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“L’idrogeno non è una soluzione, ma l’ennesimo piacere alle multinazionali come Snam”. Il nuovo rapporto di ReCommon critica con forza la strategia sull’idrogeno del governo italiano
Roma, 30 luglio 2025 – ReCommon lancia oggi la pubblicazione “La strategia sull’idrogeno è solo un favore a Snam?”, redatta con il supporto tecnico e analitico degli esponenti del mondo accademico Leonardo Setti e Federico De Robbio. Il rapporto dimostra come i due obiettivi della strategia sull’idrogeno dell’attuale governo, la decarbonizzazione e la sicurezza energetica, non possano essere raggiunti ma che le linee guida molto generiche del governo vadano quasi a esclusivo beneficio di Snam, una delle società capofila mondiali della costruzione e gestione delle reti di trasporto del gas. Per la multinazionale italiana l’idrogeno diventa un “utile strumento” per allungare la vita di vecchie infrastrutture per il gas e posare nuove tubazioni, così da alimentare il suo business as usual. Download La strategia sull'idrogeno è solo un favore a Snam? REPORT PDF | 994.19 KB scarica il report La Strategia Idrogeno ipotizza vari contesti futuri di diffusione dell’idrogeno nell’economia, con proiezioni fino al 2050, che cambiano in base a due variabili principali: la domanda nazionale e la composizione del mix dell’idrogeno disponibile sul mercato, tra produzione interna e importazioni. La prima può semplicemente essere più elevata o meno elevata. Il secondo è l’elemento dirimente per comprendere appieno la valenza della strategia governativa, perché basato su precise scelte politiche, tenendo sempre a mente che l’idrogeno può essere più o meno pulito, perché prodotto da rinnovabili (verde), gas (blu) o cattura e stoccaggio della CO2 (grigio). La “diffusione” è indicatore del rapporto tra domanda e offerta: ossia per “diffondersi” l’idrogeno ha bisogno di essere sia prodotto che domandato. Dalla ricerca emerge che qualora la produzione di idrogeno si dovesse concentrare nel nostro Paese, il solo impiego delle rinnovabili non basterebbe, come dimostrano le cifre. Per ottenere idrogeno verde puntando su fonti come idroelettrico, biomasse o geotermico, complessivamente 44,5 TWh di produzione annuale, si impiegherebbe infatti più energia di quanta se ne vorrebbe ottenere. Se invece per realizzare idrogeno verde si destinassero tutti gli oltre 58 TWh di energia da fotovoltaico ed eolico registrati in un anno in Italia, si produrrebbero solo 1,1 milioni di tonnellate di idrogeno verde in forma gassosa, o 0,9 milioni di tonnellate di idrogeno verde in forma liquida. Una quantità davvero bassa, che permetterebbe di coprire poco più della soglia minima di produzione interna dello scenario a penetrazione alta (0,7 milioni di tonnellate l’anno), utilizzando però l’intera capacità eolica e da fotovoltaico attualmente installata in Italia. Per dare sostenibilità a questo scenario, l’Italia dovrebbe raddoppiare dall’oggi al domani la sua capacità di produzione energetica da fonti rinnovabili e destinarla in toto alla produzione di idrogeno. Un’ipotesi irrealizzabile. È per questo che si ipotizza l’uso della cattura e dello stoccaggio della CO₂ per aumentare la produzione di idrogeno, che però non sarebbe più “verde” ma derivato dalla filiera fossile, aumentando quindi la dipendenza da petrolio e gas. Ma se l’idrogeno prodotto in Italia fosse grigio (da filiera fossile) invece che verde, le emissioni climalteranti potrebbero addirittura aumentare. Nel caso dello scenario “Base”, nell’ipotesi di una produzione di idrogeno principalmente grigio, le emissioni di CO₂ potrebbero aumentare di 26 milioni di tonnellate, ovvero +6,7% rispetto alle emissioni italiane attuali. Nello scenario ad “Alta” penetrazione di idrogeno, le emissioni di CO₂ equivalente potrebbero salire di ben 52 milioni di tonnellate, ovvero +13,3% rispetto alle emissioni italiane attuali. Passando allo scenario improntato sull’import, una delle assunzioni della strategia italiana è che produrre idrogeno nel Nord Africa, in particolare in Tunisia e Algeria, potrebbe risultare conveniente in quanto il costo di realizzazione in questi paesi sarebbe molto più basso che in Italia. Un’altra precondizione riguarda i vantaggi futuri, sempre in termini di riduzioni dei costi, che dovrebbero derivare dall’innovazione tecnologica degli elettrolizzatori. Peccato che la strategia non approfondisca nessuno di questi aspetti, né si preoccupi di fornire dati di riferimento, lasciandoci in questo limbo di fiducia cieca per le strutture di potere esistenti, il mercato e l’innovazione tecnologica. E senza contare i diversi costi nascosti che la strategia tralascia. Per esempio quelli del trasporto di idrogeno su lunga distanza, che necessita di tre volte l’energia necessaria a trasportare gas. Nello specifico, servirebbero almeno 20TWh di potenza rinnovabile dedicata solamente per il trasporto e la distribuzione dell’idrogeno importato dal Nord Africa. L’ipotesi di importare 0,7 milioni di tonnellate di idrogeno verde, come previsto nello scenario di “diffusione base” della strategia, significherebbe usare 20TWh per ricavare l’equivalente di 19TWh di energia elettrica utile. Un paradosso di inefficienza, ancora di più se parliamo di energia rinnovabile che potrebbe essere utilizzata direttamente sia in Italia che in Tunisia e Algeria, garantendo maggiori benefici alla popolazione residente e al tessuto produttivo locale. Eppure l’ipotesi di importare l’idrogeno verde dalla Tunisia è tra quelle con maggiore sostegno politico, proprio perché strettamente collegata alla costruzione del SouthH2Corridor, progetto cardine sia del Piano Mattei che della EU Global Gateway, il gran plan infrastrutturale della Commissione europea, oltre che del piano decennale di sviluppo delle infrastrutture di Snam. «La strategia italiana sull’idrogeno va in due possibili direzioni, entrambe sbagliate» ha dichiarato Elena Gerebizza, autrice del rapporto. «In un caso punta forte su una falsa soluzione fallimentare e dispendiosa come il CCS, nell’altro ‘abbraccia’ la continuazione di un modello coloniale in chiave green che avrebbe ripercussioni negative in particolare per la Tunisia. Comunque vada, a beneficiare delle vaghe e immaginifiche linee guida del governo è la Snam, multinazionale che sta contribuendo a perpetuare un sistema fossile con tutte le ingiustizie sociali, ecologiche e climatiche che lo hanno fino ad oggi caratterizzato, facendosi scudo dietro narrazioni sulla sostenibilità radicate in soluzioni insostenibili e fallimentari come l’idrogeno» ha concluso Gerebizza.
L’ombra del gas sulla Sardegna
di Paola Matova – ReCommon Con una sentenza definitiva emessa lo scorso maggio, il Consiglio di Stato ha messo la parola fine al ricorso della Regione Sardegna contro il cosiddetto “DPCM Draghi” del 2022. Ovvero il decreto del Presidente del Consiglio, in sé un atto amministrativo, che aveva come scopo quello di individuare le infrastrutture necessarie per la sicurezza energetica e per il superamento del carbone sull’isola. La Regione Sardegna aveva presentato un ricorso contro il decreto, lamentando l’assenza di un vero confronto con il territorio e chiedendo maggiori garanzie su perequazione tariffaria e centralità nelle scelte energetiche. Tuttavia, I giudici hanno stabilito che non serve alcun accordo con le Regioni per decidere opere di questo tipo, persino quando impattano direttamente sul territorio e sulle comunità locali. Un pronunciamento atteso oramai da tempo, che sblocca formalmente l’iter per un nuovo DPCM, ma che di fatto conferma una linea politica ed energetica che ha ben poco a che vedere con la decarbonizzazione.   La nuova bozza in circolazione non mostra alcun cambio di rotta: sparisce solo una delle tre navi rigassificatrici previste (quella di Portovesme), mentre restano intatti gli altri impianti: una FSRU a Porto Torres, un’altra a Oristano e la cosiddetta “mini dorsale”, una rete di metanodotti che collegherebbe Oristano con il Sulcis. A gestire tutto sarà Snam, con pieni poteri su progettazione, realizzazione e gestione delle opere. Durante l’assemblea degli azionisti a maggio Snam ha dichiarato apertamente di non essere promotrice della metanizzazione in Sardegna, ma semplice esecutrice su richiesta di governo, Regione e industrie. Una presa di distanza che suona tanto come una clausola di non responsabilità. Un atteggiamento che appare ancora più problematico se si considera che l’azienda trae profitti garantiti grazie al meccanismo del “ricavo remunerato” sugli investimenti nelle infrastrutture, che gli assicura guadagni anche se l’infrastruttura dovesse rivelarsi inutile.  Centrale di Fiume Santo, Sardegna, 2020. Foto ©Carlo Dojmi di Delupis/ReCommon Il tassello mancante per ricostruire la fotografia attuale è Fiume Santo. Al centro del piano gas nel nord Sardegna c’è la centrale di Fiume Santo a Porto Torres, impianto a carbone oggi attivo solo al 50% della propria capacità, di proprietà di EP Produzione, società del gruppo EPH controllato dall’oligarca ceco Daniel Křetínský. Già nel 2021 EP aveva proposto la riconversione a gas della centrale, poi messa in stand-by con lo scoppio della crisi energetica e costi elevatissimi del gas. Oggi il progetto è tornato in pista ed è stata riaperta la valutazione d’impatto ambientale. Qui emerge la grande contraddizione: si parla di rigassificatori e gasdotti prima ancora di sapere se e quando la centrale verrà riconvertita. Se Fiume Santo non diventerà una centrale a gas, l’intera infrastruttura a nord dell’isola rischia di restare un’opera vuota e doppiamente insensata.   Le motivazioni avanzate per giustificare la costruzione di queste infrastrutture, ovvero la sicurezza energetica, l’indipendenza dal gas estero e il rilancio dell’industria sarda, non reggono. La centrale di Fiume Santo, per esempio, non è nemmeno considerata strategica dal piano europeo RepowerEU per la sicurezza energetica, mentre l’Italia dispone già di una sovrabbondante capacità installata a gas e continua paradossalmente a investirci nonostante la domanda nazionale sia in costante calo. Il ricavo remunerato è il guadagno che un operatore come Snam ottiene dalle sue attività regolamentate, come il trasporto, lo stoccaggio e la rigassificazione del gas. Questo ricavo viene stabilito dall’autorità di regolazione, che in Italia è denominata ARERA, e serve a coprire i costi operativi degli investimenti e a garantire rendimento.  Non a caso, Snam ha chiaramente ammesso di non aver mai prodotto una propria stima sulla domanda di gas in Sardegna. Si è limitata a citare vecchi e oramai obsoleti studi della società di consulenza RSE, che già nel 2022 prediligevano l’elettrificazione dell’isola piuttosto che il gas. Snam si defila, ma in ogni caso incassa e nessuno ci sa dire a cosa servirà quel gas. In questo contesto, approvare oggi nuove infrastrutture fossili in Sardegna significa incatenare l’isola a una dipendenza strutturale dal gas, proprio mentre il mercato globale, guidato anche da dinamiche geopolitiche come la politica energetica degli Stati Uniti guidata dal presidente Trump, si fa sempre più instabile. Altro che indipendenza e autonomia, si rischia di consegnare la Sardegna a una vulnerabilità energetica ancora maggiore, basata su importazioni di GNL la cui filiera è inquinante costosa e incerta. I costi non saranno solo economici, ma anche sociali e ambientali.
Snam deve rompere i rapporti con Israele? La richiesta degli azionisti critici
Pubblicato su valori.it Il 14 maggio si è svolta a San Donato Milanese l’Assemblea degli azionisti di Snam, una delle poche tra le partecipate pubbliche a prevedere la partecipazione in presenza degli azionisti. Tema centrale è stato quello della nomina dei nuovi vertici alla guida dell’azienda. A partire dal presidente Alessandro Zehentner, vicino a Fratelli d’Italia. E del nuovo amministratore delegato, Agostino Scornajenchi, ex direttore e ad di Cassa Depositi e Prestiti, l’azionista pubblico di maggioranza di Snam. ReCommon è intervenuta per la prima volta all’assemblea degli azionisti di Snam in qualità di azionista critico. Per portare all’attenzione dell’ad uscente Stefano Venier e del management alcune questioni cruciali che riguardano proprio l’impatto del business di Snam sul rispetto dei diritti umani, l’ambiente e il clima. L’azienda, che ricordiamo è l’operatore italiano della rete di trasporto del gas, ma anche tra le principali corporation nel settore in Europa, punta proprio sulla sostenibilità e sulla transizione energetica come schema narrativo per raccogliere il sostegno degli investitori responsabili sui mercati internazionali. E lo fa con successo. Oltre l’80% dei finanziamenti di Snam deriva dal mercato della finanza sostenibile. Sede Snam – 14 maggio 2025, foto Carlo Dojmi di Delupis/ReCommon GLI AFFARI DI SNAM IN ISRAELE AL CENTRO DELLE CRITICHE DEGLI AZIONISTI La richiesta principale avanzata da ReCommon a Snam riguarda i suoi interessi in Israele nel contesto del genocidio in corso. In particolare, la partecipazione dell’azienda nella East Mediterranean Gas Company (Emg), la società proprietaria del gasdotto Arish Ashkelon che permette a Israele di vendere all’Egitto il gas estratto nei giacimenti offshore di Leviathan e Tamar. Gas che poi l’Egitto utilizza o rivende sul mercato. Snam detiene il 25% di Emg e ha incassato 18 milioni di euro in utile pro quota derivato dal trasporto di quel gas tra il 2023 e il primo trimestre del 2025. La richiesta avanzata a Snam da ReCommon e dai Giovani Palestinesi Italiani, anche loro intervenuti all’Agm, è stata secca. Vendere le quote di partecipazione di Snam nella società Emg. Recedere da qualsiasi contratto e/o accordo in essere con il governo israeliano e con aziende del Paese – incluse NewMed Energy, Dan, H2Pro (con cui Snam ha firmato dei Memorandum of understanding nel 2020) e altre aziende israeliane – finché permangono seri dubbi sul rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale. Avviare una due diligence approfondita sui partner attivi in contesti di occupazione e conflitto. Adottare una policy vincolante in materia di rispetto dei diritti nei contesti operativi internazionali, in linea con i Principi Guida Onu su Imprese e Diritti Umani. Il rischio non solo reputazionale ma anche finanziario si manifesterebbe infatti qualora Snam venisse associata pubblicamente ad atti configurabili come crimini di guerra. Anche alla luce dell’indagine delle Nazioni Unite sul coinvolgimento di entità private in crimini internazionali all’interno dei territori palestinesi occupati da Israele. LE PARTNERSHIP DI SNAM IN TUNISIA TRA REPRESSIONE E IDROGENO VERDE Il rispetto dei diritti umani è un tema centrale anche guardando al business attuale e futuro di Snam in Tunisia. Il paese è il partner principale dell’azienda per la costruzione del SouthH2Corridor, il gasdotto di 3.300 chilometri che dovrebbe trasportare in Germania l’idrogeno prodotto in Nord Africa. Uno dei progetti cardine del Piano Mattei e del piano decennale di sviluppo delle infrastrutture di Snam. E che nasce già segnato da pesanti criticità, vista la morsa repressiva del governo contro ogni forma di opposizione e attivismo politico. L’ad uscente non ha fornito particolari rassicurazioni, limitandosi a dire che Snam «non produce» idrogeno in Tunisia. Anche se i progetti di produzione sono chiaramente parte dell’equazione che dovrebbe giustificare un investimento che, solo per la quota parte interna al territorio italiano, sarà di quattro miliardi di euro. PROGETTI FOSSILI IN SARDEGNA E LIGURIA: LE SCELTE OPACHE DI SNAM Anche rispetto ai controversi progetti di metanizzazione della Sardegna e sul possibile trasferimento della nave Fsru Italia da Piombino a Vado Ligure, Snam ha fornito risposte elusive, segnate da continui rinvii istituzionali e nessuna presa di posizione concreta. Lasciando volutamente aperta la porta alla costruzione di opere fossili già bocciate da Arera e contestate da esperti e comunità locali. Il nuovo Dpcm Energia prevede infatti l’installazione di due Fsru: a Porto Torres e Oristano in Sardegna. La costruzione di una mini dorsale interna e la virtual pipeline su gomma, con i costi a carico del pubblico. Snam si è sottratta a qualsiasi responsabilità diretta. Affermando che la localizzazione e la realizzazione delle opere dipenderanno dal Governo e dalle istituzioni, con cui è però in dialogo. Il trasferimento della Fsru Italis Lng da Piombino a Vado Ligure è ingiustificabile in un contesto di calo della domanda di gas e dell’import di Gnl. Oltre che di forte opposizione da parte delle comunità locali, della regione Liguria e delle istituzioni territoriali, che si sono espresse negativamente sul progetto. Snam dovrebbe vendere la nave, che non dovrebbe rimanere né a Piombino né a Vado Ligure. Né altrove. Ma l’azienda preferisce continuare con il piano, dichiarando che la capacità della nave è già stata venduta e che «un modo si troverà in questo prossimo anno». Senza però chiarire nulla su costi, sugli impatti ambientali o sociali. In sintesi, nessuna reale trasparenza e nessuna assunzione di responsabilità. Alla faccia del suo Esg rating.
Assemblea degli azionisti, ReCommon chiede a SNAM di uscire dal business del gas in Israele
Milano, 14 maggio 2025 – ReCommon è intervenuta per la prima volta all’assemblea degli azionisti di Snam in qualità di “azionista critico” per chiedere alla dirigenza della società di cessare le sue controverse relazioni con società private israeliane. Dal dicembre 2021, infatti, Snam controlla il 25% della East Mediterranean Gas Company (EMG), la società proprietaria del gasdotto Arish-Ashkelon che collega Israele con l’Egitto. Si tratta di un gasdotto di 90 chilometri che dal 2020 viene utilizzato da Israele per esportare verso l’Egitto il gas estratto nei giacimenti offshore di Tamar e Leviathan, gas che poi l’Egitto utilizza o rivende su altri mercati. Tra gli azionisti di EMG, oltre a Snam c’è la società EMED Pipeline BV, partecipata da: 25% EMED Pipeline Holding Limited (detenuta al 100% da NewMed Energy); 25% Chevron Cyprus Limited; 50% Sphinx EG BV (detenuta al 100% da East Gas Company S.A.E.). NewMed Energy (prima denominata Delek Drilling) è parte del gruppo Delek e una delle aziende attive oltre che nelle estrazioni offshore, anche nei territori occupati palestinesi.Secondo i dati forniti dalla stessa Snam, l’utile pro-quota Snam generato dalla partecipazione in EMG dal 2023 al Q1 2025 è pari a 18 milioni di euro. Precedentemente, nell’ottobre del 2020, Snam aveva firmato tre memorandum of understanding con le società isrealiane Delek Drilling e Dan sul gas naturale liquefatto (LNG) per il trasporto pubblico; con Dan per lo sviluppo di progetti di mobilità verde e con la start-up H2Pro nella ricerca sull’idrogeno. Abbiamo fatto a Snam delle richieste molto concrete: vendere le quote di partecipazione nella società EMG; recedere da qualsiasi contratto e/o accordo in essere con il Governo israeliano e con aziende del paese – incluso il gruppo NewMed Energy, Dan, H2Pro e altre aziende israeliane – finché permangono seri dubbi sul rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale; avviare una due diligence approfondita sui partner attivi in contesti di occupazione e conflitto; adottare una policy vincolante in materia di rispetto dei diritti nei contesti operativi internazionali, in linea con i Principi Guida ONU su Imprese e Diritti Umani. Ora sta a Snam decidere per la coerenza e il rispetto del diritto. «Ne va dell’immagine pubblica e della reputazione dell’azienda, qualora venisse associata pubblicamente ad atti configurabili come crimini di guerra.” ha dichiarato Elena Gerebizza di ReCommon. ReCommon ha partecipato all’assemblea degli azionisti di Snam, tra le pochissime società italiane a non tenere più questi importanti incontri ancora a porte chiuse, anche per evidenziare le sue forti preoccupazioni sulla situazione in Tunisia, legata al progetto SouthH2Corridor, e al CCS di Ravenna, co-promosso da Snam e Eni. Quello che in Italia è conosciuto anche come il Corridoio Sud dell’idrogeno è un’infrastruttura di 3.300 chilometri che dal Nord Africa dovrebbe arrivare fino in Germania, passando per l’Italia, per trasportare idrogeno prodotto in buona parte in Tunisia, dove attualmente la repressione da parte dell’esecutivo sta colpendo in lungo e in largo tutti i settori della società civile. Uno dei progetti cardini del Piano Mattei nasce quindi già segnato da pesanti criticità, di cui ReCommon ha chiesto conto a Snam.  Il modello estrattivo su cui si base il business di Snam è confermato anche dall’incertezza sul possibile trasferimento del rigassificatore di Piombino a Vado Ligure e dai piani di metanizzazione della Sardegna. Nonostante l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente abbia sospeso le infrastrutture chiave previste per l’isola per ragioni di costi e inefficienze, la bozza quasi definitiva del DPCM Energia insiste su infrastrutture per l’energia fossile obsolete: rigassificatori FSRU a Porto Torres e Oristano, mini dorsale e trasporto GNL su gomma con virtual pipeline finanziata interamente con soldi pubblici. “Il piano di Snam per la Sardegna appare anacronistico e contrario ai principi della transizione giusta: investe in infrastrutture fossili costose, già contestate da ARERA, in un contesto di domanda dal gas incerta e in calo, con il rischio concreto di generare stranded assets e aggravare il peso economico sui cittadini ” ha dichiarato Paola Matova di ReCommon.
ReCommon e 86 organizzazioni di tutto il mondo dicono no al Corridoio Sud dell’Idrogeno, opera chiave di Snam e del Piano Mattei
Roma, 17 marzo 2025 – Una coalizione di 87 organizzazioni e reti della società civile internazionale ha rilasciato oggi una dichiarazione congiunta che chiede di non realizzare il Corridoio Sud dell’Idrogeno, una infrastruttura di 3.300 chilometri che dal Nord Africa dovrebbe arrivare in Germania, passando per l’Italia. Il Corridoio è una delle opere chiave del Piano Mattei per l’Africa, fortemente voluto dal governo Meloni. La dichiarazione è stata lanciata cinquanta giorni dopo un documento congiunto dei ministri dell’Energia di Italia, Austria, Germania, Tunisia e Algeria in cui si sostiene la costruzione del gasdotto a idrogeno e nelle ore in cui il Consiglio europeo dell’Energia discute il Clean Industrial Deal, che include l’idrogeno come fonte energetica chiave. Per la coalizione di organizzazioni internazionali il Corridoio Sud dell’Idrogeno è una pericolosa estensione dell’economia dei combustibili fossili. Download WE SAY NO TO THE SOUTH H2 CORRIDOR - Joint Statement REPORT PDF | 31.57 KB Download Il Corridoio, sostenuto da Snam, dalla tedesca BayerNet e dalle austriache TAG e Gas Connect Austria, è elencato tra i Progetti di interesse comune e di mutuo interesse della Commissione europea e del Global Gateway 2025, il grande piano dell’Ue per rilanciare le infrastrutture su scala globale. È inoltre in linea con la politica RePowerEU dell’UE che inquadra le infrastrutture per il trasporto di idrogeno come necessarie per la sicurezza energetica europea, concetto che lo statement internazionale mette in discussione. “Il Corridoio Sud dell’Idrogeno è la più grande infrastruttura energetica promossa dal governo italiano nell’ambito del cosiddetto Piano Mattei. Tuttavia, non si tratta di sicurezza energetica per le popolazioni europee o africane, ma di garantire una lunga vita alle infrastrutture di trasporto del gas e  sussidi pubblici alle società di combustibili fossili come Snam per la loro costruzione e manutenzione. È funzionale a permettere il greenwashing di un modello neocoloniale ed estrattivista  che rischia di aumentare il debito dei Paesi africani e di distogliere le risorse pubbliche da una transizione energetica giusta per tutte e tutti”, ha dichiarato Elena Gerebizza, ricercatrice e campaigner per l’energia e le infrastrutture di ReCommon. L’Ue e la lobby fossile promuovono l’idrogeno verde come soluzione sostenibile e vantaggiosa sia per l’Ue che per i paesi del continente africano. Tuttavia la coalizione mette in guardia sul fatto che non c’è alcuna garanzia che il corridoio trasporti esclusivamente idrogeno verde o che la sua catena di produzione sia socialmente e ambientalmente sostenibile. Inoltre, il progetto rischia di esacerbare la scarsità d’acqua in regioni già vulnerabili e potrebbe mettere in difficoltà vari Paesi africani, scatenando l’instabilità sociale e sottraendo risorse ai servizi pubblici essenziali. “Ci opponiamo alla produzione di idrogeno verde e allo sviluppo di infrastrutture a esso collegati a causa della sua estrema inefficienza; per la sua produzione sono necessari alti volumi di elettricità e acqua a basso costo. Questo perpetua modelli estrattivisti che equivalgono a un greenwashing per conto delle industrie dei combustibili fossili, che distolgono gli sforzi nei Paesi dalla scalata critica dell’energia rinnovabile locale e di proprietà delle comunità, verso obiettivi di esportazione a beneficio dei Paesi dell’UE che ignorano i bisogni energetici locali”, ha dichiarato Siphesihle Mvundla, Campaigner per la giustizia climatica ed energetica di GroundWork, Friends of the Earth Sudafrica. L’obiettivo dell’UE per il 2030 è di 20 milioni di tonnellate di idrogeno, di cui 10 milioni di tonnellate dovrebbero essere importate dall’esterno dell’UE. Il Corridoio Sud dell’Idrogeno è il primo di altri cinque corridoi europei simili che verranno sviluppati e, secondo i promotori, dovrebbe consentire il trasporto di 4 milioni di tonnellate di idrogeno. Il suo costo stimato non è chiaro, secondo Snam il costo previsto per la sola dorsale italiana sarà di circa 4 miliardi di euro.  Le società di trasporto del gas dell’UE che promuovono la costruzione dei cinque corridoi di importazione verso l’Europa stimano un costo complessivo tra gli 80 e i 130 miliardi di euro. Le 87 organizzazioni firmatarie della dichiarazione chiedono ai governi, all’UE e alle istituzioni africane di fermare gli investimenti in progetti di idrogeno su larga scala che ostacolano una transizione energetica equa e democratica per le comunità in Europa e in Africa. “Mega-progetti come il Corridoio Sud dell’Idrogeno e l’ELMED (l’interconnessione elettrica tra Tunisia e Italia ndr) sono schemi neocoloniali che esternalizzano la responsabilità della decarbonizzazione sul Sud globale. Questi progetti rischiano di imprigionare i Paesi esportatori in un modello dipendente dalle emissioni di carbonio e di spostare i costi socio-ecologici, le ingiustizie collegate all’accesso a terra e acqua e le violazioni dei diritti umani, sulle comunità della periferia. Nel frattempo, i profitti e le risorse fluiscono verso i centri industriali, perpetuando un sistema ingiusto ed estrattivo”, ha dichiarato Saber Ammar, North Africa Program Assistant del Transnational Institute (TNI).