Trattare con i Talebani per “contrastare” i flussi migratori. Il vero volto della solidarietà europea
A fine ottobre la Commissione Europea ha scritto ai 27 Stati membri per
esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con
Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, come
l’Afghanistan. Una strategia brutale che getta una luce inquietante sugli aiuti
umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul.
L’Unione Europea sta rispondendo con prontezza alle richieste delle Nazioni
Unite e delle agenzie umanitarie di inviare aiuti all’Afghanistan alle prese con
il freddo che avanza, catastrofi naturali, crisi economica e sospensione dei
finanziamenti statunitensi.
Ma è autentica solidarietà, generosa e disinteressata, o piuttosto un calcolato
avvicinamento al governo talebano per convincerlo a riprendersi i “suoi”
immigrati in Europa, in risposta alla sempre maggiore pressione delle forze di
destra perché si liberino di questo “fardello”? Per provare a rispondere è utile
fare un passo indietro e osservare come si sono mossi alcuni Stati europei in
questi ultimi mesi.
L’isolamento in cui il governo di fatto dell’Afghanistan è stato confinato con
le sanzioni comminate nei confronti dei ministri talebani, che impediscono loro
di viaggiare, dovrebbe rendergli impossibile incontrare funzionari di Paesi
dell’Unione, tanto più in Europa. Invece la Germania già il 21 luglio non
solo ha deportato a Kabul 81 migranti con il coordinamento dell’amministrazione
talebana e l’aiuto del Qatar, ma ha persino invitato due rappresentanti
diplomatici del governo talebano in Europa perché seguissero le pratiche dei
respingimenti in futuro.
E questi personaggi non sono stati trattati da funzionari con mansioni
“tecniche”: sono stati riconosciuti come nuovi portavoce facenti funzioni
consolari, dopo che i precedenti della vecchia Repubblica hanno dato le
dimissioni proprio per protesta contro l’invito ai “nuovi” delegati. Si è così
scavalcato di fatto ogni impegno al non riconoscimento del governo talebano che
gli Stati europei e la stessa Germania continuano a ribadire come loro vincolo
imperativo, prefigurando un cambio della politica europea nei confronti del
governo de facto.
La pensano così anche i Talebani, che infatti si sono affrettati a mettere in
risalto il loro nuovo ruolo e a occupare tutti gli spazi resi disponibili in
questo nuovo contesto, con grande rischio per gli emigrati e per le loro
famiglie, perché ora tutta la documentazione relativa ai profughi che vivono in
Germania e alle loro famiglie rimaste in Afghanistan è stata ceduta nelle loro
mani.
Questa decisione di Berlino ha creato un gravissimo precedente, che altri Stati
europei si sono affrettati a seguire. Infatti già il 29 luglio funzionari
svizzeri hanno chiesto al loro governo un dialogo diretto con i funzionari
dell’Emirato islamico dell’Afghanistan per facilitare il processo di rimpatrio
forzato dei richiedenti asilo afghani.
Il 30 luglio anche la Svezia ha tentato di ricorrere alla burocrazia per rendere
la vita difficile agli immigrati afghani e prepararne l’espulsione, dichiarando
nulli i documenti di viaggio non regolari, unici documenti di cui sono in
possesso i fuggitivi dall’Afghanistan.
Intanto i Talebani hanno alzato il tiro: hanno informato la Svizzera che non
avrebbero più accettato i rimpatri che non fossero stati firmati da esponenti
del proprio governo, imponendo così di fatto i loro funzionari, tanto che il 23
agosto si sono recati a Ginevra per aiutare a identificare chi dovesse essere
deportato in Afghanistan.
Anche Vienna si è fatta avanti. A metà settembre una delegazione di cinque
membri del Ministero degli Esteri talebano si è recata nella capitale austriaca
per discutere le missioni diplomatiche e i servizi consolari ai cittadini
afghani che vivono in Austria e in altri Paesi europei.
Ma la tappa decisiva è stata l’istanza dei 19 Paesi europei che hanno
sottoscritto il 19 ottobre di quest’anno una richiesta al Commissario Europeo
per gli Affari interni e le migrazioni affinché venga facilitato il rimpatrio,
volontario o forzato, dei cittadini extra-europei senza permesso di soggiorno o
asilo, chiedendo quindi che le deportazioni siano trattate come una
“responsabilità condivisa a livello dell’UE”.
A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia,
Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo,
Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Si è
poi aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’UE, è un Paese
Schengen.
Questa stretta migratoria, se è molto grave perché rischia di ripercuotersi
pesantemente su tutti i profughi rifugiatisi in Europa, ha una ricaduta ancora
più inquietante quando i migranti presi di mira sono cittadini afghani,
costretti a tornare a vivere sotto un regime dittatoriale e repressivo dal quale
erano fuggiti spesso per salvare la pelle. Ma è ancor più grave per il risvolto
internazionale che prefigura, perché si ripercuote sulle relazioni tra Europa e
Afghanistan, facendo diventare il governo afghano protagonista di una trattativa
che lo riconosce di fatto se non di diritto, secondo una scelta che sembra
essere sempre più considerata necessaria anche dai Paesi occidentali, in quanto
giustificata da esigenze pragmatiche.
Infatti il respingimento degli afghani nel Paese di origine necessita
dell’accordo con il governo dei Talebani, fondamentalista e gravemente
persecutorio nei confronti delle donne, che nessuno al mondo tranne la Russia ha
voluto finora riconoscere. Ma questo governo è disponibile a dare il suo
consenso al rientro dei suoi concittadini solo in cambio di un avanzamento del
suo posizionamento nel mondo verso il riconoscimento legale. Posizione che
rimane sottotraccia nella richiesta di deportazione avanzata degli Stati
europei.
A estendere la nuova “linea politica” ci ha pensato la presidente della
Commissione Europea, Ursula von der Leyen, inviando il 22 ottobre una lettera a
tutti i 27 Stati dell’Unione per esortarli ad accelerare i rimpatri e
implementare gli accordi bilaterali con i Paesi extra-Ue, anche con quelli che
non rispettano il diritto umanitario, tipo l’Afghanistan.
Quindi trattare con il governo talebano, aprendo al dialogo e ai suoi
ambasciatori, riconoscendogli di fatto un ruolo ufficiale sebbene ciò
contraddica le dichiarazioni che la stessa UE continua a proclamare, è la nuova
strategia europea per “ridurre” l’immigrazione. La politica di dialogo dell’UE
con il governo talebano è stata del resto ribadita anche dal nuovo
rappresentante UE per l’Afghanistan, Gilles Bertrand, che appena eletto si è
recato a Kabul per confermare direttamente ai Talebani l’intenzione dell’UE di
portare avanti il processo di dialogo stabilito nell’ambito degli accordi di
Doha 3 – quelli cioè che escludono qualsiasi trattativa sui diritti delle donne
per far piacere ai Talebani – offrendo e chiedendo collaborazione a vari
livelli.
È quanto del resto ha ribadito il Parlamento Europeo nel suo
ultimo comunicato in cui, mentre prende una decisa posizione contro l’apartheid
di genere e denuncia le responsabilità dei Talebani, anziché proporre
provvedimenti per isolarli stringe i legami attraverso viaggi in Afghanistan e
contatti segreti tra diplomatici, giustamente denunciati da alcune deputate
europee.
In questa ottica, assume una luce più inquietante e interessata l’erogazione di
aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul sotto varie forme: non
appare come un libero impegno dei Paesi europei democratici, solidali nei
confronti del popolo afghano affamato, ma invece come un sostegno al governo
talebano per avere in cambio la deportazione dei migranti afghani e agevolare il
consenso dell’opinione pubblica europea sempre più xenofoba.
L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia, 18 novembre 2025
Anna Polo