Ci serve davvero il gas di Trump?
Il gas naturale liquefatto (GNL) è stato uno dei temi caldi dell’ultima campagna
elettorale per le presidenziali statunitensi, dal momento che l’ex presidente
Joe Biden aveva introdotto una moratoria sulle nuove approvazioni per la
costruzione di terminal per l’export, mentre Donald Trump prometteva di
promuovere una rapida espansione del settore.
Sappiamo tutti come è andata a finire e anche come la complessa partita dei
dazi, intavolata dall’inquilino della Casa Bianca, abbia compreso un passaggio
molto rilevante sul GNL a stelle e strisce e sulla sua invasione dei mercati
europei. Il governo Meloni, notoriamente molto amico dell’amministrazione Trump,
non si è fatto trovare impreparato, potendo contare sull’entusiasta sostegno del
campione nazionale. ENI, infatti, lo scorso luglio si è prodigata per firmare un
contratto con la società americana Venture Global per l’acquisto di 2 milioni di
tonnellate di gas l’anno per i prossimi 20 anni.
Trump visita il terminal GNL di Cameron, 14 maggio, 2019 (Foto di Shealah
Craighead, Official White House ), Pubblico Dominio.
A partire dal 2022 l’Italia ha incrementato le proprie importazioni di GNL,
utilizzando i terminali esistenti di Panigaglia, Adriatic LNG e OLT Toscana, e
ampliando la capacità con l’entrata in funzione del nuovo FSRU di Piombino
(maggio 2023) e, più recentemente, di Ravenna. Secondo ARERA, nel 2024 l’Italia
ha importato circa 14,7 miliardi di metri cubi di GNL, pari a circa il 25 %
delle importazioni complessive di gas. Le principali provenienze del GNL sono
Qatar, Stati Uniti e Algeria, che insieme coprono circa il 95 % del totale. In
questo contesto, le forniture statunitensi hanno assunto un ruolo crescente,
fino a rappresentare oltre un terzo del GNL importato dall’Italia nel 2024.
Prima di ENI, quindi, c’era già Snam, che gestisce gli impianti qui sopra citati
ed agisce come ponte logistico e infrastrutturale che permette all’Italia di
ricevere il GNL dagli USA.
Non poteva mancare il sostegno finanziario a questo nuovo patto transatlantico
basato sul gas: la più importante banca del nostro Paese, Intesa Sanpaolo, ha
fiutato da qualche anno l’appetibilità economica del business del GNL, con
finanziamenti e investimenti direttamente nelle principali compagnie
sviluppatrici ed in mega terminal di esportazione. La banca ha sostenuto colossi
come Cheniere Energy, Woodside, Venture Global e NextDecade, quest’ultima
promotrice del terminal Rio Grande LNG in Texas, un progetto duramente criticato
da comunità locali e ambientalisti per l’impatto su clima, salute e
biodiversità.
Ma tutto questo gas serve davvero? La capacità di esportazione di GNL esistente
è già sufficiente per soddisfare la domanda futura con i terminali di
esportazione in funzione. Con lo spropositato numero di proposte di espansione
sul tavolo, gli esperti dell’Institute of Energy, Economics and Financial
Analysis (IEEFA) prevedono un eccesso di offerta di GNL nei prossimi due anni,
prima di quanto inizialmente stimato. IEEFA ritiene che i principali Paesi
importatori di GNL ridurranno la domanda entro il 2030. Le importazioni di GNL
in Europa sono diminuite del 20% dal 2021 e tre quarti dei terminal di
importazione potrebbero essere inutilizzati entro il 2030.
Ciò significa che gran parte delle infrastrutture rischierebbe di restare
largamente sottoutilizzata. Eppure il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza
energetica Gilberto Pichetto Fratin ha recentemente firmato a Roma una
dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti per rafforzare la cooperazione
energetica e incentivare l’import di GNL americano. Nell’accordo si parla
esplicitamente di “favorire investimenti nelle infrastrutture di importazione e
rigassificazione in Italia, nonché nelle infrastrutture di esportazione
statunitensi”. Così facendo, il governo non solo ignora le analisi indipendenti
sul rischio di forniture eccessive, ma espone il Paese a un doppio fallimento:
da un lato l’aumento della dipendenza da combustibili fossili in contrasto con
gli obiettivi climatici, dall’altro la possibilità concreta che le nuove
infrastrutture diventino stranded assets, cioè investimenti inutilizzati che
finiscono per gravare sui cittadini attraverso tariffe e sussidi.
La gran parte dei terminal per l’esportazione di GNL, che negli Stati Uniti si
sono moltiplicati rapidamente negli ultimi anni, sono concentrati nel Golfo del
Messico, tra gli stati della Louisiana e del Texas, in zone che sono già state
siti di industrie petrolchimiche e sono vulnerabili agli eventi estremi e che
sono abitate prevalentemente da comunità afro-americane e a basso reddito.
Delle sei mega infrastrutture già operative, 3 sono già in fase di ampliazione,
altre 4 sono in costruzione, e nella regione sono state presentate oltre 20
proposte per nuovi terminal o espansioni di quelli presenti.
Il ritorno di Trump, con la sua agenda pro-gas e pro-fossili, trasforma il GNL
in un’arma geopolitica al servizio delle corporation industriali e finanziarie.
Il governo della Meloni si accoda senza battere ciglio, firmando accordi con
Washington proprio mentre la domanda europea crolla e gli analisti parlano
apertamente di una bolla. Si ignorano i dati, si ignorano le comunità e si
ignora la scienza, pur di rafforzare un sistema basato sui combustibili fossili
che ci condanna a costi inutili e a infrastrutture destinate a restare vuote. E
il prezzo non è solo finanziario: ogni nuovo terminale significa più emissioni
climalteranti, più impatti devastanti sulle comunità locali e sugli ecosistemi
già sotto pressione. Altro che sicurezza energetica: questa è una scommessa
miope che rischia di lasciare solo macerie finanziarie, sociali ed ecologiche.
Sei dei nuovi progetti sarebbero concentrati intorno ai due distretti di
Calcasieu Parish e Cameron Parish. L’organizzazione statunitense RAN ha stimato
che, fossero costruiti tutti, in un anno di operazioni potrebbero causare la
morte prematura di 77 persone per la contaminazione locale prodotta.
Aggraverebbero inoltre i danni alla salute per le persone residenti, la
discriminazione ambientale, perdita delle economie locali, oltre a contribuire
al cambio climatico.
Preoccupazioni più che legittime, come conferma un grave incidente accaduto lo
scorso agosto, presso il terminal Calcasieu Pass della Venture Global, il già
menzionato partner del Cane a sei zampe. Durante un’operazione di dragaggio
tonnellate di fanghi si sono riversati nei bayou, gli specchi d’acqua tipici
dell’ecosistema del delta del fiume Mississippi, e nel lago Big Lake,
danneggiando enormemente le attività di pesca, molto diffuse nell’area, con
tossine sconosciute. Solo a inizio settembre, Venture Global e le autorità
locali hanno ammesso che gli sversamenti avevano compromesso, tra le altre, le
coltivazioni di ostriche.