Tag - Asia

Mille splendidi fiori, storie di cura, coraggio e comunità tra Afghanistan e Alto Adige
Martedì 5 agosto 2025 alle ore 21:00 Pavillon di San Vigilio di Marebbe (Provincia autonoma di Bolzano, Alto Adige) Evento organizzato da Costa Family Foundation, Insieme si può, Rawa, Gea, Dolomites San Vigilio Una serata per ascoltare voci spesso invisibili: donne che resistono, custodiscono e si fidano. Dall’Afghanistan dell’Associazione RAWA, dove anche una tisana può diventare gesto politico, all’Alto Adige, dove la violenza di genere si nasconde dietro porte chiuse e silenzi troppo lunghi. Un dialogo aperto tra mondi apparentemente distanti – impresa e sociale, poesia e attivismo – uniti dalla stessa tensione verso la dignità e la trasformazione. Parole, musica, volti e storie si intrecciano in un racconto collettivo. A chiudere, un gesto semplice: una tisana condivisa. Perché far fiorire, in fondo, è un atto rivoluzionario.     Redazione Italia
Afghanistan. Come cambiare la percezione senza cambiare la sostanza
Siamo quasi all’anniversario della presa del potere dei talebani del 15 agosto 2021, che ha portato in Afghanistan a una precipitazione dei diritti delle donne e delle condizioni di democrazia e di vita per tutti per la svolta estremamente fondamentalista che l’interpretazione restrittiva della Sharia dei Talebani ha comportato. In questi giorni il poco interesse che i media esprimono per l’Afghanistan si concretizza in una notizia che rimbalza praticamente uguale in tutti i brevi articoli che la narrano: esiste una nuova possibilità per le donne afghane rappresentata dalla ripresa del turismo, poiché a Kabul si possono fare tour gestiti da donne e rivolti alle donne. In realtà si tratta di un’unica esperienza di questo genere  e riguarda la visita al museo di Kabul  guidata da una giovane donna e fruita da un piccolo gruppo di straniere, tutte con il velo in testa ma, sorprendentemente – e la cosa salta agli occhi nel grigio panorama delle strade frequentate soprattutto da uomini e da poche donne nascoste in lunghi vestiti neri – vestite con abiti colorati, come mostra un servizio di Rai News.it. Significa che sta cambiando qualcosa nel fondamentalista e repressivo Afghanistan dei Talebani? E’ proprio come la racconta il servizio di Rai News, che commenta il suo documentario con un giudizio positivo e quasi entusiasta sulla possibilità di “cambiare, un passo alla volta, la percezione del Paese”? In realtà, l’ingenuo commento non afferra il vero significato di questi tour, e cioè l’interesse dei Talebani di cambiare la percezione negativa che il mondo ha dell’Afghanistan senza cambiare la sostanza delle condizioni di segregazione e privazione dei più elementari diritti delle donne, che continua invece a essere raccontata da innumerevoli testimonianze e dalle più svariate fonti. Permettere a una manciata di donne di usare un briciolo di libertà serve ai Talebani per mostrare il presunto “volto umano” del loro governo, che invogli il resto del mondo al riconoscimento della “normalità” del loro sistema di governo, in realtà fondamentalista, violento, liberticida e di apartheid verso le donne. Non si tratta, quindi, di avere il coraggio di sfidare i divieti, ma invece di essere strumento, più o meno consapevole, di un’operazione pubblicitaria di camuffamento della realtà. Mentre si danno notizie di “novità” come questa, bisognerebbe sempre ricordare il contesto in cui avvengono, se si vuole davvero fare informazione.   CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Il ruggito silenzioso: rivoluzione psico-sociale e sottile potere della generazione Z – Ridisegnare la leadership filippina
Le elezioni filippine recentemente concluse lo scorso 2025 maggio hanno svelato una sottile ma profonda rivoluzione psico-sociale, particolarmente evidente nei modelli di voto della Generazione Z e degli elettori affini di altre fasce demografiche. Al di là della politica tradizionale e dei consensi delle celebrità, una nuova specie di elettori, impregnati di fluidità digitale e desiderosi di un vero cambiamento, sembra orientarsi verso leader definiti da integrità, autenticità e visione trasformativa. Questa “rivoluzione psicosociale” rappresenta un cambiamento più profondo nella coscienza collettiva dell’elettorato. Si tratta di un’evoluzione da un’accettazione potenzialmente passiva delle narrazioni politiche tradizionali a una richiesta attiva e informata di una governance etica. La generazione Z, spesso caratterizzata dalla capacità digitale, dall’accesso istantaneo alle informazioni e da uno spiccato senso di giustizia sociale, non si limita a votare, ma è assetata di leader autentici, al servizio della gente e trasformatori. Mostrano una bassa tolleranza per la corruzione e un elevato apprezzamento per la trasparenza, l’impegno diretto e l’impatto tangibile. Il loro scetticismo nei confronti delle dinastie politiche consolidate e dei sistemi clientelari convenzionali è una caratteristica distintiva, che li spinge a cercare individui che incarnino realmente il servizio pubblico. Questo approccio perspicace si è visibilmente riflesso nel forte sostegno raccolto da figure come il pluripremiato sindaco di Pasig City Victor Ma. Regis N. Sotto, soprannominato “Vico” Sotto. Il suo impegno per il buon governo e la trasparenza gli è valso persino il riconoscimento del Dipartimento di Stato americano, che lo ha nominato tra i Campioni Internazionali Anticorruzione nel 2021. Il suo mandato, caratterizzato da una governance trasparente, da programmi sociali innovativi e da una chiara posizione anti-corruzione, risuona profondamente con una generazione che dà più valore alla sostanza che alla retorica. Allo stesso modo, il fervente sostegno a leader come l’ex vicepresidente Leni Robredo, la cui campagna elettorale ha posto l’accento sul volontariato, sui movimenti di base e su un’esperienza di integrità e servizio, la dice lunga sulle aspirazioni della generazione Z. Questi leader, a prescindere dai risultati elettorali finali, incarnano proprio le qualità – onestà, competenza e una mentalità progressista – che questa generazione considera prioritarie. Le loro scelte segnano un allontanamento dai modelli di voto storici, spesso influenzati da culti della personalità o da apparati politici radicati. Al contrario, la generazione Z sfrutta i social media non solo per l’intrattenimento, ma come strumento critico per il discorso politico, la verifica dei fatti e la costruzione di comunità attorno a valori condivisi. Questo attivismo digitale si traduce in una richiesta di responsabilità che trascende i filtri dei media tradizionali. L’impatto di questo risveglio psicosociale è di vasta portata. Sfida i futuri aspiranti politici a riflettere realmente sulle loro piattaforme, sui loro precedenti e sul loro impegno per un servizio pubblico senza macchia. Suggerisce che è in atto un cambiamento a lungo termine, in cui la vera leadership non si misura con la ricchezza o il lignaggio, ma con la capacità di ispirare fiducia, di fornire soluzioni trasformative e di impegnarsi in un percorso etico per il progresso della nazione. Mentre la Generazione Z continua a maturare fino a diventare un gruppo demografico dominante, il suo panorama psicosociale in evoluzione promette di essere una forza costante per le riforme, costringendo l’arena politica a innovare e adattarsi per un futuro più responsabile e progressista. Condivisione durante la 3. assemblea del Forum Umanista, 19 luglio 2025 Tavolo tematico – Rivoluzioni psicosociali e spirituali   Pressenza Philippines
I Talebani intensificano l’apartheid di genere: decine di donne arrestate per “violazione dell’hijab”
In questi giorni abbiamo ricevuto il racconto affranto delle donne appartenenti alle associazioni afghane che sosteniamo, le quali confermano le notizie allarmanti apprese da alcuni siti circa l’arresto arbitrario di decine di donne da parte della polizia morale, presumibilmente per “violazioni dell’hijab”, trattenute senza accesso a un legale, senza contatti con i familiari e senza assistenza medica. Ci hanno scritto: “Negli ultimi giorni, la situazione per donne e ragazze è tornata ad essere estremamente allarmante. La polizia morale pattuglia le strade, ferma i veicoli e trattiene le donne con la forza. Molte ragazze sono sotto shock e spaventate, hanno paura anche solo di uscire di casa. Secondo quanto riferito, dopo essere state rilasciate, alcune donne sono state rifiutate dalle loro famiglie, come se il peso dell’ingiustizia fosse ancora una volta posto sulle loro spalle. Una ragazza, che per paura aveva inizialmente negato di avere subito un arresto, quando ha compreso il nostro sostegno ha iniziato a piangere e ha detto: ‘Per Dio, ero completamente coperta: indossavo l’hijab, la maschera e il chapan, ma all’improvviso mi hanno circondata come animali selvatici, mi hanno insultata e colpita con una pistola”. Sono svenuta per la paura e il dolore. Quando ho ripreso conoscenza, mi trovavo in uno scantinato buio con decine di altre ragazze assetate e terrorizzate, senza alcun contatto con le nostre famiglie. Quello che abbiamo passato è stato peggio della morte…’.  Con voce tremante, ha aggiunto: ‘La libertà è stata l’inizio di un nuovo dolore. Il comportamento di tutti nei miei confronti è cambiato, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Vorrei non essere mai uscita di casa’. Questa paura ha colpito profondamente anche le nostre studentesse. In molte, piangendo, hanno confermato quanto amano imparare, ma hanno chiesto di essere esentate dalla frequenza per qualche giorno, finché la situazione non si sarà calmata. Abbiamo deciso di sospendere le lezioni per due settimane. Anche oggi la polizia morale è passata diverse volte davanti al nostro centro e non possiamo mettere a repentaglio la sicurezza delle nostre studentesse. Sono giorni bui e pesanti, ma la vostra presenza e il vostro sostegno sono per noi una luce di speranza e conforto, la vostra solidarietà ci dà la forza per andare avanti”. Nel suo sito, RAWA NEWS informa: In un nuovo e più intenso attacco alle libertà delle donne, i Talebani hanno lanciato un’ondata di arresti arbitrari in tutto l’Afghanistan, prendendo di mira donne e ragazze accusate di aver violato l’interpretazione estremista che il gruppo dà delle regole sull’hijab. Solo nell’ultima settimana, decine di donne sono state arrestate a Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, applicando standard di “modestia” vaghi e mutevoli, senza alcun processo o giustificazione legale. Questi arresti avvengono in strade, centri commerciali, caffè e campus universitari, spazi pubblici dove le donne cercano semplicemente di condurre la propria vita quotidiana. A Kabul, nelle zone di Shahr-e-Naw, Dasht-e-Barchi e Qala-e-Fataullah, i testimoni hanno riferito che in alcuni casi le donne sono state aggredite fisicamente dagli agenti talebani prima di essere costrette a salire sui veicoli. Poi sono state trattenute nei cosiddetti “centri di moralità” – strutture gestite dal Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, un’istituzione temuta che ora opera come una forza di polizia religiosa – e rilasciate solo dopo che i loro tutori maschi avevano firmato garanzie scritte che avrebbero “corretto” il loro comportamento. Negli ultimi giorni a Herat sono state arrestate almeno 26 donne, molte delle quali giovani e alcune minorenni; a Mazar-e-Sharif una decina, sempre con l’accusa di non coprirsi completamente il volto. I funzionari talebani hanno confermato gli arresti, sostenendo che le donne erano state avvertite in precedenza. Secondo quanto riferito, le arrestate sono state trattenute senza poter usufruire di assistenza legale, contattare le proprie famiglie o ricevere cure mediche. Alcune famiglie hanno paura di far uscire di casa le proprie figlie, temendo che possano essere arrestate. Non per la religione, ma per il predominio Le Nazioni Unite e gli osservatori dei diritti umani hanno condannato questi arresti, ritenendoli delle gravi violazioni del diritto internazionale e un chiaro segno di apartheid di genere. Tuttavia, i Talebani non sembrano intenzionati a cedere. Anzi, i funzionari del ministero hanno raddoppiato le loro minacce, annunciando che qualsiasi donna trovata a indossare un “cattivo hijab” sarà punita immediatamente e senza preavviso. Queste azioni non riguardano la religione, ma il predominio: i Talebani usano l’imposizione del hijab come arma politica per mettere a tacere e cancellare le donne. Criminalizzando le normali scelte di abbigliamento, i Talebani inviano un messaggio agghiacciante: le donne non appartengono alla sfera pubblica e qualsiasi tentativo di affermare la propria presenza sarà represso con la forza. Si tratta di un’ulteriore fase del sistematico smantellamento dei diritti delle donne da parte dei Talebani, che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre la prima media, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento  e nell’abbigliamento. Nonostante la crescente repressione, molte donne afghane resistono, rifiutandosi di scomparire, documentando gli abusi e parlando, anche a rischio della propria vita, ma le loro voci sono accolte con indifferenza dalla maggior parte della comunità internazionale. Il tempo delle condanne simboliche è finito. Le azioni dei Talebani equivalgono a una prolungata campagna di persecuzione di genere e devono essere trattate come tali. Senza una pressione internazionale concreta, il regime continuerà senza controllo la sua guerra contro le donne, incoraggiato dal silenzio di un mondo che un tempo aveva promesso di stare dalla parte del popolo afghano. Appello urgente: richiesta di aiuto per profughi afghani espulsi dall’Iran CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Bangladesh : nuova ondata di profughi Rohingya dal Myanmar
Nuova ondata di profughi Rohingya L’Unhcr lancia l’allarme: i fondi si stanno esaurendo mentre è in corso un’ennesima fase migratoria di chi cerca rifugio in Bangladesh L’Unhcr, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, rende noto che almeno 150.000 rifugiati Rohingya sono arrivati a Cox’s Bazar, in Bangladesh, negli ultimi 18 mesi. Nella nota diffusa dall’Agenzia Onu si spiega che “Gli episodi mirati di violenza e le persecuzioni nello Stato di Rakhine, insieme al conflitto in corso in Myanmar, continuano a costringere migliaia di Rohingya a cercare protezione in Bangladesh. Questo flusso di rifugiati Rohingya verso il Bangladesh, distribuito su più mesi, rappresenta il più ampio dalla crisi del 2017, quando circa 750.000 persone fuggirono dalle violenze nel loro Stato di origine”. Mentre l’Agenzia sta procedendo al riconoscimento degli ultimi arrivati e provvedendo con i suoi partner ai bisogni della nuova ondata di profughi birmani, si stima che molti altri vivano informalmente nei campi già sovraffollati dell’area di Cox Bazar. La stragrande maggioranza è composta da donne e bambini. Mentre per ora è stato possibile offrire servizi di base, come alimentazione, assistenza medica, istruzione e beni essenziali – scrive l’Unhcr – senza fondi immediati, anche questi interventi rischiano di interrompersi. L’accesso a ripari adeguati e ad altri bisogni fondamentali rimane insufficiente a causa della carenza di risorse. “Nell’attuale contesto di grave crisi globale di finanziamenti, i bisogni urgenti sia dei nuovi arrivati sia di chi è già presente – sostiene l’Unhcr – rischiano di rimanere insoddisfatti, e i servizi essenziali per l’intera popolazione Rohingya sono a rischio collasso”: l’assistenza sanitaria subirà forti interruzioni entro settembre, mentre il combustibile da cucina (GPL) terminerà. Entro dicembre, anche l’assistenza alimentare sarà sospesa. L’istruzione per circa 230.000 bambini – inclusi 63.000 tra i nuovi arrivati – è a rischio interruzione. Il confine tra Bangladesh e Myanmar resta ufficialmente chiuso e sorvegliato dalle autorità di frontiera locali. Nel corso degli anni, il sostegno del Bangladesh e della comunità internazionale è comunque stato cruciale per rispondere ai bisogni primari dei rifugiati Rohingya e offrire loro protezione. Oggi, ogni aspetto dell’assistenza è compromesso dalla scarsità di fondi. L’Agenzia e i suoi partner umanitari invitano nuovamente la comunità internazionale a dimostrare solidarietà concreta verso il Bangladesh e gli altri Paesi della regione che accolgono rifugiati Rohingya. Atlante delle guerre
Sport femminile in Afghanistan: un altro diritto negato, un’altra resistenza
Difficilmente si sente parlare di Afghanistan senza che vengano citate le donne afghane, tirate in ballo da un lato dalla feroce ideologia patriarcale dei talebani, che con un tratto di gomma le cancella dalla vita sociale, e dall’altro dalla propaganda occidentale, del tutto strumentale alla legittimazione dell’intervento militare nel Paese del 2001, il quale avrebbe avuto tra i suoi fini la liberazione della donna dalla soggiogazione talebana. Delle donne afghane si parla quasi sempre sospinti da un istinto compassionevole che le getta con poca cura e attenzione in una categoria umana che potremmo definire come quella delle “poverine”. In questa considerazione però c’è tutta la forza negativa della rassegnazione, come se in fondo la loro condizione di oppressione fosse scritta nel loro destino. Tuttavia, la resistenza che le donne esercitano ci ammonisce perché la rassegnazione non porta a nulla di buono, anzi, lascia uno spazio vuoto che i talebani e altri sapranno come occupare. La lotta delle donne afghane per cambiare il loro Paese va avanti, faticosamente e lentamente, certo, ma senza sosta. Lo dimostrano le tante esperienze di clandestinità che le afghane vivono per far studiare le bambine e le ragazze affinché non rinuncino ai loro sogni e prendano coscienza della loro condizione e il coraggio di rivoluzionare la storia. Da quando i talebani sono tornati a comandare il 15 agosto 2021 i provvedimenti che hanno emanato e che colpiscono le donne sono più di cento. Minky Worden, Direttrice del Global Initiatives di Human Rights Watch, in una lettera del 3 febbraio 2025 indirizzata al Comitato Internazionale del Cricket (ICC) ha scritto che “dalla presa del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno imposto una crescente lista di regole e politiche sulle donne e sulle ragazze proibendo loro di frequentare le scuole secondarie e l’università e restringendo pesantemente l’accesso al lavoro, la libertà di espressione e di movimento, così come vietando lo sport e le altre attività all’aperto”. Infatti, non era ancora passato un mese dall’insediamento dei talebani che l’8 settembre del 2021 il Vice-presidente della Commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, aveva dichiarato che la pratica sportiva non era necessaria per le donne. Sollecitato proprio sulla questione relativa al cricket, sport che a livello internazionale deve sottostare a delle regole che prevedono la parità di diritti e opportunità tra i due sessi, obbligando ogni federazione nazionale per poter essere membro di quella internazionale ad avere tanto la squadra nazionale maschile quanto quella femminile, Ahmadullah Wasiq aveva risposto che le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa maniera. È l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano esposte”. Da quel momento le atlete di ogni sport e le loro famiglie avevano iniziato a sbarazzarsi di tutto ciò che avrebbe potuto costituire una prova dell’attività sportiva praticata. Così le foto che ritraevano momenti sportivi erano state strappate e cancellate dai social mentre le medaglie vinte, le divise e le attrezzature erano state portate via dalle abitazioni. Nessuno osava più parlare di sport femminile fuori dalle mura domestiche. Alcune atlete, note per far parte della nazionale, si erano nascoste nell’attesa e nella speranza di poter lasciare il Paese e salvarsi dalla persecuzione che sarebbe caduta su di loro. Avevano fatto parlare di sé le giocatrici della nazionale di cricket, aiutate a fuggire in Australia grazie all’iniziativa di tre donne australiane, una di loro ex giocatrice della nazionale di cricket, Mel Jones, ma anche quelle della nazionale di calcio e di pallavolo che si erano nascoste, nell’attesa e nella speranza di riuscire a fuggire dal Paese. Molte di queste atlete ce l’hanno fatta a espatriare e hanno ripreso ad allenarsi su altri campi e in altre palestre, dovendo spesso lasciare tutta la propria famiglia in Afghanistan. Va detto però che durante il periodo dell’occupazione non era tutto rose e fiori, perché il governo non sempre permetteva alle squadre nazionali femminili di disputare le competizioni all’estero, motivando la decisione con minacce derivanti dai talebani. Ma c’era una tendenza dei politici che dirigevano il Paese a lasciare che la pratica sportiva si svolgesse perché, grazie alle innumerevoli Ong presenti sul territorio che investivano in progetti sportivi, i soldi provenienti dall’estero facevano gola. In occasione dei Giochi Olimpici di Parigi dell’anno scorso, l’ex judoka afghana Friba Rezayee, che aveva partecipato alle Olimpiadi del 2004, si era espressa in modo contrario alla partecipazione della squadra nazionale afghana, nonostante avesse una rappresentanza paritaria tra i due sessi, tre uomini e tre donne, quest’ultime però non riconosciute dal governo afghano. Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) aveva ammesso la squadra, ma negato gli inviti ai rappresentanti istituzionali dell’Afghanistan. Secondo Rezayee permettere al suo Paese di essere rappresentato con tanto di bandiera era un errore perché, sebbene involontariamente, finiva con il concedere legittimità a “un regime che punisce le donne per la partecipazione agli sport”. L’ex judoka offriva un’alternativa, ossia la partecipazione degli atleti e delle atlete afghane nella squadra Refugees team, composta da sole rifugiate e rifugiati politici (alle Olimpiadi di Parigi tre atleti afghani e un’atleta afghana hanno fatto parte del Refugees Team). La negazione del riconoscimento del governo talebano è il cuore della battaglia delle attiviste afghane perché è un passo obbligatorio se si vuole tentare di smantellare il sistema di “apartheid di genere” costruito dai talebani, così definito anche dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Ma lo sport non è solo agonismo, è molto di più. La sua messa al bando ha avuto delle ricadute importanti sulla vita sociale e personale delle donne. La socializzazione nella società afghana, rimasta profondamente patriarcale persino durante il periodo dell’occupazione, era possibile anche attraverso la frequentazione dei centri sportivi dove, oltre a tentare di recuperare la linea dopo tante gravidanze (più di 5 figli per donna), si ricercava un benessere fisico e psicologico. Il castigo inflitto alle donne in quanto donne non ha soppresso definitivamente la loro voglia di riscatto e, sebbene sappiano di correre rischi serissimi, alcune di loro ancora oggi continuano a praticare lo sport in forma clandestina. I controlli da parte delle autorità sono però continui. A febbraio del 2023 i talebani hanno chiuso un altro centro sportivo, un club di karate femminile che era rimasto aperto, nonostante il divieto, nella provincia di Farah. Il diritto allo sport, dato il suo peso e la sua importanza, non ha nemmeno bisogno di ottenere un riconoscimento, sebbene vi siano trattati internazionali che lo esplicitino, perché è inalienabile e appartiene a ogni individuo in quanto essere umano. Non può essere negato. Le azioni politiche devono però creare le condizioni perché questo diritto possa essere esercitato, pertanto la scelta del Comitato Internazionale del Cricket di porre il vincolo alle federazioni nazionali di avere sia la squadra maschile sia quella femminile per poter partecipare alle competizioni internazionali dovrebbe essere un esempio per tutte le altre Federazioni sportive internazionali. Ma non basta, occorre cancellare dai Comitati quelle federazioni che non rispettano la disposizione. Questo è quello che le giocatrici di cricket afghane in esilio chiedono da tempo all’ICC, supportate in questa battaglia da Human Rights Watch, perché fino ad oggi la squadra di cricket maschile afghana continua ad essere membro del Comitato Internazionale nonostante il governo afghano si rifiuti di ricostituire quella femminile. Nell’estenuante attesa che la politica sportiva internazionale faccia la sua parte per sostenere le afghane nella battaglia per la realizzazione del diritto fondamentale delle donne alla pratica sportiva, migliaia di bambine, ragazze e donne in Afghanistan continuano a soffocare sotto il peso dei divieti e del controllo totale delle loro vite e sono costrette a decidere se rinunciare a praticare lo sport per non incorrere in punizioni severissime, oppure al contrario praticarlo clandestinamente e rischiare di pagare un caro prezzo. CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Disobbedienza civile e Resistenza dei giovani birmani
“I giovani stanno resistendo e sono al fronte ma nello stesso momento altre persone si stanno prendendo cura della popolazione e stanno ricostruendo il paese. Non è una rivoluzione che guarda al domani, al dopo rivoluzione, ma agisce ora, in contemporanea”. Andrea Castronuovo è un ricercatore per l’Università Cattolica di Milano e collaboratore dell’Associazione “Amicizia Italia Birmania”; attualmente risiede in una cittadina di confine tra la Thailandia e il Myanmar, da tempo, luogo di incontro per chi fugge dalle persecuzioni politiche della giunta birmana e sede di numerosi campi profughi. Come mai hai scelto di vivere qui in questa zona di confine? Sono arrivato poco dopo il colpo militare del 1° febbraio 2021. Da decenni questo è un luogo di rifugio dei movimenti democratici, dalla rivolta dell’88 e poi dal 2007 fino adesso; è il riparo per tutti gli attivisti e i membri, diciamo, della politica attiva democratica del paese che non più sicuri di vivere in Myanmar sono stati costretti a raggiungere questo posto con estrema difficoltà. In questa città tra la Thailandia e il Myanmar, assieme ai rifugiati politici, vi sono i campi profughi causati dalla guerra interna al Myanmar. Chi sono questi giovani democratici che hanno lasciato il loro paese? Sono quei giovani che hanno manifestato contro il colpo di stato nei primi mesi del 2021, quando da metà febbraio 2021, marzo e aprile, c’è stata una repressione sempre più violenta dei militari, alcune persone che si erano esposte, soprattutto della società civile e politica, ma soprattutto moltissimi giovani sono scappati. Hanno preso macchine e mezzi di trasporto pubblici o privati, per lo più mezzi di fortuna, hanno lasciato tutto, famigliari compresi, senza dire niente a nessuno perché la loro condizione di ricercati li metteva in pericolo e soprattutto metteva in pericolo le loro famiglie. Qui si sono trovati in una condizione particolare perché la Thailandia non ha ratificato la convenzione dei rifugiati nel 1951 e questo fa sì che il governo thailandese non riconosca lo status di rifugiato e soprattutto non abbia nessuna obbligazione per quanto riguarda l’assistenza sia fisica sia di documentazione. Quindi la quasi totalità dei giovani birmani che sono arrivati qua si trovano in una terra di mezzo. Com’è la loro vita al confine? Portano avanti la loro Resistenza, tantissimi giovani fanno attività giornalistiche sia che fossero studenti o professori all’università, hanno abbandonato i propri corsi scolastici e stanno facendo disobbedienza civile, poiché non riconoscono il governo attuale, la giunta, come il legittimo governo. Hanno scelto di diventare profughi e perseguitati, portano avanti le proprie lotte ideologiche e di assistenza alla popolazione. L’autorità thailandese anche se non ha formalmente riconosciuto i profughi che atteggiamento ha verso di loro? Siamo al di fuori di qualsiasi rotta turistica, al di fuori di qualsiasi dimensione commerciale, questo posto vive esclusivamente perché è sovrappopolato da profughi. Questa è diventata l’unica dimensione economica della città e si è creato un sistema di corruzione diretta e indiretta all’interno del quale il profugo birmano illegale che scappa dalla guerra, dai bombardamenti e che ha subito traumi estremamente profondi, si trova in un’altra situazione di insicurezza perché è esposto a queste dinamiche di corruzione. Le autorità locali vedono una possibilità di estorcere dei soldi nei confronti dei birmani illegali che si trovano in questo momento in città, la polizia non è assolutamente amica dei birmani, ma d’altra parte comunque campa su di loro. C’è il vantaggio per i profughi illegali di non essere rinchiusi all’interno dei campi profughi, ma di vivere in una dimensione urbana. In breve, c’è un’economia basata sui profughi ed è sostanzialmente un’economia di sfruttamento. Mi confermi il dato che nella Resistenza birmana la presenza delle donne è consistente? Assolutamente sì. Dopo il 1° febbraio 2021 c’è stata una volontà democratica nella popolazione che vuole indirizzare la Birmania in quella direzione e non portarla indietro come stanno facendo i militari. Questa volontà democratica si esprime nella resistenza in molteplici dimensioni, quella del “non accettiamo più i soprusi e le volontà dei militari” e quella di un cambiamento del paradigma sociale di genere. Infatti, fin da subito le donne, le studentesse, le dottoresse, le infermiere hanno preso le redini della resistenza. Ci sono donne ministro che adesso fanno parte del governo di “Rappresentanza Democratica del Popolo”, ci sono interi battaglioni della resistenza che sono esclusivamente composti da donne e ce ne sono diversi, più di uno, ci sono anche battaglioni misti, insomma, c’è un lavoro incredibile. Un’altra importante organizzazione della resistenza raccoglie le donne parlamentari democratiche di tutto il Myanmar che continuano a portare avanti oltre alle attività politiche, anche attività di assistenza civile, attività educative, di ricostruzione di quello che era il sistema educativo, sanitario che purtroppo in questi anni dopo il COVID si è perso. Quindi la dimensione femminile della resistenza è attiva in tutte le sue fasi e in tutti i ruoli. Alcuni analisti dicono che il 60% del territorio birmano è in mano alla resistenza. Il problema è sempre la definizione di che cosa sia il controllo. Senza dubbio vi sono intere zone del paese dove i militari non riescono ad uscire dai propri compound, dalle proprie limitate sfere di influenza e la maggior parte dei territori rurali sono al di fuori del loro controllo nel senso che non riescono neanche fisicamente a raggiungere i campi di battaglia; l’unico modo per rallentare o colpire la resistenza è attraverso i bombardamenti aerei. All’interno dei territori, dove la resistenza è presente, essa ha attivato un sistema educativo, un sistema sanitario e un sistema di comunicazione tra i villaggi, quindi c’è un controllo del territorio, quantificarlo in questo momento soprattutto dall’esterno è molto complicato. Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono la resistenza birmana? Ci sono un paio di elementi che secondo me sono fondamentali. Il primo è che nessuno si aspettava una resistenza a livello nazionale condivisa da tutte le persone e da tutto il popolo e pacifica! Nessuno neanche si aspettava una trasformazione da resistenza totalmente pacifica a una resistenza anche armata, essenzialmente difensiva per proteggere la popolazione dalla brutalità dei militari, anche se le azioni di disobbedienza civile continuano a conferma che non si tratta solamente di una rivoluzione armata. È corretto dire che la disobbedienza civile e la resistenza armata si sono unite, più che una abbia inglobato l’altra. La resistenza ha continuato a crescere in questi quattro anni e i militari non sono riusciti ad arrestarla, e questo è senza dubbio un dato positivo. Possiamo affermare che i militari non riusciranno più a tornare ad avere il controllo come nei decenni passati. Per quanto riguarda lo sviluppo della lotta democratica del paese è possibile che un costante aumento del suo progresso coincida anche con un progressivo peggioramento della crisi umanitaria in Myanmar e su questo credo ci sia spazio per una riflessione, soprattutto per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, gli attori internazionali, e tutti i cittadini che vivono la cittadinanza attiva come qualcosa che va al di fuori del proprio confini, tutti insieme si dovrebbe pensare a come alleviare le sofferenze della popolazione. La formazione sempre più evidente di strutture, semiorganizzate e organizzate, che rimettono in piedi i sistemi sanitari, educativi e di assistenza sociale, completamente assenti negli ultimi due anni, sono elementi che ci dicono che non si sta rimandando a domani la ricostruzione del paese; secondo me questa è la caratteristica speciale di questa resistenza: i giovani stanno resistendo e sono al fronte ma nello stesso momento altre persone si stanno prendendo cura e stanno ricostruendo il paese. Non è una rivoluzione che guarda al domani, al dopo rivoluzione, ma agisce ora, in contemporanea. Praticamente è una resistenza e una rivoluzione dal basso che lavora direttamente sul territorio, lo ricostruisce e lo guarisce dai danni che sono stati fatti nei decenni passati dalla giunta. Questo porta come conseguenza che la popolazione diventa sempre più favorevole alla resistenza e si aliena dalle forze dei militari. La diaspora birmana all’estero gioca una parte importante nel sostegno alla resistenza? Sì, assolutamente. Fin da subito sono iniziate le raccolte fondi e anche la comunità birmana in Italia fa tantissime iniziative. Dipende da comunità a comunità, ad esempio negli Stati Uniti e in Inghilterra, le comunità sono molto grandi con grandi capacità di supporto finanziario, cercano inoltre di mantenere alta l’attenzione nei rispettivi paesi. È verissimo che la diaspora ha aiutato e continua ad aiutare la resistenza, tuttavia, è probabile che questo supporto vada pian piano a diminuire, un conto è supportare i primi cinque, sei, sette, otto mesi, un conto è mettere da parte dei soldi e inviarli in Birmania per anni. I flussi finanziari soprattutto servono per i campi profughi e l’emergenza umanitaria e la resistenza si sta basando sempre di più sulle donazioni interne dello stesso popolo birmano. Aung San Suu Kyi è fuori dai giochi, rinchiusa, ma penso rimanga come simbolo di democrazia per il suo popolo. Nei tantissimi ristoranti birmani che si sono venuti a formare nei diversi angoli della città e nella quasi maggioranza dei casi, una volta oltrepassata quella che è la stanza principale e andando nel retro di questi locali, appartato c’è sempre il ritratto di Aung San Suu Kyi. Ma secondo me è corretto sottolineare che se per tanto tempo Aung San Suu Kyi è stata l’unico pilastro, così almeno noi abbiamo percepito dall’esterno, in questo momento, pilastri che stanno formando e stanno tenendo in piedi il popolo e la prospettiva democratica, ce ne sono tanti altri oltre il suo. Tanti giovani che hanno organizzato le proteste sono diventati leader nelle loro città, dei veri e propri punti di riferimento per l’attivismo, la società, la politica e la democrazia. C’è una maggiore distribuzione di questa responsabilità di portare avanti il sogno democratico, in qualche modo però, senza dimenticare quello che è stato. E’ una fase nuova, è una fase molto trasformativa, e sono i giovani a portare avanti in prima linea questa resistenza, la disubbidienza civile. Ma andando in giro e parlando con le persone c’è sempre un riferimento, c’è sempre un attaccamento alla figura di Aung San Suu Kyi, non vale per tutti, ovviamente, però questa è la mia esperienza.   Fiorella Carollo
Sua Santità il XIV Dalai Lama: “Proseguirà l’istituzione del Dalai Lama e il suo riconoscimento spetterà al Gaden Phodrang Trust”
L’istituzione del Dalai Lama continuerà e “il processo di riconoscimento” di una nuova massima autorità spirituale del Buddismo tibetano della scuola Gelug “sarà di esclusiva competenza dei membri del Gaden Phodrang Trust, l’Ufficio di Sua Santità il Dalai Lama”, l’unico “ad avere l’autorità di riconoscere la futura reincarnazione”. Il XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, nella dichiarazione odierna, ha ribadito che “nessun altro ha la stessa autorità per interferire in questa questione”, escludendo qualsiasi ruolo di Pechino. Il governo cinese risponde affermando che il successore del Dalai deve essere “approvato dal governo centrale” cinese, come ha detto la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning, il quale ha dichiarato: “La reincarnazione del Dalai Lama, del Panchen Lama e di altre grandi figure del Buddismo devono essere scelte per estrazione a sorte da un’urna d’oro e poi approvate dal governo centrale”. Il Dalai Lama ha fornito le indicazioni sulla successione a pochi giorni dal suo 90esimo compleanno, che cade il 6 luglio, dal suo esilio in India, dove si è rifugiato dall’età di 23 anni, da quando l’Esercito Popolare di Liberazione piegò la rivolta armata in Tibet contro i comunisti di Mao Zedong nel 1959. La vicenda del successore è motivo di inquietudine per Pechino perché Tenzin Gyatso nel suo nuovo libro pubblicato a marzo 2025 (‘Voice for the Voiceless’) ha scritto che il suo successore nascerà fuori dalla Cina, nel “mondo libero”, quando in precedenza aveva detto che avrebbe potuto reincarnarsi fuori dal Tibet, forse in India. Riportiamo la Dichiarazione integrale pubblicata dal Gaden Phodrang Trust, l’Ufficio di Sua Santità il Dalai Lama: Il 24 settembre 2011, in occasione di una riunione dei capi delle tradizioni spirituali Tibetane, ho rilasciato una dichiarazione ai connazionali in Tibet e fuori dal Tibet, ai seguaci del Buddhismo Tibetano e a coloro che hanno un legame con il Tibet e i Tibetani, riguardo all’opportunità di continuare l’istituzione del Dalai Lama. Ho dichiarato: “Già nel 1969 ho detto chiaramente che le persone interessate dovrebbero decidere se le reincarnazioni del Dalai Lama debbano continuare in futuro”. Ho anche detto: “Quando avrò circa novant’anni, consulterò gli alti Lama delle tradizioni buddhiste Tibetane, il pubblico Tibetano e altre persone interessate che seguono il Buddhismo Tibetano, per rivalutare se l’istituzione del Dalai Lama debba continuare o meno”. Sebbene non abbia avuto discussioni pubbliche su questo tema, negli ultimi 14 anni leader delle tradizioni spirituali Tibetane, membri del Parlamento Tibetano in Esilio, partecipanti a un’Assemblea Generale Straordinaria, membri dell’Amministrazione Centrale Tibetana, ONG, buddhisti della regione Himalayana, della Mongolia, delle repubbliche buddhiste della Federazione Russa e buddhisti dell’Asia, compresa la Cina continentale, mi hanno scritto con ragioni, chiedendo vivamente che l’istituzione del Dalai Lama continui. In particolare, ho ricevuto messaggi attraverso vari canali dai Tibetani in Tibet che hanno lanciato lo stesso appello. In accordo con tutte queste richieste, affermo che l’istituzione del Dalai Lama continuerà. Il processo di riconoscimento di un futuro Dalai Lama è stato chiaramente stabilito nella dichiarazione del 24 settembre 2011, in cui si afferma che la responsabilità di tale riconoscimento spetta esclusivamente ai membri del Gaden Phodrang Trust, l’Ufficio di Sua Santità il Dalai Lama. Essi dovranno consultare i vari capi delle tradizioni buddhiste tibetane e gli affidabili Protettori del Dharma legati da giuramento che sono indissolubilmente collegati al lignaggio dei Dalai Lama. Dovrebbero quindi svolgere le procedure di ricerca e riconoscimento in conformità con la tradizione passata. Ribadisco che il Gaden Phodrang Trust ha la sola autorità di riconoscere la futura reincarnazione; nessun altro ha l’autorità di interferire in questa materia. Dalai Lama Dharamshala 21 Maggio 2025   Dichiarazione che afferma il proseguimento dell’istituzione del Dalai Lama https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2025/07/02/dalai-lama-esclude-la-cina-dal-riconoscimento-del-suo-successore_93682424-007c-4a91-bfb2-3de563c9d4f2.html   Lorenzo Poli
Riceviamo e pubblichiamo da ‘La città futura’ questo articolo di Giulio Chinappi Il 25 giugno 2025 entrerà negli annali del sistema giuridico vietnamita come una data spartiacque. In quella giornata, infatti, l’Assemblea Nazionale ha approvato, con un esito schiacciante di 429 voti favorevoli su 439 deputati partecipanti, la legge che abolisce la pena di morte per otto reati non violenti, tra i quali spiccano peculato e corruzione. Quella seduta parlamentare ha rappresentato l’esito di un lungo dibattito interno, caratterizzato dalla volontà di preservare di deterrenza e da un assoluto impegno verso la gradualità delle riforme, ma ha soprattutto segnato il via a una modernizzazione complessiva del diritto penale, attesa da oltre otto anni. Il percorso che ha condotto a questa svolta è stato costellato di analisi approfondite, pareri di esperti, confronti con le migliori prassi internazionali e riflessioni sulle mutate condizioni economiche e sociali del Paese. La pena di morte, in vigore in Vietnam per reati gravi secondo il Codice Penale del 1985, aveva già subito una riduzione negli anni passati, con un numero progressivo di reati depenalizzati: la scelta di escludere dal luglio di quest’anno tutte le fattispecie penali non violente ha tuttavia un valore emblematico, poiché riconosce la natura “politica” o economica di quei reati e l’opportunità di sostituire la pena massima con sanzioni severe – come la detenzione a vita – ma non estreme, allineando il Paese a tendenze globali. Nel dibattito parlamentare che ha preceduto il voto, sono emerse due linee argomentative complementari. Da un lato, chi ha sottolineato la necessità di mantenere un effetto deterrente forte, che punisca in maniera esemplare chi viola gravemente la fiducia pubblica o tradisce la responsabilità di chi ricopre incarichi pubblici. Dall’altro, molti deputati hanno sostenuto che la pena di morte per peculato e corruzione non fosse più sostenibile né dal punto di vista etico né dal punto di vista pratico. La corruzione e l’appropriazione indebita di fondi pubblici, infatti, si combattono con strumenti che favoriscano la restituzione del denaro e il coinvolgimento attivo dei colpevoli nella ricostruzione del danno causato allo Stato: la nuova normativa stabilisce così che chi collabora e restituisce almeno tre quarti del maltolto possa accedere a benefici di condono o a misure alternative all’ergastolo. La riforma, inserita in un disegno più ampio di allineamento alle convenzioni di diritto internazionale, arriva in un momento in cui il Vietnam intensifica la sua partecipazione in organismi multilaterali e rafforza accordi di cooperazione giudiziaria. Gli argomenti a difesa della pena di morte, quali il timore di un impatto negativo sulla sicurezza e sulla stabilità sociale, sono stati smentiti sia da statistiche interne – che non mostrano correlazioni dirette fra abolizione della pena capitale e aumento della criminalità – sia dalle esperienze di altre nazioni asiatiche, come Cambogia e Mongolia, che già in passato hanno effettuato riforme simili senza conseguenze per l’ordine pubblico. Durante le fasi di discussione, sono intervenuti anche rappresentanti del mondo accademico e della società civile, i quali hanno ricordato i pronunciamenti di organismi come l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa e l’ONU, che da anni sollecitano l’abolizione di ogni forma di pena di morte, definita irreversibile e contraria al principio del diritto alla vita. In particolare, si è richiamato il valore simbolico di depenalizzare sanzioni estreme per reati non violenti, distinguendo in maniera netta fra crimini efferati, che potranno continuare a prevedere la pena capitale, e condotte economiche o di abuso di potere, dove la priorità è ristabilire la legalità e la fiducia nello Stato. Con l’entrata in vigore il primo luglio, la nuova legge stabilisce inoltre un regime transitorio di particolare delicatezza. Tutti i detenuti attualmente condannati a morte per peculato, corruzione o per gli altri reati depenalizzati – come nel noto caso della miliardaria Trương Mỹ Lan – non saranno giustiziati, bensì vedranno le loro condanne convertite in ergastolo. Tale conversione verrà disposta direttamente dal Presidente della Corte Suprema Popolare, che eserciterà così il potere di clemenza in modo strutturale e non più occasionale. Gli effetti di questa decisione sul sistema carcerario e sulla politica penitenziaria appaiono già concreti. Da un lato, ci si attende un forte incremento dei detenuti condannati all’ergastolo, con la necessità di predisporre programmi di selezione, incentivazione al lavoro e sostegno psicologico per evitare sovraffollamenti critici. Dall’altro, la maggiore chiarezza normativa favorirà processi più rapidi, la possibilità di misure alternative come i domiciliari negli ultimi anni di pena e un approccio teso a ristabilire la dignità dei condannati che manifestino ravvedimento e cooperazione. Sul versante internazionale, l’abolizione della pena di morte per i reati non violenti rafforza l’immagine del Vietnam come Paese in transito verso piena conformità agli standard di diritti fondamentali. Tale immagine risulterà strategica nell’ambito dei negoziati per nuovi accordi di libero scambio e di cooperazione giudiziaria, nonché nella corsa per attrarre investimenti diretti esteri, che nei settori più avanzati – finanza, tecnologia, ricerca – richiedono un rischio paese mitigato da un sistema giuridico prevedibile e garantista. Il voto del 25 giugno, salutato dai media di Stato come «passaggio a una nuova era di giustizia» e accolto da analisti internazionali con giudizi positivi, segna dunque una pietra miliare: nella storia politica del Vietnam, nonostante il ruolo egemone del Partito Comunista, non sempre riforme di tale portata etica e legislativa vengano approvate con un consenso quasi unanime. È significativa la percentuale del 89,75% ottenuta dal testo, che testimonia un clima di convergenza e di responsabilità condivisa fra i principali schieramenti parlamentari. Resta da vedere come il cambiamento impatterà, sul lungo periodo, sulla percezione della giustizia fra i cittadini e sul grado di fiducia nelle istituzioni. I primi riscontri statistici e sociologici, che emergeranno nei prossimi mesi, saranno cruciali per calibrare eventuali ulteriori aggiustamenti, in particolare per quanto riguarda le misure di risocializzazione e reinserimento dei condannati. Ciononostante, l’abolizione della pena di morte per otto reati non violenti si pone già come un modello di riferimento per i Paesi vicini e per i legislatori di tutta l’area ASEAN. Nel contesto di una regione dove persiste un ampio spettro di approcci, dal mantenimento intatto della pena capitale alla sua limitazione solo ai reati più efferati, il Vietnam ha tracciato una linea di equilibrio tra fermezza e umanità, tra deterrenza e rieducazione. Concludendo, la data del 25 giugno 2025 rappresenta un momento di svolta che proietta il Vietnam verso un sistema penale più moderno e rispettoso della vita umana, in cui la punizione massima cede il passo a sanzioni severe ma non estreme per quei reati che, seppur gravi, non coinvolgono violenza diretta sulla persona. Sarà ora compito del legislatore continuare, nei prossimi anni, a monitorare l’applicazione di queste norme e a integrare la riforma con misure tese alla prevenzione della corruzione e alla promozione di una cultura della legalità, affinché il cammino intrapreso confermi i risultati attesi e consolidi la fiducia dei cittadini in un sistema di giustizia socialista realmente riformato. Redazione Italia
Hong Kong e Cina
Hong Kong, cinque anni di Legge sulla sicurezza nazionale: per Amnesty International, oltre 80 procedimenti su 100 ingiustificati In occasione del quinto anniversario dell’entrata in vigore della Legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, una ricerca di Amnesty International ha rivelato che oltre l’80 per cento delle persone sottoposte a procedimenti sono state ingiustificatamente criminalizzate. Dall’analisi dei 255 casi individuali di applicazione della legislazione vigente dal 30 giugno 2020, in quasi 90 casi su 100 è stata negata la libertà su cauzione e le persone hanno dovuto attendere in media 11 mesi in carcere prima di essere processate. “I timori che avevamo sollevato nel 2020 si sono rivelati fondati. Il Governo di Hong Kong deve cessare di punire la legittima espressione delle idee col pretesto della sicurezza nazionale”, ha dichiarato Sarah Brooks, direttrice di Amnesty International per la Cina. “Questa durissima legge e altri provvedimenti sulla sicurezza nazionale che ne sono derivati hanno eroso le garanzie di legge che una volta costituivano le basi per la protezione dei diritti umani a Hong Kong. Ne è derivato un colpo devastante alla possibilità della popolazione di esprimere le proprie idee senza paura di finire in carcere”, ha aggiunto Brooks. La ricerca di Amnesty International analizza modalità di arresto, decisioni su richieste di libertà su cauzione e procedimenti giudiziari ai sensi della Legge sulla sicurezza nazionale e di altre norme sicuritarie. Le principali preoccupazioni emerse sono: la criminalizzazione dell’esercizio legittimo del diritto umano alla libertà d’espressone, la bassa percentuale di concessione della libertà su cauzione e la detenzione per lunghi periodi di tempo della maggior parte delle persone accusate. Nei 78 procedimenti portati a termine ai sensi della Legge sulla sicurezza nazionale, almeno 66 (ossia l’84,6 per cento) hanno riguardato l’espressione legittima delle proprie idee, che non dovrebbe mai essere criminalizzata secondo gli standard internazionali, senza alcuna prova di condotte violente o di incitamento alla violenza. Se si considerano nel conteggio anche le accuse di “sedizione” ai sensi dell’Articolo 23 e della normativa ad esso precedente, si arriva ad almeno 108 casi su 127 (l’85 per cento) in cui espressioni legittime delle proprie idee sono state ingiustamente sottoposte a procedimenti giudiziari. I tribunali hanno negato la libertà su cauzione in 129 casi relativi alla sicurezza nazionale, corrispondenti all’89 per cento del totale. In questi 129 casi, la durata media della detenzione è stata di 328 giorni. In 52 casi (il 40,3 per cento del totale) il tempo trascorso in carcere prima del processo o del patteggiamento è stato pari o superiore a un anno. “In cinque anni, la Legge sulla sicurezza nazionale ha trasformato Hong Kong da una città nota per la tolleranza e il dibattito aperto in un luogo di repressione e di autocensura. Quella legge non solo è stata scritta in modo da violare clamorosamente gli standard internazionali sui diritti umani, ma è anche applicata per prendere di mira le voci dell’opposizione e rafforzare un clima di paura”, ha commentato Brooks. “La nostra ricerca ha dimostrato che un’ampia maggioranza delle persone incriminate per reati contro la sicurezza nazionale ha agito interamente nell’ambio dei propri diritti. Ma intanto le procure continuano ad aprire indagini ai sensi della Legge sulla sicurezza nazionale e ricorrono in appello contro le rare assoluzioni. I governi dovrebbero usare la propria influenza per chiedere alle autorità di Hong Kong e delle Cina di abrogare quella legge”, ha sottolineato Brooks. “Nell’immediato, il governo di Hong Kong dovrebbe immediatamente cessare di applicare la normativa sulla sicurezza nazionale. Come minimo, dovrebbe ripristinare l’istituto della libertà su cauzione in attesa del processo. Nessuno dovrebbe languire in carcere semplicemente per aver esercitato il diritto alla libertà di espressione”, ha concluso Brooks. Amnesty International ha presentato le conclusioni della sua ricerca al governo di Hong Kong, che le ha respinte definendole “una distorsione della realtà” e sostenendo che la Legge sulla sicurezza nazionale “ha ripristinato il godimento dei diritti e delle libertà”. Amnesty International