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Crimini di sistema contro il Popolo migrante: quale giurisdizione?
Venerdì 24 ottobre alle 18.30 sarà presentato allo Spazio Sintesi di Palermo il libro di Rino Messina “Closed Arms. Non si accettano migranti” edito dall’Istituto Poligrafico Europeo. Ne discuterà con l’autore, tra gli altri, Fulvio Vassallo Paleologo. Ecco la traccia del suo intervento Nel corso degli anni si è riscontrata una progressiva eliminazione dei diritti di difesa delle vittime delle prassi di allontanamento forzato, respingimento e detenzione amministrativa. La circostanza che le violazioni dei diritti fondamentali di gruppi di persone costrette a lasciare il proprio paese siano diventate tanto frequenti, con modalità omogenee e prive di una qualsiasi sanzione giuridica, tale che ne possa impedire la reiterazione, hanno permesso di individuare un popolo migrante. Un «popolo» dotato di una sua specifica connotazione, nei confronti del quale si commettono reati comuni e crimini internazionali, che possono assumere il carattere di crimini sistematici. Come è emerso da numerose testimonianze individuali e da rapporti concordanti, come quelli delle Nazioni Unite, di MEDU (Medici per i diritti umani) e di altre organizzazioni indipendenti, esaminati nel corso della sessione di Palermo del Tribunale Permanente dei popoli, che si è svolta nel dicembre del 2017, con particolare riguardo rispetto alle rotte migratorie nel Mediterraneo centrale . Nella successiva sessione del TPP, nel 2018 a Barcellona,si rilevava come venissero generati spazi non-giuridici (o di non diritto), “perché le leggi vengono trasformate in mere affermazioni formali: sono perfettamente formulate, ma non hanno applicazione nella pratica. Le politiche di immigrazione distruggono il capitale legale diritti umani: degerarchizzano le norme e i valori supremi che governano le nostre società”. Anche in quella occasione si metteva dunque in evidenza, al di là della peculiare situazione nei singoli paesi, la diffusa negazione della giurisdizione, come strumento per dare effettività al riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone. A Berlino, nel 2020, il Tribunale permanente dei Popoli concludeva che “Le caratteristiche principali e impressionanti degli scenari che sono stati presentati al TPP nei suoi anni di attività, culminati nella Sessione di Berlino, devono essere visti alla luce della sostanziale negazione da parte delle istituzioni nazionali ed europee del permanente e schiacciante accumulo delle prove più tragiche di violazioni dei diritti umani individuali e collettivi dei popoli migranti e rifugiati lungo tutte le rotte marittime e terrestri che conducono ad un luogo europeo che dovrebbe essere un porto sicuro. Nella categoria dei “crimini di sistema”, si comprendono politiche statali e scelte economiche che sacrificano diritti fondamentali della persona. Nella categoria più ampia dei crimini di sistema possono rientrare sia i crimini contro l’umanità, che possono essere sanzionati dalla Corte Penale internazionale e dalla Corte internazionale di giustizia, che reati comuni, sanzionabili già dalla giurisdizione nazionale, come il sequestro di persona, o l’omissione di soccorso, commessi da agenti istituzionali per effetto di scelte politiche. Già nella sentenza del TPP di Palermo si osservava come l’allontanamento forzato delle navi delle ONG dal Mediterraneo, indotto anche dal Codice di condotta Minniti imposto dal governo italiano nel mese di luglio del 2017, avesse indebolito significativamente le azioni di ricerca e soccorso dei migranti in mare e contribuisse ad aumentare quindi il numero delle vittime, consentendo di fatto ai libici di estendere la loro giurisdizione in acque internazionali, come se le zone di ricerca e salvataggio fossero spazi di sovranità, e non piuttosto aree di responsabilità per attività di ricerca e salvataggio. A partire dal 2020 il ruolo di coordinamento della sedicente Guardia costiera è stato più frammentato, dopo il ridimensionamento della missione italiana in Libia, e l’ingresso della Turchia nelle aree costiere della Tripolitania, ma sempre più violento, mentre aumentava la pressione dell’Egitto sulla Libia orientale. Con la conseguenza che anche dalla Cirenaica, soprattutto dalla zona di Tobruk, sono ripresi transiti e partenze che negli anni precedenti sembravano bloccati quasi del tutto. Malgrado accordi successivi, stipulati nel 2023 anche da rappresentanti dell’Unione Europea con il governo Saied, neppure la rotta tunisina veniva chiusa del tutto, e nonostante le violente azioni di repressione e gli interventi talvolta mortali della guardia costiera tunisina, riprendevano periodicamente le partenze verso la Sicilia, ed aumentava il numero delle vittime. In entrambi i casi la polverizzazione delle procedure di conclusione degli accordi a diversi livelli di responsabilità, e la frammentarietà degli interventi di intercettazione in mare, spacciati per operazioni di ricerca e soccorso (SAR), impedivano il ricorso alla giurisdizione e la sanzione dei responsabili. In questo contributo, con particolare riferimento alle rotte migratorie attraverso il Mediterraneo centrale, si esamineranno i diversi casi della giurisdizione interna ed internazionale che in Italia ed a livello europeo, dal 2017 ad oggi, hanno affrontato le materie oggetto della sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli adottata nella sessione di Palermo. Di fronte ad una travagliata involuzione della giustizia internazionale, si può parlare oggi di giurisdizione negata. Si tratta di un fenomeno che, soprattutto in base ad accordi intergovernativi, si rileva con diverse modalità in tutti i settori del Mediterraneo. Nel 2017 la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha riconosciuto la propria carenza di giurisdizione sugli accordi stipulati dai singoli paesi membri con la Turchia. Con tre ordinanze, del 28 febbraio 2017 (T-192/16, T-193/16 e T-257/16), il Tribunale dell’Unione ha dichiarato la propria incompetenza e ha quindi respinto i ricorsi introdotti, a norma dell’art. 263 TFUE, da due cittadini pakistani e da un cittadino afgano, richiedenti asilo in Grecia, con riguardo al c.d.accordo sui migranti del 18 marzo 2016 tra Unione europea e Turchia. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha delimitato la propria giurisdizione in modo da non intralciare le intese operative tra Italia e Libia per sequestrare i naufraghi in acque internazionali e deportarli nei lager dai quali sono fuggiti. Anche per la Corte di Strasburgo, evidentemente, le Convenzioni internazionali di diritto del mare ormai non valgono nulla. E non rileva neppure il ruolo criminale di comandanti libici come Bija o come Abdel Ghani al-Kikli, uccisi in faide tra milizie, dopo essere stati, per conto del governo di Tripoli, interlocutori privilegiati delle autorità italiane e protagonisti di respingimenti collettivi su delega e di sequestri di persone migranti intercettate in acque internazionali. A giugno del 2025 sembra che un cerchio si sia definitivamente chiuso, soffocando i diritti delle persone migranti a partire dal diritto alla vita, fino al diritto di chiedere asilo e di non subire trattamenti disumani o degradanti. I giudici della Corte europea dei diritti dell’Uomo hanno negato la loro giurisdizione sul caso del respingimento collettivo operato da una motovedetta libica il 6 novembre 2017 (caso S.S./Italia), richiamandosi al caso Hirsi del 2009, ma di fatto capovolgendone la portata sostanziale, con la legittimazione delle sedicenti guardie costiere libiche, nei cd. respingimenti su delega, in acque internazionali. La cartina di tornasole della effettiva portata degli accordi con i governi di paesi terzi che non rispettano i diritti umani è stata offerta da ultimo nel caso dell’arresto in Italia del comandante libico Almasri sulla base di un mandato di cattura emesso dalla Corte Penale internazionale e tempestivamente trasmesso alle autorità italiane. Dopo settimane nelle quali diversi esponenti di governo avevano negato l’apertura di indagini da parte della Corte Penale internazionale, il 16 febbraio 2025 la Camera preliminare della CPI ha rivolto un invito alla Repubblica Italiana (“Italia”) a presentare osservazioni per spiegare la mancata consegna di Osama Elmasry/Almasri Njeem alla Corte dopo il suo arresto in territorio italiano. Alla vigilia del rinnovo del Memorandum d’intesa con la Libia, la Camera preliminare della Corte Penale Internazionale ha concluso la sua indagine e lo scorso 17 ottobre ha formulato gravi accuse nei confronti del governo italiano, che non ha prestato la collaborazione dovuta nel caso del comandante libico Njeem Almasri. In via preliminare,” la Camera osserva che l’Italia ha avanzato argomentazioni diverse e contraddittorie nelle sue diverse memorie presentate prima alla Cancelleria e poi dinanzi alla Camera. Nelle sue varie memorie, l’Italia adduce presunte giustificazioni per la mancata consegna del signor Njeem alla Corte, tra cui presunte preoccupazioni relative al mandato d’arresto. La Camera osserva, tuttavia, che l’Italia non spiega, in nessuna delle sue memorie, perché non abbia comunicato con la Corte né le sue preoccupazioni né eventuali ostacoli giuridici interni, prima di restituire il signor Njeem. A tale riguardo, la Camera osserva che il Ministero della Giustizia italiano ha cessato le sue comunicazioni con la Corte poco dopo averle notificato l’arresto del signor Njeem da parte della polizia italiana. Nonostante sia stato ripetutamente interpellato in merito, il Ministero non ha informato la Corte quando si sarebbe tenuta l’udienza dinanzi alla Corte d’Appello di Roma. Inoltre, non ha tempestivamente informato la Corte dell’esito dell’udienza né della sua intenzione di rimpatriare il signor Njeem in Libia a seguito della decisione della Corte d’Appello di Roma”. Il governo italiano ha giustificato il rimpatrio di Almasri con “motivi di sicurezza e il rischio di ritorsioni”, ma la Corte ritiene tali spiegazioni “molto limitate”, osservando che “non è chiara” la scelta di “trasportarlo in aereo verso la Libia”. I tempi dei procedimenti davanti alla Corte Penale internazionale sono molti lunghi, e non è neppure scontato che la Corte arrivi ad una sentenza di condanna, in un momento in cui gli Stati più esposti al suo giudizio, come gli Stati Uniti, la Russia, Israele, seguiti dall’Italia e da altri paesi schierati all’ombra di Trump, ne attaccano sul piano personale i giudici e ne contestano la giurisdizione, nel tentativo di una definitiva delegittimazione della Corte. Sulla mancata autorizzazione a procedere da parte del Parlamento italiano, sulla richiesta del Tribunale dei ministri di mandare a processo i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Mantovano si sono innescati due opposti ricorsi per conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale. Si può temere adesso che le tattiche dilatorie da parte del governo per eludere responsabilità evidenti, magari adducendo procedimenti ancora in corso a livello nazionale, possano comportare ulteriori rallentamenti anche nelle attività di indagine della giustizia penale internazionale. L’articolata denuncia della Camera preliminare della Corte Penale internazionale, al di là dell’esito della procedura presso la stessa Corte, presenta comunque elementi di grande interesse per valutare il comportamento del governo italiano e dei suoi componenti, elementi che potrebbero rilevare anche davanti ai giudici nazionali, e che comunque costituiscono già adesso, anche oltre il caso Almasri, un giudizio assai ben fondato sull’inadempimento dell’Italia rispetto agli obblighi di collaborazione derivanti dallo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale internazionale. Bisogna ripristinare un sistema di controlli giurisdizionali che permetta di sanzionare le violazioni dei diritti umani ed i reati comuni commessi da rappresentanti istituzionali, e tutte le complicità negli accordi con i paesi terzi, fino ai livelli più elevati della decisione politica. Una decisione politica che non può produrre morte e abusi disumani per tentare di raggiungere finalità di blocco delle migrazioni che oggi appaiono definitivamente fallite. Un tribunale di opinione come il Tribunale permanente dei popoli è chiamato a mantenere costanti canali comunicativi con il sistema della informazione, sempre più condizionato dalle grandi proprietà e dai partiti di governo, e con la giurisdizione interna ed internazionale, in un duplice senso. Innanzitutto per trasmettere i risultati delle indagini e le decisioni di condanna che ne potrebbero venire. Ma anche per difendere, attraverso la raccolta di prove e la formulazione di atti di accusa, l’indipendenza di tutte le diverse giurisdizioni, che i governi attaccano perchè ostacolano il raggiungimento delle proprie finalità politiche, sulle quali costruiscono consenso elettorale sfruttando la disinformazione e l’indifferenza. Saranno questi gli impegni per i quali continueranno a battersi nei prossimi anni le associazioni che hanno proposto dal 23 al 25 ottobre una nuova sessione a Palermo del Tribunale Permanente dei Popoli. Fulvio Vassallo Paleologo
Alla vigilia del rinnovo del Memorandum con la Libia la giustizia penale internazionale accusa il governo italiano
Alla vigilia del rinnovo del Memorandum d’intesa con la Libia, la Camera preliminare della Corte Penale Internazionale conclude una lunga indagine e formula gravi accuse nei confronti del governo italiano, che non ha prestato la collaborazione dovuta nel caso del comandante libico Njeem Almasri. In via preliminare,” la Camera osserva che l’Italia ha avanzato argomentazioni diverse e contraddittorie nelle sue diverse memorie presentate prima alla Cancelleria e poi dinanzi alla Camera. Nelle sue varie memorie, l’Italia adduce presunte giustificazioni per la mancata consegna del signor Njeem alla Corte, tra cui presunte preoccupazioni relative al mandato d’arresto. La Camera osserva, tuttavia, che l’Italia non spiega, in nessuna delle sue memorie, perché non abbia comunicato con la Corte né le sue preoccupazioni né eventuali ostacoli giuridici interni, prima di restituire il signor Njeem. A tale riguardo, la Camera osserva che il Ministero della Giustizia italiano ha cessato le sue comunicazioni con la Corte poco dopo averle notificato l’arresto del signor Njeem da parte della polizia italiana. Nonostante sia stato ripetutamente interpellato in merito, il Ministero non ha informato la Corte quando si sarebbe tenuta l’udienza dinanzi alla Corte d’Appello di Roma. Inoltre, non ha tempestivamente informato la Corte dell’esito dell’udienza né della sua intenzione di rimpatriare il signor Njeem in Libia a seguito della decisione della Corte d’Appello di Roma”. Il governo italiano ha giustificato il rimpatrio di Almasri con “motivi di sicurezza e il rischio di ritorsioni”, ma la Corte ritiene tali spiegazioni “molto limitate”, osservando che “non è chiara” la scelta di “trasportarlo in aereo verso la Libia”. La Camera preliminare della CPI afferma che “l’articolo 88 dello Statuto obbliga gli Stati Parte a “garantire che siano disponibili procedure previste dal loro diritto nazionale per tutte le forme di cooperazione specificate nella [Parte IX dello Statuto]”. Pertanto, l’Italia è tenuta a garantire che tale legislazione sia in vigore e che eventuali ostacoli previsti dal diritto interno siano di sua competenza e non ne giustifichino l’inosservanza”. In realtà, le ultime giustificazioni espresse dal governo nel dibattito in Aula sul caso Almasri, negli scorsi giorni, si discostano dalle prime dichiarazioni di Nordio e di Piantedosi, e non fanno più riferimento a eventuali vizi degli atti inviati dalla CPI, ma prospettano rischi per la sicurezza degli italiani in Libia e per le politiche di collaborazione contro i migranti instaurate con il governo di Tripoli. Motivazioni che rimangono del tutto generiche e prive di riscontri documentali. Dalle dichiarazioni di Nordio sui vizi formali del mandato di arresto emesso dalla CPI si è passati nel corso del tempo a motivazioni riconducibili alla sicurezza dei nostri concittadini e agli interessi economici italiani in Libia. Sembra però che ormai prevalga una diffusa assuefazione alle contraddizioni ed alle menzogne che caratterizzano l’azione del governo italiano, non solo nel campo delle politiche migratorie. Il governo, entro il 31 ottobre, dovrà fornire informazioni su eventuali procedimenti interni che riguardano il caso e sul loro impatto nei rapporti di collaborazione con la CPI. Tutto questo avviene pochi giorni dopo la mancata autorizzazione a procedere da parte del Parlamento sulla richiesta del Tribunale dei ministri che si è occupato delle responsabilità dei politici e dei funzionari che, malgrado un mandato di arresto della CPI, hanno liberato il comandante militare libico, capo della milizia Rada, ma anche sospetto criminale, perseguito dalla CPI, garantendogli un ritorno trionfale a Tripoli su un volo di Stato. Perchè di un torturatore dobbiamo parlare, nel caso di Almasri, sulla base delle denunce delle vittime, rinnovate ancora in questi giorni. Da Gaza a Lampedusa e Pozzallo, dove arrivano corpi martoriati dagli attacchi operati dai libici al di fuori delle loro acque territoriali, persino nella zona SAR maltese, a sud di Lampedusa, sembra davvero che il diritto internazionale, e la giurisdizione delle Corti che ne dovrebbero garantire l’applicazione, siano ormai sconfitti dalla violenza degli Stati che sulla base di accordi infami, in violazione dell’art.53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, impongono le loro regole di esclusione e sfruttamento e sulla pelle dei civili e contro il principio di legalità, base dello Stato di diritto, intercettando e criminalizzando ogni tentativo di portare solidarietà alle persone migranti, in mare, come a terra. E’ nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, è in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale generale. Ai fini della Convenzione di Vienna, una norma imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da un’altra norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere. Gli accordi con i libici violano norme cogenti di diritto internazionale, comportando una corresponsabilità degli Stati parte per tortura sistematica, trattamenti inumani o degradanti, morte in mare per abbandono o uccisione diretta, e violazione del divieto di respingimento (art.33 Convenzione di Ginevra sui rifugiati). Su questi crimini internazionali sta continuando ad indagare la Procura della Corte Penale internazionale, e su questi stessi crimini, per i profili inerenti la violazione di norme di diritto penale, stanno indagando i giudici penali, dopo esposti presentati dalle vittime dei torturatori libici. La Camera preliminare della CPI esamina le richieste provenienti dall’ufficio del procuratore per accertare se esistono prove sufficienti di crimini di competenza della Corte e se sono necessarie indagini nell’interesse della giustizia e delle vittime. A conclusione della sua indagine preliminare la Camera trasmette gli atti al procuratore che può chiedere il deferimento dello Stato parte o di suoi rappresentanti istituzionali all’assemblea degli Stati parte o al Consiglio di sicurezza dell’Onu.  I tempi dei procedimenti davanti alla Corte Penale internazionale sono molti lunghi, e non è neppure scontato che la Corte arrivi ad una sentenza di condanna, in un momento in cui gli Stati più esposti al suo giudizio, come gli Stati Uniti, la Russia, Israele, seguiti dall’Italia e da altri paesi schierati all’ombra di Trump, ne attaccano sul piano personale i giudici e ne contestano la giurisdizione, nel tentativo di una definitiva delegittimazione della Corte Penale Internazionale. Se pensiamo che sulla mancata autorizzazione a procedere da parte del Parlamento italiano si sono innescati due opposti ricorsi per conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale, si può temere che le tattiche dilatorie da parte del governo per eludere responsabilità evidenti, magari adducendo procedimenti ancora in corso a livello nazionale, potrebbero comportare ulteriori rallentamenti anche nelle attività di indagine della giustizia penale internazionale. L’articolata denuncia della Camera preliminare della Corte Penale internazionale, al di là dell’esito della procedura presso la stessa Corte, presenta comunque elementi di grande interesse per valutare il comportamento del governo italiano e dei suoi componenti, elementi che potrebbero rilevare anche davanti ai giudici nazionali, e che comunque costituiscono già adesso, anche oltre il caso Almasri, un giudizio assai ben fondato sull’inadempimento dell’Italia rispetto agli obblighi di collaborazione derivanti dallo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale internazionale. Occorre diffondere questo atto di accusa proveniente dal più importante organismo della giustizia penale internazionale, anche per rispetto delle vittime che si continuano a sommare nelle acque del Mediterraneo centrale e nei campi di detenzione in Libia, per effetto degli spazi di interdizione in alto mare e dei poteri di blocco e sequestro affidati ai libici per contrastare quella che si definisce soltanto come “immigrazione illegale”. Sulla quale il governo Meloni si prepara a “chiudere” il caso Almasri e ad imbastire le prossime campagne elettorali, per distogliere l’attenzione degli italiani dai suoi fallimenti di sistema, tanto nella politica dei rimpatri dai CPR, ancora bloccati su numeri quasi simbolici, che nel tramonto del modello Albania, bocciato anche dalla Corte di Cassazione. Un enorme spreco di danaro pubblico, sul quale dovrebbe indagare la Corte dei conti, sempre che i nuovi giudici presso questo organismo, di fresca nomina governativa, non siano stati messi lì proprio per nascondere le responsabilità contabili di chi ha voluto dare esecuzione ad un accordo che non è stato sostenuto neppure dall’Unione europea e dalla Corte di giustizia di Lussemburgo, che sulla qualificazione dei paesi di origine sicuri, e su correlati diritti di difesa, ne hanno messo in dubbio la compatibilità con i trattati e le basi giuridiche. Fulvio Vassallo Paleologo
Il no all’autorizzazione a procedere sul caso Almasri rappresenta la sottomissione dell’Italia alle milizie libiche
“Il NO all’autorizzazione a procedere sul caso Almasri rappresenta un grave precedente per la tenuta dello stato di diritto in Italia e mina ogni credibilità istituzionale. Proteggendo un criminale internazionale anziché le sue vittime e il basilare rispetto dei diritti umani, il Paese sceglie la via della sottomissione politica al ricatto delle milizie libiche anziché quella della giustizia. Per le vittime si chiude ogni prospettiva di giustizia, anche indiretta. Il messaggio è chiaro: in Italia i crimini commessi ai danni di persone vulnerabili possono restare impuniti se a commetterli o a proteggerli sono figure di potere” dichiara Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch..   Sea Watch
Continua la strage degli invisibili nel Mediterraneo in guerra
Mentre nella Striscia di Gaza si sta consumando un vero e proprio genocidio, e le complicità internazionali con il trumpismo dilagante, inclusa la complicità del governo italiano, stanno allontanando la soluzione di tutti i numerosi conflitti in corso nel mondo, continua la serie di naufragi nel Mediterraneo centrale. Stragi di sistema, frutto degli accordi con il governo tunisino e con le entità militari e statali che si contendono la Libia, supportate dal monitoraggio aereo di Frontex e dalle prassi operative di “difesa” dei confini marittimi e di contrasto dell’immigrazione illegale, attuate nel Mediterraneo centrale dall’Italia ed i misura minore, dal governo maltese. In nome della sicurezza dello Stato, e addirittura della lotta al terrorismo, si violano ormai tutte le norme di diritto internazionale sulla salvaguardia della vita umana in mare e sulla protezione dei richiedenti asilo. La vicenda Almasri, ancora torbida nei suoi più recenti sviluppi in Libia, e i tentativi di insabbiamento in corso per nascondere le gravissime responsabilità istituzionali, confermano il tracollo dei diritti umani nelle relazioni bilaterali tra Stati e la crisi di legittimazione delle Corti internazionali. A nessuno sembra più importare la sorte delle persone intercettate in mare o arrestate e respinte dalla Tunisia e trasferite nei centri di detenzione diffusi in tutta la Libia. Negli ultimi mesi sono aumentate le partenze ed i naufragi dalle coste della Cirenaica. La zona SAR ( di ricerca e salvataggio) “libica” sembra ormai sfuggita a qualsiasi controllo, a parte le intercettazioni violente, con l’uso di armi da fuoco, da parte della sedicente guardia costiera libica. Le autorità marittime che intervengono, spesso colluse con i trafficanti, ed alle quali secondo il governo italiano si dovrebbe obbedire, sono prive di qualsiasi legittimazione internazionale, oltre a commettere gravi crimini. Una “zona SAR”, quella “libica”, che andrebbe sospesa immediatamente, con il ripristino degli obblighi di soccorso in acque internazionali a carico delle autorità italiane e maltesi, con il supporto dell’agenzia europea FRONTEX, che non può ritirarsi dalle operazioni di ricerca e salvataggio. Oltre cento rifugiati sudanesi sono morti o risultano dispersi dopo due naufragi avvenuti sabato 13 e domenica 14 settembre al largo della costa di Tobruk, nella Libia orientale, come hanno annunciato mercoledì 17 settembre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Con questi ultimi naufragi, nel 2025 secondo l’Oim sono oltre 500 le persone che hanno perso la vita e altre 420 risultano disperse lungo la rotta del Mediterraneo centrale. I dati sono aggiornati, conferma Oim Libia, dall’inizio dell’anno al 13 settembre. Nello stesso periodo, precisa l’agenzia dell’Onu, i migranti intercettati in mare e riportati in Libia sono stati 17.402, di cui 15.555 uomini, 1.316 donne, 586 minori e 145 di cui non si conoscono i dati di genere. Pochi giorni fa un altro naufragio al largo delle coste tunisine, di cui nessuno ha scritto. Dopo il capovolgimento del barcone che li trasportava sono morte 39 persone, tra cui diversi cittadini camerunensi. Il 15 settembre una ragazza ventenne ha perso la vita in un naufragio a 45 miglia nautiche da Lampedusa. Il barchino di ferro su cui viaggiava insieme a una cinquantina di persone ha iniziato ad affondare, e secondo i sopravvissuti anche un’altra donna sarebbe dispersa. In una sola settimana dal 6 al 13 settembre, approdavano a Lampedusa oltre 3000 persone. E il 9 settembre venivano sbarcati nell’isola anche i cadaveri di due donne. Un fallimento su tutta la linea delle politiche migratorie italiane basate su accordi con governi che non rispettano i diritti umani. Ma in proporzione aumentano più le vittime che i cosiddetti “sbarchi”. E nei paesi di transito la condizione dei migranti peggiora sempre di più, nella totale impunità degli autori di abusi che vanno dalla violenza sessuale alla detenzione arbitraria ed all’estorsione attraverso torture atroci. Questa volta non sono arrivate neppure le dichiarazioni contrite ed ipocrite della presidente del Consiglio, come invece era avvenuto dopo i naufragi a sud di Lampedusa, lo scorso mese di agosto. Se non si vedono cadaveri, le vittime non esistono. Ormai l’interesse generale deve essere deviato verso i discorsi d’odio contro il governo, in vista delle prossime scadenze elettorali, e il vicepresidente del Consiglio Salvini annuncia l’ennesimo decreto legge contro le persone migranti. Intanto si rilancia in tutta Europa una violenta campagna anti-immigrati basata su fake news e manipolazioni con l’intelligenza artificiale. Secondo un recente Rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty. “La cooperazione esterna in materia di asilo e migrazione deve essere progettata e attuata con grande attenzione, per non mettere a repentaglio i diritti umani. I governi che sviluppano politiche di esternalizzazione in questo campo dovrebbero valutare attentamente il loro potenziale impatto negativo sui diritti umani, poiché tali politiche possono esporre donne, uomini e bambini a rischi significativi di gravi danni e sofferenze prolungate”.  Una valutazione puntualmente elusa dal governo Meloni, dopo il fallimento del modello Albania,  fortemente voluto dalla presidente del Consiglio e da Ursula von der Leyen, senza l’approvazione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio UE. Un modello perverso e personalistico di gestione delle relazione esterne dell’Unione europea, che oggi sta mostrando una serie di fallimenti a catena, purtroppo sulla pelle di persone innocenti. Mentre continuano i fermi amministrativi delle navi umanitarie e degli aerei civili, che permetterebbero di salvare migliaia di persone, il governo italiano, malgrado le pronunce di annullamento o di sospensione dei tribunali, continua a supportare le autorità di quei governi, o meglio entità statali neppure riconosciute dalla comunità internazionale, che sparano sulle imbarcazioni cariche di migranti e sulle navi umanitarie. Al di là delle gravissime responsabilità che dovranno essere accertate sul caso Almasri, occorre denunciare i responsabili delle politiche di morte che, in giorni in cui l’umanità sembra cancellata dal genocidio in corso a Gaza, continuano a produrre vittime nascoste nel silenzio prodotto dalle prassi di abbandono sistematico in mare e dalla censura dei canali informativi sui crimini che si consumano nelle acque del Mediterraneo. Le imbarcazioni civili dei cittadini solidali, comunque vengano contrastate, non abbandoneranno quelle zone di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali che, in virtù di accordi bilaterali come il Memorandum Italia-Libia del 2017, sono diventate spazi di intercettazione e deportazione. Occhi e voci di operatori umanitari che salveranno quante più vite possibile, ma anche testimoni inflessibili degli abusi e delle omissioni perpetrati dalle autorità statali e dalle milizie con la divisa di guardia costiera. Quelle autorità e quelle milizie che il governo italiano, con il sostegno dell’Unione europea, continua a finanziare e ad assistere, malgrado le sentenze che affermano come il Centro di Coordinamento del Soccorso libico e la Guardia Costiera libica non possano essere considerati soggetti legittimi per le operazioni di ricerca e soccorso. Fulvio Vassallo Paleologo
I dati su sbarchi e rimpatri smentiscono i “successi” del governo
1. I numeri degli sbarchi del 2025, secondo il cruscotto statistico del Viminale, hanno ormai superato quelli dell’anno precedente, anche se il ministro dell’interno Piantedosi alla fine di marzo vantava come un successo la riduzione del numero degli arrivi, legata principalmente ad accordi con paesi terzi come la Tunisia, che non rispettano i diritti umani e le garanzie dello Stato di diritto, incoraggiati dai consistenti finanziamenti che incassano dall’Italia e dall’Unione europea per bloccare le partenze di migranti, anche a costo di lasciarli abbandonati nel deserto. Finanziamenti che sempre più spesso sono diretti a foraggiare “rimpatri volontari” che di fatto non lasciano alcuna facoltà di scelta. Nei primi 4 mesi del 2025 si contavano 15.543 “arrivi irregolari”, a fronte di 16.137 nello stesso periodo del 2024 e di 42.201 nel 2023. Ma dal 25 aprile al primo maggio sono sbarcate 2.659 persone, tanto da superare gli sbarchi registrati nello stesso periodo dello scorso anno. Mentre è difficile fare paragoni con il 2023 i cui dati risentivano della fine dell’emergenza Covid e di un consistente numero di partenze dalla Tunisia, che adesso sono temporaneamente diminuite. Lo scorso 2 maggio nel centro “hotspot” di Lampedusa si registrava la presenza di 1052 “ospiti”, malgrado i continui trasferimenti, dopo che il 28 aprile gli “ospiti” erano stati 938, il 20 aprile 446, il 5 aprile 581 con undici “sbarchi” in una sola giornata. Nella maggior parte dei casi però non si trattava di sbarchi veri e propri, in autonomia, ma di soccorsi operati al limite delle acque territoriali italiane, da unità della Guardia costiera e della Guardia di finanza. Evidentemente l’estensione dei casi di trattenimento amministrativo per i richiedenti asilo e le deportazioni in Albania, riprese ad aprile, non hanno alcun effetto di deterrenza rispetto a persone costrette a tentare la traversata del Mediterraneo per fuggire agli abusi dei quali sono vittime in Libia e in Tunisia. 2. A differenza di quanto avviene per gli “sbarchi” non è facile reperire dati aggregati sulle operazioni di rimpatrio con accompagnamento forzato effettivamente eseguite, a parte sporadiche comunicazioni propagandistiche su casi isolati di rimpatri seguiti a espulsioni ministeriali per motivi di sicurezza. Nei CPR (centri per i rimpatri) finiscono persone con le più disparate provenienze, anche richiedenti asilo con procedure ancora in corso, e in assenza di una tempestiva informazione e di una effettiva difesa, vengono rimpatriate persone che avrebbero diritto alla protezione. Nel corso dell’intero 2024 sono state espulse soltanto 5.414 persone, appena 800 in più rispetto all’anno precedente. Dietro le percentuali fornite senza dati assoluti, lanciate dal Viminale a scopo di propaganda (più 15-20 per cento), si nasconde come i rimpatri effettivamente eseguiti rimangano sugli stessi numeri degli anni precedenti. E si continua a morire di CPR, da ultimo nel centro di Restinco a Brindisi, dove ‘un uomo di 35 anni è stato trovato morto nel letto all’interno del centro per il rimpatrio nel Brindisino. L’accaduto poche ore prima della visita dell’onorevole del Pd Claudio Stefanazzi, che nulla ha saputo dagli addetti ai lavori. Sembra ancora una volta caduta nel vuoto la denuncia del Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa, che pochi giorni fa ha denunciato sovraffollamento e violenze sistematiche anche all’interno dei CPR italiani. Come se non fossero servite a nulla le condanne riportate dall’Italia di fronte alla Corte europea dei diritti dell’Uomo per casi di maltrattamenti o di ingiusta detenzione nei CPR, alle quali sono seguite condanne al risarcimento danni da parte dei Tribunali italiani. Con la sentenza Richmond Yaw e altri c. Italia, pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 5 par. 1, lett. f e par. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per il prolungamento arbitrario del trattenimento amministrativo all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma), e per il mancato riconoscimento del diritto alla riparazione del danno derivante dalla ingiustificata privazione della libertà personale.  Il 7 febbraio scorso la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha ordinato il trasferimento, verso un’altra struttura, di una persona che era riuscita a rivolgersi ai giudici di Strasburgo, che hanno espressamente intimato al governo italiano “la modifica delle condizioni di accoglienza”. Una indicazione che dovrebbe valere per tutti i centri di detenzione amministrativa in Italia. 3. Sembra attenuarsi la propaganda sui rimpatri da incrementare attraverso il centro di Gjader in Albania, ma pur sempre con partenza dal territorio italiano. I provvedimenti della magistratura e la mancata collaborazione della quasi totalità dei paesi di origine, anche di quelli designati come “sicuri”, sta azzerando di fatto questo ennesimo tentativo di riavvio del “modello Albania”. Per dimostrare l’efficienza del sistema di rimpatri si sta puntando molto sulla selezione di immigrati irregolari bengalesi, come il primo che sarebbe stato rimpatriato dopo essere stato trasferito a Gjader, ma si nasconde che su 13.779 bangladesi sbarcati nell’intero 2024 i rimpatri sono stati appena 73, di cui solo 11 transitati da un CPR. Ovunque domina una totale opacità, al punto che non si sa con certezza se gli ultimi rimpatri attraverso il centro per i rimpatri (CPR) di Gjader (e poi dal territorio italiano!) siano stati volontari o forzati. Il Ministero dell’interno è arrivato al punto di negare alle delegazioni parlamentari arrivate per svolgere attività ispettive in Albania l’esibizione dei provvedimenti di espulsione e di trattenimento amministrativo delle persone detenute a Gjader. 4. I media vicini al governo hanno intanto messo la sordina al caso Almasri, ancora oggetto di indagine dal Tribunale dei ministri, sul quale l’Italia continua a chiedere proroghe sull’informativa che sarebbe tenuta ad inviare alla Corte Penale internazionale, oggetto di una continua delegittimazione. Mentre non si racconta più nulla sull’attuazione degli accordi stipulati con il governo di Tripoli, adesso sotto l’influenza dominante della Turchia di Erdogan. E Giorgia Meloni vanta “l’azzeramento” delle partenze dalle coste turche. 5. Oltre alle menzogne di governo, nessuno scrive dei naufragi, sulle rotte del Mediterraneo centrale, le più pericolose del mondo, che sono diventati eventi ai quali l’opinione pubblica sembra ormai assuefatta. Domenica 27 aprile cinque persone hanno perso la vita a causa dell’affondamento di un’imbarcazione davanti all’isola di Lampedusa, mentre altri otto corpi sono stati recuperati dopo il ribaltamento di una barca al largo della Tunisia. E in precedenza, il 17 aprile, altre decine di persone erano finite disperse sulla rotta libica, nel silenzio complice delle autorità e dei principali media italiani. La finzione della “zona Sar libica”, e la mancata cooperazione delle autorità maltesi, fanno ancora vittime in questi giorni, anche per ipotermia, dopo ore di inutile attesa dei soccorsi, arrivati in acque internazionali, solo con l’intervento di motovedette della Guardia costiera. Le navi umanitarie delle Ong vengono intanto spedite sempre più lontano, in porti “vessatori” imposti dal Viminale per impedire soccorsi troppo frequenti. A breve però il Decreto Piantedosi (legge n.15/2023,) che permette queste prassi, sarà oggetto di scrutinio davanti la Corte Costituzionale. Purtroppo non sembra che importanti riconoscimenti delle menzogne scaricate sui soccorsi civili riescano a bloccare il degrado del senso comune indotto dalla martellante propaganda delle destre. Nel Mediterraneo ormai i migranti si respingono con i droni e gli aerei, in modo da tagliare fuori le navi umanitarie e favorire anche in acque internazionali le intercettazioni, attività di contrasto dell’immigrazione (law enforcement) che non rientrano tra le operazioni di ricerca e salvataggio (SAR), affidate alle motovedette libiche e tunisine. 6. Il governo ha respinto al mittente le preoccupazioni espresse lo scorso 28 marzo, dal Comitato per i diritti umani sull’implementazione del Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite, sulla “gestione extraterritoriale delle procedure di migrazione e asilo, come quelle riguardanti la detenzione automatica dei migranti e il rischio di una detenzione prolungata”. Ma la proposta di un nuovo Regolamento europeo sui cd. hub di rimpatrio in paesi terzi sicuri è ancora ferma a Bruxelles e la sua approvazione, al termine della procedura di co-legislazione, non appare tanto vicina come annunciato da Meloni e da Piantedosi. Il governo Meloni intanto insiste nella delegittimazione della Corte Penale internazionale, mentre sembra attendere con fiducia la prossima decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea sui rinvii per questioni pregiudiziali sollevate dai tribunali italiani in merito (non solo) alla designazione dei paesi di origine “sicuri”, ma più in generale sulle procedure in frontiera. Questioni che non possono essere rimesse ad una maggioranza che controlla l’attività legislativa attraverso l’esecutivo, con una raffica di decreti legge, da convertire a colpi di fiducia, in modo da comportare un completo esautoramento del Parlamento e degli organi di controllo. 7. Con la sentenza n. 81 del 2012, la Corte costituzionale ha stabilito che gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate. Le politiche migratorie, sui fronti cruciali della detenzione amministrativa e delle operazioni di rimpatrio forzato, devono basarsi su solide basi legali, e su dati reali, mentre i risultati conseguiti vanno comunicati con la più assoluta trasparenza. Quando questo non si verifica, come in questi ultimi anni, non viene soltanto tradita la fiducia dei cittadini elettori, ma si allontana la possibilità di fornire soluzioni ai problemi reali, mentre l’azione di governo si nasconde dietro la propaganda dell’insicurezza. Fulvio Vassallo Paleologo