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Occupare, scioperare, pensare insieme: Vogliamo Tutt’altro. Forme di lotta e pratiche per fare-mondi
USCIRE DALLA PAURA Ci sono da dire due cose, e da pensarle simultaneamente, non come una contraddizione. Le condizioni di precarietà e vulnerabilità del mondo delle arti, e delle arti dal vivo in particolare, in Italia sono strutturali e storicamente stratificate: a un sistema di finanziamento pubblico farraginoso e inadeguato, e che investe pochissimo in termini economici rispetto alle necessità della produzione contemporanea, si somma una sistemica mancanza di welfare. Non esistono misure specifiche per garantire la continuità di reddito a lavorat* dell’arte, in un lavoro che è discontinuo e intermittente per sua natura. Niente di simile ai sistemi di intermittenza di altri paesi europei, trasformando così il settore culturale in un ambiente ad alta precarietà e sfruttamento. > Qualcosa di molto diverso dalle narrazioni classiste di privilegio ed > elitarismo che le destre diffondono da anni. In un contesto di questo tipo, le difficoltà si sono aggravate con i progressivi tagli alla cultura, dalla crisi finanziaria del 2008 a oggi, e questo vale per tutti i governi che si sono succeduti, con poche differenze sostanziali. Il centro-sinistra non ha saputo produrre una visione d’insieme e di lungo respiro sul mondo delle arti, non ha avuto idee, non ha saputo mettere mano a un sistema di riforma del welfare. Non l’ha fatto sul piano nazionale, e non riesce a farlo neanche sul piano locale e amministrativo, come stiamo vedendo in questi mesi, a Roma ad esempio dove assistiamo a un impoverimento culturale costante, ma anche rispetto a un pensiero complessivo su città/spazi/cultura come mostra lo sgombero del Leoncavallo. D’altra parte, bisogna anche registrare una discontinuità violenta che l’attuale governo di estrema destra sta producendo, da leggere nello scenario più ampio di un fascismo globale: le nuove destre intervengono pesantemente sul mondo culturale, sul sistema dei musei, sulle università, nelle nomine alle direzioni, sul cinema e le sue produzioni, e più in generale tentando di esercitare una pesante egemonia culturale. Quello che sta succedendo nelle università nordamericane, i meccanismi di controllo sui movimenti per la Palestina, l’attacco ai saperi critici sono da osservare tutti assieme – bisogna mettere insieme i pezzi fuori da ogni postura corporativa. > I declassamenti e le espulsioni dal finanziamento pubblico allo spettacolo che > si sono visti in agosto, con interventi fuori dalla cornice istituzionale di > cui sono stati protagonisti i membri delle Commissioni di area governativa, si > traducono di fatto in tagli alle produzioni, ai festival, ai posti di lavoro. La destra attuale però riempie di ideologia un quadro già avviato dai governi precedenti (in particolare quelli guidati dal centrosinistra con Franceschini Ministro della Cultura) che ridefinisce l’arte e il teatro pubblico in termini quantitativi più che qualitativi – alla logica neoliberista che ha ispirato anche le passate riforme si aggiunge oggi una visione punitiva e antidemocratica. Crisi sistemica e discontinuità antidemocratica prodotta dai fascismi globali – in questo scenario c’è da muoversi, attivarsi, creare alleanze. Siamo in un tempo di genocidio e l’economia di guerra e di riarmo sta avanzando, ai danni della sanità pubblica, della formazione, della cultura, del benessere di tutte e tutt*. Il restringimento dello spazio politico e la criminalizzazione di ogni forma di dissenso e conflitto sono pericolosissimi, dal DL Sicurezza agli sgomberi effettuati e minacciati, e stanno colpendo i movimenti di climattivist*, e studentesse e studenti nelle università. Arte e cultura ne sono investite in pieno. Ecco perchè i parziali reintegri arrivati in estate ad alcune delle realtà colpite e ottenuti anche grazie alle mobilitazioni non hanno fermato l’onda delle proteste – molte assemblee hanno continuato a riunirsi, a crescere, a moltiplicarsi dandosi appuntamento a Roma lunedì 8 settembre – centinaia di partecipanti delle assemblee territoriali di lavorat_ dell’arte e dello spettacolo da 17 città in cui sono nate assemblee dal basso e guardando/desiderando forme di alleanza con le/i lavorat_ precari dell’editoria, del cinema, della televisione e della radio, dei beni culturali, della scuola, dell’università, i movimenti sindacali, le associazioni di categoria, gli spazi culturali  indipendenti e/o autogestiti, ma anche singole/i artist*, student*, tecniche/i studiose/i, curatrici/ori, direttrici e direttori di piccole e grandi istituzioni culturali, delle associazioni e delle imprese culturali. Ecco come abbiamo pensato questa giornata. APERTURA DEL MATTINO Inizieremo alle 9.30 negli spazi della Pelanda a Testaccio, messi a disposizione dal festival internazionale di arti performative Short Theatre, in complicità con l’assemblea. Aprirà l’assemblea l’installazione di Taring Padi, collettivo di artistx/attivistx indonesiani, a Roma per una residenza alla galleria Cantadora – attivo dal 1998, Taring Padi utilizza diversi formati grafici e narrativi, e fu il loro lavoro ad aprire una controversia durante documenta15, tra le più rilevanti mostre dell’arte contemporanea che si tiene a Kassel, che ha anticipato tante delle questioni che si sono aperte in questi ultimi due anni sulla censura e sull’uso strumentale dell’antisemitismo: le illustrazioni di Taring Padi furono accusate di essere antisemite per le raffigurazioni dell’esercito israeliano, e le critiche portarono alle dimissioni della direttrice della mostra. L’opera presentata in assemblea è un arazzo-striscione dal titolo  الشعوب عدالة / People’s Justice (2024), creato nelle giornate organizzate da ANGA Art Not Genocide Alliance a Venezia, durante le proteste contro il padiglione israeliano in Biennale e a sostegno della Palestina. L’arte non è uno spazio neutro, non è mai stato così chiaro come in questi mesi di censure, doppi standard, artwashing filosionista. di Ilenia Caleo FARE ASSEMBLEA, ASSEMBLARSI L’assemblea è una pratica politica in sè, oltre che un momento decisionale – è forte il bisogno di ritrovarsi, con i corpi, discutere, pensare insieme. Tutte ricordiamo la forza non solo rappresentativa ma immaginativa, produttiva, organizzativa, performativa delle assemblee nazionali di Non Una Di Meno. In questi mesi abbiamo “inventato” una pratica sull’emergenza, facendo assemblee nazionali online mentre nelle città si radunavano simultaneamente assemblee in presenza. È stato un modo per tenere insieme singole.i lavorat* e artist*, compagnie, festival, teatri, istituzioni artistiche; ora sentiamo il bisogno di incontrarci con i corpi, dal vivo. > Pensiamo l’assemblea come una pratica transfemminista di pensiero collettivo, > un momento di autoformazione e insieme di costruzione di discorso pubblico. > Vogliamo un’assemblea aperta e accogliente per tutti i corpi, per le singole e > per i collettivi. A fine luglio, il quadro delle assegnazioni pubbliche per il triennio 2025/27 del FNSV (Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo) ad opera del Ministero della Cultura è compiuto, eppure la mobilitazione resta attiva – l’incertezza è altissima, per i prossimi anni, mentre il lavoro artistico e culturale diventa sempre meno accessibile: si lavora sempre meno e in condizioni sempre peggiori. Il disegno che emerge dai tagli e dalle valutazioni delle Commissioni governative sui finanziamenti pubblici è chiaro: definanziare e smantellare le realtà che a vari livelli lavorano sui linguaggi più sperimentali e contemporanei, sostenendo piuttosto realtà conservatrici e commerciali. Vengono attaccati centri di produzione e formazione per la danza contemporanea, progettualità di artist* disabili, i luoghi che lavorano dai margini, anche geografici (il Sud, la Sardegna), i progetti che adottano il linguaggio inclusivo nella scrittura delle domande, i percorsi più sperimentali, innovativi, transdisciplinari. È chiaro il progetto di una cultura di regime. Ci prendiamo il tempo dunque, per stare insieme e costruire una giornata intera di assemblea, in una durata più lunga e distesa delle classiche assemblee decisionale, per lasciare spazio agli imprevisti, alle domande, alle interferenze. TAVOLI DI LAVORO: IDEE, DOMANDE, SPUNTI, PRATICHE Immaginare. Immaginare nuovi modelli di finanziamento pubblico e di produzione, ripensare l’arte come creazione di comune e come diritto primario, inventare nuove istituzioni artistiche a partire dalle condizioni materiali e dalle economie. Visualizzare e concretizzare le alternative alla privatizzazione, e le potenzialità che dispiegano, per garantire sia autonomia che sostenibilità. Organizzare. Una mappatura degli strumenti che abbiamo a disposizione, per nominare i diritti di lavorat* dell’arte e della cultura e pensare dispositivi di welfare e di tutela del lavoro e del reddito. La precarietà aumenta l’esposizione, la vulnerabilità, la violenza di genere, le relazioni di potere. Il reddito è uno strumento di autonomia e di uscita dallo sfruttamento e dalla violenza. Convergere. Fare una mappa delle lotte, dei collettivi, delle azioni diffuse e specifiche in un’idea di convergenza priva di uniformità, di simultaneità delle lotte, di potenziamento reciproco e di connessioni interrelate. Contrastare la frammentazione, rafforzare i fili, le infrastrutture autonome – dall’idea di uno sciopero della cultura, chiamato dall* lavorat* dei beni culturali Mi Riconosci, passando per la scuole, le università, il cinema, l’editoria, il mondo del giornalismo e articolando dentro questi nessi le lotte a fianco della Palestina, affinchè non siano solo testimonianza, ma si incarnino nelle pratiche, leggendo la violenza della guerra e del genocidio come una trama che tiene insieme diverse soggettività. Pensare lo sciopero, in tante forme possibili. Insorgere. Costruire, attrezzare, allenare le pratiche di lotta e di organizzazione, non farci schiacciare dalla paura della criminalizzazione, fare le crepe nel clima di guerra. Rinominare la dimensione conflittuale come forza generativa, pensando diverse scale sui territori. Bruciare, infiammarsi. AGIRE/REAGIRE/ISTITUIRE ALTRIMENTI C’è da opporsi al progetto delle destre, che si proietta sul lungo periodo, di impoverimento dei linguaggi, di semplificazione del discorso e dei sistemi complessi, di diffusione di una cultura generalista, accomodante e razzista, di insofferenza verso il pensiero critico uno strumento di governo. Dobbiamo rispondere, creare le condizioni per una reazione all’altezza della crisi nazionale e internazionale. > Serve una sollevazione del mondo della cultura. Insorgere come sono insorti gli operai e le operaie di fronte ai licenziamenti di massa della GKN. Bloccare tutto, come minacciano i lavoratori del porto di Genova se la Flotilla verrà bloccata. Occupare spazi per occupare discorso e fare altri mondi – resistere non basta, dobbiamo istituire dal basso altre forme del vivere associato, modi altri di relazione. Scioperare, in tutte le forme che la nostra immaginazione produce. Convocare subito uno sciopero generale, per la Palestina libera, contro la guerra coloniale e l’apartheid israeliano. Da femministe, prendersi sulle spalle la responsabilità, il piacere e il desiderio del conflitto sociale che spacca la violenza e la depressione del presente e crea le possibilità del futuro. Di diversi e molteplici futuri. La precarietà delle nostre vite è la precarietà di molte altre vite, resa più acuta e feroce dalla guerra, dal riarmo, dal genocidio – la vita delle donne, delle soggettività queer, razzializzate, colonizzate, povere. PROGRAMMA in complicità con il festival Short Theatre | Pelanda H9.30 arrivi/caffè/saluti–– attivazione collettiva del banner di Tarin Pading (Indonesia) H10.30/11.30 apertura assemblea >introduzione sui punti di lavoro e pratiche della giornata H11.30/13.30 4 tavoli di lavoro simultanei: ɪᴍᴍᴀɢɪɴᴀʀᴇ / ᴏʀɢᴀɴɪᴢᴢᴀʀᴇ / ᴄᴏɴᴠᴇʀɢᴇʀᴇ /.ɪɴꜱᴏʀɢᴇʀᴇ . H13.30/15.00 pausa pranzo H15.00/18:00 plenaria: idee/proposte dai tavoli + interventi liberi H18.30 Bojana Kunst𝘦 𝘪𝘭 𝘭𝘢𝘵𝘰 𝘰𝘴𝘤𝘶𝘳𝘰 𝘥𝘦𝘭𝘭’𝘢𝘳𝘵𝘦 [in complicità con Short Theatre] >>dalle 21.00 CENA PALESTINESE + 𝐹𝐸𝒮𝒯𝒜𝒜𝒜𝒜 >>> ANGELO MAI L’immagine di copertina è di Ilenia Caleo SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Occupare, scioperare, pensare insieme: Vogliamo Tutt’altro. Forme di lotta e pratiche per fare-mondi proviene da DINAMOpress.
L’odissea precaria dell’Università tra espulsioni, tagli e caos amministrativo
A distanza di tre anni dalla riforma del preruolo introdotta con la Legge n. 79 del 29 giugno 2022, il governo è recentemente tornato a mettere mano alle regole del reclutamento universitario: l’emendamento Occhiuto, inserito all’ultimo momento nel cosiddetto Decreto Scuola (Decreto Legge n. 45, 7 aprile 2025, art. 1-bis), riorganizza radicalmente le figure di accesso alla carriera accademica, svuotando la precedente riforma e compiendo un ulteriore passo nel processo di precarizzazione e ridimensionamento del sistema delle università pubbliche italiane. Molti Atenei hanno già approvato i regolamenti che attueranno presto la riforma, le cui conseguenze non sono state ancora del tutto chiarite. Il primo e principale problema del nuovo impianto normativo, come già evidenziato, è che fa rientrare dalla finestra le figure flessibili e a basso costo che erano state messe alla porta: infatti l’originaria “riforma Bernini” del preruolo (DdL 1240), che puntava su una più estesa precarizzazione e frammentazione del preruolo introducendo ben quattro nuove figure precarie,, è stata ritirata per le mobilitazioni cresciute dall’autunno del 2024 in molti Atenei e per i rischi di “reversal” denunciati  da ADI e FLC-CGIL rispetto agli obiettivi del PNRR, in quanto le maggiori tutele della Legge 79 erano state inserite come milestone della Missione 4. Ma un altro problema cruciale è quello della copertura economica. I nuovi contratti costano più degli assegni di ricerca aboliti (45.000 euro ca annui i Contratti di Ricerca-CDR e gli incarichi post-doc contro i 24.000 ca dell’assegno), e gli Atenei, tra tagli all’Fondo di finanziamento ordinario (FFO) e tetti di spesa imposti dalla Legge 79 e dall’emendamento Occhiuto, non potranno compensare la spesa. Ne deriverà un’espulsione massiva di ricercatrici e ricercatori, priva di ogni valutazione ex ante: secondo una stima ADI, 2090 ricercatrici e ricercatori potrebbero essere espulse/i già da quest’estate. > Colmare questo gap richiederebbe un incremento mirato dei fondi FFO destinati > al cofinanziamento e l’introduzione di un meccanismo di riparto chiaro, rapido > e perequativo. Ma al momento mancano entrambi: le risorse sono inadeguate e il > sistema di assegnazione interno agli Atenei opaco e farraginoso. È qui che si gioca dunque nel giro di qualche mese, nel silenzio delle governance e nella debolezza del dibattito pubblico, la partita della sopravvivenza di migliaia di ricercatrici e ricercatori precarie/i nel nostro Paese, a fronte dei patetici appelli di chi vorrebbe attrarre i talenti in fuga dagli USA per le politiche anti-accademiche di Trump – non così differenti da quelle del governo Meloni. DALLA LEGGE 79/2022 ALL’EMENDAMENTO OCCHIUTO: MUTAZIONI E AVVITAMENTI DEL PRERUOLO Nel 2022, con la Legge 79, il legislatore aveva tentato di razionalizzare e semplificare il percorso del preruolo – che oggi può durare fino a 15 o 16 anni senza alcuna garanzia di stabilizzazione. L’assegno di ricerca, contratto di lavoro parasubordinato (minimo un anno rinnovabile fino a 6) era stato riconfigurato nel 2011 dalla riforma Gelmini ed era presto divenuto il cardine del sistema di sfruttamento di migliaia di ricercatrici e ricercatori (attualmente 21.709 negli Atenei statali). La riforma del 2022 lo aveva abolito, sostituendolo con il nuovo Contratto di Ricerca (CDR), della durata minima di due anni, rinnovabile per altri due, senza obblighi didattici e formalmente inquadrato nella contrattazione collettiva. L’obiettivo dichiarato era costruire un percorso più strutturato verso i ruoli universitari, legando il preruolo al contratto RTT attraverso una riserva del 25% nei concorsi per RTDa e assegnisti (da almeno tre anni). D’altra parte la riforma si era da subito scontrata con due limiti strutturali: l’assenza di un finanziamento dedicato e l’introduzione di tetti di spesa che rendevano molto problematica l’applicazione effettiva dei nuovi contratti. In particolare, l’art. 6 stabiliva che la spesa per i CDR non potesse superare la media della spesa per assegni di ricerca nel triennio precedente, senza tenere conto dell’aumento dei costi dei CDR rispetto agli assegni, dovuti alle maggiori tutele. Dopo i tentativi maldestri di varare la nuova legge di riforma del preruolo DDL 1240), il nuovo governo riesce a vanificare la Legge 79 ricorrendo alla decretazione d’urgenza: l’emendamento Occhiuto (FI), inserito all’interno del cosiddetto Decreto Scuola (DL 45/2025), introduce, in aggiunta ai CDR della 79/2022, due nuove figure: – L’incarico di ricerca (art. 22-ter): figura intermedia tra assegno e CDR, più economica e flessibile ma priva di inquadramento contrattuale. Accessibile entro sei anni dalla laurea magistrale anche senza dottorato, è un contratto parasubordinato dai contorni giuridici incerti: non è chiaro se dia diritto alla Dis-Coll come l’assegno e può essere attivato tramite conferimento diretto, risultando complessivamente peggiorativo rispetto all’assegno di ricerca. – L’incarico post-doc (art. 22-bis): riservato a dottori e dottoresse di ricerca, ha durata annuale rinnovabile fino a tre anni ed è attivabile anche con fondi esterni. Pur essendo un contratto subordinato, non è soggetto a contrattazione collettiva, non ha riserve nei concorsi RTT, la selezione avviene per titoli e resta incerta la quantità di didattica richiesta. La durata minima di un solo anno compromette ogni possibilità di progettualità scientifica e personale. > Entrambe le nuove figure introdotte, si configurano chiaramente come forme > contrattuali fortemente precarie, prive di tutele, senza prospettive di > progressione e segnate da una forte discrezionalità nei processi di selezione. In definitiva, ciò che emerge è l’esatto opposto della semplificazione annunciata: il nuovo assetto produce una frammentazione ancora maggiore del preruolo, accentuando discrezionalità, disparità e gerarchie, e smantellando l’impianto razionalizzatore che la Legge 79/2022, pur con tutti i suoi limiti, tentava di introdurre. Nonostante sia ormai acclarato, vista la stabilità nel tempo del numero di precari3, che, come si argomenta in un recente saggio, “il sistema universitario abbia necessità del corrispondente apporto di lavoro nel lungo periodo e che quindi l’attività svolta a tempo determinato non corrisponda a un’esigenza temporalmente circoscritta da parte delle Università”, si torna a rendere strutturale la precarietà nel sistema, con la conseguente elevatissima “dispersione delle professionalità formatesi nel settore”. LA TRAPPOLA DEL SOTTOFINANZIAMENTO: TAGLI ALL’FFO ED EFFETTO COMBINATO TRA TAGLI E RIFORMA A rendere ancora più instabile l’intero impianto del nuovo preruolo è il quadro finanziario strutturalmente insufficiente in cui si inserisce. Come segnalato da FLC-CGIL, il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) registra nel 2025 un aumento solo nominale: dopo il taglio del 2024 (pari a circa 518 milioni di euro), l’incremento del +3,7% previsto per quest’anno si rivela del tutto illusorio. Infatti, una volta considerati gli effetti dell’inflazione e gli aumenti stipendiali del personale strutturato, il valore reale dell’FFO 2025 scende al di sotto di quello del 2021, con una perdita stimata di circa il 5%. Invece di rafforzare il sistema, il governo ha imposto dal 2026 un blocco del turnover al 75%, aggravando una crisi già profonda: l’Italia ha un rapporto studenti/docenti tra i peggiori in Europa (20 a 1) e servirebbero almeno 40.000 assunzioni solo per raggiungere la media continentale (15 a 1). > Ma anziché valorizzare il bacino del precariato, si restringe ulteriormente > l’accesso, aprendo la strada a un’espulsione di massa e mettendo a rischio il > futuro della ricerca e dell’università pubblica. Il combinato disposto tra riforma del preruolo e tagli al FFO genera una gabbia finanziaria nella quale le università non possono stabilizzare, non possono garantire la continuità delle carriere, e spesso non riescono nemmeno a pianificare il futuro. Il rischio è una crisi occupazionale senza precedenti, che investe la parte più produttiva e vulnerabile della comunità scientifica nazionale: le ricercatrici e i ricercatori precari. ABOLIZIONE ASN E DIVARICAZIONE DEFINITIVA TRA PRERUOLO E RUOLO Il Ddl 1518, attualmente in discussione al Senato, rappresenta il completamento dell’emendamento Occhiuto inserito nel DL 45/2025: insieme delineano un’unica architettura normativa che interviene sia sulle figure del preruolo sia sull’accesso al ruolo. Il risultato è una divaricazione ancora più netta tra il tempo lungo del lavoro precario e il momento, sempre più accidentale e discrezionale, della stabilizzazione. Il DdL 1518 intende superare l’Abilitazione Scientifica Nazionale, affidando la valutazione ai concorsi locali con commissioni composte da quattro membri esterni sorteggiati e uno interno. Se l’obiettivo è snellire le procedure e rafforzare l’autonomia, il nuovo assetto, come segnalato di recente da Mario Pianta, presidente della Società Italiana di Economia, aumenta il rischio di cooptazione, accresce le disuguaglianze territoriali e annulla ogni garanzia nazionale sui criteri di accesso. Contemporaneamente, le nuove figure contrattuali, incarico di ricerca e incarico post-doc non prevedono alcuna progressione verso la stabilizzazione: non maturano anzianità utile, non danno punteggio nei concorsi, non aprono alcun canale riservato. A legittimare la nuova architettura concorrono due meccanismi distinti ma convergenti: da un lato, il richiamo al merito e alla competitività, incarnato dal Fondo Italiano per la Scienza (FIS), che – pur ispirato all’European Research Council (ERC) – premia pochissimi ricercatori attraverso chiamate dirette basate su selezioni discrezionali e spesso poco trasparenti; dall’altro lato, una spinta localistica e aziendalista che rafforza l’autonomia degli Atenei, con concorsi gestiti localmente. > Il risultato è una doppia opacità: selezione opaca nei finanziamenti > centralizzati e cooptazione opaca nei concorsi locali. Nel mezzo, nessun criterio trasparente per decidere quali carriere meritino stabilizzazione e quale valore riconoscere agli anni di lavoro scientifico svolti in condizioni di precarietà. L’università pubblica italiana si allontana così da un sistema regolato e nazionale, per avvicinarsi a un modello segmentato e diseguale che disperde risorse e competenze. IL VALORE PERDUTO: UNA STIMA ECONOMICA DELLA DISSIPAZIONE DEL CAPITALE COGNITIVO Completa il quadro la dimensione economica del capitale cognitivo precarizzato su cui si regge da decenni il sistema universitario italiano. Oggi sono attivi circa 21.700 assegnisti di ricerca nel sistema pubblico. Se si stimano tre anni di dottorato e tre di assegno – come durata media delle carriere, anche prudente – si arriva a oltre 130.000 anni/persona di lavoro scientifico. Considerando un costo medio annuo lordo di 25.000 euro tra borse e assegni, l’investimento complessivo sulle loro carriere supera i 3,25 miliardi di euro. Ma questa cifra rappresenta solo una parte del valore in gioco: secondo le metriche internazionali (OCSE, Commissione Europea), ogni euro investito in ricerca pubblica genera tra 2 e 6 euro di ritorno economico, sociale e tecnologico. Anche ipotizzando il moltiplicatore più basso (2x), questi ricercatori “invisibili” hanno generato almeno 6,5 miliardi di valore netto per il Paese. A differenza delle retoriche che li descrivono come “costi da contenere”, queste carriere rappresentano in realtà la principale leva di produzione di sapere e innovazione del sistema accademico. Secondo un recente sondaggio nazionale condotto su un campione stratificato dall’ADI, solo il 2,5% delle posizioni precarie è finanziato da fondi privati, mentre il resto è coperto da PNRR (23%), PRIN (21,8%), FFO e fondi istituzionali (20,3%), fondi europei (11,1%). Ciò significa che il sistema universitario italiano, agendo da collettore di risorse (per lo più) pubbliche, ha mobilitato permanentemente un esercito di precari per garantire la tenuta a basso costo della didattica, della progettazione competitiva e della produzione scientifica, offrendo nel contempo la possibilità alla casta degli strutturati di essere competitivi a livello nazionale e internazionale grazie a gruppi di ricerca sottopagati e privi di prospettive. > Chiaramente questo sistema a lungo andare diventa insostenibile, ma invece di > fare ope legis come accaduto in passato, oggi si pensa di gettare il bambino > con l’acqua sporca. Non può essere un caso infatti se da un lato – correttamente – si raddoppia il costo dei contratti (45.000 euro ca annui di CDR e incarichi post-doc contro i 24.000 ca dell’assegno) e dall’altro si impone agli atenei di spendere le stesse risorse disponibili prima della riforma. Il raddoppio dei costi a parità di risorse significa la metà dei contratti, con un’espulsione di massa repentina e scriteriata – in senso letterale, senza criterio. Ma proviamo a quantificare questa espulsione, anche in termini di costi. Simulando tre scenari – ottimista (20% di perdite), realistico (50%), pessimistico (70%) – si arriva a proiettare la possibile cancellazione di posizioni di ricerca per un numero che oscilla tra le 6.500 e le 15.000 unità, equivalenti a una perdita netta di attività scientifica compresa tra i 39.000 e i 90.000 anni/persona. Se monetizziamo questa perdita, parliamo di investimenti bruciati per 1,75-4,05 miliardi e di mancata produzione di valore per 3,5-8,1 miliardi, il tutto senza valutazioni preventive, mappature del fabbisogno, anagrafe delle precarie e dei precari, né piani di compensazione per gli Atenei. Una miopia drammatica, che rischia di tradursi, oltre che in una espulsione di massa, anche in una dissennata dissipazione di capitale cognitivo. IL NODO DEI COFINANZIAMENTI: TETTI DI SPESA, OPACITÀ ISTITUZIONALE E RISCHIO ESPULSIONE Il cuore della crisi attuale, però, non risiede solo nell’assetto normativo, ma anche nelle prassi amministrative opache e inefficienti che abbiamo sopra menzionato.  Come emerso da una recente interlocuzione diretta tra i/le rappresentanti precari/e e la rettrice della Sapienza, il nuovo assetto si regge su una partita tecnico-contabile totalmente incerta, che rischia di produrre effetti drammatici nei prossimi mesi. Il primo nodo riguarda il calcolo del tetto di spesa imposto agli Atenei per le nuove figure contrattuali, che in genere si suddividono in finanziamenti integrali tramite bandi di Ateneo o cofinanziamenti su bandi dei dipartimenti: la norma non armonizzata prevede da un lato (Legge 79) che non si possano superare per i CDR i livelli di spesa del triennio precedente destinati agli assegni, dall’altro (Emendamento Occhiuto) che non si possano superare per incarichi di ricerca e incarichi post-doc i livelli di spesa del triennio precedente destinati ad assegni e RTDa. Di conseguenza, non è chiaro se i tetti di spesa vadano applicati separatamente (CDR da un lato e incarichi post-doc e incarichi di ricerca dall’altro), oppure cumulativamente, con la possibilità di destinare a tutte e tre le figure le stesse risorse impiegate nel triennio precedente per assegni e RTDa. Questa ambiguità normativa ha prodotto una paralisi nelle governance: come nel caso della Sapienza, i vertici amministrativi non sono in grado di definire un criterio operativo e rinviano ogni decisione in attesa di istruzioni dal MUR, che però non arrivano. Il rischio è che, di fatto, si imponga un’interpretazione restrittiva e cumulativa, che accorpi tutte le figure in un unico tetto escludendo dal computo i contratti finanziati con fondi PNRR, finendo per ridurre drasticamente la capienza finanziaria disponibile per i contratti 2025. Si tratta di un ritardo che va ad aggravare la crescente urgenza data dal rischio concreto di espulsione per migliaia di ricercatrici e ricercatori a causa dei costi accresciuti dei nuovi contratti. Il secondo nodo riguarda invece i criteri interni di ripartizione dei fondi tra dipartimenti, stabiliti autonomamente da ciascun ateneo. Alla Sapienza, ad esempio, la quota di cofinanziamento destinata ai dipartimenti viene suddivisa per metà in base alla “qualità della ricerca” prodotta dal dipartimento e per metà al numero di posizioni attualmente aperte. Ma questo criterio, che dovrebbe riflettere il fabbisogno reale sulla base dello storico del precariato, finisce per seguire logiche interne di potere accademico, più che il valore o la continuità delle carriere coinvolte. Inoltre, la riforma del preruolo avrebbe richiesto una revisione di questi criteri, in ragione dell’introduzione delle nuove figure contrattuali, ma gli atenei non hanno avviato alcun processo di aggiornamento. Il risultato è un sistema che naviga a vista, in cui ogni decisione – o rinvio – rischia di escludere migliaia di ricercatrici e ricercatori senza alcuna valutazione di merito né di necessità. DIFENDERE L’UNIVERSITÀ PUBBLICA, DALLA BASE DELLA PIRAMIDE In questo scenario, la posta in gioco va ben oltre la condizione del precariato della ricerca. È l’università pubblica, nella sua interezza, a essere sotto attacco. Siamo di fronte a una strategia di lungo periodo che mira a ridurre l’università pubblica a pochi poli di eccellenza, comprimere la spesa precarizzando la forza lavoro e smantellare ciò che non serve al mercato, aprendo praterie alle università telematiche e ai privati. Un disegno che non parte dall’alto, ma dalla base, prosciugando la linfa vitale del sistema, tagliando fuori le ricercatrici e i ricercatori, ovvero le energie che oggi garantiscono la tenuta della didattica e della produzione scientifica del sistema pubblico. > Difendere l’università pubblica significa contrastare questo disegno > pretendendo misure d’urgenza, stabilizzazioni e una riforma realmente organica > del sistema universitario. Per avviarci in questa direzione avanziamo richieste precise e immediate: * L’istituzione tempestiva di un fondo compensativo nazionale per il cofinanziamento dei contratti di ricerca, gestito con criteri trasparenti, perequativi e orientati al fabbisogno reale, volto a scongiurare nel breve periodo le espulsioni massive di assegnisti e RTDa in scadenza. * L’istituzione immediata di un’anagrafe pubblica delle carriere individuali, per valutare l’impatto delle riforme e orientare l’allocazione delle risorse; oggi questa ricostruzione è impossibile, perché nei bilanci degli atenei la spesa per il lavoro precario è iscritta nella voce “beni e servizi”, la stessa che comprende la cancelleria, per intendersi – un segno, non solo simbolico, dell’indifferenza sistemica verso il lavoro scientifico precario. * L’adozione del piano straordinario di reclutamento proposto dalla FLC CGIL, che prevede 40.000 stabilizzazioni su base pluriennale come unica alternativa all’espulsione di massa. * La revisione dei criteri di riparto interno dei fondi, affinché tengano conto dello storico delle posizioni attivate, dei fabbisogni effettivi e delle carriere interrotte, e superino le  logiche spartitorie basate solo sul peso dei docenti strutturati. * Il riconoscimento del lavoro scientifico, formativo, di terza missione e organizzativo svolto dalle precarie e dai precari, che oggi garantisce la continuità e tenuta dell’attività accademica in tutti gli atenei. * Semplificazione del preruolo, riduzione del limite di anni di precarietà e introduzione di piani ordinari di reclutamento con periodicità certa che tengano in equilibrio riconoscimento dell’esperienza maturata e inserimento di ricercatrici e ricercatori più giovani. Si tratta di rivendicazioni che hanno le proprie radici nel lavoro svolto negli ultimi mesi dalle assemblee precarie universitarie – come l’assemblea nazionale di Bologna (8-9 febbraio 2025) e il collegato Manifesto. Alcune di queste rivendicazioni sono confluite nella mobilitazione del 12 maggio 2025, quando in oltre 20 città docenti, dottorandi/e, assegnisti/e, personale tecnico-amministrativo e studenti sono scesi/e in piazza per scioperare. Ma quanto fatto finora dev’essere solo l’inizio di una mobilitazione più vasta che miri a ottenere adeguati finanziamenti all’università pubblica e una sua riforma organica che cancelli il lavoro precario in ogni comparto. In vista di un prossimo sciopero generale dell’università da costruire, serve rilanciare il conflitto, intessere alleanze trasversali, riaprire spazi di confronto e di organizzazione, dentro e fuori i dipartimenti. Questo significa convergere con le altre realtà colpite dalla precarizzazione e dai tagli: il mondo dell’arte e della cultura, la scuola, il giornalismo e l’informazione. Per definire i contorni di questa convergenza, è necessario inquadrare lo smantellamento di questi spazi all’interno di una manovra globale di corsa al riarmo e finanziamento bellico. Per quanto riguarda l’università, la centralità di questo “progetto di morte” all’interno delle politiche italiane e europee ha compromesso la ricerca di base, costringendola al dual use e integrandola progressivamente nel sistema economico e tecnico-scientifico della guerra. Ma le conseguenze delle logiche di riarmo e di reindirizzamento dei fondi sono nefande anche nel mondo dell’arte e della scuola, colpite anch’esse da tagli e minacciate da logiche di militarizzazione. La battaglia che ci aspetta, dunque, non è una vertenza settoriale. È una battaglia per il futuro dell’università democratica e del mondo della cultura in generale, contro l’economia di guerra e il modello politico che la sostiene. L’immagine di copertina è di Jacopo Clemenzi SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo L’odissea precaria dell’Università tra espulsioni, tagli e caos amministrativo proviene da DINAMOpress.
Meloni al congresso Cisl, sceneggiata di regime
Sostiene che sul lavoro va tutto bene, ma ha fatto male i conti: il paese è una polveriera La Meloni rivendica il forte incremento di posti di lavoro, ma dimentica di precisare che si tratta di lavoratori poveri, condannati a salari da fame. Il lavoro che cresce in Italia è […] L'articolo Meloni al congresso Cisl, sceneggiata di regime su Contropiano.
Cinque Referendum per strappare un pezzo di democrazia
Oggi è la festa delle lavoratrici e dei lavoratori. Alcuni, anche a sinistra, la vorrebbero chiamare festa del lavoro, e questo ci dice molto di come il processo di neoliberalizzazione abbia cambiato il modo di pensare, di organizzare, e di regolamentare il mondo lavorativo. Oggi è una festa che molti ritengono desueta, e che gli stessi sindacati confederali hanno, almeno in parte, contribuito a svuotare di senso, facendola diventare il giorno di un grande concerto. Ma il periodo storico che viviamo, quello in cui un nuovo blocco reazionario si affaccia al governo del mondo, richiede di riappropriarci in maniera radicale di vecchie e nuove sfide del movimento operaio, precario, femminista, transfemminista e ambientalista. In tal senso, oggi è sicuramente uno dei giorni più indicati per iniziare a parlare dei cinque referendum dell’8 e il 9 giugno. Il referendum è uno dei pochi strumenti effettivi di democrazia diretta del nostro ordinamento. Infatti, nella storia della Repubblica è stato un grande mezzo di riappropriazione dal basso di diritti e libertà attaccati dalle forze (neo)liberali e cattoliche reazionarie: come il referendum che ha confermato il divorzio (1974), l’aborto (1981) ma anche il referendum che ha negato la possibilità di far ricorso all’energia nucleare (1987 e 2011), e per la pubblicizzazione dell’acqua pubblica (2011). Ci sono stati, poi, referendum il cui esito ha segnato la storia del nostro Paese, anche in maniera controversa, come i referendum per l’abrogazione del sistema proporzionale (1991 e 1993) e sul finanziamento pubblico ai partiti (1978 e 1993). Questi referendum condividono anche la necessaria vigilanza costate successiva al voto affinché non fosse completamente disatteso dal governo di turno. Il primo week-end di giugno si andrà a votare per cinque quesiti, quattro sono questioni che riguardano il mondo del lavoro e uno l’acquisizione della cittadinanza italiana. I primi quattro quesiti sono stati proposti dalla CGIL (la Cisl è contraria e la Uil è solo parzialmente favorevole e non farà campagna referendaria) l’ultimo da un comitato composito tra cui l’associazione “Italiani senza cittadinanza”. Su questi referendum c’è ancora un silenzio stampa assordante da parte dei media mainstream e dei partiti di sinistra, ancora incerti sui quesiti, ma è ancora poco anche il coinvolgimento da parte dei sindacati di base, delle associazioni, dei collettivi studenteschi, dei centri sociali, dei movimenti precari, femministi, transfemministi e ambientalisti. E’ invece necessaria una campagna referendaria ampia, multiforme, e diffusa, perché potrebbe essere un mezzo per la riappropriazione di diritti negati. Analizziamo i singoli quesiti. PRIMO QUESITO: STOP AI LICENZIAMENTI ILLEGITTIMI Il primo quesito si riferisce alle norme che riguardano i licenziamenti illegittimi nelle aziende con più di quindici dipendenti, così come prevista dal Jobs Act, nel cosiddetto contratto a “tutele crescenti”. Oggi, chi è licenziato in maniera illegittima da una media e grande azienda in caso di impugnazione di fronte al giudice non può chiedere il reintegro nel posto di lavoro ma solo un’indennità risarcitoria, sulla cui quantificazione si è espressa più volte la Corte Costituzionale, allargando le maglie molto strette previste dal Jobs Act, ma che rimane molto restrittiva e differenziata soprattutto per ciò che riguarda i licenziamenti collettivi per questioni economiche.  Questo primo quesito, quindi, ripropone nel dibattito pubblico la questione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, modificato prima dalla legge Fornero del 2012 e poi dal Jobs Act del 2015. Votando Sì si vota per l’abrogazione del decreto legislativo n. 23 del 2015 (parte della riforma del Jobs Act), e così a tutte le lavoratrici e i lavoratori dipendenti di imprese con più di quindici dipendenti, indifferentemente dalla data della loro assunzione, si applicherà l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori così come modificato dalla Legge Fornero, prevedendo la possibilità del reintegro in caso di licenziamento illegittimo.  SECONDO QUESITO: PIÙ DIRITTI PER LE LAVORATRICI E I LAVORATORI DELLE PICCOLE IMPRESE  Il secondo quesito ha l’obiettivo di aumentare le tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle imprese con meno di sedici dipendenti. Oggi in caso di licenziamento illegittimo queste persone possono chiedere al datore o datrice di lavoro un’indennità risarcitoria non maggiore di sei volte l’ultimo salario percepito, o di dieci volte se si è lavorato per più di dieci anni, o venti per anzianità di venti anni. Oggi la struttura delle piccole aziende italiane si è trasformata, rispetto alla fine degli anni ‘60, le aziende con meno di sedici dipendenti sono tante, e non sono più solo familiari, fanno largo uso di professionisti esternalizzati, con contratti atipici, e riescono ad avere profitti importanti. Anche la Corte Costituzionale si era espressa sulla questione dell’adeguatezza e congruenza dell’indennità, ma nessuna riforma normativa è stata proposta in seguito alla sentenza (sent. 183/2022),e così si è proceduto verso la strada referendaria. Votando Sì al quesito si richiede di abrogare l’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, lasciando la libertà al giudice di decidere quanto sia l’ammontare congruo dell’indennità per un licenziamento illegittimo in una piccola impresa.  TERZO QUESITO: RIDUZIONE DEL LAVORO PRECARIO La storia della liberalizzazione dei contratti a tempo determinato è lunga e parte dalla metà degli anni ’80: la svolta avviene nel 2001 quando si consente l’utilizzo dei contratti a termine, se motivati da una ragione oggettiva. La legge Fornero del 2012 elimina anche la necessità di indicare una ragione per l’utilizzo del contratto a termine; nel 2014 si porrà il limite della reiterazione del contratto a termine fino a un massimo di 36 mesi, fino ad arrivare al Jobs Act, e successive modifiche del 2018. Oggi il contratto a tempo determinato può avere una durata massima di 12 mesi (solo in alcuni casi e settori specifici può essere prorogato) e si prevedono delle condizioni molto ampie per il suo utilizzo. Sono circa 2 milioni e 300 mila le persone che hanno contratti di lavoro a tempo determinato, e non sempre questi si trasformano in contratti a tempo indeterminato, anzi. Il contratto a termine rende chi lavora più ricattabile e lo inserisce nella cosiddetta “economia della promessa”, dove si è sempre pronti a fare qualcosa in più nella speranza di un rinnovo o di un trasformazione a tempo indeterminato.  Questo quesito chiede di modificare parti dell’art. 19 e 21 del Decreto legislativo 81 del 2015, e parte dei vari decreti che compongono la riforma del Jobs Act, ripristinando l’obbligo di causali per il ricorso a contratti a tempo determinato. QUARTO QUESITO: AUMENTARE LA SICUREZZA SUL LAVORO NEGLI APPALTI  In questa settimana è morto un operaio a Soresina di 35 anni, è morto un operaio di 59 anni sulle Alpi Apuane nelle cave del marmo, gravissimo un operaio di 44 anni nel frusinate, grave a Nemi un contadino di 64 dopo essere rimasto schiacciato da un trattore… e potremmo continuare. Le morti sul lavoro sono strazianti, spesso è difficile anche recuperare i corpi delle persone rimaste incastrate o schiacciate dalle macchine durante il loro turno di lavoro. E nelle ditte in alto e subappalto è difficile anche riuscire ad avere un pieno risarcimento del danno. Questo quarto quesito vuole ristabilire la responsabilità nei confronti del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore, risalendo nella catena dell’appalto per la richiesta del danno. Infatti, con la normativa attuale queste società sono esonerate dal rispondere in via diretta, ma anche in solido, quando il danno è stato subito per un “rischio specifico” dell’ attività appaltata, poi subappaltata, risubappaltata … Votando Sí si abroga parte dell’ art. 26 del decreto legislativo n.81/2008: l’obiettivo è garantire l’integrale risarcimento del danno delle vittime e non esonerare le imprese dalle proprie responsabilità. QUINTO QUESITO: DIMINUIRE I TEMPI PER LA RICHIESTA DI CITTADINANZA  Tra le leggi più inique del nostro paese rimane quella sulla cittadinanza. Al giorno d’oggi, per ottenere la cittadinanza, bisogna aspettare 10 anni di residenza e dimostrare di avere un reddito adeguato, anche per chi è nato qui e ha frequentato tutte le scuole nel nostro paese. Dopo anni di proposte e controproposte, cadute sempre nel vuoto, mentre la legislazione per richiedere i permessi di soggiorno è diventata più rigida e le Questure aumentano le misure vessatorie e inumane nei confronti di chi richiede i documenti per risiedere e lavorare legalmente nel nostro paese, si è deciso di passare alla via referendaria. Votando Sí si richiede di modificare l’articolo 9 della legge 91/1992 e di diminuire gli anni di residenza per richiedere la cittadinanza da dieci a cinque, lasciando tutto il resto invariato. Un gesto minimo per due milioni e mezzo di cittadine e cittadini stranieri che qui crescono e vivono, ma che non possono godere degli stessi diritti dei propri pari. -------------------------------------------------------------------------------- I referendum dell’8 e 9 giugno arrivano in un periodo molto particolare, e preoccupante, per il nostro paese. L’Italia arretra in tutti gli indici che analizzano il funzionamento della democrazia: diminuisce la libertà di espressione; i processi nei tribunali sono sempre più lunghi; gli abusi di potere da parte delle forze dell’ordine non sono perseguiti; la divisione dei poteri è messa in questione dall’allargamento della decretazione d’urgenza e dell’utilizzo della questione di fiducia; i diritti delle persone migranti e delle minoranze sono sempre meno garantiti; la comunità LGBTQIA+ è sotto attacco; arretriamo nell’indice sulla parità di genere; la condizione carceraria è peggiorata, la diseguaglianza sociale è in aumento, così come la povertà relativa e assoluta … in estrema sintesi, il nostro paese sta scivolando verso una democrazia illiberale. In tale situazione, i referendum possono essere un mezzo per strappare pezzi di democrazia. Evidentemente non si risolvono tutte le questioni poste con cinque referendum, ma questi possono rappresentare un inizio, un buon inizio. Un primo passo per costruire un’ opposizione a questo blocco reazionario che abbiamo davanti e che sembra lasciarci senza respiro. Di fronte al silenzio mediatico, assordante, nei confronti di questi referendum, siamo chiamate e chiamati non solo a votare, ma a fare campagna attiva, per strappare un piccolo pezzo di democrazia. Per maggiori info:  Se sei fuori sede hai tempo fino al 4 maggio per iscriverti per votare nel comune nel quale risiedi. Referendum cittadinanza  Referendum sul lavoro  Immagini di copertina da WikiCommon SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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