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Opache divine invasioni: a proposito di Seamless – di Giuliano Spagnul
Pubblichiamo la recensione scritta da Giuliano Spagnul a Seamless. Arte, visualità, cultura elettronica in epoca post-pandemica (Edizioni Nero, 2025), un volume curato da Francesco Spampinato che raccoglie gli interventi tenuti nel corso di quattro workshop all'Università di Bologna tra il 2022 e 2023 * * * * * Se ogni uomo, oggi, sembrerebbe non possedere [...]
Al bivio tra violenza e non violenza
Antonio Minaldi è un autore assai prolifico, scrive con fluidità e riesce a catturare i suoi lettori. Inoltre, nei suoi scritti troviamo una grande passione etica e politica sicuramente da apprezzare. Nel caso di questo libro “Gandhi ad Auschwitz. Elogio della nonviolenza e le sue problematiche”, Antonio ripercorre la sua vicenda umana e in particolare la sua partecipazione agli eventi politici a partire da 1968 fino ai ai nostri giorni. È abbastanza normale che qualcuno, protagonista di importanti vicende storiche, senta la voglia di raccontarle e di trasmettere la sua esperienza in modo che gli altri, soprattutto i giovani, ne possano ricavare qualcosa di buono. Dicevo il libro costituisce un elogio del pacifismo ed ovviamente non sarò certo io a non condividere tale atteggiamento, però nello stesso tempo Antonio riconosce che ci sono una serie di problematiche inerenti ad esso. Illustrerò prima brevemente il contenuto del libro e poi farò una serie di considerazioni, che si fondano su quanto è anche  stato scritto da Antonio e che riguarda la relazione tra pacifismo e contesto storico. Il pacifismo di Antonio è il frutto di una sorta di ripensamento. Racconta che quando ha cominciato a fare politica era convinto che, per cambiare il sistema sociale nel quale viviamo, fosse opportuno un atto rivoluzionario, il quale in un modo o in un altro inevitabilmente implicasse una qualche forma di violenza. Oggi dichiara di aver abbandonato questo presupposto condiviso da molti, ma bisogna dire non da tutti coloro che si collocano nei cosiddetti movimenti di sinistra. Si potrebbe affermare che il mondo di sinistra è estremamente sfumato e presenta tendenze contraddittorie. Per esempio, soddisfatto dalla forza raggiunta dal Partito Socialdemocratico tedesco, Engels giunse ad ipotizzare che sarebbe stato anche possibile arrivare ad un ribaltamento sociale attraverso una vittoria elettorale, proponendo quindi una prospettiva riformista. Inoltre, inizialmente, i socialdemocratici tedeschi si opposero alla Prima guerra mondiale per poi capitolare tristemente, mentre Karl Liebnecht e Rosa Luxembourg pagarono con la vita il loro antimilitarismo.  Purtroppo la storia ci ha insegnato che le vittorie elettorali non sono sufficienti a sostenere un cambiamento radicale della società, perché le forze sconfitte possono facilmente tornare alla ribalta. Basti pensare alle vicende cilene e al tragico colpo di Stato contro il governo Allende. Qualcosa di simile sta accadendo proprio sotto i nostri occhi con l’attacco statunitense al Venezuela, scatenato dal signor Trump che sta addirittura violando la legge degli Usa, perché  sta intraprendendo azioni militari senza aver consultato il Congresso. Ma torniamo al libro di Minaldi e a Gandhi. In primo luogo Minaldi mette in discussione un’opinione abbastanza comune, secondo la quale la nonviolenza vince, quando ormai la vittoria è scontata, come nel caso dell’India o nel caso di Martin Luther King da lui citati. In realtà si potrebbe dire che in India non vinse la nonviolenza: Gandhi stesso fu ucciso e i conflitti tra le diverse componenti etniche sono stati sanguinosi e non si sono ricomposti. Per Antonio la nonviolenza costituisce un principio etico quasi inerente alla nostra stessa natura di esseri umani, ossia esseri sociali e cooperativi, i quali proprio per questa caratteristica sviluppano comportamenti solidaristici nei confronti dei loro simili. Minaldi sostiene che a partire dall’Olocene  (11.700 anni fa) con la cosiddetta Rivoluzione agricola l’uomo avrebbe imposto il suo dominio sulla natura, e in questo modo si sarebbe affermata quello che lui chiama il dominio dell’uomo sulla natura e sugli altri. A suo parere questo costituisce il filo rosso che attraversa tutta la storia umana. Si potrebbe osservare che, già nel momento in cui l’uomo era cacciatore e raccoglitore, già esercitava una sorta di potere sulla natura, in quanto si appropriava dei suoi frutti per riprodursi. Ma qual è la differenza tra la violenza presente nella società capitalistica e la violenza precapitalistica? L’economista Robert Gordon sostiene che dal 1300 al 1700 non c’è stata nessuna crescita economica, mentre a partire dalla Rivoluzione industriale fino al 1950 la crescita è stata straordinaria con conseguenze dirompenti sugli esseri umani e sulla natura, che sono divenuti oggetto di una violenza industriale. La quale ha partorito tutti quei micidiali apparati bellici che oggi purtroppo vediamo in opera. Una volta stabilito che la nonviolenza è un principio etico, Minaldi mette in evidenza la difficoltà di rispettarlo, sottolineando che in certi casi questo rispetto potrebbe trasformarsi anche in un’auto sacrificio. Per esempio, Gandhi avrebbe potuto idealmente immolarsi per impedire lo sterminio portato avanti dai nazisti. A suo parere tale gesto non sarebbe stato un gesto inutile in quanto avrebbe riaffermato un valore ineludibile e avrebbe costituito un esempio per tutti coloro che volessero ispirarsi ai principi della nonviolenza. Tuttavia, Minaldi riconosce che, se il sacrificio può essere un gesto individuale è assai difficile che esso si trasformi in un gesto collettivo in base al quale una certa comunità subisce passivamente una violenza su di essa esercitata. In questo caso è inevitabile pensare ai palestinesi, al 7 ottobre di Hamas e alla feroce reazione dello Stato d’Israele. Da queste constatazioni il nostro autore ricava quanto cito testualmente: la nonviolenza si trova sempre in bilico tra l’esigenza di riaffermare la primazia dei valori e la nuda realtà delle cose imposta dal realismo della pratica politica. Proprio per questa ambiguità egli trova del tutto accettabile, anche da parte di un non violento, il fatto che si verifichino situazioni estreme nelle quali unicamente a scopo difensivo è legittimo rispondere ad un’aggressione indebita con la violenza. Ciò è quanto prevede il diritto penale a proposito della legittima difesa: vi sono situazioni in cui per difendersi non c’è altro mezzo che il ricorso alla violenza. A mio parere questa posizione è del tutto condivisibile. Infatti, credo che la nonviolenza, là dove è praticabile e può essere efficace, deve essere impiegata, là dove queste condizioni, invece, non si danno e dove non c’è via di scampo, si deve ricorrere alla violenza. In questo senso violenza e non violenza sono atteggiamenti da contestualizzare.  D’altra parte è difficile affermare che sia stata soltanto l’opera di Gandhi a portare alla indipendenza dell’India. Ci sono stati sicuramente molti altri fattori, come per esempio, la debolezza dell’esercito britannico che in gran parte era costituito da indiani, i quali erano stati mandati a combattere nella prima e nella seconda guerra mondiale con tantissime perdite. Inoltre, c’erano anche altri leader politici, in particolare musulmani, che invece portavano avanti la battaglia per l’indipendenza con modelli e progetti diversi.  Paradossalmente dopo la morte di Gandhi, avvenuta per un omicidio, l’India fu teatro di gravi violenze che si concretarono nell’assassinio di importanti leader politici, e che riguardarono anche i conflitti tra le diverse entità etniche presenti nel subcontinente indiano; in particolare il conflitto mai del tutto risolto tra la componente musulmana e quella hindu. Per esprimere meglio la mia idea di contestualizzazione della nonviolenza e della violenza, voglio fare il parallelo tra la importante figura di Gandhi, ispirata da Lev Tolstoj, e un’altra significativa figura di leader politico situata però in tutt’altro contesto storico. Anche lui, profondamente cristiano, si trovò di fronte alla scelta assai difficile tra la violenza e la nonviolenza. Mi riferisco al sacerdote, sociologo, uomo politico colombiano Camillo Torres Restrepo, il quale riteneva che il nucleo del Vangelo fosse la creazione del Regno di Dio in terra. Per l’opposizione della gerarchia ecclesiastica abbandonò il sacerdozio nel 1965, nello stesso anno fondò il settimanale Frente Unido, che aveva lo stesso nome della sua organizzazione politica. Resosi conto che le forze oligarchiche e reazionarie della Colombia non gli avrebbero permesso nessuna azione politica, Torres optò per la lotta armata e si unì ai guerriglieri dell’Esercito di Liberazione Nazionale, gruppo che si ispirava alla Rivoluzione cubana del 1959. Dopo solo un mese di militanza,  fu ucciso il 15 febbraio 1966 dall’esercito nel suo primo giorno di battaglia. Come si vede non è facile scegliere tra violenza e nonviolenza e soprattutto è arduo prevedere le conseguenze della scelta fatta.  Al breve saggio di Minaldi seguono alcune considerazioni di Olivier Turquet, per il quale il primo passo verso la nonviolenza consiste nello scoprire la violenza che si nasconde dentro di noi. Antonio Minaldi, Gandhi ad Aushwitz, elogio della Nonviolenza (e sue problematiche), Multimage 2025 Alessandra Ciattini Redazione Italia
La salute mentale è politica
 ““Tirare su” un bambino equivale in pratica a buttare giù una persona” scriveva nel libro “La morte della famiglia” (1972) l’antipsichiatra David Cooper. Quando si arriva all’adolescenza si può dire che il lavoro di distruzione è pressochè compiuto (per l’educazione … Leggi tutto L'articolo La salute mentale è politica sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Dolci, la maieutica reciproca, l’attualità pedagogica
Le edizioni Mesogea hanno pubblicato recentemente Educare e disobbedire: in dialogo con Danilo Dolci di Tiziana Rita Morgante che di Dolci è stata allieva. Nel panorama attuale di una pedagogia e di una didattica appiattita sulle procedure e sulle nozioni, una situazione della scuola italiana (ma non solo) profondamente in crisi nel suo ruolo e nei suoi obiettivi il libro di Tiziana appare come una luce nell’oscurità. L’autrice parte dalla sua esperienza di conoscenza diretta di Dolci per tracciare non solo i temi della maieutica reciproca che Dolci differenzia dalla maieutica classica socratica, dandole quest’aspetto collettivo ed anche organizzativo ma anche per esaminare e comprendere le relazioni, a volte dirette, altre indirette, che legano il Maestro di Trappeto a Rodari, Lodi, Manzi, Freire, Montessori, Milani. Una interessantissima disamina che cerca di tracciare alcuni elementi di una storia della pedagogia attiva che si stava delineando in quei tempi e non solo in Italia. Un bellissimo momento è la trascrizione di un dialogo a un convegno a Trappeto dove Freire e Galtung parlano insieme a Dolci e ad altri pedagoghi di alcune tematiche cruciali che si stavano discutendo in quei tempi. Ma l’aspetto più interessante del libro è il fatto che esso si intreccia con riflessioni e pratiche che Tiziana, in quanto maestra, svolge con i suoi alunni. Mi ha colpito in particolare quella dove la maestra porta i bambini a confrontarsi con la splendida ma difficile poesia di Danilo Poema Umano dove si esprime il famoso concetto ciascuno cresce solo se è sognato: attività proposte in due momenti (attentato Bataclan e pandemia Covid) dove la violenza si presenta in modo crudo e deciso ma dove il percorso maieutico reciproco porta i bambini a conclusioni e riflessioni di altissimo livello umano. Il libro verrà presentato all’interno di un dibattito su Danilo Dolci a Eirenefest Firenze il prossimo sabato 25 Ottobre alle 16.45 presso BiblioteCaNova. Olivier Turquet
Nuove favole per un nuovo mondo
Sappiamo bene che la raccolta di favole tradizionali prodotte dal mondo occidentale, da Esopo a La Fontaine fino ai Fratelli Grimm risente del retaggio culturale e dei valori delle epoche in cui sono state scritte e trattano quei temi “morali” che corrispondono a quella mentalità. Una mentalità da cui traspare a volte un certo maschilismo, una certa visione del potere, delle relazione tra le persone e con gli animali, a volte un pessimismo di fondo. Non sempre ma molto spesso sono favole che non sentiamo il desiderio di leggere ai nostri figli o che vorremmo radicalmente trasformare e, in effetti, già esiste una letteratura della trasformazione e della creazione di favole nuove. Ricordiamo in questo senso anche il grande lavoro letterario di recupero di una tradizione popolare italiana che fece Italo Calvino nelle sue Fiabe Italiane. Nello stesso solco si è sviluppato un interessante movimento di recupero e diffusione di favole e racconti di altre culture con la pubblicazione di alcune raccolte africane e di popoli originali americani (o, meglio, di Abya Yala) o asiatici. Accogliamo dunque con gioia il tentativo di Luigi De Rosa con il suo Racconti di un aspirante Esopo, recentemente edito  da Edizioni Creativa in cui l’Autore esplora lo stile favolistico con l’obiettivo di narrare storie su argomenti delicati come il cambio di sesso, le famiglie omogenitoriali, l’identificazione di genere, i diritti umani. Dice Carolina Morace nel suo inedito ma efficace ruolo di prefattrice: “l’intento del nostro aspirante Esopo è quello che dovrebbe appartenere a tutti noi. Educarci alla diversità perché diverso non è necessariamente sinonimo di brutto e cattivo, inferiore e naturalmente pericoloso. La morale è quella si saper accettare la diversità, le scelte dell’altro, senza guardarlo all’alto in basso,  senza porsi sul pulpito dell’univa verità possibile e, soprattutto, senza giudicare”. Luigi dunque riprende la tradizione di Esopo facendo interagire i classici animali in nuove situazioni e lo fa con perizia, scioltezza ed anche creatività. Certamente queste storie andranno raccontate a molti bambini prendendosi cura di vedere le loro reazioni ma sicuramente sono una interessante base letteraria per un nuovo mondo dove la diversità sia davvero ricchezza, oltre lo slogan declamativo attuale. Olivier Turquet
L’elefante nella stanza si chiama integrazione. Intervista con Enrico Gargiulo
La parola “integrazione” è un mantra nel dibattito pubblico sulle migrazioni. Politicə, giornalistə, amministratorə locali e parte del mondo accademico la evocano come un obiettivo indiscutibile: un bene comune trasversale, una promessa di convivenza pacifica, una cornice dentro cui programmare le politiche e le pratiche rivolte a chi arriva da fuori. Ma cosa nasconde davvero questo termine? Quali presupposti epistemologici e politici porta con sé? E soprattutto: a chi giova? Discutere oggi di integrazione può sembrare una scelta fuori tempo, in un contesto dominato da altre urgenze: l’affermarsi di un regime globale di guerra, lo smottamento degli argini democratici, l’ascesa delle destre radicali e – sul piano delle migrazioni – l’imminente implementazione del Patto europeo, che segna un’ulteriore torsione autoritaria nella gestione della mobilità. Eppure, proprio in questa fase, il libro Contro l’integrazione di Enrico Gargiulo, sociologo dell’Università di Torino e attivista, restituisce centralità a un paradigma dato per neutro e incontestabile. “Integrazione” non è una parola tra le altre: è un dispositivo che plasma il modo in cui pensiamo i rapporti sociali, le gerarchie politiche e la stessa idea di cittadinanza. La lettura del testo, denso ma accessibile, fornisce chiavi interpretative che consentono di illuminare ciò che normalmente rimane in ombra: non soltanto le pratiche quotidiane di esclusione, ma anche i presupposti storici ed epistemici che legittimano l’ordine esistente. Attraverso un lavoro che intreccia genealogia dei concetti, analisi critica delle politiche e attenzione per le forme del linguaggio, Gargiulo mostra come l’integrazione agisca come meccanismo di normalizzazione, nascondendo le radici materiali delle disuguaglianze e spostando il conflitto su un terreno culturalizzato. Per questo, il libro non si limita a smontare una parola, ma invita a ripensare in profondità le categorie con cui guardiamo alla mobilità, al confine e alla cittadinanza. In tempi in cui le migrazioni vengono governate da logiche securitarie o condizionate alla loro funzionalità, Contro l’integrazione è uno strumento prezioso per chi vuole indagare, criticare e trasformare il presente. A partire da questi temi abbiamo intervistato l’autore, Enrico Gargiulo. Quale urgenza politica ti ha spinto, in questa specifica congiuntura, a scrivere un libro che propone una critica radicale all’integrazione? Mi ha spinto un fastidio consolidato, crescente, ormai non più riformabile, verso l’uso della parola “integrazione”, i significati che ha assunto e l’insieme di concetti e categorie a cui rimanda. “Integrazione” evoca rapporti intrinsecamente asimmetrici, un mondo fondato sugli Stati e sui rapporti capitalistici mai messi in discussione, in cui la legalità e l’illegalità della mobilità sono date per scontate. Si presume che le persone appartengano a gruppi culturalmente omogenei che coincidono con lo Stato. Oltre a legittimare l’esistenza stessa degli Stati, si dà per naturale che ogni persona debba essere inclusa in uno di essi e appartenere alla relativa cultura nazionale. Vengono così negate forme di appartenenza substatali o sovrastatali – anch’esse problematiche, certo – ma che incrinerebbero l’immaginario semplificato e funzionale a chi governa le migrazioni. L’urgenza, dunque, è colpire al cuore il discorso sulle migrazioni: delegittimarne le premesse storiche ed epistemologiche, smontare i fondamenti politici. Qualunque discorso che neghi la libertà di movimento e legittimi i confini deve essere messo in discussione. “Integrazione” sembra un concetto più soft, perché riguarda chi è già “dentro” e non chi attraversa la frontiera. In realtà, è strettamente legato al confinamento. L’integrazione viene spesso presentata come un “bene comune”, evocato trasversalmente dalla politica istituzionale. Perché è invece una prospettiva da disarticolare criticamente e non da riformare? È percepita come un bene comune perché chi arriva da fuori viene rappresentato come portatore di culture diverse, potenzialmente in conflitto, e quindi da “armonizzare”. Questo discorso si declina anche in forme progressiste e benevole: si sostiene che chi migra possa incontrare difficoltà nel sistema culturale e istituzionale italiano, e che “fare integrazione” significhi aiutarlo, più per lui che per noi. Il problema è che in tutti questi ragionamenti c’è un “noi” e un “loro” presupposti e continuamente ribaditi. La mia non è una critica all’integrazione da destra, ma agli usi stessi del termine: apparentemente opposti, in realtà convergono. L’elefante nella stanza è la visione del mondo basata su entità culturalmente distinte e in conflitto, che cancella la prospettiva del capitalismo, delle disuguaglianze prodotte nei rapporti sociali, della proprietà privata come fondamento legale e legittimo delle esclusioni. Difenderla significa creare diseguaglianze e impedire a una parte della popolazione di costruirsi un futuro migliore. Con la lente dell’integrazione tutto questo svanisce. Per questo va radicalmente disarticolata e sostituita, non riformata. Nel libro l’integrazione è una lente attraverso cui leggere il governo della mobilità, le gerarchie giuridiche e sociali. Possiamo dire che è una leva per interrogare in profondità la società? Sì, perché usare la chiave dell’integrazione e leggere differenze e conflitti culturali come se fossero naturali è un modo – purtroppo molto efficace – per rimuovere le questioni di fondo. Criticare l’integrazione significa riportare lo sguardo là dove serve: alla nascita del capitale, alle recinzioni delle terre, alla privatizzazione dei mezzi di produzione, all’espropriazione del cosiddetto “Nuovo Mondo”, al colonialismo, alla costruzione di concetti di appartenenza presentati come ovvi e normalizzati. Nel primo capitolo mostro come il concetto di integrazione nasca nella teoria sociologica come risposta al conflitto di classe, interno alla società, dunque legato a rapporti materiali. In seguito viene trasposto negli studi migratori in chiave culturalista. Questo slittamento serve a normalizzare la società: renderla conforme a determinate norme. L’integrazione funziona così: definisco differenze culturali, le trasformo in fratture radicali e legittimo così il mio intervento. Anche la costruzione dei confini trova giustificazione: se le persone sono “pericolose” per la loro cultura, allora i confini diventano necessari. Non sono discorsi descrittivi, ma performativi: producono e impongono una certa normalità. Moltə attivistə e operatorə si chiedono quali termini alternativi utilizzare. Quale vocabolario politico può aiutarci a sottrarci a questa gabbia concettuale? È una domanda giusta. Io stesso faccio fatica a dare una risposta definitiva, anche se ci provo. Ci sono proposte non mie con cui dialogo, come “riarticolazione” o “ricomposizione”. A differenza di inclusione o integrazione, non evocano un inglobamento. Non rimandano a mancanze da colmare, ma a processi continui di messa in discussione, di rinegoziazione delle regole del gioco – materiali e non solo culturali. Questa prospettiva è possibile solo se si mette in discussione la radicale asimmetria del mondo, con il regime di restrizione della mobilità dettato dalle esigenze economiche. In questo contesto è difficile pensare che un semplice cambio di parole basti. Però, in un’ottica di riduzione del danno, se chi opera sul campo iniziasse a riflettere sull’uso delle parole, qualcosa potrebbe cambiare nel lungo periodo. È comunque un passaggio necessario. A chi ti rivolgi con questo libro? Vorrei raggiungere un pubblico il più ampio possibile. La rete “Sociologia di posizione” ha avviato con Meltemi due collane: una di saggi più accademici e una di testi posizionati e diretti. Il mio libro appartiene a questa seconda collana: fornisce strumenti per indagare criticamente la realtà. Penso in primo luogo a chi lavora nelle politiche migratorie: operatrici e operatori dell’accoglienza, avvocate e avvocati, educatrici ed educatori, personale scolastico. Nelle presentazioni già fatte ho visto una particolare attenzione proprio da parte della scuola. Ma spero anche di raggiungere lettrici e lettori che non appartengono a questo ambito: può essere un’occasione di riflessione più ampia. In generale, ho immaginato il libro come uno strumento di comprensione e di azione, utile nella vita quotidiana, nel lavoro e nella militanza politica. L’immagine di copertina è di Elena Torre da Flickr SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo L’elefante nella stanza si chiama integrazione. Intervista con Enrico Gargiulo proviene da DINAMOpress.
Obiezione di coscienza e nuova idea di difesa
La coscienza dice no alla guerra è un volume curato da Enzo Sanfilippo e Annibale Ranieri recentemente uscito presso il Centro Gandhi edizioni. Si tratta di un’antologia ragionata di testi con un significativo sottotitolo: “Per un rilancio dell’obiezione di coscienza a tutti gli eserciti e per una nuova idea di difeza. L’antologia inizia con una interessante ricostruzione delle attività svolte dalla Comunità dell’Arca e da Lanza del Vasto ai tempi della guerra in Algeria; non si tratta solo di una importate ricostruzione di eventi a volte poco documentati ma di una ispirazione a partire dalla visione di una nonviolenza integrale che Lanza del Vasto promuove a partire dalle idee del suo maestro, il Mahatma Gandhi. La nonviolenza non è metodologia d’azione ma è stile di vita “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Questa visione si propagherà poi in altri pensieri e movimenti che si rifanno alla nonviolenza, è un’idea del tutto analoga a quella del pensiero e della proposta d’azione umanista di Silo ma è anche un caposaldo, per gli autori, che viene prima di qualunque proposta di azione. In questo senso il volume si articola con una dettagliata analisi della storia dell’obiezione di coscienza e del concetto di difesa avvalendosi del contributo di personalità studiose come Ermete Ferraro, attuale Presidente dei MIR, Alfonso Navarra della LOC, una sezione dedicata a “sguardi e azioni di donne”. Nella sezione dedicata alle alternative hanno posto esperienze storiche come Operazione Colomba accanto al recente Osservatorio Contro la Militarizzazione delle Scuole, mentre il volume si conclude con la proposta articolata dei curatori per un rilancio e senso nuovo, in Italia, dell’obiezione di coscienza. Chiude il volume un importante elenco dei riferimenti normativi. Il sintesi un volume denso che, come dichiarato nell’introduzione, vuole essere e riesce ad essere un solido contributo al dibattito nonviolento e alla ricerca di soluzioni diverse, estremamente necessarie in questo momento militarista di appiattimento su posizioni che sembravano essere state cancellate dalla storia. Olivier Turquet
Intelligenza artificiale: sorveglianza, controllo, abusi
Molti ne sono entusiasti: l’AI (Artificial Intelligence), nella forma di ChatGPT (Generative Pre-Trained Transformer Chat) li aiuta a scrivere curriculum e testi, fa ricerche e le consegna ben confezionate, svolge perfettamente i temi scolastici partendo anche dalla traccia più difficile, spiega come procedere nel caso di controversie condominiali. E poi, da brava chat, chiacchiera con te. Puoi darle un nome. Puoi allenarla persino, se sei bravo e sai come aggirare certi limiti imposti, a fornirti eccitazioni erotiche, come se stessi parlando con un essere umano. C’è chi giura che svolga, gratis, addirittura il lavoro di uno psicoanalista, e chi ha smesso di consultare google quando avverte dei sintomi preoccupanti, perché ChatGPT è capace di fornire diagnosi mediche accurate. Ci sono preoccupazioni etiche, ci sono paure. Presto ci trasformeremo tutti in AI-dipendenti, restii a imparare perché non servirà più, goffi nello scrivere perché anche questo non servirà più, inabili nel prendere decisioni perché l’intelligenza artificiale lo saprà fare molto meglio di noi, dotata come sarà (è) di una quantità quasi smisurata di informazioni, scaltrissima nell’effettuare collegamenti che a noi non sarebbero mai venuti in mente, e soprattutto razionale, priva di quelle debolezze psicologiche-emotive che inducono gli umani a commettere errori? Sì, qualcuno ha di questi pensieri. Ma in prospettiva, come materia di riflessione filosofica. Intanto, i problemi che si lamentano, immediati ma che tutto sommato sembrano di scarsa importanza, sono le foto “finte”, immagini di scene che raccontano persone che non esistono, vicende mai avvenute, talmente rifinite da essere scambiate per vere. Ci si stupisce, al massimo. Uno spunto per prendere in giro chi si è lasciato ingannare, e vantarci che noi no, noi siamo più furbi. L’intelligenza artificiale non ci frega. Ben altri sono i risvolti di una tecnologia che è andata molto più avanti di quanto,  a meno che non siamo del settore, possiamo immaginare. Si è impegnata in un’indagine che l’ha portata in giro per il mondo l’immunologa e giornalista scientifica indiana Madhumita Murgia, che ha iniziato le sue ricerche aspettandosi di scoprire come l’AI avesse risolto problemi difficili e migliorato la vita di molte persone. Non è però stato così. Nel suo viaggio, riportato nel libro Essere umani. L’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite (ed. Neri Pozza), ha dovuto registrare quanto pesanti, a volte devastanti e comunque sempre manipolatorie possano essere le conseguenze dell’AI sugli individui, sulle comunità e sulle culture in generale. Murgia approfondisce dei casi esemplari, persone che solo apparentemente non hanno nulla in comune tra loro: un medico dell’India rurale, un rider di Pittsburg, un ingegnere afroamericano, una funzionaria burocratica argentina, una rifugiata irachena a Sofia, una madre single ad Amsterdam, un’attivista cinese in esilio.  Diana, la madre single: una storia kafkiana. Due suoi figli minori erano stati inseriti in liste di “ragazzi ad alto rischio di diventare criminali”, liste compilate con un sistema progettato dall’AI e basate su punteggi di rischio, con punti assegnati non solo per aver commesso un reato, ma per essere stati spesso assenti a scuola, aver assistito a una violenza, essere parente di qualcuno che ha guai con la giustizia, vivere in un quartiere povero o semplicemente essere poveri (le cosiddette “variabili proxy”). A quel punto, ecco una serie di misure volte a “tutelare” la società e prevenire il crimine. Interventi continui e quasi persecutori, con visite ripetute di assistenti sociali, poliziotti, funzionari a controllare e redarguire il genitore –  Diana, in questo caso – trattandolo come un demente, rimproverandolo, minacciandolo. Piatti sporchi nel lavello? Attenzione, potremmo doverti portare via la bambina piccola.  È chiaro che così le situazioni di disagio e povertà non possono che peggiorare. Non esistono perdono, aiuto, comprensione. Nato povero e sfortunato, sei destinato a diventarlo ancora di più. Diana aveva finito col perdere il lavoro, stressata com’era, ed era stata ricoverata in ospedale con palpitazioni cardiache. «Le liste generate dall’algoritmo non erano soltanto fattori predittivi», scrive Murgia. «Erano maledizioni».  Uno degli aspetti più lamentati da chi frequenta i social riguarda la rimozione di immagini e contenuti. Viene subita da utenti che hanno semplicemente postato un quadro rappresentante un nudo, e viene subita anche, al contrario, da chi si trova di fronte foto e filmati cruenti accompagnati da commenti di giubilo, e si domanda perché non siano stati censurati. Quello che non ci domandiamo è chi siano i censori. Attraverso storie vere e dati, Murgia racconta quanto porti al DPTS (disturbi post-traumatici da stress) il dover vagliare i contenuti dei social, guardando violenze e atti d’odio a ritmo sostenuto per tutto il tempo, in modo, oggi, di addestrare gli algoritmi. Un lavoro a sua volta guidato dagli algoritmi: pausa pranzo e tempo per andare in bagno predeterminati, come la produttività, che non deve scendere sotto una certa soglia. A fronte di questo, remunerazione bassa, accordi di segretezza, scoraggiato in ogni modo il contatto con i colleghi, e figuriamoci l’unirsi in sindacato.   C’è poi il risvolto della sostituzione dell’AI generativa in lavori prettamente umani: illustratori, copywriter, progettisti di videogiochi, animatori e doppiatori si trovano già adesso in grande difficoltà, e molti dichiarano che viene chiesto loro, più che di creare… di correggere ciò che è stato fatto dall’AI (pagati un decimo rispetto a prima). E c’è la questione contraffazione, il “deepfake”: generati dalle tecnologie AI, foto di persone reali prese da Internet che un software fonde con corpi di attori porno, ottenendo video assolutamente realistici di cui non sarà facile ottenere la rimozione (su TikTok era diventato virale già nel 2020 un video deepfake di Tom Cruise, e parliamo di cinque anni fa, quando i software erano meno sofisticati di oggi).  Non dimentichiamo nemmeno i pregiudizi. Un esempio: il modo in cui vengono calcolati i punteggi di rischio che riguardano la salute. Negli USA, i pazienti neri – e con redito basso – sembravano avere punteggi più bassi, ma questo non accadeva perché si ammalassero meno, ma perché i progettatori avevano addestrato il sistema a stimare la salute i una persona in base ai suoi costi sanitari (e più si è poveri, meno si ricorre all’assistenza sanitaria). Attivisti pieni di buona volontà stanno cercando di raddrizzare le cose. Non è detto che non ci riescano, ma intanto quanti danni sono stati fatti?  Si potrebbe continuare a lungo, e Murgia non si è tirata indietro. Ha indagato le più varie situazioni, incontrato avvocati che cercano di difendere chi è rimasto intrappolato da questi sistemi opachi che possono disporre delle nostre vite e procurarci danni anche senza che lo sappiamo. E ha affrontato il tema forse più delicato e spaventoso: il controllo. In Cina (e Murgia porta riferimenti precisi) esistono già da un po’ sistemi software interconnessi che aggregano i dati dei cittadini e l collegano ai database della polizia.  Gli algoritmi a funzione predittiva considerano sospette decine di comportamenti (addirittura spegnere ripetutamente il cellulare e avere certe espressioni del viso, riprese dalle infinite videocamere), e per motivi di “sicurezza pubblica” moltissimi cittadini, soprattutto dissidenti o appartenenti a gruppi etnici minoritari, sono stati e sono sorvegliati e vessati, quando non portati in campi di rieducazione. Sorveglianza e controllo. Capillari, incessanti. I governi (la rete di connessioni esisterà solo in Cina? non scherziamo) potranno a breve arrivare a prevedere e neutralizzare qualunque azione o manifestazione di protesta, sia individuale che collettiva. E le aziende tecnologiche, con miliardi di utenti, aumenteranno il loro potere, che già è immenso. George Orwell, in 1984. Ninteeen Eighty Four, scritto nel 1949: «Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che schiaccia il volto umano. Per sempre». Susanna Schimperna
La distopia rovesciata delle politiche migratorie
Con Semuren (Castelvecchi, 2024), Francesco Vietti ribalta il baricentro delle migrazioni globali. Nel romanzo l’Italia è dilaniata da una guerra civile e devastata dalla crisi climatica; la Cina diventa l’approdo di imponenti flussi migratori. È un’opera narrativa intensa, sorretta da una trama che si snoda con ritmo e tensione crescente, e al tempo stesso uno strumento di riflessione sulle politiche migratorie contemporanee e sul funzionamento materiale e simbolico dei confini. Al centro della storia ci sono due personaggi: Francesco, un italiano in fuga, e Shen Fu, un giornalista cinese incaricato di documentare il collasso dell’Europa. Le loro traiettorie, inizialmente distanti e asimmetriche, si incrociano in un finale sorprendente che restituisce densità umana e ambivalenza politica all’intera narrazione. > Elemento cardine dell’opera è la frontiera, colta nella sua duplice > dimensione: da un lato, le politiche di contenimento sempre più sofisticate e > repressive; dall’altro, i molteplici tentativi di attraversamento che > testimoniano una persistente capacità d’azione. Vietti esaspera – senza mai renderle inverosimili – le tecnologie e le pratiche già in campo nel nostro presente, ottenendo un effetto straniante e perturbante: ciò che oggi appare come tendenza diventa, nel suo futuro, struttura dominante. Il paesaggio che ne risulta non è però segnato solo da muri, sorveglianza e guardie di confine. Semuren è anche racconto di possibilità. La capacità di agire – individuale e collettiva – si manifesta in forme impreviste, nonostante un contesto politico radicalmente ostile. Il quadro geopolitico immaginato da Vietti riflette e rilancia alcune delle trasformazioni in corso: l’erosione dell’egemonia statunitense, l’emergere di nuovi attori globali – in primis la Cina – e un salto di scala nelle dinamiche autoritarie. I confini che Semuren mette in scena sono radicalmente aggressivi, ma non insormontabili. Resta sempre un certo grado di porosità. Questa ambivalenza attraversa anche uno dei luoghi centrali nel romanzo: la città murata di Kowloon in Cina, immenso ghetto abitato da migranti. Vietti la descrive con attenzione minuziosa, restituendo un ambiente caotico e verticale, soffocante e denso di vita. In questo spazio informale si condensano disperazione, relazioni inedite, audaci economie sotterranee. Come per i confini, anche qui l’oppressione non è assoluta: emergono pratiche di convivenza, forme di socialità, controcondotte. La città murata è specchio della complessa dialettica tra esclusione e inclusione, mai definitiva. > Opera inquieta e coinvolgente, Semuren ci mostra un futuro che è in dialogo > serrato con il nostro presente. Alcuni degli scenari immaginati – come i > centri per migranti in Albania – si sono concretizzati mentre il libro era > ancora in lavorazione. Non si tratta di un mero esercizio di distopia, ma di > una proiezione plausibile delle attuali linee di tendenza. Anche nella sua conclusione, il romanzo non concede illusioni facili. Il governo della mobilità è uno dei dispositivi portanti attraverso cui prende forma il mondo e il suo volto è feroce. E tuttavia, Semuren non è un’opera rassegnata: nella trama e nella costruzione dell’universo narrativo, Vietti lascia spazio all’imprevisto e all’azione. Le politiche di radicale esclusione accelerano, ma la possibilità di contestarle resta aperta. Ed è in questo margine, fragile ma ostinato, che che c’è spazio per immaginare un esito radicalmente differente. Immagine di copertina di CEphoto, Uwe Aranas, wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La distopia rovesciata delle politiche migratorie proviene da DINAMOpress.