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Staccare la spina alla guerra
I MILITARI HANNO BISOGNO DI MOLTA ENERGIA, NON SOLO PER COSTRUIRE ARMI. PER FERMARE LA GUERRA DOVREMMO PROVARE A STACCARGLI LA SPINA. COME? METTENDO IN DISCUSSIONE NON SOLO QUALE ENERGIA PRODURRE, MA CHI LA PRODUCE E PER FARNE COSA Foto Una città in comune di Pisa -------------------------------------------------------------------------------- L’intreccio tra guerra ed energia è molto stretto. Per diversi motivi. I militari hanno bisogno di molta energia, non solo per costruire armi sempre più sofisticate ad alta potenzialità distruttiva e per trasportare velocemente mezzi e truppe, ma anche per le reti di controllo, sorveglianza e di puntamento a distanza (“armi autonome”, le chiamano) che abbisognano di colossali apparati satellitari, informatici e l’uso di enormi data base. Tutte attività fameliche di energia. Davvero interessante un passaggio della appassionante ricostruzione che fa Pietro Greco della corsa alla costruzione della bomba atomica tra Stati Uniti e Germania (Pietro Greco in L’Atomica e le responsabilità della scienza, edizioni L’Asino d’oro, 2025). Secondo il grande giornalista scientifico l’attenzione dei fisici nucleari nazisti era più orientata a capire come controllare la reazione atomica per produrre energia finale utile, piuttosto che a farne una bomba. Sappiamo da alcune stime (peraltro tutt’altro che realistiche) che le attività militari assieme alla filiera dell’industria bellica, “in tempo di pace”, consumano il 10% dell’energia mondiale e, secondo altre stime, emettono tra il 5 e il 6% delle emissioni globali di gas climalteranti. Se fossero uno stato si situerebbero al quarto posto, dopo US, Cina e India. (Federica Frazzetta e Paola Imperatore, Clima di guerra, in Sbilanciamoci! 2025). Da notare che i dati sono segretati. Non vi è obbligo di comunicazione da parte delle forze armate, ma solo con l’Accordo di Parigi del 2015 gli stati sono invitati a fornire una rendicontazione volontaria. Ma è davvero possibile scorporare i dati sul consumo di energia tra i settori militari e civili? Per il nucleare l’intreccio è – per definizione – inestricabile. Sia per come funziona la filiera produttiva, sia per i requisiti di gestione. Una centrale nucleare è di fatto un sito militare. Ma l’ignobile e perverso “dual use” è oramai una realtà in tutti i settori tecnologici e della ricerca scientifica. Sappiamo che le industrie belliche e le attività militari sul campo hanno bisogno dei servigi delle grandi aziende tecnologiche globali (tra cui IBM, Microsoft, Google, Amazon, Palantir e Hewlett Packard). Sappiamo da quello che sta accadendo a Gaza (vedi i rapporti di Francesca Albanese) come la guerra sia il campo di sperimentazione delle innovazioni tecnologiche in ogni settore. Non è del resto una novità nella storia dell’umanità. I militari hanno bisogno di usare i ritrovati della scienza, così come la scienza e la tecnica hanno bisogno delle commesse militari per potersi sperimentare e sviluppare. Una questione questa di enorme importanza su cui gli scienziati, i centri di ricerca, le università dovrebbero riflettere, a proposito della neutralità della scienza e di altri miti bugiardi che allontano l’agire etico e delle responsabilità individuali (vedi l’Appello degli scienziati contro il riarmo, firmato da Carlo Rovelli e non molti altri). Le grandi innovazioni nella chimica (esplosivi che diventano fertilizzanti e viceversa), nell’ingegneria (aviazione), nelle telecomunicazioni, nella biologia, della geoingegneria, nella stessa informatica sono quasi sempre il frutto della volontà di conquista degli stati esercitata attraverso gli eserciti. La questione non è tanto o quanto si spende per le armi (come se il 2,1% sia più sostenibile del 5% del Pil), ma tutto ciò che permette agli industriali di costruire e ai militari di usare le armi. Quando si dice siamo in una “economia di guerra” non si dice solo che la spesa per gli eserciti è eccessiva, ma che il sistema sociopolitico ruota attorno alla guerra, dipende dai rapporti di forza armati (deterrenza) e dalla capacità di usarli in qualsiasi omento e in qualsiasi luogo (“prontezza”, la chiama Ursula von der Leyen). Letta e Draghi nei loro rapporti/suggerimenti alla UE affermano che la competizione economica (a partire dalla superiorità tecnologica) la si vince o la si perde nella misura in cui gli appartati industriali militari saranno superiori a quelli dei competitori. Mi pare che Israele lo stia dimostrando alla grande con l’IDF. La spirale tra militarizzazione del pianeta, accaparramento delle materie prime e controllo delle rotte commerciali moltiplica i conflitti armati (mai così tanti dalla fine della Seconda guerra mondiale, 57) e aumenta spaventosamente i fabbisogni energetici. Possiamo fermare la guerra? Come fare, allora, a fermare la guerra? Potremmo provare a staccargli la spina. Non è uno scherzo. Attenzione, anche loro sanno di avere qualche problema di sostenibilità nell’uso dell’energia. Sembra che gli Stati maggiori del generale Crosetto stiano lavorando a una “Strategia Energetica della Difesa”, il cui obiettivo è: “raggiungere più elevati livelli di efficienza e indipendenza energetica, al fine di perseguire concreti obiettivi di […] tutela ambientale […] e di sviluppare una nuova mentalità energy oriented nell’ambito dei settori della logistica, delle operazioni e delle infrastrutture della Difesa”. Ci sono anche progetti per “Caserme Verdi a basso impatto ambientale”, “Basi (navali) Blu” e “Aeroporti Azzurri”. L’ex ministro alla fu Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ora ad della Leonardo saprà certamente inventarsi un carro armato con vernice green biologica, perfettamente riciclabile e dotato di motori elettrici. C’è un magistrale discorso di papa Bergoglio, che andrebbe sempre ricordato: “Gli aerei inquinano l’atmosfera ma con una piccola parte dei soldi del biglietto piantano alberi per compensare parte del danno arrecato. Le società del gioco d’azzardo finanziano compagnie per i giocatori patologici che creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!” (Vaticano 4 febbraio 2017). La Leonardo ci ha provato a donare 1,5 milioni di euro all’ospedale di Roma Bambin Gesù, ma non li hanno voluti. Se nell’economia di guerra tutto ruota inestricabilmente attorno all’apparato militare industriale e se l’intero sistema industriale dipende dal controllo dell’energia, allora rivendicare un controllo democratico sull’uso delle fonti energetiche può essere una giusta e buona strategia per i movimenti pacifisti ed ecologisti (ecopacifisti). In fondo l’energia è una sola, è il flusso che alimenta ogni processo naturale. È il primo bene comune. È la forza preesistente della vita, sia quella miracolosamente sprigionata direttamente dal sole, sia quella racchiusa nei giacimenti fossili, sia quella meravigliosamente rigenerata in continuazione dal processo biochimico della fotosintesi clorofilliana, sia quella rara e misteriosa contenuta nell’atomo di uranio. Ha un valore primario in sé, il cui uso dovrebbe essere regolato da un semplice principio: i benefici che se ne possono trarre, senza danneggiare il bene, devono essere messi a disposizione, condivisi e goduti da tutti gli esseri viventi. Non solo gli esseri umani. Poiché il flusso dell’energia è il principale regolatore e indicatore (il “medium”) del metabolismo uomo/natura, nella storia dell’umanità intervengono delle regolazioni sociali che trasformano un dono gratuito della natura in uno di più potenti strumenti di controllo e di dominio politico. Accade così che nei regimi del capitale (nell’“ecologia del capitale”) le fonti di energia primaria vengano privatizzate attraverso la costruzione di apparati tecnologici e regimi giuridici proprietari di cattura, estrazione, trasformazione, distribuzione, erogazione, consumo. Si formano così enormi asimmetrie di potere nel disporre del bene comune, concentrazioni ed esclusioni, sprechi vergognosi e disuguaglianze intollerabili (povertà energetica, magari tra quelle popolazioni dal cui suolo si estraggono idrocarburi; 800 mln di africani non hanno accesso all’elettricità). Queste strutture e questi apparati sono pensati allo scopo di realizzare profitti e accumulare capitali, trasformano l’energia (un dono gratuito) in una merce e oscurano l’origine naturale dell’energia. Mettere in discussione l’intero sistema energetico Per avere la pace, per pacificare il mondo dovremmo quindi mettere in discussione il sistema energetico nel suo complesso. Non solo il tipo di tecnologie usate per trasformare l’energia primaria in energia utilizzabile, non solo gli impatti ambientali sulle diverse matrici naturali lungo tutta la filiera, non solo l’equa ridistribuzione delle utilità, ma anche quali sono i fabbisogni autentici e davvero necessari al benessere umano (e non solo) che devono essere garantiti. Insomma, dovremmo riuscire a mettere in discussione non solo quale energia produrre, ma chi la produce e per farne cosa. La questione fondamentale è il tipo di controllo sociale delle fonti e dei sistemi di distribuzione dell’energia. Non siamo – mi pongo all’interno dei movimenti che sognano una società della decrescita – mossi da furore ideologico anticapitalistico o da nichilismo tecnologico. A me piace il solare perché è una fonte ben distribuita e si può usare senza appropriarsene. Amo le Comunità energetiche rinnovabili perché penso che siano una forma di autogestione consapevole e replicabile. Ma so anche quanto facile sia la loro sussunzione nel mercato tramite i collegamenti alla rete e la bancarizzazione dei ricavi. Mi rivolgo quindi a quanti in ottima buona fede sostengono la “transizione energetica”, le energie pulite, la neutralità climatica, l’elettrificazione, le green tech… per metterli in guardia sul fatto che questi sacrosanti obiettivi rimarranno una chimera (come lo è tutto il Green Deal europeo) se a controllare produzione e distribuzione continueranno ad essere le forze di mercato, i gruppi industriali interessati a ricavare più profitti a prezzi vantaggiosi. Mi auguro e spero che non un raggio di sole, non un soffio di vento, non una goccia d’acqua possa mai finire in mani armate. -------------------------------------------------------------------------------- Testo preparato per l’incontro La transizione ecologica va in guerra: il ritorno del falso mito del nucleare, promosso da Confluenza (progetto nato per connettere le lotte territoriali nel Piemonte) all’interno del Festival dell’Alta Felicità, a Venaus. -------------------------------------------------------------------------------- Nell’archivio di Comune, sono leggibili oltre 250 articoli di Paolo Cacciari. Tra gli ultimi suoi libri Re Mida. La mercificazione del pianeta. Lavoro e natura, economia ed ecologia (ed. La Vela). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > La guerra organizza l’accumulazione del capitale -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Staccare la spina alla guerra proviene da Comune-info.
Cammino del sol
LA RIBOLLENTE SOCIETÀ CIVILE SARDA, COI SUOI COMITATI, CON LE SUE MANIFESTAZIONI, ANCHE CON LE SUE DIVISIONI, HA IL MERITO DI AVERE APERTO UN DIBATTITO ALTROVE ANCORA ASSENTE, MA NECESSARIO, PERCHÉ CIÒ CHE I COMITATI CHIAMANO “SPECULAZIONE ENERGETICA” E GLI ALTRI SEMPLICEMENTE “TRANSIZIONE ENERGETICA” È IN CORSO IN TUTTA ITALIA. ALCUNI APPUNTI LORENZO GUADAGNUCCI DAL “CAMMINO DEL SOLE E DEL VENTO” CON REPUBBLICA NOMADE “Paesaggio – mondo interiore, binomio indissolubile”: il messaggio, inciso nel muro, accompagna il disegno di bassorilievo che Lello Porru, autore di singolarissime opere su pareti, ha realizzato accanto al cancello che porta alla sede di Su entu nostu, il comitato di Sanluri che da oltre un decennio si batte per la tutela del territorio. È un messaggio – un motto – da tenere bene a mente quando si parla della Sardegna e delle lotte popolari in corso in difesa del paesaggio e dell’integrità ambientale. C’è qualcosa di specificatamente sardo in questa lotta ecologista, nella sua profondità; è qualcosa che riguarda la particolare storia e gli speciali valori ambientali dell’isola, l’una e gli altri così diversi rispetto al resto d’Italia. L’opera di Porru potrebbe illustrare il “Cammino del sole e del vento” di Repubblica nomade, l’associazione fondata da Antonio Moresco per compiere viaggi a piedi “politico-poetici”, viaggi di conoscenza, di sostegno, di intervento. Quest’anno il Cammino in Sardegna – dal polo industriale di Portoscuso al sito archeologico di Tharros, attraverso il Sulcis-Iglesiente e il Campidano, lambendo Oristano – è stato un’esplorazione di un uno stato d’animo, oltre che di un controverso caso politico e sociale, ossia l’insediamento nell’isola di importanti progetti industriali per le energie rinnovabili, nell’ambito della cosiddetta transizione energetica nazionale, con il progressivo – ma in verità incerto – superamento delle fonti fossili. Sono progetti che stanno suscitando forti proteste nella popolazione, accese controversie fra gli enti locali sardi e lo stato nazionale, numerose azioni giudiziarie, e anche importanti divisioni fra gli attivisti ambientalisti ed ecologisti e nell’opinione pubblica locale e nazionale. La vicenda è nota, ma forse non troppo compresa. Si tratta, detto a grandi linee, degli obiettivi fissati dal decreto Draghi sulle energie rinnovabili (2021) e dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima: la Sardegna dovrebbe arrivare a produrre entro il 2030 circa 6,2 GW di energia dal vento e dal sole, in parte per il proprio fabbisogno, in parte da convogliare nella rete elettrica nazionale. Il decreto Draghi – entrato in vigore senza i previsti decreti attuativi, quelli che avrebbero dovuto fissare, fra le altre cose, precise norme di tutela del territorio – ha spinto l’industria delle rinnovabili a concentrare l’attenzione sull’isola, che è grande, poco popolata, molto soleggiata e molto battuta dal vento. Sono arrivati – dati del marzo 2025 – ben 729 progetti, per una produzione potenziale di 54,5 GW (36% dal sole, 34% da impianti eolici offshore, 30% da impianti eolici a terra), circa 25 volte la produzione attuale sarda di energia rinnovabile (2,2 GW), circa nove volte l’obiettivo indicato dal Piano energetico nazionale. A fronte di questa messe di progetti, mentre nascevano sul territorio malumori, discussioni e movimenti contro quella che è stata chiamata (dai comitati popolari) “speculazione energetica”, la Regione Sardegna, all’indomani dell’insediamento della nuova giunta di centrosinistra guidata da Alessandra Todde, ha prima approvato – luglio 2024 – una legge di moratoria di 18 mesi (poi giudicata illegittima dalla Corte costituzionale) al fine di bloccare i progetti in attesa di un piano regionale complessivo per le rinnovabili, poi una legge sulle aree idonee e non idonee (la numero 20 del dicembre 2024) che ha vincolato per ragioni ambientali, culturali, paesaggistiche circa il 98% del territorio. La legge 20 è stata impugnata dal governo, secondo il quale contiene vincoli troppo stringenti e comunque esorbita dalle competenze regionali: ne è nato un contenzioso che sarà sciolto dalla Corte costituzionale, chiamata a giudicare il caso nel prossimo autunno. Nel frattempo, il Tar del Lazio (maggio 2025) ha bocciato, in alcune sue parti, anche il decreto sulle aree idonee (a livello nazionale) del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che dovrà quindi essere riscritto. È un quadro a dir poco complesso, se non caotico, che ha creato un clima di generale incertezza, ma non ha bloccato i progetti, il cui esame prosegue negli uffici del ministero dell’Ambiente e impegna enti locali e comitati popolari in affannose corse contro il tempo per presentare osservazioni e ricorsi. A complicare ulteriormente il quadro ci sono i progetti per la costruzione di una dorsale del gas, con relativa rete di distribuzione, in una regione che non ha mai avuto una metanizzazione a tappeto, come avvenuto invece nel resto d’Italia. In questo contesto, dunque, abbiamo deciso con Repubblica nomade di “camminare domandando”, fedeli a un desiderio di ricerca e anche di “protezione del futuro” che ha animato l’associazione lungo tutta la sua storia, e specialmente negli ultimi anni, quando l’attenzione si è concentrata sui pericoli che corriamo come persone, come comunità e anche come specie in un mondo travolto da una crisi climatica senza precedenti. È difficile dare conto di tutti gli incontri fatti durante un Cammino durato due settimane, delle cose viste e ascoltate, delle esperienze compiute, ma è possibile, dal mio punto di vista di singolo camminatore, senza pretesa di parlare per altri, riportare i principali appunti che ho preso, le cose che mi pare di avere compreso, o almeno di avere messo a fuoco: sono scoperte, persuasioni, ma anche dubbi e frustrazioni, da prendere per quello che sono: appunti. Chi programma? Addentrarsi nei meandri delle leggi nazionali e regionali, dei regolamenti, dei decreti, delle sentenze di Tar e Corte costituzionale, è un’esperienza straniante, ma fa capire una prima cosa, e cioè che la “transizione energetica” e il conseguente impianto di siti industriali per le energie rinnovabili sta avvenendo – non solo in Sardegna – senza una reale programmazione. C’è un obiettivo da raggiungere entro il 2030 – nel caso sardo i 6,2 GW di produzione energetica da fonti rinnovabili – manca tutto il resto: un’analisi del contesto sociale e territoriale in cui intervenire, un confronto preventivo con le popolazioni e gli enti locali, un progetto di transizione energetica collegato a una trasformazione ecologica dell’economia, alla luce della crisi climatica globale (questo piano sembra del tutto assente). I veri protagonisti di questa delicata e importante partita sembrano così gli industriali delle rinnovabili, pronti a realizzare investimenti per molte decine di milioni e a incassare profitti conseguenti e sicuri (legati anche agli inventivi pubblici), mentre a tutti gli altri toccano ruoli di contorno. E forse è anche per questo che c’è tanta agitazione. I timori dei comitati La prima cosa che ti dicono gli attivisti dei vari comitati (quelli di Sant’Antioco, Carloforte, Nuraxi Figus, Iglesias, Fluminimaggiore, Sanluri) è che sono favorevoli agli impianti eolici e solari e alla “decarbonizzazione” dell’isola: è una risposta preventiva rispetto all’etichetta che si sono trovati addosso, cioè d’essere pregiudizialmente contrari alle pale e ai pannelli, di essere quelli del no, d’essere affetti dalla sindrome Nimby (non nel mio giardino). Niente di nuovo: tutti i comitati “contro le grandi opere inutili”, come a un certo punto hanno cominciato a definirsi, sono passati attraverso quest’operazione di discredito, si pensi al movimento No Tav in Val di Susa; il tempo in verità è stato galantuomo, e oggi sarebbe grottesco attribuire a movimenti che hanno dimostrato di avere competenze, visioni e proposte d’ordine generale di battersi solo per proteggere il proprio giardino. Fatta questa premessa, i comitati sardi sostengono di battersi per la tutela del proprio territorio da un vasto progetto di “speculazione energetica”, cioè un assalto alle risorse dell’isola da parte di società e multinazionali esterne che ancora una volta sfrutterebbero i sardi e la Sardegna a fini di profitto, lasciando sul posto ferite indelebili e poche briciole come “compensazione”. La critica ai progetti è serrata e dettagliata, frutto di studi e competenze acquisite sul campo e apportate da professionisti esperti. I punti d’attacco sono numerosi. C’è il tema del consumo di suolo, trascurato, a dire dei comitati, quando si pensa agli impianti eolici, che non sono innocui “parchi ecologici” ma siti industriali a tutti gli effetti, per gli enormi plinti che devono essere interrati per sorreggere torri alte oltre 200 metri, per le strade di servizio che devono essere costruite, per il complicato smaltimento a fine ciclo degli impianti (circa 25 anni). C’è consumo di suolo, ancora, con gli impianti fotovoltaici, e c’è un impatto tutto da valutare sugli ecosistemi marini per gli imponenti impianti offshore progettati: quello di fronte all’isola di San Pietro, a oltre 12 miglia dalla costa, prevede per esempio oltre quaranta grandi turbine galleggianti ancorate al fondale, su un’estensione di mare lunga trenta chilometri, larga dieci. C’è poi la questione del paesaggio che muta, e muta per sempre, in una regione che ha mantenuto in larga misura la sua integrità ambientale: e qui vale il discorso fatto all’inizio, sulla relazione particolarmente stretta fra il profilo del paesaggio e il mondo interiore dei sardi. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > L’assalto dell’eolico in Sardegna -------------------------------------------------------------------------------- I comitati dicono che siamo di fronte a una speculazione che rischia di mancare perfino l’obiettivo della decarbonizzazione, perché il rinnovabile si sommerà al fossile senza nemmeno sostituirlo; un’operazione che non dice nulla sul futuro dell’isola e della sua economia, sul nuovo “modello di sviluppo” da immaginare al tempo della crisi ecologica. Dove sono, dicono, i progetti per una nuova agricoltura adatta al clima che cambia? I progetti per un’economia ecologica, per la difesa del territorio e delle popolazioni dagli eventi estremi, per la riduzione controllata dei consumi energetici? Marco Pau del comitato “Su entu nostu” ha dato un’immagine di come sarebbe la Sardegna se la “speculazione energetica” si realizzasse davvero: “Dovremmo immaginare l’isola come un puntaspilli, quindi una piattaforma con tanti spilli conficcati, ma anche tanti laghi neri, e il tutto circondato in mare da una corona di altri spilli”. Gli spilli, naturalmente, sono le torri dell’eolico, i laghi neri gli impianti fotovoltaici. Un’immagine, quella di Pau, che inquieta. Ma qual è la proposta alternativa dei comitati, visto che nessuno pensa di poter proseguire a produrre energia con le centrali a carbone e gli oli combustibili? L’alternativa, spiegano, è nei pannelli solari, che dovrebbero essere installati sulle superfici già coperte, quindi senza nuovo consumo di suolo (i tetti di case, capannoni, stazioni, supermercati, parcheggi, edifici pubblici e così via): i comitati citano studi condotti dall’Enea e dall’Ispra, secondo i quali a livello nazionale si potrebbe arrivare in questo modo a produrre da 78 a 92 GW di potenza fotovoltaica. Fatto questo, aggiungono, si tratterebbe di valutare – in Sardegna come nel resto d’Italia – quanto manca a coprire il fabbisogno e agire di conseguenza, con impianti eolici e fotovoltaici di dimensioni a quel punto ridotte e da collocare in “aree idonee” concordate con le popolazioni e gli enti locali. È senz’altro la proposta più ecologica e più prudente che si possa fare, ma non viene presa in considerazione, né in Sardegna né altrove, per le ragioni che dicevamo prima: non c’è programmazione, l’iniziativa è rimessa alle industrie e i poteri pubblici hanno già deciso di svolgere un ruolo di mero supporto politico e normativo; e l’industria ovviamente preferisce progetti a campo aperto, piuttosto che interventi mirati su tetti e aree urbane. Ma l’interesse pubblico e i beni comuni, in questo modo, che fine fanno? Ambientalismi Il dibattito sulle rinnovabili in Sardegna, ma anche altrove, è complicato e alle volte impedito dalla frattura che si è consumata nel mondo ambientalista ed ecologista, da intendere nel senso più lato, includendo quindi comitati e gruppi informali. Una frattura, come spesso accade, vissuta con disagio e malanimo, mentre andrebbe forse accettata per quello che è, e affrontata nel dialogo, sapendo che un’evoluzione delle posizioni è sempre possibile, anzi probabile, di fronte all’incalzare e al mutare dei fatti. Le maggiori associazioni ambientaliste – in Sardegna le più attive sono Legambiente e Greenpeace – non appoggiamo i comitati locali, sostenendo che le loro preoccupazioni per il consumo di suolo e per il mutamento del paesaggio sono eccessive, e comunque non giustificate di fronte all’urgenza di far avanzare il più rapidamente possibile la transizione energetica, vista la drammatica crisi climatica in corso. Non tutti i 729 progetti ricevuti da Terna, fanno poi notare, andranno in porto, visto che dovranno superare delle analisi sugli impatti ambientali, e dunque è sbagliato parlare di assalto alla Sardegna o di speculazione energetica. Queste associazioni chiedono alla Regione di non frenare lo sviluppo dei progetti e anzi di accelerare i tempi della transizione, che potrebbe portare la Sardegna a essere la prima regione 100% rinnovabile, cioè del tutto decarbonizzata. A questo ambientalismo pragmatico, orientato dalla soluzione tecnica, potremmo anche definirlo riformista, un ambientalismo che preme sull’acceleratore della decarbonizzazione e considera accettabili i prezzi ambientali da pagare (dopo averli ovviamente minimizzati attraverso le previste leggi di tutela), si contrappone un ecologismo più politico, più vicino alla “conversione ecologica” di Alex Langer e alla “ecologia integrale” dell’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco. È la posizione di chi vuole lottare per un cambiamento più profondo dell’economia, quindi delle produzioni e dei consumi, nella consapevolezza che una “semplice” transizione energetica, con la sostituzione progressiva delle fonti fossili con quelle rinnovabili, se anche avvenisse, non risolverebbe i problemi dell’economia globale e del surriscaldamento climatico, visto che la corsa verso la crescita, verso l’estrazione di terre rare e altre risorse scarse non si fermerebbe, e richiederebbe un crescente, inarrestabile aumento della produzione di energia, più o meno rinnovabile, in un ciclo senza fine. La lotta, secondo questo filone di impegno, deve dunque svelare il bluff in atto, la “transizione energetica” che non è “conversione ecologica”, e proteggere il territorio da interventi che ne muterebbero per sempre l’aspetto e le vocazioni senza nemmeno avviare un reale cambiamento del “sistema”. Ci sono quindi due modi quasi paralleli d’intendere l’impegno ecologista, e questo pone un dilemma per gli attivisti del nostro tempo: per quale causa vale la pena impegnarsi? La decarbonizzazione La Sardegna ha un indubitabile fardello: due centrali a carbone ancora attive (Portoscuso e Porto Torres), per le quali viene continuamente posticipata la data di dismissione. L’urgenza di procedere con l’insediamento di nuovi impianti di energia rinnovabile è quindi reale, anche se resta il dubbio se vi sarà davvero un automatico spegnimento delle centrali a carbone una volta che sarà aumentata la produzione di energia rinnovabile. Il fatto è che la generale crescita del fabbisogno di energia non sembra destinata a fermarsi e nemmeno a rallentare – tutt’altro, se pensiamo ai programmi di sviluppo dell’intelligenza artificiale, comparto altamente energivoro, così come l’industria bellica, anch’essa destinata a prosperare secondo i nuovi programmi europei – e quindi il dubbio è legittimo: prima di fermare le centrali a carbone (e di chiudere i rubinetti del fossile nel resto d’Italia) riducendo di fatto la produzione energetica complessiva, ci sarà sempre la tentazione della proroga, visto che la “vocazione ecologica” del sistema industriale sembra piuttosto debole, se non inesistente. Dà da pensare, in Sardegna, la persistenza di un grande progetto infrastrutturale per il gas, tutt’altro che abbandonato e anzi sostenuto da potenti e ben visibili interessi. La stessa Legge Montebello di iniziativa popolare, sottoscritta da oltre duecentomila cittadini, e proposta come strumento per fermare la speculazione sulle rinnovabili, è stata vista da molti – provocando anche una frattura fra i comitati – come un cavallo di Troia del progetto-metano, anche perché fra i promotori figuravano noti esponenti della destra sarda, sostenitori storici di questa nuova infrastruttura. Tirando il ballo il gas, ovviamente, non si parla più di decarbonizzazione. La stessa presidente Todde in alcune interviste ha “aperto” all’opzione metano, sia pure come fonte “transitoria”, da sfruttare in attesa di un passaggio completo alle rinnovabili, ma al prezzo, ovviamente, di ospitare navi rigassificatrici vicino alle coste e di costruire reti di trasporto del gas, sia pure meno estese di quelle previste dal progetto della dorsale di distribuzione in tutta l’isola. I due ambientalismi di cui dicevamo, su questo punto concordano: sarebbe assurdo portare il gas in Sardegna, mentre dovrà essere dismesso in tutta Italia secondo i piani, o almeno le dichiarazioni, di futura decarbonizzazione. Per il momento sembra che le fonti di produzione energetica siano destinate a sommarsi: carbone, più rinnovabili, più gas, e non solo in Sardegna, bensì in tutta Italia, anche perché nelle intenzioni e nelle previsioni non c’è una riduzione, bensì un incremento dei consumi energetici, e semmai l’esigenza di garantirsi approvvigionamenti politicamente sicuri, cioè forniture di gas e petrolio da paesi “amici”. Sono i progetti del governo, dell’Eni, un po’ di tutti i poteri che contano. La storia La nozione di “speculazione energetica” ha una forte efficacia comunicativa, in quanto evoca un sistema industriale proiettato alla massimizzazione del profitto, approccio peraltro rivendicato, nonché legittimato socialmente e politicamente. In Sardegna, poi, la sua forza è moltiplicata da una consapevolezza storica: la lunga, ininterrotta azione di “estrattivismo” che l’isola ha subito. Camminando, si ha il tempo e il modo di osservare tutti i segni lasciati nel territorio dalle più recenti ma anche dalle più antiche “estrazioni”: è una storia che si incontra di continuo. A Portoscuso, per dire, il Comune ha messo nel suo simbolo, accanto all’antica tonnara (ora minacciata da un impianto eolico offshore) e una torre altrettanto antica, anche una fabbrica con due ciminiere sbuffanti fumo. Una simbologia insolita, ma che restituisce bene la sorte toccata a certi luoghi dell’isola: scelti, in qualche modo sacrificati, per insediarvi dall’alto industrie pesanti, a forte impatto ambientale e con rischi sanitari per le popolazioni a dir poco sottovalutati. A Portoscuso, un piccolo centro affacciato sul mare davanti all’isola di San Pietro, il decollo industriale coincise con la progressiva dismissione delle miniere: si pensò, in questo modo, di compensare la perdita di posti di lavoro. Nacquero grandi industrie per la lavorazione dei metalli, con la produzione di laminati in alluminio, di zinco e piombo e altro ancora; poco distante dalla centrale a carbone si impiantò anche una fabbrica per la lavorazione della bauxite, con la materia prima importata nientemeno che dall’Australia (è la fabbrica che ha lasciato una discarica di fanghi rossi inquinanti di venti ettari). Il sindaco di Portoscuso, Ignazio Atzori, che ha un passato da medico condotto e ufficiale sanitario della cittadina, parlando con Repubblica nomade ha ricordato la “scoperta”, ormai quarant’anni fa, dei danni alla salute degli abitanti causati dal piombo: si arrivò a proibire il consumo di latte e ortaggi prodotti sul posto. A Portoscuso, in aree industriali dimesse e ormai inutilizzabili in altro modo, sono state collocate – senza particolari conflitti – numerose pale eoliche, ma ora il Comune è solidale con i comitati che si battono contro l’eolico offshore, considerato una minaccia non solo per il paesaggio ma anche per gli ecosistemi marini e le stesse abitudini dei tonni, la cui pesca è un’attività del luogo ancora importante. E camminando verso Iglesias, passando poi per Masua e Arbus, si incontrano i resti delle vecchie miniere, tutte ormai dismesse, ruderi di una civiltà del lavoro – in realtà di una forma di sfruttamento ai limiti dello schiavismo – arrivata al tramonto già da alcuni decenni. Alcune parti delle miniere sono state “recuperate” e inserite, come luoghi di memoria, nel Cammino minerario di Santa Barbara, una proposta di turismo lento e dolce sulla quale gli abitanti del luogo, ma anche gli enti locali, hanno investito tempo e attenzione. Ma restano profondissime le ferite nel paesaggio. Pierluigi Carta, ex sindaco di Iglesias, ha accompagnato per un tratto Repubblica nomade e ha mostrato, nei pressi della grande miniera di Monteponi, alle porte di Iglesias – una città nella città -, la collina formata nei decenni con gli scarti dei materiali di miniera: una collina rossastra, ora terrazzata, che rilascia polveri di arsenico e altre sostanze a ogni folata di vento. Ebbene, ha raccontato Carta, al tempo del suo mandato da sindaco (2005-2010) fu compiuto uno studio di fattibilità e si capì che facendo lavorare 150 camion al giorno per 15 anni (!), portando i materiali a Portovesme dove uno stabilimento ad hoc avrebbe potuto trattarli e almeno abbattere le sostanze più pericolose, si sarebbe riusciti a smaltire appena la metà della montagna di detriti (e altri detriti, naturalmente, sarebbero rimasti a Portovesme dopo il trattamento, riproponendo il problema dello smaltimento). Ci sono poi in Sardegna – mai dimenticarlo – vaste porzioni di territorio sotto servitù militare, utilizzate per esercitazioni belliche e come poligoni di tiro, con importanti conseguenze anche sulla salute pubblica. Insomma, ci sono ferite che non sono sanabili, e infatti nel paesaggio sardo si è sedimentata la travagliata storia dell’isola. Repubblica nomade lungo il suo percorso, nel caldissimo Medio Campidano, ha lambito Villacidro, cittadina natale di Giuseppe Dessì, autore di un romanzo memorabile, Paese d’ombre, premio Strega nel 1972. È il racconto, a cavallo fra Otto e Novecento, attraverso la vicenda del protagonista Angelo Uras, dello sfruttamento di quest’area sud-occidentale della Sardegna, che al tempo dei Savoia fu letteralmente disboscata per alimentare le fonderie e per il commercio del legname. Paese d’ombre è un grande romanzo storico, che ricorda, fra le altre cose, il famoso sciopero dei minatori di Buggerru nel 1904, sedato nel sangue dai carabinieri, e all’origine del primo sciopero generale nazionale della storia d’Italia (11 settembre 1904). Oggi Buggerru è un centro semi spopolato – circa mille abitanti – che cerca di sostenersi con il turismo lento dei cammini e con il turismo del vento (è un piccolo paradiso per surfisti, grazie al maestrale), ma il ricordo della spoliazione non è cancellato e anzi fa parte, come una spina ancora dolorosa, del rapporto speciale che lega la popolazione sarda al “suo” paesaggio. Le comunità energetiche Se la via prescelta per la “transizione energetica” è quella dei grandi progetti, calati per lo più dall’alto, e con il volante dell’ideale vettura del cambiamento “green” saldamente in mano alle tecnocrazie pubblico-private, il modello delle Comunità energetiche (Cer) dovrebbe rappresentarne l’alternativa speculare: costruite dal basso, modellate sulle esigenze locali, con la partecipazione diretta dei cittadini, delle imprese del posto e delle amministrazioni pubbliche. In un mondo ideale, le Cer sarebbero le protagoniste della “conversione ecologica”, che partirebbe dal basso, dai bisogni locali, e poi si allargherebbe alla solidarietà fra territori, in una logica di riduzione controllata dei consumi globali e di minimo impatto ambientale e paesaggistico, in un contesto generale di trasformazione dell’economia. Ma non è questo lo scenario presente, tutt’altro. I Comuni di Villanovaforru e Ussaramanna – meno di 1.500 abitanti in tutto – sono stati i pionieri delle comunità energetiche sarde, e i due sindaci – Maurizio Onnis e Marco Sideri – raccontano volentieri, sotto un porticato in collina, l’esperienza compiuta, ma sgombrano anche il campo da ogni illusione: le comunità energetiche non sono una reale alternativa, perché non ci sono risorse adeguate per avviarle su larga scala, perché le procedure sono complicate e l’unica loro reale funzione è di fare da “foglie di fico” della politica e delle sue pochezze: “Quello che noi produciamo si aggiunge all’energia prodotta col fossile, non viene chiuso nulla, e i consumi intanto aumentano”. Sia Onnis che Sideri non rinnegano l’esperienza fatta, ma dicono che è servita soprattutto a stimolare la partecipazione dei cittadini, che sono stati coinvolti, su iniziativa dei Comuni, nella realizzazione del progetto e poi nella gestione della Cer. I Comuni non hanno fondi, dice Onnis, creare una Cer è faticoso e poco vantaggioso. Le Comunità energetiche di Villanovaforru e Ussaramanna sono state create installando pannelli fotovoltaici su edifici pubblici, con la consulenza della cooperativa èNostra, ma è mancato in entrambi i casi un impegno diretto delle imprese locali, che in teoria potrebbero essere promotrici, a loro volta, di comunità energetiche per i il proprio fabbisogno. È quel che accade, del resto, anche nel resto d’Italia. Le Cer, insomma, sono citate nelle leggi e nei decreti, ma sono destinate a restare ai margini della scena, dei piccoli puntini, quasi invisibili, in mezzo alle torri e ai pannelli dell’industria delle rinnovabili. In Sardegna qualcosa potrebbe cambiare, aggiunge tuttavia Onnis, se venisse confermata, dopo il vaglio della Consulta, quella parte della legge regionale sulle aree idonee che stanzia 685 milioni di euro per le comunità energetiche; con quei soldi potrebbero nascere molte nuove Cer, ma il quadro normativo d’insieme è troppo incerto per immaginare in che modo potrebbero interagire con i progetti industriali. Prime conclusioni La ribollente società civile sarda, coi suoi comitati, con le sue manifestazioni, anche con le sue divisioni, ha il merito di avere aperto un dibattito altrove ancora assente, ma necessario, perché ciò che i comitati chiamano “speculazione energetica” e gli altri semplicemente “transizione energetica” è in corso in tutta Italia, seppure con volumi di investimenti diversi e distribuiti in modo non omogeneo: più ingenti ed estesi al Sud e in Sardegna, meno vistosi in altre parti del paese (ma le recenti vicende del Mugello in Toscana, con il sabotaggio da parte di attivisti mascherati di macchinari di un’impresa impegnata nell’installazione di pale eoliche sul crinale appenninico, fanno capire che le linee di tensione non riguardano solo il Mezzogiorno). La strada scelta dall’Italia, in linea con le direttive europee, è la via di una transizione energetica guidata dall’alto, con una forte spinta alla semplificazione delle procedure, in modo che l’industria delle rinnovabili possa centrare gli obiettivi indicati per il 2030. Il compito affidato a governi ed enti locali è la definizione di un quadro normativo complessivo, anche sul piano della tutela ambientale, ed è qui che si gioca il braccio di ferro fra governo nazionale e Regioni, nella precisazione delle rispettive competenze, rimessa a questo punto alla Consulta e ai tribunali. È particolarmente delicato il caso della Regione Sardegna, una delle cinque a statuto speciale, e quindi più gelosa, e più teoricamente garantita, delle proprie prerogative; in aggiunta, la giunta sarda ha già mostrato d’essere propensa a dettare regole più stringenti di quelle volute dal governo nazionale, per quanto Todde non abbia voluto mettersi alla testa dei movimenti contro la “speculazione energetica”, come i comitati avevano forse sperato. Leggi e sentenze pregresse, al momento, fanno pensare che alla fine la spunterà il governo e che quindi i progetti industriali sulle rinnovabili avanzeranno in Sardegna senza eccessivi vincoli, in modi che saranno valutati caso per caso. Ma niente è sicuro: la Consulta potrebbe dare ragione alla Regione Sardegna, e quest’ultima, anche se battuta in giudizio, potrebbe intraprendere azioni politiche al momento nemmeno immaginabili. E poi, naturalmente, c’è la variabile comitati: in che modo, con quali obiettivi, con quale forza e capacità di mobilitazione vorranno agire, qualunque sia il quadro normativo futuro? Nessuno può dirlo oggi, ma la Sardegna ribolle, e almeno un messaggio già lo manda a tutti gli italiani: sulla produzione di energia si sta giocando una partita decisiva per il futuro economico e sociale del paese, ma non ne stiamo davvero discutendo, non nel modo e con la profondità e il respiro democratico e partecipativo che sarebbero necessari. Ci sarebbe ancora molto cammino da fare insieme, e non solo in Sardegna. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cammino del sol proviene da Comune-info.
Piano Mattei fra mito e realtà
APPENA INSEDIATA A PALAZZO CHIGI, GIORGIA MELONI HA ANNUNCIATO UN PIANO MATTEI NEI CONFRONTI DELL’AFRICA. OGGI LA QUESTIONE ENERGETICA È SEMPRE DI PIÙ AL CENTRO DI QUEL PIANO, NELLA CUI “CABINA DI REGIA”, ISTITUITA PRESSO LA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO, CI SONO, TRA GLI ALTRI, ACEA, SNAM, FINCANTIERI, ENI, LEONARDO, FS, ENEL, TERNA… TRA GLI OBIETTIVI DEL GOVERNO E DEI SUOI AMICI CI SONO IN PARTICOLARE LA COSTRUZIONE TRA SICILIA E TUNISIA DI UN ELETTRODOTTO E DI UNA CONDUTTURA PER FAR ARRIVARE IDROGENO IN EUROPA. “I POPOLI DEL SUD DEL MONDO SONO STATI DEPREDATI DA SECOLI DI COLONIALISMO, GUERRE, SCAMBIO INEGUALE, LATROCINIO FINANZIARIO… – SCRIVE FRANCESCO GESUALDI – SOLO LA SOLIDARIETÀ GRATUITA, SENZA ASPETTARSI NIENTE INDIETRO, PUÒ PORTARE SVILUPPO UMANO. NON È CARITÀ, MA GIUSTIZIA…” Costa tunisina. Foto di unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Poco dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni annunciò di voler lanciare un piano Mattei nei confronti dell’Africa. Inizialmente la proposta appariva piuttosto nebulosa perché se da una parte evocava l’idea di cooperazione, quindi di interventi senza contropartita economica, dall’altra la chiamata in causa di Mattei enunciava la connotazione commerciale, ricordandoci che Enrico Mattei è passato alla storia per avere instaurato nuovi rapporti economici con i paesi del Nord Africa produttori di petrolio. Col passare del tempo i contorni si sono fatti più chiari e alcune cose si possono affermare con certezza. La prima è che di tutto il Sud del mondo, il continente che Meloni ritiene strategico per l’Italia è l’Africa. Lo puntualizzò nella Conferenza Italia-Africa che convocò a Roma il 24 gennaio 2024. Alla presenza di una quarantina di delegazioni africane affermò: «L’obiettivo che ci siamo dati è quello di dimostrare che siamo consapevoli di quanto il destino dei nostri due continenti, Europa e Africa, sia interconnesso». Un’interconnessione che Meloni vede sotto due profili: da una parte la grande quantità di risorse custodite dall’Africa che se sfruttate adeguatamente possono fare la ricchezza sia dell’Africa, sia dell’Italia; dall’altra la crescita della popolazione africana a cui va data una prospettiva economica per impedire l’emergere di migrazioni di massa. La seconda cosa che si può dire è che la presidente del Consiglio, vuole seguire direttamente tutta la partita riguardante i rapporti di cooperazione e sviluppo con l’Africa. Come ogni stato, anche l’Italia dispone di una politica di aiuto al Sud del mondo articolata in più direzioni. Da una parte partecipando a fondi gestiti da istituzioni internazionali come la Banca Mondiale; dall’altra finanziando in forma diretta progetti di cooperazione sociale e ambientale. Secondo il bilancio di previsione dello stato, nel 2025 questo doppio canale di intervento dovrebbe assorbire 4,5 miliardi di euro, lo 0,20% del pil italiano ben lontano dallo 0,70% raccomandato dalle Nazioni Unite. Con l’istituzione del piano Mattei, divenuto legge con un provvedimento del gennaio 2024, tutti gli interventi riguardanti l’Africa saranno coordinati da un organismo unico, denominato “Cabina di regia” istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Allo stato attuale è composto da una trentina di membri, sia pubblici, sia privati, al cui apice siede il Presidente del Consiglio. ‬‬‬‬‬ La terza cosa che si può dire è che il Piano Mattei intende agire fortemente anche tramite le imprese private, sia africane, che italiane. Non a caso una buona metà dei componenti della Cabina di regia sono rappresentanti d’impresa o di associazioni imprenditoriali, fra cui Acea, Snam, Fincantieri, Eni, Fondazione Med-Or, Leonardo, Fs, Enel, Terna, Cna, Cia, Confagricoltura, Coldiretti, Confartigianato. Del resto durante il discorso che tenne alla Conferenza Italia-Africa nel gennaio 2024, Giorgia Meloni precisò che il Piano non può «prescindere dal pieno coinvolgimento di tutto il “Sistema Italia” complessivamente inteso, a partire dalla Cooperazione allo Sviluppo e dal settore privato che è fondamentale coinvolgere nella nostra strategia, dato l’enorme patrimonio di conoscenza, tecnologia e soluzioni innovative che può vantare». Il risultato è che fra i primi progetti inseriti nel Piano Mattei c’è l’avvio in Algeria di un polo agricolo gestito dall’azienda italiana Bonifiche Ferraresi per la messa in produzione di 800 ettari di terreni semi aridi, estendibili a 36.000 nella parte sud-orientale del Sahara algerino. Oltre alla coltivazione di grano, cereali e semi per oli, è prevista la costruzione di impianti di molitura, spremitura e altri stabilimenti di trasformazione alimentare, precisando che il 30% della produzione sarà riservato all’esportazione verso l’Italia. La stessa azienda sarà sostenuta per la realizzazione di un progetto agricolo in Egitto, paese nel quale sono previsti vari altri interventi fra cui la costruzione da parte di Arsenale Spa, di un treno turistico “Made in Italy” sulla tratta Il Cairo-Assuan. E rimanendo in ambito agricolo compare perfino un progetto gestito da Eni, già finanziato dalla Banca Mondiale e dal Fondo Italiano per il Clima per un totale di 210mila euro. Il paese di attuazione è il Kenya dal quale, già da anni la multinazionale petrolifera si approvvigiona di olio di ricino e altri oli vegetali da trasformare in biocarburante nei suoi stabilimenti di Gela e Porto Marghera. Dopo la forte riduzione di gas proveniente dalla Russia, il tema energetico è diventato di importanza strategica per tutta l’Europa e Gorgia Meloni non ha mai fatto mistero di volere inserire la questione energetica nel Piano Mattei con l’obiettivo di trasformare l’Italia in un hub, ossia un punto di approdo e smistamento energetico per tutta l’Europa. Lo ha ripetuto anche nel gennaio 2024 durante il discorso che tenne alla conferenza Italia-Africa: «Noi siamo sempre stati convinti che l’Italia abbia tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa. È un obiettivo che possiamo raggiungere se usiamo l’energia come chiave di sviluppo per tutti. L’interesse che persegue l’Italia è aiutare le Nazioni africane interessate a produrre energia sufficiente alle proprie esigenze e ad esportare in Europa la parte in eccesso. (,,,). Tra le iniziative in questo ambito voglio ricordare quella in Kenya dedicato allo sviluppo della filiera dei biocarburanti, che punta a coinvolgere fino a circa 400 mila agricoltori entro il 2027. Ma chiaramente questo scambio funziona se ci sono anche infrastrutture di connessione tra i due continenti e lavoriamo da tempo anche su questo, soprattutto insieme all’Unione Europea. Penso all’interconnessione elettrica ELMED tra Italia e Tunisia, o al nuovo Corridoio H2 Sud per il trasporto dell’idrogeno dal Nord Africa all’Europa centrale passando per l’Italia». Per capire meglio il discorso di Meloni, vale la pena precisare che Elmed è un progetto che prevede la costruzione di un elettrodotto tra Sicilia e Tunisia, per una lunghezza complessiva di 220 chilometri, di cui 200 in cavo sottomarino. Un progetto portato avanti dalla società elettrica italiana Terna e quella tunisina Steg, col finanziamento di fondi europei e della Banca Mondiale, per garantire all’Europa energia elettrica prodotta in Nord Africa da fonti rinnovabili. Quanto al Corridoio H2 Sud, è un progetto portato avanti da un consorzio di imprese europee, fra cui l’italiana Snam, finalizzato a costruire una conduttura lunga 3300 km per trasportare idrogeno prodotto in Tunisia fino al cuore d’Europa. Viste le dichiarazioni di Meloni, c’è da aspettarsi che entrambi i progetti saranno inseriti nel piano Mattei assorbendo chissà quanti soldi dei contribuenti italiani. Da un punto di vista finanziario, il Piano è piuttosto generico. Non precisa quali progetti hanno diritto a contributi a fondo perduto, quali solo a prestiti. Si limita a dire che in un quadriennio, il Piano potrà contare su 5,2 miliardi di euro, di cui 3 attinti dal Fondo italiano per il clima e 2,5 dai fondi per la Cooperazione allo sviluppo. Inoltre asserisce di volersi avvalere della collaborazione di una serie di istituti finanziari italiani di natura pubblica come la Cassa Depositi e Prestiti, Simest, Sace e altri fondi di livello internazionale. Ma non precisa né i criteri di finanziamento né le procedure da seguire, forse per lasciare mano libera alla Cabina di regia che di volta in volta potrà decidere quale forma di aiuto assicurare e da parte di chi. Meloni ha presentato il Piano come «una cooperazione da pari a pari, lontana da qualsiasi tentazione predatoria, ma anche da quell’impostazione “caritatevole” che mal si concilia con le straordinarie potenzialità di sviluppo dell’Africa». Per sapere se è davvero così dovremo aspettare qualche anno, ma l’eccessiva attenzione ai benefici che ne può trarre l’Italia e l’eccessivo protagonismo del mondo degli affari non sono di buon auspicio. In Kenya, ad esempio, in località Mbegi ci sono già state proteste da parte dei piccoli contadini che producono ricino per Eni: i guadagni promessi non sono arrivati. Lo scrive il Financial Times dell’11 aprile 2025. I popoli del Sud del mondo sono stati depredati da secoli di colonialismo, guerre, scambio ineguale, latrocinio finanziario. Per rialzarsi hanno bisogno di opere e servizi di base pensati per loro: acqua, sanità, corrente elettrica, scuole, trasporti. Il mondo degli affari ha portato sfruttamento e miseria. Solo la solidarietà gratuita, senza aspettarsi niente indietro, può portare sviluppo umano. Non è carità, ma giustizia. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Piano Mattei fra mito e realtà proviene da Comune-info.
Il blackout come rivelatore
IN QUESTI GIORNI TANTI E TANTE IN SPAGNA HANNO DISCUSSO SU COSA È ACCADUTO NELLA GIORNATA SENZA ELETTRICITÀ, MENTRE ISTITUZIONI E MEDIA GRIDAVANO DI RESTARE IN CASA E COMINCIAVANO A DIFFONDERE NOTIZIE CONTRASTANTI SULLE CAUSE. SECONDO AMADOR FERNÁNDEZ-SAVATER È EMERSA UN’ALTRA IDEA DEL MONDO unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Caro J., mi chiedi cosa ho visto e sperimentato durante il blackout. Ti rispondo in modo rapido e conciso, basandomi sulle impressioni che ho registrato e sugli appunti delle conversazioni. Niente di definitivo, di molto solido, solo libere speculazioni per continuare a riflettere. Questo è ciò che ci consente questo intimo formato epistolare. Grazie alla passione di mia madre per le radio a transistor, ne ho trovato subito una in casa e ho potuto sintonizzarmi sulle notizie trasmesse su diversi canali, mentre tante persone erano “senza elettricità” a causa della mancanza di elettricità e di connessione a Internet. Di cosa parlavano i media? Naturalmente, fin dall’inizio, sono stati coinvolti nella lotta politica secondo il codice governo-opposizione che domina tutto: posizioni a priori e distribuzione delle colpe in base al fatto che si appoggi una parte o l’altra, una lettura dei fatti completamente strumentalizzata e faziosa, senza domande né riflessioni. Ma ciò che mi ha colpito di più, e questo per tutto il giorno, è stato il contrasto tra ciò che è stato ascoltato e ciò che io stesso ho potuto sperimentare direttamente durante le mie passeggiate nel quartiere. Dominava quella che potremmo chiamare l'”ipotesi Mad Max”: il caos della situazione non poteva che scatenare il panico e la guerra di tutti contro tutti, attraverso abusi (saccheggi, truffe) o menzogne (bufale, fake news). Le autorità hanno ripetutamente raccomandato di restare a casa e di attendere che la situazione tornasse alla normalità. Meno male che nessuno ci ha fatto caso! La gente si è mobilitata, come è accaduto in disastri ben più gravi, per essere lì, per aiutare, per collaborare. Certo, c’erano paura e incertezza, a seconda di come e dove si veniva colpiti e delle proprie capacità (più o meno vicini a casa, più o meno vicini ai propri cari, più o meno in grado di muoversi), ma ciò che gradualmente ha preso il sopravvento sulle strade è stato molto diverso da ciò che i media avevano previsto (e sperato). Vorrei sottolineare tre cose. Una festosa e gioiosa presa di possesso dello spazio pubblico, che a volte ha raggiunto anche un certo livello di autoregolamentazione del traffico in assenza di semafori (rallentando per stare attenti agli altri e facendo manovra). Le persone si riunivano per chiacchierare, divertirsi, coordinarsi e dare una mano. Una situazione molto diversa da quella causata dal Covid, quando la polizia controllava le strade e le persone restavano a casa. Un rilassamento generale del corpo collettivo, della tensione che genera panico, delle aspettative, dell’iperattività. Il tempo è diventato improvvisamente abbondante, senza l’ansia causata dall’interiorizzazione quotidiana degli obblighi di produttività e competizione. Sotto uno splendido sole primaverile, non c’era molto altro da fare se non camminare, leggere, condividere ed essere. Un piacere molto diverso dal godimento compulsivo del consumo. Una gentilezza insolita tra sconosciuti, una preoccupazione per gli altri e per il legame, un rinnovamento della “cortesia”, per usare le parole del nostro amico Bifo. Nei negozi e sui taxi si accettava credito, si prestava denaro a chi era nel bisogno e l’empatia (una parola molto usata, ma il senso è chiaro) era palpabile nell’aria. Questa apertura all’ignoto, questa ricerca di contatto, questo momento di cura collettiva è stata per me la parte più potente dell’esperienza del blackout. Una completa smentita dell’”ipotesi Mad Max” enunciata sopra. Una negazione del suo presupposto antropologico: la guerra di tutti contro tutti è l’elemento naturale degli esseri umani e solo un’autorità verticale può fermarla. Ciò non è accaduto, ciò che era stato dato per scontato e desiderato segretamente non è accaduto, Thanatos non è apparso, è emerso Eros. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CARLOS TAIBO: > Il collasso -------------------------------------------------------------------------------- Abbiamo parlato molto ultimamente dell’incapacità della “sinistra” – per citare coloro che desiderano e lavorano per il cambiamento sociale – di proporre un’idea diversa di bella vita, altre immagini di felicità oltre a quelle che il mercato ci presenta ogni giorno attraverso le sue mille applicazioni tecnologiche. Beh, direi che durante il blackout sono emerse per un attimo, a frammenti, delle contro-immagini di possibile felicità. O almeno, se parlare di felicità sembra eccessivo, di benessere, di godimento, di piacere. Non più solo privato, ma legato all’esperienza collettiva; non più conciliabile con lo stato di cose esistente, ma reso possibile dal suo radicale sconvolgimento. Accessibile solo ai più privilegiati? Se ne è parlato in questi giorni. Il blackout è stato romanticizzato come un tempo è avvenuto con il lockdown? È una visione che dovrebbe essere realistica e premonitrice, ma credo che finisca per essere triste e ri-vittimistica. Ciò significa che le classi lavoratrici soffrono più di chiunque altro per i disordini del meccanismo nel quale viviamo, perché sono legate ad esso dal nodo della precarietà. Ma i miei amici che vivono a Puente de Vallecas mi hanno raccontato, ad esempio, che i migranti hanno riempito le strade, i parchi e le piazze, senza paura e con gioia. Non potremmo considerare che tra coloro che consideriamo più deboli ci sono spesso più risorse per l’auto-organizzazione, più reti e connessioni, più capacità di saper fare con quello che c’è? Non siamo forse noi “bianchi privilegiati” i soggetti più deboli, quelli che dipendono maggiormente dalla vita di mercato e dalle sue applicazioni per ogni cosa? Non avremmo molto da imparare? La filosofa delle scienze naturali Vinciane Despret, fondamentalmente interessata al potenziale di cambiamento degli esseri umani, parla del nostro bisogno di nuove “proposizioni di esistenza”, nuove “profezie”. Come lei stessa cerca di dimostrare in ognuno dei suoi meravigliosi libri, gli esseri viventi sulla Terra, umani o non umani, non sono ciò che siamo noi, identici a noi stessi, ma dipendono sempre dalle circostanze, dalle opinioni e dalle descrizioni, dai procedimenti materiali. Non siamo ancora fatti e finiti, ma possiamo cambiare e trasformarci se qualcuno si rivolge a noi da una prospettiva diversa, da una differente proposta di esistenza, coinvolgendoci in altri dispositivi pratici. Che non presuppongono l’aggressività e la competizione, che non fanno appello alla paura e alla passività, ma piuttosto a ciò che ci coinvolge e ci tocca, alle nostre capacità di invenzione e di sorpresa, alle nostre facoltà di cooperazione. Ciò che è andato temporaneamente perduto in questi giorni è una certa descrizione di ciò che sono gli esseri umani e la vita di tutti i giorni, una versione della realtà che dice: “Le cose stanno semplicemente così”. Ciò che l’oscuramento ha rivelato per un attimo è stata un’altra idea del mondo, altre possibilità di esistenza. Non una “buona natura” nascosta nella vita di mercato che aspetta semplicemente di essere scatenata, ma altre potenzialità che devono essere attualizzate, realizzate, consumate. Questa sarebbe la vera sfida politica attuale. L’esperienza collettiva di quelle ore non è durato a lungo, ovviamente, ma ha rivelato qualcosa: abbiamo percepito qualcos’altro, fugacemente, che poi è svanito. Ma è sufficiente per dimostrare che qualcosa può esistere. -------------------------------------------------------------------------------- *Testo scritto grazie alla luce delle conversazioni con Andrés Timón, Javier Olmos, Rafael Sánchez-Mateos, Javier Bachiller, Raquel Mezquita, Aida Gómez Hernández, pubblicato su ctxt (traduzione di Comune) e qui con l’autorizzazione dell’autore. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI A. GHEBREIGZIABIHER: > Blackout e comunità -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il blackout come rivelatore proviene da Comune-info.