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Obiezione di coscienza e nuova idea di difesa
La coscienza dice no alla guerra è un volume curato da Enzo Sanfilippo e Annibale Ranieri recentemente uscito presso il Centro Gandhi edizioni. Si tratta di un’antologia ragionata di testi con un significativo sottotitolo: “Per un rilancio dell’obiezione di coscienza a tutti gli eserciti e per una nuova idea di difeza. L’antologia inizia con una interessante ricostruzione delle attività svolte dalla Comunità dell’Arca e da Lanza del Vasto ai tempi della guerra in Algeria; non si tratta solo di una importate ricostruzione di eventi a volte poco documentati ma di una ispirazione a partire dalla visione di una nonviolenza integrale che Lanza del Vasto promuove a partire dalle idee del suo maestro, il Mahatma Gandhi. La nonviolenza non è metodologia d’azione ma è stile di vita “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Questa visione si propagherà poi in altri pensieri e movimenti che si rifanno alla nonviolenza, è un’idea del tutto analoga a quella del pensiero e della proposta d’azione umanista di Silo ma è anche un caposaldo, per gli autori, che viene prima di qualunque proposta di azione. In questo senso il volume si articola con una dettagliata analisi della storia dell’obiezione di coscienza e del concetto di difesa avvalendosi del contributo di personalità studiose come Ermete Ferraro, attuale Presidente dei MIR, Alfonso Navarra della LOC, una sezione dedicata a “sguardi e azioni di donne”. Nella sezione dedicata alle alternative hanno posto esperienze storiche come Operazione Colomba accanto al recente Osservatorio Contro la Militarizzazione delle Scuole, mentre il volume si conclude con la proposta articolata dei curatori per un rilancio e senso nuovo, in Italia, dell’obiezione di coscienza. Chiude il volume un importante elenco dei riferimenti normativi. Il sintesi un volume denso che, come dichiarato nell’introduzione, vuole essere e riesce ad essere un solido contributo al dibattito nonviolento e alla ricerca di soluzioni diverse, estremamente necessarie in questo momento militarista di appiattimento su posizioni che sembravano essere state cancellate dalla storia. Olivier Turquet
Intelligenza artificiale: sorveglianza, controllo, abusi
Molti ne sono entusiasti: l’AI (Artificial Intelligence), nella forma di ChatGPT (Generative Pre-Trained Transformer Chat) li aiuta a scrivere curriculum e testi, fa ricerche e le consegna ben confezionate, svolge perfettamente i temi scolastici partendo anche dalla traccia più difficile, spiega come procedere nel caso di controversie condominiali. E poi, da brava chat, chiacchiera con te. Puoi darle un nome. Puoi allenarla persino, se sei bravo e sai come aggirare certi limiti imposti, a fornirti eccitazioni erotiche, come se stessi parlando con un essere umano. C’è chi giura che svolga, gratis, addirittura il lavoro di uno psicoanalista, e chi ha smesso di consultare google quando avverte dei sintomi preoccupanti, perché ChatGPT è capace di fornire diagnosi mediche accurate. Ci sono preoccupazioni etiche, ci sono paure. Presto ci trasformeremo tutti in AI-dipendenti, restii a imparare perché non servirà più, goffi nello scrivere perché anche questo non servirà più, inabili nel prendere decisioni perché l’intelligenza artificiale lo saprà fare molto meglio di noi, dotata come sarà (è) di una quantità quasi smisurata di informazioni, scaltrissima nell’effettuare collegamenti che a noi non sarebbero mai venuti in mente, e soprattutto razionale, priva di quelle debolezze psicologiche-emotive che inducono gli umani a commettere errori? Sì, qualcuno ha di questi pensieri. Ma in prospettiva, come materia di riflessione filosofica. Intanto, i problemi che si lamentano, immediati ma che tutto sommato sembrano di scarsa importanza, sono le foto “finte”, immagini di scene che raccontano persone che non esistono, vicende mai avvenute, talmente rifinite da essere scambiate per vere. Ci si stupisce, al massimo. Uno spunto per prendere in giro chi si è lasciato ingannare, e vantarci che noi no, noi siamo più furbi. L’intelligenza artificiale non ci frega. Ben altri sono i risvolti di una tecnologia che è andata molto più avanti di quanto,  a meno che non siamo del settore, possiamo immaginare. Si è impegnata in un’indagine che l’ha portata in giro per il mondo l’immunologa e giornalista scientifica indiana Madhumita Murgia, che ha iniziato le sue ricerche aspettandosi di scoprire come l’AI avesse risolto problemi difficili e migliorato la vita di molte persone. Non è però stato così. Nel suo viaggio, riportato nel libro Essere umani. L’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite (ed. Neri Pozza), ha dovuto registrare quanto pesanti, a volte devastanti e comunque sempre manipolatorie possano essere le conseguenze dell’AI sugli individui, sulle comunità e sulle culture in generale. Murgia approfondisce dei casi esemplari, persone che solo apparentemente non hanno nulla in comune tra loro: un medico dell’India rurale, un rider di Pittsburg, un ingegnere afroamericano, una funzionaria burocratica argentina, una rifugiata irachena a Sofia, una madre single ad Amsterdam, un’attivista cinese in esilio.  Diana, la madre single: una storia kafkiana. Due suoi figli minori erano stati inseriti in liste di “ragazzi ad alto rischio di diventare criminali”, liste compilate con un sistema progettato dall’AI e basate su punteggi di rischio, con punti assegnati non solo per aver commesso un reato, ma per essere stati spesso assenti a scuola, aver assistito a una violenza, essere parente di qualcuno che ha guai con la giustizia, vivere in un quartiere povero o semplicemente essere poveri (le cosiddette “variabili proxy”). A quel punto, ecco una serie di misure volte a “tutelare” la società e prevenire il crimine. Interventi continui e quasi persecutori, con visite ripetute di assistenti sociali, poliziotti, funzionari a controllare e redarguire il genitore –  Diana, in questo caso – trattandolo come un demente, rimproverandolo, minacciandolo. Piatti sporchi nel lavello? Attenzione, potremmo doverti portare via la bambina piccola.  È chiaro che così le situazioni di disagio e povertà non possono che peggiorare. Non esistono perdono, aiuto, comprensione. Nato povero e sfortunato, sei destinato a diventarlo ancora di più. Diana aveva finito col perdere il lavoro, stressata com’era, ed era stata ricoverata in ospedale con palpitazioni cardiache. «Le liste generate dall’algoritmo non erano soltanto fattori predittivi», scrive Murgia. «Erano maledizioni».  Uno degli aspetti più lamentati da chi frequenta i social riguarda la rimozione di immagini e contenuti. Viene subita da utenti che hanno semplicemente postato un quadro rappresentante un nudo, e viene subita anche, al contrario, da chi si trova di fronte foto e filmati cruenti accompagnati da commenti di giubilo, e si domanda perché non siano stati censurati. Quello che non ci domandiamo è chi siano i censori. Attraverso storie vere e dati, Murgia racconta quanto porti al DPTS (disturbi post-traumatici da stress) il dover vagliare i contenuti dei social, guardando violenze e atti d’odio a ritmo sostenuto per tutto il tempo, in modo, oggi, di addestrare gli algoritmi. Un lavoro a sua volta guidato dagli algoritmi: pausa pranzo e tempo per andare in bagno predeterminati, come la produttività, che non deve scendere sotto una certa soglia. A fronte di questo, remunerazione bassa, accordi di segretezza, scoraggiato in ogni modo il contatto con i colleghi, e figuriamoci l’unirsi in sindacato.   C’è poi il risvolto della sostituzione dell’AI generativa in lavori prettamente umani: illustratori, copywriter, progettisti di videogiochi, animatori e doppiatori si trovano già adesso in grande difficoltà, e molti dichiarano che viene chiesto loro, più che di creare… di correggere ciò che è stato fatto dall’AI (pagati un decimo rispetto a prima). E c’è la questione contraffazione, il “deepfake”: generati dalle tecnologie AI, foto di persone reali prese da Internet che un software fonde con corpi di attori porno, ottenendo video assolutamente realistici di cui non sarà facile ottenere la rimozione (su TikTok era diventato virale già nel 2020 un video deepfake di Tom Cruise, e parliamo di cinque anni fa, quando i software erano meno sofisticati di oggi).  Non dimentichiamo nemmeno i pregiudizi. Un esempio: il modo in cui vengono calcolati i punteggi di rischio che riguardano la salute. Negli USA, i pazienti neri – e con redito basso – sembravano avere punteggi più bassi, ma questo non accadeva perché si ammalassero meno, ma perché i progettatori avevano addestrato il sistema a stimare la salute i una persona in base ai suoi costi sanitari (e più si è poveri, meno si ricorre all’assistenza sanitaria). Attivisti pieni di buona volontà stanno cercando di raddrizzare le cose. Non è detto che non ci riescano, ma intanto quanti danni sono stati fatti?  Si potrebbe continuare a lungo, e Murgia non si è tirata indietro. Ha indagato le più varie situazioni, incontrato avvocati che cercano di difendere chi è rimasto intrappolato da questi sistemi opachi che possono disporre delle nostre vite e procurarci danni anche senza che lo sappiamo. E ha affrontato il tema forse più delicato e spaventoso: il controllo. In Cina (e Murgia porta riferimenti precisi) esistono già da un po’ sistemi software interconnessi che aggregano i dati dei cittadini e l collegano ai database della polizia.  Gli algoritmi a funzione predittiva considerano sospette decine di comportamenti (addirittura spegnere ripetutamente il cellulare e avere certe espressioni del viso, riprese dalle infinite videocamere), e per motivi di “sicurezza pubblica” moltissimi cittadini, soprattutto dissidenti o appartenenti a gruppi etnici minoritari, sono stati e sono sorvegliati e vessati, quando non portati in campi di rieducazione. Sorveglianza e controllo. Capillari, incessanti. I governi (la rete di connessioni esisterà solo in Cina? non scherziamo) potranno a breve arrivare a prevedere e neutralizzare qualunque azione o manifestazione di protesta, sia individuale che collettiva. E le aziende tecnologiche, con miliardi di utenti, aumenteranno il loro potere, che già è immenso. George Orwell, in 1984. Ninteeen Eighty Four, scritto nel 1949: «Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che schiaccia il volto umano. Per sempre». Susanna Schimperna
La distopia rovesciata delle politiche migratorie
Con Semuren (Castelvecchi, 2024), Francesco Vietti ribalta il baricentro delle migrazioni globali. Nel romanzo l’Italia è dilaniata da una guerra civile e devastata dalla crisi climatica; la Cina diventa l’approdo di imponenti flussi migratori. È un’opera narrativa intensa, sorretta da una trama che si snoda con ritmo e tensione crescente, e al tempo stesso uno strumento di riflessione sulle politiche migratorie contemporanee e sul funzionamento materiale e simbolico dei confini. Al centro della storia ci sono due personaggi: Francesco, un italiano in fuga, e Shen Fu, un giornalista cinese incaricato di documentare il collasso dell’Europa. Le loro traiettorie, inizialmente distanti e asimmetriche, si incrociano in un finale sorprendente che restituisce densità umana e ambivalenza politica all’intera narrazione. > Elemento cardine dell’opera è la frontiera, colta nella sua duplice > dimensione: da un lato, le politiche di contenimento sempre più sofisticate e > repressive; dall’altro, i molteplici tentativi di attraversamento che > testimoniano una persistente capacità d’azione. Vietti esaspera – senza mai renderle inverosimili – le tecnologie e le pratiche già in campo nel nostro presente, ottenendo un effetto straniante e perturbante: ciò che oggi appare come tendenza diventa, nel suo futuro, struttura dominante. Il paesaggio che ne risulta non è però segnato solo da muri, sorveglianza e guardie di confine. Semuren è anche racconto di possibilità. La capacità di agire – individuale e collettiva – si manifesta in forme impreviste, nonostante un contesto politico radicalmente ostile. Il quadro geopolitico immaginato da Vietti riflette e rilancia alcune delle trasformazioni in corso: l’erosione dell’egemonia statunitense, l’emergere di nuovi attori globali – in primis la Cina – e un salto di scala nelle dinamiche autoritarie. I confini che Semuren mette in scena sono radicalmente aggressivi, ma non insormontabili. Resta sempre un certo grado di porosità. Questa ambivalenza attraversa anche uno dei luoghi centrali nel romanzo: la città murata di Kowloon in Cina, immenso ghetto abitato da migranti. Vietti la descrive con attenzione minuziosa, restituendo un ambiente caotico e verticale, soffocante e denso di vita. In questo spazio informale si condensano disperazione, relazioni inedite, audaci economie sotterranee. Come per i confini, anche qui l’oppressione non è assoluta: emergono pratiche di convivenza, forme di socialità, controcondotte. La città murata è specchio della complessa dialettica tra esclusione e inclusione, mai definitiva. > Opera inquieta e coinvolgente, Semuren ci mostra un futuro che è in dialogo > serrato con il nostro presente. Alcuni degli scenari immaginati – come i > centri per migranti in Albania – si sono concretizzati mentre il libro era > ancora in lavorazione. Non si tratta di un mero esercizio di distopia, ma di > una proiezione plausibile delle attuali linee di tendenza. Anche nella sua conclusione, il romanzo non concede illusioni facili. Il governo della mobilità è uno dei dispositivi portanti attraverso cui prende forma il mondo e il suo volto è feroce. E tuttavia, Semuren non è un’opera rassegnata: nella trama e nella costruzione dell’universo narrativo, Vietti lascia spazio all’imprevisto e all’azione. Le politiche di radicale esclusione accelerano, ma la possibilità di contestarle resta aperta. Ed è in questo margine, fragile ma ostinato, che che c’è spazio per immaginare un esito radicalmente differente. Immagine di copertina di CEphoto, Uwe Aranas, wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La distopia rovesciata delle politiche migratorie proviene da DINAMOpress.