo. Non nelle bandiere, ma nei giacimenti. Ogni modello economico, ogni potenza militare, ogni sogno di sviluppo dipende oggi da minerali, cereali, metalli ed energia. Senza litio non ci sono batterie. Senza grano non c’è pane. Senza uranio non ci sono centrali nucleari. Dietro ogni città illuminata e ogni cellulare acceso, c’è un sistema di estrazione che impoverisce molti per arricchire pochi. Il XXI secolo non sarà digitale se non sarà materiale. E tutto comincia in una miniera, un fiume o un campo. 20 MATERIE PRIME, UNA DISPUTA GLOBALE Il pianeta funziona grazie a più di 100 materie prime essenziali. Ma ce ne sono 20 che lo sostengono: litio, rame, ferro, oro, argento, alluminio, petrolio, gas naturale, carbone, terre rare, coltan, nichel, manganese, uranio, acqua dolce, fosfato, grafite e cereali chiave come grano, mais e soia. A queste si aggiungono silicio e idrogeno verde. Tutte fondamentali per energia, trasporto, difesa, alimenti, fertilizzanti o infrastrutture. E tutte concentrate in pochi territori. Le dispute geopolitiche di oggi non si spiegano più solo con le ideologie. Si spiegano con questa lista. E questa lista non è neutra. È una mappa di potere. Chi controlla queste risorse, controlla il XXI secolo. Non si tratta di diplomazia, ma di dominio. Non di cooperazione, ma di appropriazione. Le guerre non si combattono più con le bandiere, ma con contratti, sanzioni e trattati che mascherano il saccheggio come investimento. L’Africa non è povera: è ricca di litio, coltan e oro. L’America Latina non è instabile: è ambita per il suo rame, acqua e alimenti. E il Medio Oriente non è mai stato solo petrolio: ora è anche gas e rotte strategiche. Il mondo non gira per valori. Gira per materie prime. 10 PAESI CHE DETENGONO OLTRE IL 90 PER CENTO DELLE MATERIE PRIME Cina, Russia, Stati Uniti, Brasile, Australia, Canada, India, Sudafrica, Venezuela e Arabia Saudita concentrano oltre il 90% della produzione o del controllo di queste materie chiave. * Cina: Terre rare (90%), litio raffinato (70%), batterie elettriche (80%), grafite (75%), rame raffinato (60%), magneti di terre rare (80%) * Russia: Gas naturale (17%), petrolio (12%), grano (20%), uranio (8%), nichel (9%), alluminio (6%), fertilizzanti (15%). * Stati Uniti: Contratti futures agricoli ed energetici (90% controllo globale), produzione interna marginale ma controllo dei prezzi di petrolio, gas, oro, mais, grano e rame. * Brasile: Niobio (63%), ferro (8%), bauxite (13%), soia esportata in America Latina (50%) * Australia: Litio (46%), ferro (38%), carbone metallurgico (30%), oro (20%) * Canada: Uranio (7%), oro (4%), litio (3%), potassa (10%), investimenti minerari globali (20% tramite borsa di Toronto) * India: Ferro (8%), bauxite (5%), carbone termico (9%), grano (3° produttore mondiale) * Sudafrica: Manganese (39%), platino (70%), cromo (45%), oro (10%) * Arabia Saudita: Petrolio (17%) riserve provate globali (2° dopo Venezuela), gas liquefatto (10%) * Venezuela: Petrolio (18,2% delle riserve provate), ferro (3%), oro (5%), bauxite (15% potenziale regionale) Chi domina queste risorse, detta le regole del commercio mondiale. AFRICA, IL CONTINENTE CHE DÀ TUTTO E RICEVE NIENTE L’Africa possiede più del 30% dei minerali strategici del pianeta. Ma continua a esportare senza valore aggiunto e sotto controllo straniero. * Niger: 5% dell’uranio mondiale, sfruttato per lo più dalla società francese Orano. Nel 2023, oltre l’80% delle esportazioni verso l’Europa, mentre la popolazione subiva blackout. * Repubblica Democratica del Congo: leader mondiale in cobalto e coltan, sfruttato da Glencore (Svizzera) e China Molybdenum. Il 72% del cobalto esportato nel 2022 è stato raffinato in Cina. * Botswana: oltre il 20% dei diamanti mondiali, controllati da De Beers (Regno Unito). * Angola: esporta petrolio per oltre 25 miliardi di USD l’anno, operato quasi interamente da TotalEnergies (Francia), Chevron (USA) e Sinopec (Cina). * Sudafrica e Gabon: 40% del manganese mondiale, ma meno del 5% trasformato localmente. Nel 2023, l’Africa ha esportato oltre 150 miliardi di USD in materie prime. Ma il 75% di quella ricchezza è stato fatturato fuori dal continente. La mappa delle risorse non coincide con la mappa dello sviluppo. AMERICA LATINA, LA BANCA SENZA CASSAFORTE L’America Latina concentra litio, rame, ferro, bauxite, petrolio, oro e cereali. Ma non controlla né i prezzi né le catene produttive. * Cile: principale esportatore mondiale di rame (5,6 Mt) e secondo di litio (40.000 t LCE), ma senza partecipazione nella produzione globale di batterie. * Argentina: seconde maggiori riserve di litio, esportazioni 2023 oltre 900 milioni USD. Il 95% estratto da Livent (USA), Allkem (Australia) e Ganfeng (Cina). * Brasile: leader in ferro (400 Mt/anno), niobio (90% del mercato), bauxite e soia (152 Mt), ma Vale e Bunge dominano il business. * Venezuela: ferro (Cerro Bolívar), petrolio, bauxite e oro, ma sanzioni e corruzione frenano la sovranità produttiva. * Perù: secondo in argento, terzo in rame e oro, con miniere controllate da Freeport, Newmont e Glencore. L’America Latina produce per il mondo. Ma il mondo decide quanto paga. CANADA E AUSTRALIA, IL RETROBOTTEGA DELL’ESTRATTIVISMO * Canada: meno del 3% del litio mondiale, ma controllo di giacimenti in USA, Argentina, Namibia e Cile. Maggior finanziatore mondiale di junior mining. Aziende come Allkem, Lithium Americas e Nemaska operano da Toronto. Produzione interna: 500 t di litio/anno, ma oltre 10.000 t controllate in operazioni estere. Esportazioni 2023: 21 miliardi USD in minerali, solo il 35% trasformato localmente. * Australia: maggior produttore globale di litio (86.000 t LCE nel 2023) e secondo esportatore di ferro (900 Mt). Pilbara Minerals e Mineral Resources tra i giganti. Ma il 75% del litio venduto in Cina senza valore aggiunto. Entrambi fanno estrazione con bandiera altrui. Sono le banche di materie prime dell’Occidente. CINA, IL POTERE CHE TRASFORMA CIÒ CHE NON HA La Cina importa materie prime ed esporta egemonia tecnologica. Raffina il 70% del litio globale, il 60% del rame e quasi tutta la grafite. Controlla il 90% delle terre rare e produce l’80% dei magneti per auto elettriche e turbine eoliche. È presente in oltre 120 progetti minerari in Africa, Asia e Sudamerica. Investimenti 2023: 10,2 miliardi USD in acquisizione di asset minerari all’estero. Il suo potere non è avere miniere, ma avere fonderie. STATI UNITI, IL POTERE CHE FISSA I PREZZI COMEX e NYMEX fissano i prezzi globali di oro, rame, argento, gas e petrolio. CBOT domina il commercio di grano, mais e soia. Le maggiori aziende di trading agricolo (Cargill, ADM, Bunge) e di metalli (Goldman Sachs, Glencore, Trafigura) operano da Wall Street o Chicago. Controllano i futures, impongono il dollaro e hanno l’ultima parola in ogni disputa finanziaria. Gli USA non scavano: fissano i prezzi e muovono i conflitti. RUSSIA, ENERGIA, ALIMENTI E SOPRAVVIVENZA 17% del gas mondiale, 12% del petrolio, 20% del grano, 8% dell’uranio, 9% del nichel. Produzione: 70 Mt di cereali strategici. Nornickel: tra le prime compagnie mondiali di nichel. Rosatom è leader nell’export di tecnologia nucleare. La Russia usa l’energia come leva geopolitica. QUANTO RESTA DI QUESTE MATERIE? * Litio: 30 anni di riserve globali * Rame ad alta legge: 40 anni * Coltan: 20 anni * Uranio accessibile: 50 anni * Ferro: 60 anni * Nichel: 70 anni * Manganese: 30 anni * Terre rare: 25 anni * Oro puro: 20 anni * Acqua dolce: 70% già impegnata I POPOLI ASPETTANO ANCORA * Jujuy (Argentina): le comunità indigene resistono all’espansione del litio senza consultazione. * Calama (Cile): i lavoratori del rame chiedono reinvestimento. * Niger: i bambini studiano al buio mentre il loro uranio illumina Parigi. * Bolivia: il litio come promessa, ma senza industrializzazione. * RDC: miniere di cobalto in crescita e sfruttamento minorile. EPILOGO Il modello deve cambiare. Servono sovranità industriale, aziende nazionali forti, alleanze regionali e giustizia ambientale. Bisogna smettere di chiedere permesso per usare ciò che è nostro. Bisogna ridisegnare la mappa, e questa volta con giustizia. Perché non si tratta solo di minerali. Si tratta di popoli. E questa volta, nessuno deve restare fuori dal contratto. Mauricio Herrera Kahn
L’oro bianco che divora la vita
> La corsa al litio, chiave per la transizione energetica, sta devastando > ecosistemi unici e violando i diritti delle popolazioni indigene in Cile, > Argentina e Bolivia. Per estrarre una tonnellata di litio sono necessari due > milioni di litri d’acqua, in aree in cui questa risorsa è sia sacra che > scarsa. Il litio viene venduto come energia pulita, ma il vero costo viene > pagato dalle comunità indigene e dalla biodiversità. È tempo di chiedere una > transizione giusta, in cui il futuro non sia costruito su nuove ingiustizie. Nel cuore del cosiddetto “triangolo del litio”, formato da Argentina, Bolivia e Cile, si trova oltre il 60% delle riserve mondiali di questa risorsa, fondamentale per le batterie delle auto elettriche, dei telefoni cellulari e dei sistemi di accumulo dell’energia rinnovabile. Il litio è stato definito l’oro bianco del XXI secolo, una promessa energetica che, lungi dall’essere pulita e giusta, sta portando a una nuova forma di estrattivismo predatorio. Per produrre una sola tonnellata di litio sono necessari due milioni di litri d’acqua. Si tratta di una cifra spropositata in regioni dove l’acqua è già scarsa e dove le alte paludi andine, le saline e i fragili ecosistemi dipendono da un equilibrio idrico estremamente sensibile. Ma ben più drammatico è il prezzo umano: ancora una volta, i popoli indigeni sono le vittime invisibili del progresso altrui. In Cile, le comunità degli Atacameño hanno alzato la voce contro la devastazione delle loro saline ancestrali e la riduzione delle loro fonti di acqua dolce, fondamentali per la vita, l’agricoltura e la loro visione del mondo. In Argentina, i popoli Kolla, Atacama e Likan Antai, tra gli altri, denunciano che i loro territori vengono occupati o venduti senza una consultazione preventiva, libera e informata, violando i diritti sanciti da convenzioni internazionali come la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Sotto la pressione delle multinazionali e il discorso della transizione energetica verde, i governi vendono il litio come un futuro rinnovabile. Ma dietro questa facciata, si perpetua il modello coloniale di saccheggio, dove il profitto va lontano e il danno rimane in patria. Le promesse di sviluppo locale si dissolvono in contratti opachi, territori inquinati e corsi d‘acqua secchi. È ironico che una cosiddetta energia “pulita” nasca da una ferita aperta nella terra. La biodiversità delle saline – fenicotteri andini, microrganismi unici, specie endemiche – sta scomparendo. Il silenzio del deserto è rotto da macchinari, strade e trivellazioni, mentre le voci di coloro che si sono presi cura di questi ecosistemi per secoli vengono ignorate o soppresse. A cosa serve una batteria pulita se è costruita sull’ingiustizia? Chi definisce che cosa è progresso? E quante volte ancora i popoli indigeni dovranno pagare il prezzo per il futuro di altri? La transizione energetica non può essere costruita su nuove ingiustizie. Sostituire i combustibili fossili con batterie al litio non è un progresso se si limita a spostarne la vittima: dal pianeta al deserto, dal clima all’acqua, dal petrolio ai popoli indigeni. Le multinazionali, in combutta con i governi nazionali e provinciali, sono sbarcate nel nord dell’Argentina, del Cile e della Bolivia con la promessa di lavoro e sviluppo. Ma in molti casi i posti di lavoro sono precari, i salari irrisori mentre i contratti firmati ignorano completamente le comunità locali. I veri custodi del territorio non partecipano alle decisioni che lo riguardano. La Convenzione 169 dell’OIL, ratificata da questi Paesi, richiede la consultazione preventiva, libera e informata delle popolazioni indigene prima che vengano avviati progetti sulle loro terre. Ma questo obbligo legale viene sistematicamente ignorato. La giustizia, quando interviene, di solito arriva tardi e con timore. PROPOSTE E PERCORSI ALTERNATIVI 1. Consultazione e consenso vincolante: qualsiasi progetto estrattivo deve essere consultato in modo reale e rispettoso con le comunità indigene, garantendo che la loro decisione sia vincolante. Non si tratta di “ informare” le comunità, ma di rispettare la loro autodeterminazione. 2. Controllo comunitario delle risorse: le comunità dovrebbero possedere e gestire le risorse nei loro territori. Invece di essere emarginate, dovrebbero essere al centro del modello produttivo, con benefici diretti e sostenibili. 3. Tecnologie alternative: è urgente investire in batterie senza litio basate sul sodio, sul grafene o su altre alternative meno distruttive. Alcune esistono già, ma le pressioni del mercato ne frenano lo sviluppo. 4. Miniere urbane: il recupero dei metalli dai dispositivi elettronici usati – il cosiddetto “urban mining” – può ridurre significativamente la necessità di sfruttare nuovi territori. 5. Responsabilità internazionale delle imprese: le imprese che estraggono litio nel Sud Globale devono essere soggette a rigorosi norme internazionali in materia di diritti umani e ambiente, sotto il controllo di organismi indipendenti. 6. Corridoi bioculturali protetti: escludere le aree sacre, gli ecosistemi fragili e i territori indigeni da qualsiasi sfruttamento. Trasformarli in corridoi di conservazione con il sostegno internazionale. Nelle comunità Kolla, Atacama, Diaguita e Likan Antai, le nonne insegnano ai bambini a parlare con l’acqua, a prendersi cura della terra come se fosse parte del corpo. Si tratta di popoli che non hanno “risorse”, ma relazioni sacre con il loro ambiente. Vedere il litio come una “risorsa” da estrarre e vendere è una visione estranea, imposta e violenta. Come è già successo per il petrolio, il coltan e l’oro, la corsa al litio rischia di lasciare una scia di distruzione e di oblio. Ma siamo ancora in tempo per evitare che la storia si ripeta. Questo “oro bianco”, che abbaglia le grandi potenze e le multinazionali, non deve continuare a macchiare le mani di chi non è mai stato ascoltato. Non ci può essere transizione ecologica senza giustizia climatica, sociale e culturale. E questa giustizia inizia con l’ascolto, il rispetto e la protezione di coloro che da millenni vivono in armonia con la Terra. Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Pedro Pozas Terrados