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Stefano Benni, o del resistere sorridendo
Un ricordo dello scrittore bolognese, capace di unire satira e poesia, che ritroveremo presto insieme in libreria.   Ci siamo incontrati più di cinquant’anni fa, sulle pagine de Il Mago , la rivista di fumetti diretta da Fruttero & Lucentini, per anni l’unica alternativa alla più celebre e celebrata Linus . Lettore non ancora ventenne, scoprii e amai subito il giovane scrittore bolognese che pubblicava, quasi nascosti tra le strisce di Mafalda e quelle di BC e Mago Wiz, quelli che qualche mese dopo sarebbero diventati gli esilaranti capitoli di Bar Sport . Fu amore a prima vista, mai tradito, anche se poi da libraio non sono riuscito ad avere con noi alla libreria IoCiSto: ma questa è un’altra storia, legata a logiche editoriali e commerciali estranee all’autore. Un amore senza incontri, senza lettere né selfie. Per noi, la generazione nata e cresciuta in un’Italia che cercava ancora di fare i conti con le macerie morali e materiali della guerra, passata velocemente tra le illusorie speranze del boom economico degli anni ’60 e già proiettata nell’orrore degli anni di piombo, quella di Benni è stata la voce che sapeva mischiare la satira politica con la poesia, la risata con la malinconia, la denuncia con il sorriso. Nel tempo dell’informazione gridata e della cultura omologata, Stefano Benni ha rappresentato una rara forma di resistenza letteraria. Una voce che, senza mai salire in cattedra, ha insegnato a pensare con leggerezza e a ridere con profondità. Era capace di smontare i potenti e la loro impunita tracotanza con una battuta e di dare dignità letteraria e morale agli ultimi attraverso storie surreali eppure verissime. Con i suoi personaggi strampalati, baristi filosofici, gatti anarchici, uomini e donne al limite dell’assurdo fisico e psicologico, parlava in realtà di noi, della nostra società, delle nostre paure e delle nostre speranze. In quegli anni bui molti ragazzi seguirono più o meno consci maestri più o meno cattivi, ma tanti si avvicinarono alla letteratura e alla coscienza civile attraverso le porte dei suoi libri. Nei suoi bar sport, nei suoi paesi impossibili, nei suoi bambini visionari, c’era un intero Paese raccontato meglio che in mille editoriali; la sua ironia leggera ma tagliente aveva reso accessibile la letteratura a chi diffidava dei “grandi autori” e cercava una voce vicina, popolare ma non banale. Benni ci insegnò a ridere delle nostre fragilità ea non piegarci davanti all’omologazione culturale che, negli anni del boom economico, rischiava di trasformarci in semplici consumatori. Per oltre cinquant’anni è stato per chi lo ha amato molto più che un autore: era un compagno di viaggio. Nei suoi testi regalava la libertà di immaginare un mondo diverso, di credere che l’ironia fosse una forma di resistenza e che la fantasia potesse diventare strumento politico. Non era evasione: era un modo per sopravvivere e, soprattutto, per non smettere di sperare. E quanto ne abbiamo, e ne avremo, bisogno in questo scorcio abominevole di guerra e distruzione! Per un libraio gli scrittori sono un po’ famiglia, con tutti i pregi ei difetti, le intemperanze e le assenze dei parenti più o meno stretti. Stefano mi mancherà, ma non tanto: mentre sistemo le sue opere sullo scaffale, così che ogni copia diventa una piccola eredità lasciata a vecchi e nuovi lettori, la possibilità di ridere, di indignarsi e di immaginare un futuro migliore. E mi piacerebbe incontrarli, nuovi e vecchi lettori, come sarebbe piaciuto a lui, non per una commemorazione ma per avere la conferma, mentre leggeremo le sue pagine, in ogni sguardo complice, in ogni sorriso, di quello che penso riponendo Bar Sport : “Tranquillo Stefano, non ti dimentichiamo, sei più eterno della Luisona.” E infatti, tra poche settimane ci ritroveremo in libreria per ricordarlo insieme, leggendo ancora le sue parole e sorridendo della sua ironia. Perché Benni non si celebra: si legge, si condivide, si vive. Alberto Della Sala, bibliotecario e direttore di IoCiSto Redazione Napoli
Giovanni Mariotti / Nell’aria scritta e disegnata
Giovanni Mariotti (classe 1936) ha dalla sua la sorte benevola di chi corteggia gli strumenti dell’umorismo e la fede imperterrita nella letteratura – meglio se “mondiale”, meglio se supremamente viaggiatrice fra Occidente e Oriente. D’altronde nella sua lunga avventura intellettuale il “vizio” di scrivere (ogni volta solleticando la fama di “quasi esordiente) ha avuto a che fare con la casa editrice di Franco Maria Ricci – dunque, entrambi costruttori di labirinti di perfetta amabilità. Miglior sorte non poteva avere il nostro nel ritrovarsi in Palingenia, casa editrice nata a Venezia – città labirintica come nessuna al mondo – e creatrice di una propria biblioteca dove vi si possono ritrovare F. Kafka, R. Musil, H. Pauli, G. Pontiggia, G. Oldani, e Mariotti, quest’ultimo ospitato in una collana dedicata di cui Carpæ dies è opera nuova e inaugurante. Benché, circa un anno fa, uscisse “fuori collana” un gioiello come La biblioteca della sfinge, come fosse una specie di pronostico augurante. Opera nuova, come s’è detto, dove lo scrittore – che non si può certo annoverare fra la specie dei sedentari – sogna l’Oriente più oriente che c’è, il Giappone con tutte le sue favole altamente illusionistiche, dove la natura è luogo eccellente per solitari, e le creature, anche umane, hanno la peculiare caratteristica che tutti contraddistingue: la reincarnazione. Sorella principale dell’arte del vivere. Come facilmente può intendersi leggendo le pagine di Carpæ dies. Omaggio alla letteratura giapponese, ma non solo, un sentiero che guida agli innumerevoli sentieri del mondo, sogni dentro sogni che, a dire il vero, ben conoscono gentildonne e gentiluomini della letteratura – i frequentatori dei “destini incrociati”. Storia di uomini e di pesci, questo Il giorno della carpa, come indica il sottotitolo. Lo spunto è definito in un racconto di Ueda Akinari, nato a Ōsaka nel 1734 e morto a Kyōto nel 1809, contenuto in Racconti di pioggia e di luna. Esiste una festa in Giappone, dedicata ai bambini ogni 5 maggio, in quel giorno carpe di carta e stoffa vengono appese dappertutto. Immagini che permettono di sorridere, alcune delle quali, coloratissime, sono riprodotte all’interno di questo volume. Dove si narra la storia di un monaco che amava disegnare pesci: Kōji. Da umano a creatura anfibia, la cui sorte porta di filato nel territorio fluido per eccellenza, quando gli attori e i comprimari dividono una sorte delicata e cruenta al tempo stesso, le direzioni cambiano prospettiva in un batter d’occhio ma che tutto, proprio tutto, avviene in nome di una mutazione eterna a cui nessuno può – o vuole – sottrarsi. La legge del Mondo fluttuante è qui nel pieno del suo farsi: solo Mariotti poteva dettarci un epilogo fatto di dieci racconti che rasentano la magia del novellare d’antica classicità. Al suo massimo, lo sfiorarsi di Oriente e Occidente qui accade, e a noi viene condotto. Forse un sogno, forse una realtà (una delle tante), quasi sicuramente uno scambiarsi fra esse. *** Venezia, ecco quel che è più di un ricordo: Addio a Gianni Berengo Gardin, poeta della fotografia, che ci ha lasciati a 94 anni. Amava gli scrittori americani, in particolare Dos Passos, la cioccolata e l’intransigenza analogica.  L'articolo Giovanni Mariotti / Nell’aria scritta e disegnata proviene da Pulp Magazine.
Michela Murgia / Raccontare la sua voce
Anna della pioggia è molto più che una raccolta di racconti: è una costellazione di voci, una geografia affettiva e politica, una mappa dell’immaginario che Michela Murgia ha abitato e costruito in anni di scrittura militante e poetica. È un libro postumo, sì, ma non malinconico: è pieno, vivo, urgente. È un libro che ci raggiunge nel tempo giusto — un tempo in cui le parole sembrano gridare per essere ascoltate, e dove la molteplicità di sguardi è non solo un valore, ma una necessità democratica. Il titolo, tratto dal racconto d’apertura, racchiude già molto del suo spirito. Anna della pioggia è la figura liminare di una donna che corre nel temporale, quasi danzando tra le crepe del reale, accompagnata da pensieri minimi e rivoluzionari: una lavastoviglie, un pupazzo, l’istinto di fuga. In quella corsa che non è solo fisica, ma simbolica, emerge una condizione esistenziale — il bisogno di attraversare le proprie stanze interiori, i propri dissesti, per potersi dire vive. È una fuga dal dovere e dalla domesticità imposta, ma anche un’epifania. «Non c’è nulla che sia davvero tuo se devi chiederlo». Questo libro, curato con attenzione filologica e affetto narrativo da Alessandro Giammei, raccoglie racconti disseminati in epoche diverse della vita e della carriera dell’autrice: testi scritti per festival, per blog, per radio; testi regalati ad amici, racconti letti in pubblico e poi lasciati scivolare nell’oralità; e testi inediti che non avevano ancora trovato casa. Ora la trovano qui, in un libro che è anche, forse soprattutto, casa comune. Perché ognuno di questi racconti è una porta socchiusa, una finestra aperta su un mondo che riconosciamo come nostro anche quando parla di voci e luoghi lontani. La varietà di stili e registri è sorprendente, ma mai dispersiva. Ci sono racconti in forma di favola, come quello in cui una bambina vive la sua prima vendemmia tra adulti che parlano con il corpo e con i silenzi. C’è l’ironia tagliente di una voce narrante che osserva con lucidità il linguaggio dell’autorità e le sue maschere. Ci sono le riscritture mitiche di figure femminili come Elena di Troia e Morgana: donne che, nei testi classici, sono state oggetti di narrazione e che qui invece si raccontano da sole, rivendicando parola e autonomia. «Le parole che non si possono dire trovano altre forme per esistere». Una costante è la centralità del corpo: mai corpo astratto, idealizzato o punito, ma corpo vissuto, abitato, trasformato. Corpo queer, corpo malato, corpo che ama, corpo che dice no. La maternità – così spesso trattata nella nostra cultura come destino – diventa qui possibilità, scelta, costruzione affettiva. Famiglia non è necessariamente sangue, ma alleanza, cura, responsabilità condivisa. Come già aveva fatto con potenza in Ave Mary e Istruzioni per diventare fascisti, Murgia non smette, neppure in forma breve, di interrogare i meccanismi del potere: chi ha diritto alla parola, chi ha diritto a esistere, chi può essere ascoltato? La scrittura si fa strumento di restituzione, di riscatto, di riscrittura del mondo. Ma non lo fa con toni moralistici. Lo fa con la forza dell’intelligenza emotiva, con un’ironia acuminata, con una tenerezza che non scade mai nel sentimentalismo. Centrale, come sempre, la Sardegna: non come esotismo da cartolina, ma come luogo fondante della lingua, della memoria e della resistenza. La Sardegna di Murgia è radice e ferita, suono e silenzio. I racconti sardi della raccolta hanno l’odore della terra, il ritmo orale delle storie tramandate, ma si intrecciano a temi universali. In questo senso, anche ciò che è apparentemente locale si fa globale: parla a chiunque abbia mai sentito di non appartenere, di essere “fuori campo”. «Di storie ne servono molte, moltissime, per non diventare schiavi di un solo punto di vista». C’è anche, in filigrana, la consapevolezza della fine. Alcuni racconti parlano del morire, del lasciare andare, della trasformazione. Ma anche qui, la morte non è mai tragica o vuota: è un passaggio, una soglia, un cambio di stato. Persino una falena che resuscita può essere un miracolo, se la si guarda con gli occhi giusti. E Murgia ha sempre avuto questi occhi, capaci di vedere oltre la superficie delle cose, di cercare il significato nel dettaglio minuscolo, nella crepa, nella fenditura. Anna della pioggia è dunque un lascito, ma non un addio. È una continuazione. Un libro che si può aprire a caso, rileggere, tornare a visitare. È un’opera che dice che le storie, se ben raccontate, non muoiono mai: si depositano, come pioggia leggera, nei solchi della memoria. «Una voce, anche quando tace, continua a esistere nella memoria di chi l’ha ascoltata». E noi, che l’abbiamo ascoltata, non possiamo che continuare a raccontarla.   L'articolo Michela Murgia / Raccontare la sua voce proviene da Pulp Magazine.
Federico Pace / Quando si guarda un volto
L’ultimo libro di Federico Pace interseca le biografie di tre uomini che sono stati tagliati, in senso più materiale e fisico che metaforico, dalla Seconda guerra mondiale. Il padre del narratore, da bambino, quando aveva 5 anni, nel luglio del 1945, fu colpito dalle schegge di una mina. Il suo viso fu menomato e privato di buona parte della vista. Poco più di un anno dopo il celebre fotografo svizzero Werner Bischof, rimasto nella Svizzera neutrale durante gli anni della guerra, parte in bici per un lungo viaggio attraverso l’Europa a documentare l’umanità stravolta dell’immediato dopoguerra. Nel novembre del 1946 arriva in Olanda, e tra i ritratti scattati nella cittadina di Roermond c’è quello di un ragazzino con il volto martoriato da tante piccole cicatrici: un volto familiare, con un occhio fisso e immobile. L’intreccio virtuale e letterario delle tre vite è una sorta di terapia del lutto che il narratore intraprende per assimilare la recente perdita del padre e nello stesso tempo approfondire la conoscenza del genitore, seguendo trame solo in apparenza incoerenti. Tutto comincia quando Pace inizia a interessarsi alla scalata del Klein Fiescherhorn, un picco delle Alpi Bernesi, che Bischof intraprende nell’estate del 1940, mentre era nell’esercito svizzero, di guardia in un villaggio di confine per monitorare eventuali e improbabili invasioni nemiche. Tra un turno e l’altro, insieme a un compagno, una notte compie la salita alla vetta, fotografando i paesaggi sublimi e non toccati dalla devastazione in corso in Europa. È una vicenda laterale alla guerra e alternativa per un uomo che in quel momento poteva permettersela. Della guerra Bischof prende consapevolezza quando finisce. Fino a quel momento era stato un fotografo soprattutto naturalista e di moda. Attraversando Germania, Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda sembra assumersi il compito di mostrare le conseguenze del conflitto. Il ritratto del ragazzino di Roermond, scattato a colori in un’epoca dove la produzione fotografica era prevalentemente in bianco e nero, ne è una delle testimonianze più efficaci. Il narratore, alla ricerca di quel ragazzo olandese così simile al padre, contatta il figlio di Bischof (il fotografo è morto non ancora quarantenne nel 1954) alla ricerca di un nome e di una biografia: è un sosia, un doppio, che forse gli può permettere di conoscere meglio la vita di ombre e di contorni vaghi vissuta dal padre. Di quell’evento cardine – lo scoppio della mina del 1945 – il padre non ha mai parlato con il figlio. Dopo mesi di degenza al Policlinico Umberto I di Roma, è tornato a casa, ha poi frequentato la scuola in un istituto per bambini ciechi, si è laureato in giurisprudenza, si è sposato, si è sottoposto in età adulta a un intervento per cercare di recuperare la vista, ha vissuto una vita che la si direbbe completa, come quella di tutti. Colpisce che il figlio non abbia mai neanche saputo esattamente che cosa il padre vedesse e cosa no. «Non ho mai saputo se mio padre, in quella sua zona di confine tra la vista e la cecità, negli anni della sua vita in cui ero ancora un bambino, percepisse ancora, e con quale grado di precisione, i colori. Non ho mai osato chiedergli cosa visualizzasse nella sua mente quando pensava al giallo della mimosa o al rosso delle tegole». Pochissimo viene raccontato del rapporto in vita tra padre e figlio. La scrittura sgorga fuori tutta da quello spazio vuoto e bianco che si è creato postmortem. Non si tratta di un romanzo-memoir ma del racconto dell’identità di un padre ricostruita nel controluce delle esistenze di altre due persone che lui non ha mai incontrato (Bischof e il ragazzo di Roermond, che torna ad avere un nome insieme a un curriculum vitae e mortis). Sono tantissime le cose di cui non parliamo con le persone a noi più vicine quando queste sono ancora in vita, le curiosità che non osiamo soddisfare e i dettagli che non notiamo. Gli eventi che hanno sconvolto le loro vite ci appaiono di poco conto, quasi trascurabili, li accettiamo con disinvoltura – pensando che così debba essere anche per loro, tanto più se sono passati anni – e ci accontentiamo di conoscerli attraverso narrazioni di seconda mano. Quegli eventi ci appaiono smisuratamente grandi e gravi soltanto quando ci ritroviamo nel volume vuoto del lutto. Quando quelle persone non sono più e ciascuno a modo proprio cerca di colmare la loro assenza. In questo caso, la ricerca a ritroso di una memoria è stata innescata dalla forza di un volto: un viso squadrato ricoperto di minuscole cicatrici, il labbro rosso, l’espressione né triste né felice. Dall’atto del guardare: del fotografo che ha scattato la foto, del narratore che ha quasi creduto di vedere ritratto il padre, di chi da un certo giorno in avanti non ha visto più.   L'articolo Federico Pace / Quando si guarda un volto proviene da Pulp Magazine.
Tommaso Landolfi / L’elzeviro sullo scrittoio
È probabile che Tommaso Landolfi sia, con Gabriele D’Annunzio e Carlo Emilio Gadda, lo scrittore nazionale che con maggiore efficacia e inventiva ha modellato, plasmato, distillato e reinventato la lingua italiana piegandola ai propri fini letterari. Uno scrittore per scrittori, potremmo dire, troppo colto, elegante e raffinato per fomentare un largo seguito di pubblico. Non un autore minore, dunque, come qualche sprovveduto gazzettiere ha osato definirlo, giudicando solo in base al criterio del numero di copie vendute, ma quanto a rilevanza stilistica e influsso ispirativo, uno dei prosatori più autorevoli della nostra narrativa. Erto e impegnativo riguardo alla forma, Landolfi non lo fu meno riguardo ai temi che di preferenza amava affrontare: se è alquanto riduttivo volerlo incasellare tra gli sparuti alfieri della narrativa fantastica, è pur vero che il solitario aristocratico ciociaro – nato a Pico Farnese in provincia di Frosinone nel 1908 e morto a Ronciglione in provincia di Viterbo nel 1979 – ha saputo giocare con le atmosfere e i temi del gotico, del surreale, del grottesco e del visionario come forse nessun altro suo contemporaneo. L’amico e illustre critico Carlo Bo diceva – trovando concorde Italo Calvino che ne antologizzò nel 1982 le pagine più belle in una raccolta ideale per chi voglia avviarsi alla sua scoperta (Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino, Adelphi 2001) – che Landolfi poteva sembrare uno scrittore francese di fine Ottocento, un decadente come Huysmans, Barbey d’Aurevilly o Villiers de L’Isle Adam, e questo non solo sul piano letterario ma anche su quello esistenziale. Landolfi infatti coltivò con solerzia in letteratura il suo personaggio: sdegnoso, appartato, febbricitante, preda del demone del gioco, della passione erotica come nell’Imp of the Perverse di Poe. Laureato a Firenze in letteratura russa, da questa lingua, come dal tedesco e dal francese, è stato uno dei più fini traduttori serbando l’impronta degli autori tradotti: Gogol, Dostoevskij, Novalis, Mérimée, Nodier; il loro romanticismo notturno ha forgiato il suo immaginario creativo rendendolo quasi un corpo estraneo nel contesto della letteratura italiana della sua epoca. Un magnifico perdente che esordisce negli anni Trenta su riviste letterarie fiorentine come “Letteratura” e “Campo di Marte”, e pubblica la prima silloge di racconti brevi nel 1937 sotto il titolo di Dialogo dei massimi sistemi, volume stampato in solo duecento copie, passando poi alla storica casa editrice Vallecchi, che ben poco farà per promuovere la vendita dei suoi libri così inattuali. Solo il contemporaneo Jorge Luis Borges nella lontana Buenos Aires sta svolgendo negli stessi anni, con la sua Historia Universal de la Infamia del 1935, un percorso letterario che può avere una qualche analogia filosofica, speculativa e mitografica con la narrativa landolfiana. Ineguagliabile affabulatore nella grande tradizione dei notturni, dei grotteschi e degli arabeschi senza trascurare l’espressionismo allucinato di testi apparentemente realistici (come Un amore del nostro tempo del 1965 – Adelphi 1993 o Tre racconti del 1964 – Adelphi 1998) o autobiografici (come i “meta-diari” La bière du pécheur del 1953 – Adelphi 1999, Rien va del 1963 – Adelphi 1998, e Des Mois del 1967 – Adelphi 2016), in cui i “fatti” si deformano e si trasferiscono in una dimensione onirica e inquietante pervasa da una profonda angoscia esistenziale, da un male di vivere inestinguibile, dalla febbre dell’abbandono incondizionato al demone del gioco – ossessione che afflisse Landolfi al punto tale da farlo trasferire a Sanremo, negli ultimi anni della sua vita, solo per poter frequentare quotidianamente il casinò – metafora definitiva della dissipazione dell’esistenza. Anche questo suo impervio disagio rende per tutta la vita Landolfi un isolato e, forzatamente, i suoi testi misconosciuti e “minori”, nonostante la stima e il sostegno di letterati rinomati come Mario Soldati, Eugenio Montale, Bo e Calvino: solo la ripubblicazione graduale di tutte le sue opere – all’inizio curate dalla figlia Idolina Landolfi (1958-2008) – per Adelphi restituirà finalmente una degna visibilità a questo grande scrittore. L’ultima uscita landolfiana è Un paniere di chiocciole del 1968, una raccolta di 50 elzeviri (altri 50 erano già stati pubblicati da Adelphi nel 2019 con Del meno del 1978), brevi testi narrativi pubblicati sulla terza pagina de “Il Corriere della Sera”. Un genere, l’elzeviro, di cui Landolfi (come Emilio Cecchi, o il collega Dino Buzzati) era diventato uno dei maggiori esponenti nel nostro paese. Per soldi, perché no, gran parte dei quali finivano sul tavolo della roulette, e ultima dimostrazione di eccellenza, perché un elzeviro sulla terza pagina di un quotidiano importante non lo scrive un semplice giornalista ma uno scrittore affermato, indiscusso. Qui Landolfi ci offre un ulteriore esempio non del suo “mestiere” – vista l’origine alimentare di questi sfoghi letterari – ma della sua arte, ripercorrendo magistralmente un po’ tutti i temi, i toni e gli assilli delle sue opere maggiori e giungendo spesso fino al capolavoro, come nel racconto “vampirico” Il bacio, che giustamente Calvino includerà nella sua antologia delle pagine più belle.       L'articolo Tommaso Landolfi / L’elzeviro sullo scrittoio proviene da Pulp Magazine.
Giovanni Mariotti / La molteplicità letteraria
Il vizio di scrivere per Giovanni Mariotti diventa spesso l’espressione degli altri. La folla che gli si accosta alle spalle quando lui si posiziona davanti al foglio bianco o davanti al computer. E cosa c’è di meglio di una biografia, pur piccola e involontaria ma assolutamente irrinunciabile, per togliere di mezzo le scuse del tempo che mai si toglie la voglia di azzerare l’essere umano, in vita biologica e opere depositate sulla terra? L’accesso allo sguardo di Mariotti avviene sempre – da molti decenni ormai – per vie trasversali rispetto all’editoria mainstream, il che come azione va a conficcarsi là dove i più non se lo aspettano. Per dire: come invariabilmente perdersi nel labirinto circoscritto delle calli veneziane e per questo sentire il godimento salire dai piedi ai polpastrelli, dalle gambe a quella misteriosa area del cervello predisposta alla felicità creativa. E voilà, ecco apparire un volumetto (espressione adatta alle sue dimensioni ispirative) di non poche pagine e di non trascurabile valore grafico (carta, caratteri, rilegatura) da un editore che alberga nella città acquatica per eccellenza. Venezia dove, guarda caso, furono stampati per la prima volta Talmud e Corano, dove gli artefici di questa avventura del tutto fuori dalle attuali stagioni si aggirano instancabili intorno a giacimenti letterari che invitano a smarrirsi e al contempo a ritrovarsi in una laguna di specchi e pensieri. Mariotti fa tornare indietro le parole e le avventure – spesso stranianti, e a dirla tutta talvolta “divertenti” – di scrittori di cui il lettore, più o meno avvertito, più o meno sagace e frequentatore dei secoli letterari, deve indovinare il nome. Tutto questo sotto lo sguardo iperbolico della Sfinge che, si sa, uccideva chi non sapere rispondere alle sue domande e risolverne gli enigmi. Una Biblioteca della Sfinge eponima della famosa rubrica della “Settimana enigmistica” protettrice di coloro che alla rivista si affidano per salvarsi la pellaccia dall’assalto delle milionate di circostanze che la vita riserba. La Sfinge ebbe la bontà di togliersi di mezzo quando Edipo risolse l’enigma. Il lettore di questo libro dovrà utilizzare un coltello per accedere all’ultimo sedicesimo intonso nel caso non riuscisse a trovare l’identità del centone di scrittori qui raccolti. Meglio la carta stampata, occorre dire, che l’aiuto farlocco del web, nemmeno in grado di strappare qualche sorriso a chi si trovasse alle prese con La biblioteca della Sfinge, al suo polimerico contenuto, poliritmico quanto mai – se non addirittura “multiversico”. Mariotti ringrazia in sede laterale e finale quanti autori lo hanno condotto all’impresa attraverso altrettanti libri a cui bisognerebbe pensare di andare o tornare non foss’altro che per buona educazione. E inoltre avverte sull’erotismo insito nel suo libro, portatore di piaceri senz’altro solitari, al netto di chi riesce a leggere in contemporanea col proprio partner – quando c’è. Leggere “microbiografie”, indovinare l’identità, e guardare: piaceri di cui il guardare è favorito da immagini ambiziose dove appaiono lettrici e lettori rappresentati in pose che attraversano i millenni, dal mondo classico a oggi e con diversi mezzi artistici. Dal dipinto alla scultura, dalla fotografia all’illustrazione sono molte le tavole che accompagnano i titoli dei cento capitoletti, molti dei quali strizzano l’occhio alla rêverie che – si spera – accompagnerà il cortese fruitore di questo libro Palingenia Venezia capace di accarezzare la molteplicità. L'articolo Giovanni Mariotti / La molteplicità letteraria proviene da Pulp Magazine.