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Trattare con i Talebani per “contrastare” i flussi migratori. Il vero volto della solidarietà europea
A fine ottobre la Commissione Europea ha scritto ai 27 Stati membri per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, come l’Afghanistan. Una strategia brutale che getta una luce inquietante sugli aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul. L’Unione Europea sta rispondendo con prontezza alle richieste delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie di inviare aiuti all’Afghanistan alle prese con il freddo che avanza, catastrofi naturali, crisi economica e sospensione dei finanziamenti statunitensi. Ma è autentica solidarietà, generosa e disinteressata, o piuttosto un calcolato avvicinamento al governo talebano per convincerlo a riprendersi i “suoi” immigrati in Europa, in risposta alla sempre maggiore pressione delle forze di destra perché si liberino di questo “fardello”? Per provare a rispondere è utile fare un passo indietro e osservare come si sono mossi alcuni Stati europei in questi ultimi mesi. L’isolamento in cui il governo di fatto dell’Afghanistan è stato confinato con le sanzioni comminate nei confronti dei ministri talebani, che impediscono loro di viaggiare, dovrebbe rendergli impossibile incontrare funzionari di Paesi dell’Unione, tanto più in Europa. Invece la Germania già il 21 luglio non solo ha deportato a Kabul 81 migranti con il coordinamento dell’amministrazione talebana e l’aiuto del Qatar, ma ha persino invitato due rappresentanti diplomatici del governo talebano in Europa perché seguissero le pratiche dei respingimenti in futuro. E questi personaggi non sono stati trattati da funzionari con mansioni “tecniche”: sono stati riconosciuti come nuovi portavoce facenti funzioni consolari, dopo che i precedenti della vecchia Repubblica hanno dato le dimissioni proprio per protesta contro l’invito ai “nuovi” delegati. Si è così scavalcato di fatto ogni impegno al non riconoscimento del governo talebano che gli Stati europei e la stessa Germania continuano a ribadire come loro vincolo imperativo, prefigurando un cambio della politica europea nei confronti del governo de facto. La pensano così anche i Talebani, che infatti si sono affrettati a mettere in risalto il loro nuovo ruolo e a occupare tutti gli spazi resi disponibili in questo nuovo contesto, con grande rischio per gli emigrati e per le loro famiglie, perché ora tutta la documentazione relativa ai profughi che vivono in Germania e alle loro famiglie rimaste in Afghanistan è stata ceduta nelle loro mani. Questa decisione di Berlino ha creato un gravissimo precedente, che altri Stati europei si sono affrettati a seguire. Infatti già il 29 luglio funzionari svizzeri hanno chiesto al loro governo un dialogo diretto con i funzionari dell’Emirato islamico dell’Afghanistan per facilitare il processo di rimpatrio forzato dei richiedenti asilo afghani. Il 30 luglio anche la Svezia ha tentato di ricorrere alla burocrazia per rendere la vita difficile agli immigrati afghani e prepararne l’espulsione, dichiarando nulli i documenti di viaggio non regolari, unici documenti di cui sono in possesso i fuggitivi dall’Afghanistan. Intanto i Talebani hanno alzato il tiro: hanno informato la Svizzera che non avrebbero più accettato i rimpatri che non fossero stati firmati da esponenti del proprio governo, imponendo così di fatto i loro funzionari, tanto che il 23 agosto si sono recati a Ginevra per aiutare a identificare chi dovesse essere deportato in Afghanistan. Anche Vienna si è fatta avanti. A metà settembre una delegazione di cinque membri del Ministero degli Esteri talebano si è recata nella capitale austriaca per discutere le missioni diplomatiche e i servizi consolari ai cittadini afghani che vivono in Austria e in altri Paesi europei. Ma la tappa decisiva è stata l’istanza dei 19 Paesi europei che hanno sottoscritto il 19 ottobre di quest’anno una richiesta al Commissario Europeo per gli Affari interni e le migrazioni affinché venga facilitato il rimpatrio, volontario o forzato, dei cittadini extra-europei senza permesso di soggiorno o asilo, chiedendo quindi che le deportazioni siano trattate come una “responsabilità condivisa a livello dell’UE”. A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Si è poi aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’UE, è un Paese Schengen. Questa stretta migratoria, se è molto grave perché rischia di ripercuotersi pesantemente su tutti i profughi rifugiatisi in Europa, ha una ricaduta ancora più inquietante quando i migranti presi di mira sono cittadini afghani, costretti a tornare a vivere sotto un regime dittatoriale e repressivo dal quale erano fuggiti spesso per salvare la pelle. Ma è ancor più grave per il risvolto internazionale che prefigura, perché si ripercuote sulle relazioni tra Europa e Afghanistan, facendo diventare il governo afghano protagonista di una trattativa che lo riconosce di fatto se non di diritto, secondo una scelta che sembra essere sempre più considerata necessaria anche dai Paesi occidentali, in quanto giustificata da esigenze pragmatiche. Infatti il respingimento degli afghani nel Paese di origine necessita dell’accordo con il governo dei Talebani, fondamentalista e gravemente persecutorio nei confronti delle donne, che nessuno al mondo tranne la Russia ha voluto finora riconoscere. Ma questo governo è disponibile a dare il suo consenso al rientro dei suoi concittadini solo in cambio di un avanzamento del suo posizionamento nel mondo verso il riconoscimento legale. Posizione che rimane sottotraccia nella richiesta di deportazione avanzata degli Stati europei. A estendere la nuova “linea politica” ci ha pensato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, inviando il 22 ottobre una lettera a tutti i 27 Stati dell’Unione per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con i Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, tipo l’Afghanistan. Quindi trattare con il governo talebano, aprendo al dialogo e ai suoi ambasciatori, riconoscendogli di fatto un ruolo ufficiale sebbene ciò contraddica le dichiarazioni che la stessa UE continua a proclamare, è la nuova strategia europea per “ridurre” l’immigrazione. La politica di dialogo dell’UE con il governo talebano è stata del resto ribadita anche dal nuovo rappresentante UE per l’Afghanistan, Gilles Bertrand, che appena eletto si è recato a Kabul per confermare direttamente ai Talebani l’intenzione dell’UE di portare avanti il processo di dialogo stabilito nell’ambito degli accordi di Doha 3 – quelli cioè che escludono qualsiasi trattativa sui diritti delle donne per far piacere ai Talebani – offrendo e chiedendo collaborazione a vari livelli. È quanto del resto ha ribadito il Parlamento Europeo nel suo ultimo comunicato in cui, mentre prende una decisa posizione contro l’apartheid di genere e denuncia le responsabilità dei Talebani, anziché proporre provvedimenti per isolarli stringe i legami attraverso viaggi in Afghanistan e contatti segreti tra diplomatici, giustamente denunciati da alcune deputate europee. In questa ottica, assume una luce più inquietante e interessata l’erogazione di aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul sotto varie forme: non appare come un libero impegno dei Paesi europei democratici, solidali nei confronti del popolo afghano affamato, ma invece come un sostegno al governo talebano per avere in cambio la deportazione dei migranti afghani e agevolare il consenso dell’opinione pubblica europea sempre più xenofoba. L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia, 18 novembre 2025   Anna Polo
Afghanistan: rimpatri forzati di rifugiati afghani dal Tagikistan
Il governo tagiko ha ufficialmente confermato di aver rimpatriato forzatamente dei rifugiati in Afghanistan, secondo il Times of Central Asia. Questa comunicazione fa seguito alle notizie secondo cui 150 rifugiati afghani, molti dei quali con lo status di rifugiato confermato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sono stati arrestati e rimpatriati con la forza dalle autorità. All’inizio di questo mese, tutti i rifugiati afghani in Tagikistan avevano ricevuto un ultimatum di 15 giorni che intimava loro di lasciare immediatamente il Paese. Si teme che molti si trovino ad affrontare situazioni di estremo pericolo al loro ritorno. Si pensa che tra coloro che rischiano il rimpatrio forzato ci siano diversi cristiani, che in Afghanistan andrebbero incontro al carcere o alla pena di morte. I talebani hanno infatti affermato che uccideranno tutti i cristiani che vivono nel Paese. Nel recente passato hanno organizzato vere e proprie cacce all’uomo, casa per casa, nei confronti di cristiani. In particolare, hanno preso di mira i responsabili di chiesa afghani: molti di loro sono scomparsi, mentre altri sono stati picchiati, torturati e uccisi. Dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, l’Afghanistan è arrivato a occupare per un anno il primo posto nella World Watch List di Porte Aperte/Open Doors, che classifica i paesi in cui i cristiani affrontano le persecuzioni e le discriminazioni più estreme. Secondo una dichiarazione ufficiale del Comitato di Stato per la Sicurezza Nazionale della Repubblica del Tagikistan: “Un certo numero di cittadini stranieri ha violato gravemente i requisiti stabiliti per il loro soggiorno. Inoltre, durante l’ispezione, sono emerse le seguenti prove di violazioni (…) della legislazione della Repubblica del Tagikistan: traffico illegale di droga, incitamento e propaganda di movimenti estremisti, presentazione di informazioni e documenti falsi per ottenere lo status di rifugiato. In particolare, a questo si deve anche l’espulsione di un certo numero di cittadini afghani dal Paese. A questo proposito, sono attualmente in esame delle misure per espellerli dal territorio del Tagikistan, in conformità con la legislazione della Repubblica“. Secondo l’agenzia di stampa Khamaa Press, questi rimpatri forzati hanno separato le famiglie. Ci sarebbero anche casi di bambini rimpatriati mentre i genitori si trovano ancora in Tagikistan. Alcuni dei rifugiati che si trovavano nel paese avevano domande di asilo attive e alcuni dovevano essere reinsediati in Canada. Il Tagikistan è solo una delle nazioni che ha rimpatriato i rifugiati afghani. Secondo l’UNHCR, più di un milione di afgani sono stati rimpatriati dal Pakistan a seguito del suo “Piano di rimpatrio degli stranieri illegali”. Allo stesso modo, nel 2024 circa un milione di persone sono state forzatamente rimpatriate dall’Iran. Jan de Vries, ricercatore di Porte Aperte/Open Doors per l’Asia Centrale, ha commentato: “Sono molto preoccupato per le donne che sono state deportate: che futuro avranno? E penso anche ai cristiani deportati che dovranno nascondersi ancora più di prima. Il rimpatrio potrebbe mettere a serio rischio la vita dei cristiani, poiché i talebani si oppongono violentemente all’esistenza di cristiani in Afghanistan“. L’Afghanistan si trova alla posizione numero 10 della World Watch List. In questo Paese, abbandonare l’islam è considerato un’onta dalla famiglia e dalla comunità, e la conversione è punibile con la morte secondo la legge islamica, la Sharia, applicata in modo sempre più rigoroso da quando i talebani hanno preso il controllo del paese nel 2021. Fonte CS di Fondazione Porte Aperte ETS Redazione Italia
CPR: “COSTI ELEVATISSIMI E RIMPATRI AI MINIMI STORICI”, LA DENUNCIA DI ACTIONAID ED UNIBA
Il lavoro di ricerca di Action Aid e dell’Università di Bari, ha fatto emergere nuovi dati che riguardano i 14 centri di reclusione per persone considerate non in regola con i documenti, in Italia e in Albania. Dall’analisi dei dati dai quali parte la denuncia, emergono costi elevatissimi e rimpatri ai minimi storici. Nel frattempo sono 287 i migranti giunti a Lampedusa dopo che le motovedette di guardia costiera, Frontex e Guardia di Finanza hanno soccorso 5 barconi.  Due dei migranti, con intossicazione da idrocarburi, sono stati trasferiti in elisoccorso al Civico di Palermo. Sui barconi, salpati da Zuwara e Zawija in Libia, gruppi di egiziani, siriani, iraniani, bengalesi, eritrei, pakistani e somali. “Il più costoso, inumano e inutile strumento nella storia delle politiche migratorie italiane”. Con queste parole ActionAid e l’Università degli studi di Bari definiscono il CPR di Gjader che, nel 2024, è stato “effettivamente operativo” per appena 5 giorni per un costo giornaliero di 114 mila euro. Il dossier, pubblicato sul portale “Trattenuti”, esamina i costi e l’efficienza del centro albanese, nato in seguito alla stipula del discusso protocollo tra Roma e Tirana. A fine marzo 2025, spiegano ActionAid e Unibari – a Gjader erano stati realizzati 400 posti. “Per la sola costruzione (compresa la struttura non alloggiativa di Shengjin) sono stati sottoscritti contratti, con un uso generalizzato dell’affidamento diretto, per 74,2 milioni – si legge nella ricerca. L’allestimento di un posto effettivamente disponibile in Albania è costato oltre 153mila euro. Il confronto con i costi per realizzare analoghe strutture in Italia è impietoso: nel 2024 il Cpr di Porto Empedocle è costato 1 milione di euro per realizzare 50 posti effettivi (poco più di 21.000 euro a posto)”. Inoltre, secondo i dati pubblicati sul portale, per l’ospitalità e la ristorazione delle forze di polizia impiegate sul territorio albanese, l’Italia ha speso una cifra che si aggira attorno ai 528 mila euro.  Nell’aggiornamento dei dati su tutti i Cpr presenti in Italia, ActionAid e l’Ateneo pugliese evidenziano inoltre come nel 2024 si sia registrato il minimo storico dei rimpatri negli ultimi dieci anni. Ci espone i dati della ricerca di ActionAid ed UniBari, Fabrizio Coresi, esperto migrazione di Action Aid. Ascolta o scarica
Aumentano nel mondo gli sfollamenti forzati
Alla fine del 2024, si stima che 123,2 milioni di persone in tutto il mondo siano state costrette a sfollare a causa di persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani ed eventi che hanno gravemente turbato l’ordine pubblico. Si tratta di un aumento di 7 milioni di persone, pari al 6%, rispetto alla fine del 2023. Sebbene gli spostamenti forzati siano quasi raddoppiati a livello globale nell’ultimo decennio, il tasso di crescita ha subito un rallentamento nella seconda metà del 2024. Entro la fine di aprile 2025, l’UNHCR stima che il numero globale di persone costrette alla fuga sia probabilmente diminuito leggermente, dell’1%, attestandosi a 122,1 milioni, il primo calo in oltre un decennio. Lo rivela il rapporto annuale Global trends 2024, elaborato dall’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr). Se questa tendenza continuerà o si invertirà per il resto del 2025 dipenderà in larga misura dalla possibilità di raggiungere la pace o almeno la cessazione dei combattimenti, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, in Sudan e in Ucraina; se la situazione nel Sudan del Sud non peggiorerà ulteriormente; se le condizioni per il rimpatrio miglioreranno, in particolare in Afghanistan e Siria; e quanto grave sarà l’impatto degli attuali tagli ai finanziamenti sulla capacità di affrontare le situazioni di sfollamento forzato in tutto il mondo e di creare condizioni favorevoli per un rimpatrio sicuro e dignitoso. Le soluzioni per rifugiati e sfollati interni sono aumentate nel corso del 2024, con il numero di rifugiati che ha raggiunto il livello più alto degli ultimi vent’anni (1,6 milioni). Tuttavia, alla base di queste tendenze positive per ciascuna soluzione, vi sono preoccupazioni circa i rischi intrinseci per la protezione delle persone costrette alla fuga e la sostenibilità a lungo termine di queste soluzioni. Nell’ultimo anno, il 92% degli 1,6 milioni di rifugiati rimpatriati ha avuto come destinazione solo quattro Paesi: Afghanistan, Siria, Sud Sudan e Ucraina. Molti rifugiati afghani, siriani e sud sudanesi sono tornati in condizioni avverse e sono arrivati in situazioni di estrema fragilità. In Ucraina, nonostante la guerra sia entrata nel suo quarto anno, molti rifugiati vulnerabili hanno scelto di tornare in parte a causa delle difficoltà di accesso ai diritti e ai servizi nei Paesi ospitanti. In Afghanistan, i rimpatriati sono arrivati in un Paese afflitto da povertà dilagante, disoccupazione alle stelle, servizi pubblici gravemente inadeguati e diffusa insicurezza alimentare. Lo scorso anno si è registrato anche il numero più alto di rifugiati reinsediati in Paesi terzi da oltre 40 anni (188.800). Inoltre, nel 2024, quasi 88.900 rifugiati hanno ottenuto la cittadinanza del Paese ospitante o la residenza permanente. Oltre 8,2 milioni di sfollati interni sono tornati nelle loro aree di origine nel 2024, il secondo numero più alto mai registrato. Tuttavia, in assenza di pace e stabilità nel loro Paese, molti sfollati interni rimangono intrappolati in cicli di rimpatri seguiti da nuovi spostamenti, e i conflitti si stanno protraendo sempre di più. Molti di questi rimpatri potrebbero quindi non essere sostenibili.  Per quanto riguarda la Siria, la guerra ha causato una delle più grandi crisi di sfollamento forzato al mondo: alla fine del 2024 un quarto della popolazione era sfollata, inclusi 6,1 milioni di rifugiati e richiedenti asilo siriani e 7,4 milioni di sfollati interni. La caduta del governo di Assad, l’8 dicembre, ha riacceso la speranza di un ritorno, ma la situazione resta instabile, con il rischio costante di ulteriori nuovi espatri. A metà maggio, si stima che oltre 500.000 siriani siano rientrati in Siria dalla caduta del governo di Assad. Si stima che anche 1,2 milioni di sfollati interni siano tornati nelle loro aree di origine. La sostenibilità di questi ritorni dipenderà da molti fattori, tra cui l’evoluzione complessiva della situazione della sicurezza in Siria, nonché la disponibilità di alloggi, servizi pubblici, infrastrutture e la rivitalizzazione dell’economia. Tuttavia, si stima che entro la fine del 2025 potrebbero rientrare fino a 1,5 milioni di siriani provenienti dall’estero e 2 milioni di sfollati interni. L’UNHCR continua a esortare gli Stati a non rimpatriare forzatamente i siriani. Molte famiglie al loro ritorno trovano le loro case danneggiate o distrutte e affrontano ostacoli significativi nella ricostruzione delle loro vite. In questo momento cruciale, è fondamentale sostenere la ripresa della Siria. La popolazione globale di rifugiati è invece diminuita dell’1%, raggiungendo i 42,7 milioni nel corso dell’anno. Questa cifra include 36,8 milioni di rifugiati sotto il mandato dell’UNHCR, tra cui 4 milioni di persone in una situazione simile a quella dei rifugiati e 5,9 milioni di altre persone bisognose di protezione internazionale, nonché 5,9 milioni di rifugiati palestinesi sotto il mandato dell’UNRWA. Tuttavia, rispetto a dieci anni fa, il numero totale di rifugiati sotto il mandato dell’UNHCR è più che raddoppiato, raggiungendo i 36,8 milioni entro la fine del 2024. L’UNHCR parla di un sistema umanitario al limite della sopportazione: “Senza finanziamenti adeguati, non ci saranno sufficienti aiuti alimentari e un alloggio di base per gli sfollati. I servizi di protezione, compresi gli spazi sicuri per donne e ragazze rifugiate a rischio di violenza, saranno probabilmente interrotti. Le comunità che hanno generosamente ospitato le persone sfollate per anni rimarranno senza il supporto di cui hanno bisogno. E, forse la cosa più critica, le speranze di ritorno non si materializzeranno o il ritorno non sarà dignitoso e non sarà accompagnato da un aumento dei servizi adeguati nei Paesi di origine. Di conseguenza, le persone che tornano potrebbero non avere altra scelta che ripartire. Per ridurre il numero di persone costrette a spostarsi, è necessario compiere progressi significativi sulle cause profonde: conflitti, disprezzo per i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario, altre forme di violenza e persecuzione. Nel frattempo, è più che mai essenziale reperire risorse per far fronte alle urgenti necessità umanitarie, per sostenere i Paesi ospitanti, per proteggere le persone dai rischi di pericolosi spostamenti e per aiutare i rifugiati e le altre persone costrette a sfollare a trovare soluzioni durature. Le conseguenze dell’inazione ricadranno su coloro che meno se lo potranno permettere”. Qui per scaricare il Rapporto: https://www.unhcr.org/global-trends-report-2024. Giovanni Caprio
L’Italia di Giorgia Meloni all’attacco della giustizia internazionale
Non bastavano gli attacchi del governo Meloni alla Corte Penale internazionale, dopo il rilascio del comandante Almasri ricercato dai giudici dell’Aja, una vicenda sulla quale le autorità italiane hanno chiesto diverse proroghe per ritardare la risposta ai quesiti posti dalla Corte, mentre procedono le attività di indagine del Tribunale dei ministri. Adesso nel mirino viene messa la Corte europea dei diritti dell’Uomo, che in passato ha condannato in diverse occasioni i respingimenti illegali e i trattenimenti amministrativi non formalizzati, praticati dalle forze di polizia alle frontiere e nei centri Hotspot. Altre condanne dalla Corte di Strasburgo erano state inflitte all’Italia per il trattenimento in condizioni disumane nei CPR (centri per i rimpatri), o per il trattenimento di persone che non avrebbero dovuto essere rinchiuse in queste strutture. In passato l’Italia era stata condannata (caso Richmond Yaw) anche per il trattenimento amministrativo prolungato oltre i termini di legge, in assenza di qualsiasi base legale. Condanne che adesso potrebbero ripetersi a catena, come si è già verificato con l’Ungheria di Orban, a fronte delle pratiche di deportazione in Albania, e del ricorso alla detenzione amministrativa come strumento privilegiato per gestire una politica dei rimpatri che rimane fallimentare, sul piano dei risultati numerici, e sotto il profilo del mancato rispetto dei diritti umani delle persone sottoposte a procedure di detenzione pre-espulsiva, tra loro anche numerosi richiedenti asilo. L’Italia e la Danimarca, secondo quanto si apprende dal sito Euractiv, starebbero chiedendo ad altri paesi europei di sottoscrivere un documento che critica la Corte europea dei diritti dell’uomo per essere andata “troppo lontano” nell’interpretazione della legge, in particolare sulle questioni migratorie. Nella bozza del documento visto da Euractiv, i due paesi lamentano che alcune recenti decisioni della Corte di Strasburgo avrebbero esteso il significato della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo oltre i suoi originari intenti, limitando la loro capacità di “prendere decisioni politiche nelle nostre democrazie”. Un argomento consueto usato dagli esponenti dei partiti populisti per fare pesare il principio di maggioranza in decisioni che nello Stato democratico di diritto dovrebbero essere rimesse esclusivamente alla legge come applicata dal giudice, secondo quanto impone nel nostro ordinamento l’art. 101 della Costituzione. Alcune fonti italiane avrebbero confermato l’esistenza del documento a Euractiv, aggiungendo che sarebbe ancora oggetto di valutazione la sua firma. L’obiettivo, sarebbe quello di una Convenzione EDU interpretata in modo da riflettere meglio le “sfide della moderna migrazione irregolare”, perché “quello che una volta era giusto potrebbe non essere la risposta di domani”. Corrispondono a questi intenti le posizioni del partito popolare europeo della presidente della Commissione Von der Leyen che ha chiesto una revisione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati per allinearla al “mondo attuale”. Posizioni che al di là della svolta repressiva del nuovo cancelliere Merz in Germania, incalzato dai neo-nazisti dell’AFD, potrebbero portare l’Unione europea ad una gravissima crisi politica, se non ad una frattura definitiva. Senza diritti umani, senza diritto di asilo, non ci potrà essere più Unione europea. Il documento promosso da Italia e Danimarca sarebbe ancora aperto in vista della raccolta di altri firmatari e dovrebbe essere pubblicato nelle prossime settimane, dopo mesi di crescenti richieste di rivedere o reinterpretare i quadri giuridici internazionali di vecchia data, in particolare quelli relativi alla migrazione. Tra i potenziali firmatari figura il gruppo informale di paesi dell’UE interessati ad un inasprimento delle normative sulle migrazioni, che l’Italia e la Danimarca hanno promosso e presieduto nel corso dell’ultimo anno, in vista dei vertici dei leader europei. Si tratta di Repubblica ceca, Finlandia, Polonia e Paesi Bassi. Ma non si può dimenticare che l’Italia è stata anche principale promotrice del gruppo dei paesi mediterranei (Spagna, Malta, Cipro, Grecia) che si è cercato di aggregare per sollecitare a livello europeo l’anticipazione dei Regolamenti che devono ancora entrare in vigore a seguito del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo dello scorso anno, a partire dalla lista comune dei paesi di origine “sicuri”. Una questione sulla quale si avvicina l’atteso pronunciamento della Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla quale si sta cercando di esercitare pressioni, riunendo un gruppo ancora più ampio di paesi che sono intervenuti nel giudizio, in linea con il governo Meloni, per imporre una definizione estensiva della definizione di “paese di origine sicuro”, anche quando siano riscontrabili diffuse violazioni dei diritti umani. Nell’ultimo incontro con il premier greco Kyriakos Mitsotakis, che si è svolto a Villa Pamphilj a Roma l’intesa sull’attacco alla Corte europea dei diritti dell’Uomo non sarà mancata. Anche la Grecia ha subito diverse condanne dalla Corte di Strasburgo per molteplici casi di detenzione amministrativa in condizioni disumane e sistematici respingimenti illegali. Giorgia Meloni ha dichiarato di lavorare “per consolidare un cambio di approccio che in Unione europea si sta manifestando nei confronti dei flussi migratori”. Evidentemente i diritti umani, e le Corti internazionali che ne potrebbero garantire l’effettivo riconoscimento, danno fastidio a governi che, non solo in materia di trattenimento amministrativo e rimpatri forzati, stanno cercando in tutti i modi di ridurre la portata dei controlli giurisdizionali anche sul piano del diritto nazionale, a vantaggio dei poteri dell’esecutivo e delle forze di polizia. Ma l’insistenza di Giorgia Meloni e del suo governo sull’inasprimento delle politiche migratorie sta portando l’Italia all’isolamento nell’Unione europea, malgrado il residuo sostegno della Commissione. Non potranno che risultare vani gli sforzi per dimostrare un ruolo guida che non potrà essere riconosciuto ad un governo che, sui dossier economici e in materia di sicurezza, è più vicino al trumpismo globale che ai nuovi equilibri che si stanno costruendo a Bruxelles. Di certo nell’ottica delle politiche di rimpatrio, tanto importanti per l’Unione europea, i risultati conseguiti dall’Italia, anche con il Protocollo Italia-Albania, sono fallimentari. Mentre si continua a lavorare per svuotare il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona, nella prospettiva di accordi bilaterali, come nel caso del recente viaggio del ministro Piantedosi in Pakistan, dopo gli accordi con paesi come l’Egitto, la Libia e la Tunisia, e si rilancia il logoro rituale della difesa dei confini nazionali, persone innocenti, anche bambini di pochi anni, continuano a morire, in mare e nei paesi di transito, per effetto di precise scelte politiche che non si potranno più nascondere dietro i richiami alle responsabilità degli scafisti ed alla lotta ai trafficanti nell’intero globo terracqueo. Con la delegittimazione della giustizia internazionale e con accordi con paesi che non rispettano i diritti umani non si arrestano gli arrivi di migranti, ma si garantisce soltanto impunità a chi abusa, in mare ed a terra, di persone costrette a vario titolo a migrazioni forzate. E al di là dei tentativi di normalizzazione si favoriscono, soprattutto nei paesi di transito, come la Libia, conflitti interni e scontri armati che potrebbero estendersi anche a livello regionale. La storia insegna che la negazione dei diritti umani porta inevitabilmente alla moltiplicazione dei focolai di guerra. Fulvio Vassallo Paleologo
I dati su sbarchi e rimpatri smentiscono i “successi” del governo
1. I numeri degli sbarchi del 2025, secondo il cruscotto statistico del Viminale, hanno ormai superato quelli dell’anno precedente, anche se il ministro dell’interno Piantedosi alla fine di marzo vantava come un successo la riduzione del numero degli arrivi, legata principalmente ad accordi con paesi terzi come la Tunisia, che non rispettano i diritti umani e le garanzie dello Stato di diritto, incoraggiati dai consistenti finanziamenti che incassano dall’Italia e dall’Unione europea per bloccare le partenze di migranti, anche a costo di lasciarli abbandonati nel deserto. Finanziamenti che sempre più spesso sono diretti a foraggiare “rimpatri volontari” che di fatto non lasciano alcuna facoltà di scelta. Nei primi 4 mesi del 2025 si contavano 15.543 “arrivi irregolari”, a fronte di 16.137 nello stesso periodo del 2024 e di 42.201 nel 2023. Ma dal 25 aprile al primo maggio sono sbarcate 2.659 persone, tanto da superare gli sbarchi registrati nello stesso periodo dello scorso anno. Mentre è difficile fare paragoni con il 2023 i cui dati risentivano della fine dell’emergenza Covid e di un consistente numero di partenze dalla Tunisia, che adesso sono temporaneamente diminuite. Lo scorso 2 maggio nel centro “hotspot” di Lampedusa si registrava la presenza di 1052 “ospiti”, malgrado i continui trasferimenti, dopo che il 28 aprile gli “ospiti” erano stati 938, il 20 aprile 446, il 5 aprile 581 con undici “sbarchi” in una sola giornata. Nella maggior parte dei casi però non si trattava di sbarchi veri e propri, in autonomia, ma di soccorsi operati al limite delle acque territoriali italiane, da unità della Guardia costiera e della Guardia di finanza. Evidentemente l’estensione dei casi di trattenimento amministrativo per i richiedenti asilo e le deportazioni in Albania, riprese ad aprile, non hanno alcun effetto di deterrenza rispetto a persone costrette a tentare la traversata del Mediterraneo per fuggire agli abusi dei quali sono vittime in Libia e in Tunisia. 2. A differenza di quanto avviene per gli “sbarchi” non è facile reperire dati aggregati sulle operazioni di rimpatrio con accompagnamento forzato effettivamente eseguite, a parte sporadiche comunicazioni propagandistiche su casi isolati di rimpatri seguiti a espulsioni ministeriali per motivi di sicurezza. Nei CPR (centri per i rimpatri) finiscono persone con le più disparate provenienze, anche richiedenti asilo con procedure ancora in corso, e in assenza di una tempestiva informazione e di una effettiva difesa, vengono rimpatriate persone che avrebbero diritto alla protezione. Nel corso dell’intero 2024 sono state espulse soltanto 5.414 persone, appena 800 in più rispetto all’anno precedente. Dietro le percentuali fornite senza dati assoluti, lanciate dal Viminale a scopo di propaganda (più 15-20 per cento), si nasconde come i rimpatri effettivamente eseguiti rimangano sugli stessi numeri degli anni precedenti. E si continua a morire di CPR, da ultimo nel centro di Restinco a Brindisi, dove ‘un uomo di 35 anni è stato trovato morto nel letto all’interno del centro per il rimpatrio nel Brindisino. L’accaduto poche ore prima della visita dell’onorevole del Pd Claudio Stefanazzi, che nulla ha saputo dagli addetti ai lavori. Sembra ancora una volta caduta nel vuoto la denuncia del Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa, che pochi giorni fa ha denunciato sovraffollamento e violenze sistematiche anche all’interno dei CPR italiani. Come se non fossero servite a nulla le condanne riportate dall’Italia di fronte alla Corte europea dei diritti dell’Uomo per casi di maltrattamenti o di ingiusta detenzione nei CPR, alle quali sono seguite condanne al risarcimento danni da parte dei Tribunali italiani. Con la sentenza Richmond Yaw e altri c. Italia, pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 5 par. 1, lett. f e par. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per il prolungamento arbitrario del trattenimento amministrativo all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma), e per il mancato riconoscimento del diritto alla riparazione del danno derivante dalla ingiustificata privazione della libertà personale.  Il 7 febbraio scorso la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha ordinato il trasferimento, verso un’altra struttura, di una persona che era riuscita a rivolgersi ai giudici di Strasburgo, che hanno espressamente intimato al governo italiano “la modifica delle condizioni di accoglienza”. Una indicazione che dovrebbe valere per tutti i centri di detenzione amministrativa in Italia. 3. Sembra attenuarsi la propaganda sui rimpatri da incrementare attraverso il centro di Gjader in Albania, ma pur sempre con partenza dal territorio italiano. I provvedimenti della magistratura e la mancata collaborazione della quasi totalità dei paesi di origine, anche di quelli designati come “sicuri”, sta azzerando di fatto questo ennesimo tentativo di riavvio del “modello Albania”. Per dimostrare l’efficienza del sistema di rimpatri si sta puntando molto sulla selezione di immigrati irregolari bengalesi, come il primo che sarebbe stato rimpatriato dopo essere stato trasferito a Gjader, ma si nasconde che su 13.779 bangladesi sbarcati nell’intero 2024 i rimpatri sono stati appena 73, di cui solo 11 transitati da un CPR. Ovunque domina una totale opacità, al punto che non si sa con certezza se gli ultimi rimpatri attraverso il centro per i rimpatri (CPR) di Gjader (e poi dal territorio italiano!) siano stati volontari o forzati. Il Ministero dell’interno è arrivato al punto di negare alle delegazioni parlamentari arrivate per svolgere attività ispettive in Albania l’esibizione dei provvedimenti di espulsione e di trattenimento amministrativo delle persone detenute a Gjader. 4. I media vicini al governo hanno intanto messo la sordina al caso Almasri, ancora oggetto di indagine dal Tribunale dei ministri, sul quale l’Italia continua a chiedere proroghe sull’informativa che sarebbe tenuta ad inviare alla Corte Penale internazionale, oggetto di una continua delegittimazione. Mentre non si racconta più nulla sull’attuazione degli accordi stipulati con il governo di Tripoli, adesso sotto l’influenza dominante della Turchia di Erdogan. E Giorgia Meloni vanta “l’azzeramento” delle partenze dalle coste turche. 5. Oltre alle menzogne di governo, nessuno scrive dei naufragi, sulle rotte del Mediterraneo centrale, le più pericolose del mondo, che sono diventati eventi ai quali l’opinione pubblica sembra ormai assuefatta. Domenica 27 aprile cinque persone hanno perso la vita a causa dell’affondamento di un’imbarcazione davanti all’isola di Lampedusa, mentre altri otto corpi sono stati recuperati dopo il ribaltamento di una barca al largo della Tunisia. E in precedenza, il 17 aprile, altre decine di persone erano finite disperse sulla rotta libica, nel silenzio complice delle autorità e dei principali media italiani. La finzione della “zona Sar libica”, e la mancata cooperazione delle autorità maltesi, fanno ancora vittime in questi giorni, anche per ipotermia, dopo ore di inutile attesa dei soccorsi, arrivati in acque internazionali, solo con l’intervento di motovedette della Guardia costiera. Le navi umanitarie delle Ong vengono intanto spedite sempre più lontano, in porti “vessatori” imposti dal Viminale per impedire soccorsi troppo frequenti. A breve però il Decreto Piantedosi (legge n.15/2023,) che permette queste prassi, sarà oggetto di scrutinio davanti la Corte Costituzionale. Purtroppo non sembra che importanti riconoscimenti delle menzogne scaricate sui soccorsi civili riescano a bloccare il degrado del senso comune indotto dalla martellante propaganda delle destre. Nel Mediterraneo ormai i migranti si respingono con i droni e gli aerei, in modo da tagliare fuori le navi umanitarie e favorire anche in acque internazionali le intercettazioni, attività di contrasto dell’immigrazione (law enforcement) che non rientrano tra le operazioni di ricerca e salvataggio (SAR), affidate alle motovedette libiche e tunisine. 6. Il governo ha respinto al mittente le preoccupazioni espresse lo scorso 28 marzo, dal Comitato per i diritti umani sull’implementazione del Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite, sulla “gestione extraterritoriale delle procedure di migrazione e asilo, come quelle riguardanti la detenzione automatica dei migranti e il rischio di una detenzione prolungata”. Ma la proposta di un nuovo Regolamento europeo sui cd. hub di rimpatrio in paesi terzi sicuri è ancora ferma a Bruxelles e la sua approvazione, al termine della procedura di co-legislazione, non appare tanto vicina come annunciato da Meloni e da Piantedosi. Il governo Meloni intanto insiste nella delegittimazione della Corte Penale internazionale, mentre sembra attendere con fiducia la prossima decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea sui rinvii per questioni pregiudiziali sollevate dai tribunali italiani in merito (non solo) alla designazione dei paesi di origine “sicuri”, ma più in generale sulle procedure in frontiera. Questioni che non possono essere rimesse ad una maggioranza che controlla l’attività legislativa attraverso l’esecutivo, con una raffica di decreti legge, da convertire a colpi di fiducia, in modo da comportare un completo esautoramento del Parlamento e degli organi di controllo. 7. Con la sentenza n. 81 del 2012, la Corte costituzionale ha stabilito che gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate. Le politiche migratorie, sui fronti cruciali della detenzione amministrativa e delle operazioni di rimpatrio forzato, devono basarsi su solide basi legali, e su dati reali, mentre i risultati conseguiti vanno comunicati con la più assoluta trasparenza. Quando questo non si verifica, come in questi ultimi anni, non viene soltanto tradita la fiducia dei cittadini elettori, ma si allontana la possibilità di fornire soluzioni ai problemi reali, mentre l’azione di governo si nasconde dietro la propaganda dell’insicurezza. Fulvio Vassallo Paleologo