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Cosa si pensa nel resto del mondo? Intervista cinese a Putin
Se si guarda con un minimo di distacco emotivo il panorama dell’informazione occidente – quella italica è un caso di morte cerebrale ormai conclamato – ci si accorge subito che ciò che accade nel resto del mondo è sostanzialmente ignorato. Almeno fin quando non ci si inciampa sopra. Peggio ancora, […] L'articolo Cosa si pensa nel resto del mondo? Intervista cinese a Putin su Contropiano.
Indonesia: continuano le proteste in piazza
Da giorni si svolgono proteste di piazza in Indonesia contro il governo attuale diretto dal presidente Prabowo Subianto. Le proteste sono iniziate il 25 agosto, contro la classe dirigente e i loro privilegi salariali. Dal 28 si sono inasprite a seguito della morte di una persona investita da un veicolo della polizia. Al momento sono […]
La ferrovia per il mar Nero progettata dall’Iran dipenderà dall’Azerbaigian
Un popolare canale Telegram ha falsamente affermato che si tratta di uno “scacco matto ai piani statunitensi” e ha perfino condiviso una mappa che mostra un percorso diverso rispetto a quello già confermato, per sviare gli utenti. Il viceministro degli Esteri armeno Vahan Kostanyan, all’inizio del mese, durante il suo viaggio a Teheran, ha dichiarato in un’intervista all’Agenzia di stampa della Repubblica Islamica (IRNA) che il suo Paese prevede che i recenti accordi con l’Azerbaigian mediati dagli USA faciliteranno l’accesso dell’Iran al mar Nero. Secondo il viceministro, “Questo aprirà nuove porte alla cooperazione ferroviaria fra Armenia e Iran, anche attraverso la linea Naxçıvan-Jolfa, che significherà accesso dell’Iran all’Armenia e, in prospettiva, al mar Nero”. Poco dopo, la ministra iraniana delle Strade e dello Sviluppo Urbano Farzaneh Sadegh ha incontrato la sua controparte armena a Erevan, durante il viaggio del presidente Masoud Pezeshkian per discutere la riapertura del corridoio. Il popolare canale Telegram “Geopolitics Prime” ha poi attirato l’attenzione con un post, affermando che questo è uno “scacco matto ai piani statunitensi”, “che contrasta le ambizioni dell’Azerbaigian sul corridoio di Zangezur” e “blocca gli sforzi di USA e Azerbaigian di isolare Teheran”. Nessuna di queste affermazioni è vera. Come Kostanyan ha osservato nella sua intervista con IRNA, il corridoio Zangezur attraversa la Repubblica Autonoma azera di Naxçıvan, quindi la connettività della ferrovia iraniano-armena, dipenderà da Baku. Fra i due Paesi, esiste una strada che passa per la stretta provincia di Syunik, attraverso la quale transiterà la “Strada Trump per la pace e la prosperità internazionale” (Trump Road for International Peace and Prosperity” – TRIPP, precedentemente conosciuta come corridoio di Zangezur). Tuttavia, la geografia montuosa della regione rende la costruzione di una ferrovia da Nord a Sud molto costosa. Di conseguenza, il corridoio progettato dall’Iran verso il mar Nero non è uno “scacco matto ai piani statunitensi”, non “contrasta le ambizioni dell’Azerbaigian sul corridoio di Zangezur”, né “blocca gli sforzi di USA e Azerbaigian di isolare Teheran”, come ha affermato “Geopolitics Prime” nel suo post e come potrebbero fare presto anche altri. Certo, l’Iran può comunque esportare i propri prodotti sul mercato europeo utilizzando la strada nella provincia di Syunik, per poi continuare verso i porti georgiani sul mar Nero, ma tale soluzione non è conveniente e veloce come quella del trasporto ferroviario. Inoltre, l’EU potrebbe in ogni caso non avere mercato per i prodotti iraniani o gli USA potrebbero mettere pressione sul blocco affinché non li acquisti, (data l’influenza che gli USA esercitano sull’EU dopo il loro accordo commerciale completamente asimmetrico), quindi, qualunque corridoio sul mar Nero potrebbe avere poca importanza per l’Iran. Nonostante questo, sarebbe comunque rilevante se l’Azerbaigian e gli USA non interferissero con le esportazioni iraniane, rispettivamente attraverso Naxçıvan e Syunik, cosa che potrebbe attenuare parzialmente le tensioni riguardo la TRIPP. A tal proposito, questa analisi spiega come quel corridoio minacci di indebolire la posizione più ampia della Russia all’interno della regione, rilevante anche per l’Iran, dal momento che anche i suoi interessi nazionali sarebbero minacciati dalla TRIPP, la quale aumenterebbe in modo eccessivo in tutta la periferia settentrionale l’espansione dell’influenza turca appoggiata dagli USA. Mentre alti ufficiali iraniani hanno contestato la TRIPP per via del controllo statunitense su di essa con accordo di leasing di 99 anni che, ha dichiarato Kostanyan all’IRNA, “non comporta una presenza di sicurezza statunitense”, l’Iran ha scelto alla fine di accettarla. La decisione di cooperare con l’Azerbaigian per facilitare il commercio con l’Armenia e oltre rappresenta un compromesso fra lo scontro e la resa, ma entrambi gli estremi potrebbero comunque manifestarsi se quella di Kostanyan fosse stata soltanto una mezza verità e se la sicurezza della TRIPP venisse esternalizzata a compagnie militari private (PMC) statunitensi in Armenia, come alcuni temono. Per ora, e in assenza di uno schieramento permanente delle truppe USA o delle PMC in Armenia, l’Iran sta cercando di sfruttare al meglio una situazione strategicamente complicata, forse nella speranza che questo possa placare l’emergente blocco turco. Traduzione dall’inglese di Sara Cammarelle. Revisione di Thomas Schmid. Andrew Korybko
Afghanistan, il terremoto che colpisce due volte: macerie e diritti negati
Un boato nella notte. Le case di fango e pietra che tremano e si sbriciolano come sabbia. Le famiglie che scavano a mani nude, tra il silenzio rotto solo dai lamenti. È l’immagine che arriva dall’Afghanistan orientale, colpita il 31 agosto da un terremoto di magnitudo 6.0 che ha devastato la provincia di Kunar, vicino al confine con il Pakistan. Secondo i dati ufficiali forniti dalle autorità e confermati da fonti internazionali, il sisma ha provocato oltre 1.400 morti e circa 3.500 feriti. Migliaia di case sono crollate all’istante, inghiottendo interi villaggi. Le frane hanno isolato strade e comunità già fragili. In alcune aree, i corpi sono stati sepolti in fosse comuni improvvisate: troppo alto il numero delle vittime, troppo scarse le risorse per dare a ciascuno una sepoltura dignitosa. Il disastro ha colpito un paese già in ginocchio. I finanziamenti internazionali, in particolare quelli americani, sono stati ridotti dopo il ritorno al potere dei talebani. Cliniche e ospedali hanno chiuso per mancanza di fondi, elicotteri e mezzi di soccorso restano a terra, e la macchina dei soccorsi, in una situazione simile, parte già mutilata. Il governo talebano ha lanciato un appello per aiuti internazionali, e alcune agenzie hanno risposto, ma la diffidenza resta alta: la comunità internazionale si interroga su come portare soccorso senza legittimare un regime che nega i diritti fondamentali a metà della sua popolazione. Il terremoto ha mostrato con spietata chiarezza un altro volto della tragedia: quello delle donne. Non solo colpite dai crolli come tutti, ma vittime due volte, del sisma e delle leggi che le imprigionano. In Afghanistan oggi una donna non può essere curata da un medico uomo senza la presenza di un accompagnatore maschile. Nelle zone più remote non sempre un familiare è disponibile, e la carenza di medici donna, conseguenza del divieto imposto alle ragazze di studiare medicina, rende l’accesso alle cure quasi impossibile. Così molte ferite sono rimaste a casa, curate alla meglio con rimedi locali, mentre le ore scorrevano decisive. Una condizione che trasforma un evento naturale in una catastrofe sociale, dove le discriminazioni pesano come macerie invisibili. Questa tragedia non è solo afghana. È uno specchio crudele per il mondo intero: mostra cosa significa affrontare una catastrofe senza diritti, senza libertà, senza voce. Ricorda che in un contesto di oppressione, un terremoto non scuote solo le case, ma le fondamenta stesse della dignità umana. Secondo le Nazioni Unite, oltre 23 milioni di afghani, quasi la metà della popolazione, vivono oggi in condizioni di grave insicurezza alimentare. Dopo il sisma del 31 agosto, l’ONU e la Croce Rossa hanno denunciato la mancanza di risorse adeguate per portare soccorso: molte cliniche sono state chiuse, i tagli internazionali hanno bloccato le forniture mediche e intere comunità restano isolate. In questo scenario disperato, ogni aiuto diventa questione di vita o di morte. Ma come inviare aiuti senza diventare complici? È la domanda che attraversa le cancellerie ei movimenti civili di tutto il mondo. Perché se da un lato è urgente garantire acqua, cura e ripari a chi ha perso tutto, dall’altro c’è il rischio che gli aiuti diventino strumenti nelle mani di chi nega i diritti fondamentali. La risposta non può che passare dalla comunità internazionale, dalle Nazioni Unite e dalle grandi organizzazioni umanitarie, che devono pretendere trasparenza, accesso diretto e garanzie per le donne ei più vulnerabili. Ogni pacco di viveri, ogni farmaco, ogni tenda consegnata agli sfollati sarà allora non solo un gesto di solidarietà, ma anche un atto politico di resistenza alla disumanizzazione. In Afghanistan, il terremoto ha distrutto villaggi e vite, ma il sisma più profondo resta quello dei diritti negati. Ecco perché la vera ricostruzione non sarà solo fatta di mattoni: comincerà quando il mondo troverà il coraggio di aiutare senza chiudere gli occhi, di tendere la mano senza rafforzare le catene. Fonti Washington Post, 2 settembre 2025 – I talebani chiedono aiuti internazionali mentre il bilancio delle vittime del terremoto in Afghanistan supera le 1.400 WSJ, 31 agosto 2025 – L’Afghanistan è stato colpito da un mortale terremoto di magnitudo 6.0 RFE/RL, 1 settembre 2025 – Le donne afghane subiscono le conseguenze del terremoto a causa delle restrizioni imposte dai talebani   Lucia Montanaro
L’India respinge le accuse del Bangladesh
Il Ministero degli Affari Esteri indiano ha recentemente respinto le accuse del governo del Bangladesh che ha affermato che Nuova Delhi sostiene il partito politico della deposta Prima ministra bangladese Sheikh Hasina. Definendo l’affermazione fuori luogo, il ministero ha chiarito che l’India non consente attività politiche contro altri paesi dal suo suolo. Tuttavia, il governo centrale ha ammesso che Nuova Delhi non era a conoscenza di alcuna attività anti-Bangladesh da parte di presunti membri della Lega Awami (partito politico di Hasina messo fuori legge) all’interno dell’India. Un portavoce del ministero ha anche aggiunto che Nuova Delhi si aspettava elezioni libere, eque e inclusive in Bangladesh il prima possibile per accertare la volontà e il mandato dei cittadini. Un anno fa, quando una rivolta di massa in Bangladesh ha spodestato la premier in carica Hasina, è venuta in India per chiedere asilo con un breve preavviso. Nessuno pensò che la figlia del Bangabandhu dovesse rimanere nel paese vicino per tutti questi mesi. Il centro non ha ancora annunciato che Hasina ha ricevuto un rifugio ufficiale, ma il suo passaporto è già stato sospeso dal governo provvisorio del Bangladesh. Il governo ad interim guidato da Muhammad Yunus continua anche a perseguire l’estradizione di Hasina per affrontare i processi nel suo paese d’origine a seguito di centinaia di denunce della polizia contro di lei. La recente iniziativa di Dacca ha scioccato il popolo indiano, poiché il regime guidato da Yunus ha affermato che molti sostenitori di Hasina si stavano rifugiando in India e persino gestendo uffici lì. Una dichiarazione rilasciata dal Ministero degli Affari Esteri del Bangladesh il 20 agosto ha dichiarato che la loro attenzione è stata attirata dai resoconti dei media sugli “uffici del partito politico bandito intitolato Bangladesh Awami League” a Delhi e Calcutta. Questo sviluppo si verifica sullo sfondo delle crescenti attività anti-Bangladesh da parte dei leader della Lega Awami dal territorio indiano, ha aggiunto la dichiarazione. Ha inoltre affermato che qualsiasi forma di attività politica e campagna contro gli interessi del Bangladesh da parte dei suoi cittadini, che rimangono sul suolo indiano, compresa l’istituzione di uffici, costituisce un affronto inequivocabile al popolo e allo Stato del Bangladesh. Inoltre, Dacca ha avvertito che questi sviluppi minacciano la fiducia e il rispetto reciproci alla base delle relazioni di buon vicinato tra i due paesi e ha invitato Nuova Delhi ad agire immediatamente per fermare qualsiasi attività anti-Bangladesh e chiudere gli uffici della Lega Awami (funzionanti legalmente o illegalmente all’interno dell’India). Ultimamente, il governo ad interim bangladese ha anche avvertito i media del Bangladesh di evitare di trasmettere messaggi da parte di Hasina, accusando la premier detronizzata di fare affermazioni false e infiammatorie in molte occasioni, Dacca ha chiesto a tutti i canali di notizie satellitari e alle piattaforme digitali del paese di ignorare tali messaggi, minacciando azioni legali. In precedenza, il Tribunale penale internazionale aveva impedito a Hasina di fare discorsi di odio. Le notizie relative agli uffici temporanei della Awami League a Calcutta e Delhi sono state diffuse da una serie di media bangladesi che hanno citato un recente rapporto della BBC Bangla. Quelle notizie hanno affermato che oltre 2000 ministri e leader della Lega Awami, insieme a burocrati in pensione, ufficiali dell’esercito e della polizia, avvocati e altri si stanno rifugiando in India con visti medici e turistici estesi. Hanno affittato alloggi comuni per riunirsi regolarmente e discutere di questioni politiche in cui molti partecipano personalmente e alcuni si collegano digitalmente da varie parti del mondo. In un’occasione, secondo quanto riferito, Hasina si era rivolta alla riunione, che alla fine è stata resa pubblica da media selezionati. Tuttavia, la pratica di sostenere gli elementi anti-India dal suo territorio era un approccio familiare per il Bangladesh in quanto sosteneva una serie di gruppi militanti armati dal nord-est dell’India per decenni. Diversi gruppi separatisti di Assam, Meghalaya, Tripura, ecc. organizzarono campi di addestramento all’interno del Bangladesh prima della loro resa. Come gesto di ritorno, i suddetti gruppi militanti non hanno alzato la voce contro i musulmani del Bangladesh che si sono rifugiati illegalmente in India, anche se il risentimento pubblico contro quei migranti è continuato. La questione delle infiltrazioni ha preso slancio quando il primo ministro indiano Narendra Modi ha espresso le sue preoccupazioni per le infiltrazioni e i cambiamenti demografici nelle località di confine a causa della crescita demografica della popolazione musulmana. Rivolgendosi alla nazione il 15 agosto, Modi ha annunciato che sarà istituita una missione importante per affrontare questi problemi. Si stima che non meno di 20 milioni di bangladesi vivono in India senza permesso. Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. Nava J. Thakuria
Subire un genocidio dà diritto a compierne un altro?
Un anno fa sono stato in Armenia: volevo conoscere un luogo lontano carico di storia, volevo conoscere – per quanto possibile – un popolo che mi ha sempre affascinato. Sono tornato carico di emozioni, di incontri, di immagini di luoghi antichi, di una realtà mite, di un popolo che ha subito un genocidio e che resiste come può. Negli ultimi anni abbiamo imparato questa parola: Nagorno-Karabakh. Ma è solo stando lì che ho capito tra chi fosse conteso questo territorio, come è andata e soprattutto come è finita. Gli Armeni, non dotati probabilmente di un potente esercito e soprattutto con pochi “santi in paradiso”, hanno dovuto lasciare quel territorio all’Azerbaijan (una dittatura bella e buona), e più di 100mila armeni hanno dovuto lasciare le loro case e rifugiarsi in Armenia. Qualcuno nel mondo ha battuto ciglio per quello che è successo? No. Quell’Azerbaijan dove, a Baku, da tutto il mondo sono andati per la COOP 29 per poi scoprire (ma davvero a posteriori?) che i padroni di casa sono grandi produttori di fonti inquinanti di energia e il Paese è stato governato per decenni da un uomo che poi ha lasciato l’incarico al figlio. L’opposizione è silenziata. Così l’Armenia si trova schiacciata tra Turchia ed Azerbaijan, storiche alleate, che se la papperebbero in un boccone e chissà che prima o poi non lo facciano. Anche gli Armeni sopravvivono solo grazie ad un’enorme diaspora sparsa nel mondo, ma legata a quel fazzoletto di terra, quello che è rimasto di un territorio che era ben più vasto. E poi c’è la storia: il genocidio degli armeni è troppo poco conosciuto. Si parla di tre milioni di morti tra il 1915 e il1923, in seguito alla decisione del governo ottomano di far piazza pulita di questi mercanti e artigiani, accusati di essere in combutta con i russi. Vennero uccisi o deportati, a piedi, in condizioni tali da lasciare una scia di morti lungo quelle centinaia di chilometri: uomini, donne, anziani, bambini. Il governo turco in questi 100 anni non ha mai ammesso le sue responsabilità, e nessuno in Europa le ha pretese nè le pretende. Gli Armeni vennero lasciati soli, e in fondo lo sono ancora. Tornando all’oggi, ho visitato il museo di Erevan sul genocidio armeno: impressionante. Ma ciò che mi ha colpito solo le brevi sintesi di vari genocidi compiuti nella storia che vi sono alla fine: Americhe, Germania, Ruanda, Cambogia e Namibia compresi. Ovvero, dicono: il “nostro genocidio” non è stato l’unico. Nella storia ve ne sono stati diversi. Ho conosciuto tra gli altri una famiglia armena, sono stato a casa loro. Ad un certo punto è uscita da una stanza la nonna, di oltre 90 anni, con in mano una preziosa scatolina: mi ha subito mostrato con orgoglio la medaglia ricevuta per essere sopravvissuta all’assedio di Leningrado durante la Seconda guerra mondiale. Lei e migliaia di altri bambini vennero messi al sicuro, andò in Armenia e lì è rimasta tutta la vita. Una volta dagli assedi c’era una via d’uscita, e i bambini venivano messi in salvo. Ci dice qualcosa oggi? Infine, in Armenia ho conosciuto un popolo mite, nella capitale c’è una grande energia e una spinta in avanti, malgrado un paio di anni fa abbiano perso una guerra e abbiano dovuto accogliere (loro che sono 3 milioni) oltre 100mila profughi armeni. Ma in tutti questi anni, abbiamo mai detto “Con quello che hanno subito gli Armeni…” “Si stanno difendendo e dobbiamo aiutarli!”? Non lo abbiamo mai detto, e in questi 100 anni non sono stati certo trattati bene. Eppure credo di non aver mai respirato un’aria più pacifica come a Gyumri, la seconda città armena. Nessuno nel mondo ha realizzato musei sulla loro storia, ben pochi la leggono sui libri o la ricordano nella Giornata della Memoria. Sono il popolo che aderì, primo al mondo, al cristianesimo. Si sono mai sognati di fare uno stato “confessionale”? Un amico armeno, gran conoscitore della lingua e della cultura italiana, sogna di venire in Italia a visitarla, un giorno, perché non c’è mai stato: ai cittadini armeni è praticamente impossibile avere il visto. Come mai non abbiamo il minimo scrupolo di coscienza verso questo popolo? Si sono mai sognati gli Armeni di “farsi spazio” intorno (persero gran parte del loro territorio storico e più di 5 milioni di Armeni vivono fuori dal Paese) a suon di bombardamenti? No. Punto. Chi ha subito un genocidio, dovrebbe sapere cosa significhi e si dovrebbe solo augurare che non succeda mai più nel mondo. La Fiamma dell’Immortalità   Foto storiche dal Museo di Erevan, di Andrea De Lotto Andrea De Lotto
“Tatami”: su Mymovies la lotta tra sport e regime iraniano
“Tatami – una donna in lotta per la libertà” si svolge a Tbilisi, in Georgia, durante i campionati mondiali di Judo. Racconta della judoka Leila Hosseini (interpretata da Arienne Mandi), lottatrice che rappresenta l’Iran. Leila, che è in grandissima forma e viene seguita in Tv dal marito, dai figli e dai parenti che fanno per lei il tifo più acceso, spera di portare a casa la medaglia d’oro, ma c’è un problema: per riuscirci, dovrebbe competere in finale con un’atleta israeliana, vale a dire la rappresentante di un Paese che l’Iran non riconosce. All’improvviso Leila e la sua allenatrice Maryam ricevono dalle più alte cariche della Repubblica Islamica e dalla loro Federazione un ultimatum che ordina di fingere un infortunio e di perdere, al fine di evitare alle autorità di dover bollare l’atleta come traditrice dello Stato. Per dissuaderla dal gareggiare il regime di Teheran ricorrerà ai metodi più subdoli, arrivando anche a minacciare di morte lei e la sua famiglia. Ce la farà Leila? Visibile in streaming su Mymovies Tatami, per la prima volta co-diretto da una regista iraniana. Zar Amir Ebrahimi e da un regista israeliano, Guy Nattiv, è stato presentato nella sezione Orizzonti all’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Zar Amir Ebrahimi è un’attrice iraniana con cittadinanza francese, alla sua prima opera come regista, che dall’Iran è dovuta realmente fuggire e, dopo aver sostenuto pubblicamente la protesta per la morte di Mahsa Amini, ha ricevuto minacce dagli ayatollah. Su Tatami Zar Amir-Ebrahimi ha dichiarato: “La storia che raccontiamo in questo film è la storia di troppi atleti iraniani che hanno perso le opportunità della vita e sono stati talvolta costretti a lasciare il proprio Paese e i propri cari a causa del conflitto tra sistemi e governi”. “Per noi è più̀ di un film – dice il co-regista israeliano Guy Nattiv –  È una dichiarazione creativa rivolta al mondo, mentre migliaia di iraniani innocenti stanno pagando per la libertà a prezzo della propria vita”. Per sintetizzare una battaglia di lotte sociali con il potere che attraversano la storia dell’Iran da secoli il duo di registi ha scelto di ambientarla in un microcosmo, quello del tatami, inteso come metaforico palcoscenico della resistenza e dell’affermazione umana. “Tatami – una donna in lotta per la libertà” è un film godibile perché sa raccontare in un elegante bianco e nero, con ritmo coinvolgente e pieno di suspense, un simbolico caso che concentra l’esperienza di sportivi, artisti, intellettuali, comuni cittadini, i quali si battono per affermare la propria identità e il libero pensiero, contro un regime che soffoca l’ambizione e la creatività con la forza. Tatami (2023) Un film di Zahra Amir Ebrahimi, Guy Nattiv con Arienne Mandi, Zahra Amir Ebrahimi, Jaime Ray Newman, Nadine Marshall, Lir Katz Genere: Thriller Durata: 105 minuti Produzione: Iran 2023 In streaming su Mymovies     Bruna Alasia
Il confine come ferita: il conflitto tra Cambogia e Thailandia e la guerra per i templi
Ci sono guerre che sono giustificate con mappe, altre con dogmi e altre ancora con il petrolio, ma le più pericolose si alimentano di simboli. E non c’è simbolo più infiammabile di un tempio ancestrale conteso da due popoli feriti. Nel cuore selvaggio dell’Asia, la pietra scolpita dei templi di Shiva è tornata a risuonare sotto il fuoco incrociato. Preah Vihear e Ta Muen Thom non sono più solo rovine sacre: sono trincee. E ciò che è in disputa non è solo il territorio: è la dignità nazionale, la memoria coloniale e il diritto di dare un nome alla storia. Il 24 luglio 2025, nelle prime ore del mattino, sei valichi di frontiera tra Cambogia e Thailandia sono stati teatro di scontri armati. Razzi BM-21 lanciati dal lato cambogiano hanno colpito la provincia thailandese di Surin, uccidendo undici civili, tra cui un bambino di otto anni. La risposta thailandese è stata immediata: caccia F-16 hanno sorvolato il confine e bombardato le postazioni militari cambogiane vicino al tempio Prasat Ta Muen Thom. La guerra latente si era risvegliata. Non era la prima volta. Dalla sentenza della Corte internazionale di Giustizia (CIJ) del 1962, che ha concesso la sovranità sul tempio di Preah Vihear alla Cambogia, entrambi i Paesi hanno trascinato un latente disaccordo sui terreni confinanti. Questa disputa, esacerbata da mappe coloniali, interessi politici interni e memorie nazionalistiche incompiute, ha trasformato i templi indù dell’XI secolo in epicentri di conflitti contemporanei. Preah Vihear non è solo un complesso architettonico. Situato a 525 metri di altitudine sui monti Dângrêk, rappresenta per la Cambogia un simbolo sacro del suo patrimonio khmer e per la Thailandia una parte irrinunciabile del suo immaginario nazionale. È stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 2008, il che ha acceso le tensioni regionali. Il focolaio più recente riguarda Ta Muen Thom, un altro santuario indù dell’XI secolo, immerso nella giungla e situato strategicamente su una delle storiche rotte militari tra i due Paesi. Questo conflitto non può essere compreso senza osservare l’architettura occulta del potere che lo sostiene. La Thailandia, governata da una coalizione instabile e segnata da crisi interne, ha strumentalizzato il nazionalismo di frontiera come valvola di sfogo. La Cambogia, sotto il comando del primo ministro Hun Manet, figlio del longevo leader Hun Sen, ricorre alla difesa del patrimonio come bandiera sovrana. Entrambe le nazioni hanno utilizzato i templi non solo come punti geografici, ma anche come monumenti bellici che conferiscono legittimità politica e tengono insieme i discorsi identitari. La dimensione umanitaria è allarmante. I combattimenti del 24 luglio hanno causato almeno dodici morti, decine di feriti e costretto all’evacuazione tra le 40.000 e le 86.000 persone, secondo diverse fonti regionali. I villaggi vicini ai templi sono stati abbandonati; ci sono ospedali danneggiati, scuole chiuse e frontiere completamente sigillate. Le ambasciate sono state ritirate. Le accuse reciproche si intensificano. E mentre i proiettili volano, il mondo reagisce come se lo sapesse già in anticipo. L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), presieduta quest’anno dalla Malesia, ha invitato al dialogo. Gli Stati Uniti hanno emesso un avvertimento formale. Israele, ironicamente, ha raccomandato ai propri cittadini di non avvicinarsi alle zone di confine a causa del “grave rischio di instabilità”. Ma è la Cina che occupa il centro silenzioso di questa scena. Il ruolo della Cina è allo stesso tempo strategico e rivelatore. Nell’immediato, il suo Ministro degli Esteri Wang Yi si è offerto di mediare nella disputa, appellandosi a una “posizione giusta e imparziale” e ai principi di cooperazione regionale. Il portavoce del Ministero degli Affari Esteri, Guo Jiakun, ha dichiarato pubblicamente che la Cina è “profondamente preoccupata” per gli scontri e che “confida che le parti risolvano le loro divergenze attraverso il dialogo”. Al di là della retorica, la posizione cinese risponde a interessi geopolitici strutturali. Da un decennio, Pechino ha costruito la sua influenza nel Sud-Est asiatico non solo con ferrovie e prestiti, ma anche con narrazioni. In un mondo sempre più frammentato, la Cina si propone come garante della stabilità di fronte al caos occidentale. La sua apparente neutralità in questa guerra è, in realtà, un sofisticato atto di posizionamento come mediatore di pace e attore indispensabile. Se Cambogia e Thailandia si siederanno al tavolo delle trattative, non sarà grazie all’ONU, ma al peso di Pechino nel tessuto economico e diplomatico della regione. Ma al di là dei vertici e delle cancellerie, qui è in gioco qualcosa di più complesso. Può un tempio essere motivo di morte? Può un muro di pietra scolpito con figure di Shiva trasformarsi in una sentenza di sfollamento di massa? Che tipo di civiltà costruiamo quando l’antica spiritualità diventa il detonatore di una guerra moderna? La Cambogia ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU un intervento urgente e una risoluzione vincolante e alla Corte internazionale di Giustizia una nuova delimitazione precisa dei terreni adiacenti ai templi, in linea con la sentenza del 2011 che ordinava il ritiro delle truppe dalla zona di Preah Vihear. La Thailandia, dal canto suo, ha accusato la Cambogia di “violazione territoriale e aggressione civile”, rafforzando lo schieramento militare nelle province confinanti di Sisaket e Surin. In questa disputa non ci sono invasori esterni né occupazioni coloniali, ma ferite coloniali non ancora rimarginate. Il confine tra Cambogia e Thailandia è stato tracciato con l’inchiostro degli imperi francese, siamese, britannico e anche se le mappe sono cambiate, la ferita rimane. Preah Vihear è anche la storia di come un passato irrisolto avveleni il presente. Quello che vediamo oggi non è un incidente isolato, ma un sintomo, un avvertimento e uno specchio. Uno specchio che riflette i meccanismi con cui le nazioni manipolano i simboli religiosi per galvanizzare le volontà, giustificare le offensive e reprimere il dissenso. Uno specchio in cui la diplomazia si svuota di contenuto se non è accompagnata da una giustizia reale e dalla volontà di ricordare. Uno specchio in cui, se nessuno interviene con forza e chiarezza, i templi torneranno a essere rovine, non per il passare del tempo, ma per il peso implacabile delle bombe. Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante Revisione di Anna Polo Claudia Aranda
Il mondo è la sua yurta: Dimash e l’architettura del dialogo culturale in un mondo polarizzato
(Nella cultura kazaka, la yurta è l’abitazione tradizionale nomade: simbolo di casa, ospitalità e comunità.) > «La musica non può cambiare il mondo da sola, ma può cambiare le persone, e le > persone possono cambiare il mondo». —Dimash Qudaibergen. Viviamo in un’epoca dove l’arte è rumore di fondo, dominata da algoritmi e clic; universale è solo un’etichetta di mercato e la mediocrità uno standard. In questo contesto, l’apparizione di un artista che supera confini linguistici, di genere e geografici è un atto etico oltre che estetico: trasforma il palco in un territorio condiviso, sospendendo antagonismi. La sua voce è una diplomazia sensibile che crea emozioni comuni e speranze di convivenza. Questa arte è scelta e resistenza poetica contro la frammentazione di tempi tecnologici e politici. Ogni nota cerca di riconnettere l’essere umano con sé e l’altro. Quando il pubblico respira all’unisono, si intravede una comunità diversa: l’arte serve a ricordarci che la trasformazione è possibile. RADICI E FORMAZIONE > «Non dimentico mai che rappresento un intero Paese». —Dimash Qudaibergen Originario delle steppe kazake, Dimash incarna una tradizione millenaria di poesia orale, canti epici e melodie nomadi, dove la musica è identità e narrazione storica. Cresciuto fra kuis di dombra e canti improvvisati, concepisce l’arte come atto sociale e spirituale. Formazione ibrida dal folk al classico, belcanto e repertori vari, ha un’estensione vocale unica di oltre sei ottave e interpreta in almeno quattordici lingue, tra cui lo spagnolo, con cui già ha costruito ponti culturali. Ha duettato con grandi come Domingo e Carreras e presenterà concerti in Spagna e Messico, esaurendo i biglietti in pochi minuti. Emerso tramite un concorso televisivo cinese dopo successi nello spazio slavo, ha imposto la propria autenticità evitando l’omologazione. Dimash amplia il paradigma musicale globale collegando tradizioni e repertori diversi, dove identità è spazio di transito e incontro. ESTETICA E FILOSOFIA La musica di Dimash è un’esperienza unitaria di suono e immagine. *Story of One Sky* incarna un sistema simbolico: il deserto come prova, l’infanzia come promessa, il genocidio come monito, l’incontro tra fedi come speranza. Tecnica, emozione e significato si fondono in un atto performativo totale. L’ampia estensione vocale gli permette di passare dall’intimità sussurrata alla potenza operistica, costruendo progressioni narrative. In *Storia di un Cielo*, il climax “We are choosing life!” trasforma l’estetica in etica. Ogni opera è sistema di segni: musica, testo, corpo e immagini formano un messaggio dialettico che obbliga a confrontarsi con la brutalità e la bellezza umana. La voce di Dimash è traccia fisica, simbolo e icona, meditazione su vita, morte, amore e trascendenza. Il riferimento diretto al genocidio nazista è monito per il presente. Guardare o ascoltare separatamente spezza il senso: gesti, sguardi e silenzi sono parte del messaggio e restano nella memoria come resistenza culturale.   RICEZIONE E IMPATTO In Asia e nei Paesi dell’Est, Dimash è continuità di tradizione tecnica. In Occidente, dominato da logiche industriali e consumo rapido, risulta “fuori catalogo”. L’impatto iniziale è la meraviglia tecnica, ma la vera sfida è offrire un’esperienza integrale e spirituale incompatibile con l’ascolto frammentato. Rompe la divisione occidentale tra musica popolare e classica, vivendo entrambe. Richiede ascolto profondo e abbandono delle etichette. Ogni brano è viaggio emotivo ed etico, antidoto alla superficialità. COLLABORAZIONI E SCENOGRAFIA Con Igor Krutoy ha creato opere su misura per la sua voce. In *Adagio* con Lara Fabian ha raggiunto una fusione timbrica “extraterrestre”. In *Rhapsody on Ice* ha unito orchestra, cori, elettronica e pattinaggio artistico, in produzioni di maestria rara. UMILTÀ, LASCITO E ARCHITETTURA DI PACE Nonostante la fama mondiale, Dimash mantiene umiltà e vicinanza personale. I suoi concerti sono spazi senza vincitori né vinti, dove le identità convivono. La sua musica è dichiarazione che finché sapremo commuoverci insieme, potremo costruire un futuro diverso. Dimash dimostra che la musica può essere ponte tra mondi in conflitto, linguaggio universale in tempi di crisi. Il suo lascito supera le vendite: sarà studiato come paradigma di artista della periferia globale che mantiene radici e dialoga col mondo. Come Caruso o Pavarotti, potrebbe essere ricordato per aver restituito all’arte la dimensione comunitaria nell’era digitale. La sua opera è accordo non scritto tra interprete e pubblico, celebrazione della diversità nell’ascolto reciproco. In un’epoca di discorsi vuoti, la sua musica è partitura aperta da interpretare per ogni generazione. > «Se c’è qualcosa che voglio lasciare al mondo è la certezza che la musica può > essere un luogo in cui nessuno debba alzare le armi». —Dimash Qudaibergen Claudia Aranda
Afghanistan, che cosa c’è dietro l’immagine ripulita dei Talebani. Seconda parte
Negli ultimi quattro anni, le organizzazioni, tra cui Rawa, che cercavano di organizzare proteste e di far sentire la voce delle donne afghane come resistenza contro i Talebani hanno subìto arresti, minacce, uccisioni delle loro aderenti e questo è il motivo per cui la protesta ha cambiato forma. Ora, come organizzazione, e credo che questo valga anche per la maggioranza delle donne afghane, ci stiamo concentrando su metodi clandestini di resistenza e crediamo che una di queste forme di resistenza sia aumentare la consapevolezza delle donne e il loro livello di istruzione. Ed è per questo che negli ultimi quattro anni abbiamo cercato di organizzare corsi segreti a domicilio di inglese, informatica o scienze, per le ragazze che non possono andare a scuola e per le donne più grandi. Abbiamo cercato di mobilitare un grande numero di donne per poter dare più consapevolezza e coraggio alle giovani generazioni affinché resistano ai Talebani. Anche la resistenza delle donne in Iran ci ha incoraggiato e ispirato molto, facendoci capire che il fascismo religioso e il fondamentalismo religioso, sebbene siano al governo da decenni, non possono mettere a tacere le donne. Le donne più istruite e consapevoli dei propri diritti saranno sicuramente in grado di affrontare le minacce e di trovare il modo di resistere. E lo vediamo ancora di più attraverso l’uso dei social media, dei corsi online, attraverso corsi segreti e opportunità educative. Le donne stanno cercando di mobilitarsi di più contro i Talebani e soprattutto contro la polizia religiosa. Posso sicuramente dire che il nostro lavoro sta migliorando rispetto a quanto si faceva prima. E la semplice ragione è che prima del 2021 c’erano molte opportunità per le donne, università private, college, scuole, tutto. Ora solo organizzazioni come Rawa e alcune ONG offrono opportunità di istruzione o corsi di alfabetizzazione per le donne. Il problema che abbiamo è la sicurezza. Purtroppo, non possiamo costruire classi numerose o centri per le donne. Non possiamo portare più donne in alcune regioni, soprattutto non possiamo portare avanti alcun progetto dove i Talebani sono molto forti e nelle piccole città. Nelle grandi città è più facile prenderci cura delle misure di sicurezza. La maggior parte sono lezioni clandestine o segrete a domicilio. Si svolgono all’interno delle case degli insegnanti. Non paghiamo l’affitto per l’edificio o per la lezione. Una normale stanza per la vita quotidiana è usata anche come una classe. La rete degli insegnanti è composta da persone che già conosciamo e di cui ci fidiamo, che sono molto creative nel trovare studenti affidabili e nell’ampliare le loro reti senza trasformare la loro casa in una scuola ufficiale. In ogni classe, il numero medio di studentesse è di 15-20. In alcune zone vediamo che 50-60 donne vorrebbero partecipare e purtroppo, per motivi di sicurezza, non possiamo permetterlo. Non possiamo nemmeno scegliere due o tre case molto vicine, perché se succedesse qualcosa a una delle nostre classi segrete potrebbe venire coinvolta anche l’altra. Quindi, dobbiamo stare attente a mantenere la distanza tra le nostre classi. L’insegnante e le studentesse sono molto creative nel trovare soluzioni ai loro problemi di sicurezza. È comune in Afghanistan che le donne si riuniscano per confezionare abiti  e per insegnare/imparare il Corano, che è considerato un atto religioso. In ognuna di queste lezioni abbiamo il Corano e l’insegnante, qualora i Talebani entrassero in casa, direbbe che si tratta di studi coranici e che la lavagna e tutto il resto servono per insegnare il Corano. E ai Talebani va bene. Nelle nostre classi nel tempo si sviluppa una grande solidarietà tra le ragazze, le donne e le insegnanti. Di recente, una delle ragazze a causa delle pressioni della famiglia aveva abbandonato la classe; è accaduto a Kabul, che è la zona più sicura rispetto ad altre. Le sue compagne di classe indagano e quando scoprono che è il fratello a non permetterlo, un folto gruppo di 10-12 compagne di classe si è unito per convincerlo. Sfortunatamente, non ci sono riuscite, pur avendo ottenuto il consenso dei membri maschi della sua famiglia e sebbene si fossero offerte di alternarsi nell’accompagnarla. La politica di Rawa non è solo quella di fornire l’alfabetizzazione, ma anche di dare alle donne ferite l’opportunità di parlare tra di loro di cosa soffrono, che tipo di discriminazione subiscono all’interno della famiglia, cosa possiamo fare. In moltissimi casi l’insegnante va a trovare la famiglia quando sorgono problemi di qualsiasi tipo. E’ successo recentemente a Jila, una giovane studentessa; la famiglia voleva darla in matrimonio, mentre lei voleva continuare le sue lezioni. L’insegnante è andata a parlare con i membri maschi della famiglia per dire loro che la figlia non era ancora pronta per questa proposta di matrimonio e fortunatamente loro hanno acconsentito a rimandarlo. Abbiamo molti esempi di questi piccoli successi nel migliorare la vita delle donne, delle bambine e delle ragazze afghane, il che ci dà molto coraggio. Come organizzazione nutriamo grande speranza nel futuro; ora viviamo un momento buio della nostra storia, ma non è destinato a durare per sempre. Prima o poi la luce tornerà a risplendere sull’Afghanistan. Link alla prima parte dell’articolo, Fiorella Carollo