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Trattare con i Talebani per “contrastare” i flussi migratori. Il vero volto della solidarietà europea
A fine ottobre la Commissione Europea ha scritto ai 27 Stati membri per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, come l’Afghanistan. Una strategia brutale che getta una luce inquietante sugli aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul. L’Unione Europea sta rispondendo con prontezza alle richieste delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie di inviare aiuti all’Afghanistan alle prese con il freddo che avanza, catastrofi naturali, crisi economica e sospensione dei finanziamenti statunitensi. Ma è autentica solidarietà, generosa e disinteressata, o piuttosto un calcolato avvicinamento al governo talebano per convincerlo a riprendersi i “suoi” immigrati in Europa, in risposta alla sempre maggiore pressione delle forze di destra perché si liberino di questo “fardello”? Per provare a rispondere è utile fare un passo indietro e osservare come si sono mossi alcuni Stati europei in questi ultimi mesi. L’isolamento in cui il governo di fatto dell’Afghanistan è stato confinato con le sanzioni comminate nei confronti dei ministri talebani, che impediscono loro di viaggiare, dovrebbe rendergli impossibile incontrare funzionari di Paesi dell’Unione, tanto più in Europa. Invece la Germania già il 21 luglio non solo ha deportato a Kabul 81 migranti con il coordinamento dell’amministrazione talebana e l’aiuto del Qatar, ma ha persino invitato due rappresentanti diplomatici del governo talebano in Europa perché seguissero le pratiche dei respingimenti in futuro. E questi personaggi non sono stati trattati da funzionari con mansioni “tecniche”: sono stati riconosciuti come nuovi portavoce facenti funzioni consolari, dopo che i precedenti della vecchia Repubblica hanno dato le dimissioni proprio per protesta contro l’invito ai “nuovi” delegati. Si è così scavalcato di fatto ogni impegno al non riconoscimento del governo talebano che gli Stati europei e la stessa Germania continuano a ribadire come loro vincolo imperativo, prefigurando un cambio della politica europea nei confronti del governo de facto. La pensano così anche i Talebani, che infatti si sono affrettati a mettere in risalto il loro nuovo ruolo e a occupare tutti gli spazi resi disponibili in questo nuovo contesto, con grande rischio per gli emigrati e per le loro famiglie, perché ora tutta la documentazione relativa ai profughi che vivono in Germania e alle loro famiglie rimaste in Afghanistan è stata ceduta nelle loro mani. Questa decisione di Berlino ha creato un gravissimo precedente, che altri Stati europei si sono affrettati a seguire. Infatti già il 29 luglio funzionari svizzeri hanno chiesto al loro governo un dialogo diretto con i funzionari dell’Emirato islamico dell’Afghanistan per facilitare il processo di rimpatrio forzato dei richiedenti asilo afghani. Il 30 luglio anche la Svezia ha tentato di ricorrere alla burocrazia per rendere la vita difficile agli immigrati afghani e prepararne l’espulsione, dichiarando nulli i documenti di viaggio non regolari, unici documenti di cui sono in possesso i fuggitivi dall’Afghanistan. Intanto i Talebani hanno alzato il tiro: hanno informato la Svizzera che non avrebbero più accettato i rimpatri che non fossero stati firmati da esponenti del proprio governo, imponendo così di fatto i loro funzionari, tanto che il 23 agosto si sono recati a Ginevra per aiutare a identificare chi dovesse essere deportato in Afghanistan. Anche Vienna si è fatta avanti. A metà settembre una delegazione di cinque membri del Ministero degli Esteri talebano si è recata nella capitale austriaca per discutere le missioni diplomatiche e i servizi consolari ai cittadini afghani che vivono in Austria e in altri Paesi europei. Ma la tappa decisiva è stata l’istanza dei 19 Paesi europei che hanno sottoscritto il 19 ottobre di quest’anno una richiesta al Commissario Europeo per gli Affari interni e le migrazioni affinché venga facilitato il rimpatrio, volontario o forzato, dei cittadini extra-europei senza permesso di soggiorno o asilo, chiedendo quindi che le deportazioni siano trattate come una “responsabilità condivisa a livello dell’UE”. A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Si è poi aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’UE, è un Paese Schengen. Questa stretta migratoria, se è molto grave perché rischia di ripercuotersi pesantemente su tutti i profughi rifugiatisi in Europa, ha una ricaduta ancora più inquietante quando i migranti presi di mira sono cittadini afghani, costretti a tornare a vivere sotto un regime dittatoriale e repressivo dal quale erano fuggiti spesso per salvare la pelle. Ma è ancor più grave per il risvolto internazionale che prefigura, perché si ripercuote sulle relazioni tra Europa e Afghanistan, facendo diventare il governo afghano protagonista di una trattativa che lo riconosce di fatto se non di diritto, secondo una scelta che sembra essere sempre più considerata necessaria anche dai Paesi occidentali, in quanto giustificata da esigenze pragmatiche. Infatti il respingimento degli afghani nel Paese di origine necessita dell’accordo con il governo dei Talebani, fondamentalista e gravemente persecutorio nei confronti delle donne, che nessuno al mondo tranne la Russia ha voluto finora riconoscere. Ma questo governo è disponibile a dare il suo consenso al rientro dei suoi concittadini solo in cambio di un avanzamento del suo posizionamento nel mondo verso il riconoscimento legale. Posizione che rimane sottotraccia nella richiesta di deportazione avanzata degli Stati europei. A estendere la nuova “linea politica” ci ha pensato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, inviando il 22 ottobre una lettera a tutti i 27 Stati dell’Unione per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con i Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, tipo l’Afghanistan. Quindi trattare con il governo talebano, aprendo al dialogo e ai suoi ambasciatori, riconoscendogli di fatto un ruolo ufficiale sebbene ciò contraddica le dichiarazioni che la stessa UE continua a proclamare, è la nuova strategia europea per “ridurre” l’immigrazione. La politica di dialogo dell’UE con il governo talebano è stata del resto ribadita anche dal nuovo rappresentante UE per l’Afghanistan, Gilles Bertrand, che appena eletto si è recato a Kabul per confermare direttamente ai Talebani l’intenzione dell’UE di portare avanti il processo di dialogo stabilito nell’ambito degli accordi di Doha 3 – quelli cioè che escludono qualsiasi trattativa sui diritti delle donne per far piacere ai Talebani – offrendo e chiedendo collaborazione a vari livelli. È quanto del resto ha ribadito il Parlamento Europeo nel suo ultimo comunicato in cui, mentre prende una decisa posizione contro l’apartheid di genere e denuncia le responsabilità dei Talebani, anziché proporre provvedimenti per isolarli stringe i legami attraverso viaggi in Afghanistan e contatti segreti tra diplomatici, giustamente denunciati da alcune deputate europee. In questa ottica, assume una luce più inquietante e interessata l’erogazione di aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul sotto varie forme: non appare come un libero impegno dei Paesi europei democratici, solidali nei confronti del popolo afghano affamato, ma invece come un sostegno al governo talebano per avere in cambio la deportazione dei migranti afghani e agevolare il consenso dell’opinione pubblica europea sempre più xenofoba. L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia, 18 novembre 2025   Anna Polo
Il Kerala comunista è il primo Stato dell’India a sradicare la povertà
Dopo aver pubblicato un importante articolo sulla notizia, ripubblichiamo questo importante articolo di Contropiano.org sulla lotta del governo comunista dello Stato indiano del Kerala contro la povertà assoluta. Lo Stato indiano del Kerala è diventato il primo del Paese a sradicare la povertà estrema, con un anno di anticipo rispetto al previsto, grazie a un programma “meticolosamente pianificato” guidato dal Partito Comunista Indiano (Marxista). Il primo ministro Pinarayi Vijayan ha annunciato il risultato raggiunto il 1° novembre. “Questa iniziativa storica è stata avviata coinvolgendo persone provenienti da tutti i settori della società e incorporando le idee emerse dalla loro partecipazione e dai loro feedback”, ha affermato. Il Kerala, che conta oltre 36 milioni di abitanti, era un tempo uno degli Stati più poveri dell’India, ma ora ha il tasso di povertà più basso del Paese. Il Progetto per l’Eliminazione della povertà estrema (EPEP) è iniziato nel 2021 con una massiccia campagna porta a porta per sondare le esigenze dei residenti e ha identificato 64.006 famiglie che vivono in condizioni di “estrema deprivazione”. Le assemblee locali hanno quindi elaborato “micro piani” mirati che descrivono in dettaglio gli interventi necessari nelle loro aree, tenendo conto di fattori quali alloggi, assistenza sanitaria, occupazione, titoli di proprietà terriera e pensioni. Il quotidiano Hindu ha affermato in un editoriale che il Kerala è “noto per i suoi risultati esemplari in materia di sviluppo sociale e umano e per i sistemi sanitari paragonabili a quelli dei paesi sviluppati”. Ha descritto il successo dell’EPEP come “un’altra pietra miliare”. “Questo risultato è frutto di un programma quadriennale meticolosamente pianificato che ha coinvolto una serie di agenzie, guidate dal dipartimento dell’autogoverno locale, insieme a un’ampia partecipazione della comunità”, ha aggiunto.  Alla fine degli anni ’60, il Kerala ha espropriato terreni privati e li ha ridistribuiti ai lavoratori senza terra. Secondo un’analisi di Progressive International, ciò ha gettato “le basi per i notevoli indicatori sociali del Kerala: alfabetizzazione quasi universale, uno dei tassi di mortalità infantile più bassi del sud del mondo e la più alta aspettativa di vita in India”. “Il Kerala ha tracciato un nuovo capitolo nella storia—eliminando la povertà estrema per diventare il primo luogo in India e il secondo al mondo a raggiungere questo traguardo”, ha dichiarato John Brittas, membro del parlamento indiano per il Partito Comunista d’India (Marxista), su X. Redazione Italia
L’India sconosciuta, incontro a Castronno (Varese)
Lunedì 10 novembre 2025, ore 21 Materia Spazio Libero, Via Confalonieri 5, Castronno (Varese) Un viaggio a due voci dentro un’India che nessuna agenzia di viaggio oserà mai proporvi e che anche per molti indiani resta abbastanza off limits. E’ la regione del Jharkhand che ci verrà raccontata attraverso le esperienze della giovane dottoranda Morgana Capasso e della giornalista Daniela Bezzi, che di questo ‘cuore nero dell’India’ si è a lungo occupata. Che cosa renda questa regione così poco battuta e ancor meno ‘attrattiva’ in termini turistici è presto detto: il 41% delle risorse minerarie dell’intero subcontinente indiano (in particolare ferro e carbone) giace nel sottosuolo di queste foreste antichissime, che per l’appunto danno il nome alla regione. Jharkhand significa infatti ‘terra di foreste’, abitate da tempo immemorabile da popolazioni adivasi (ovvero indigene), custodi di tradizioni, devozioni, saperi ancestrali di mirabile saggezza e bellezza. Basti pensare alle decorazioni murarie che in due periodi particolari dell’anno si rinnovano sulle facciate delle umili case di paglia e fango dei villaggi: un campionario di motivi e simboli, in evidente comunione con la natura circostante, che trasfigurano il paesaggio in uno straordinario teatro d’arte. Ma anche per questi villaggi la modernità avanza a grandi passi e soprattutto impattante è l’avanzata dell’estrattivismo che sempre più rapidamente sta mangiando intere fette di territorio con immense miniere a cielo aperto. Una forma di colonialismo interno, come infatti lo definiscono i movimenti ambientalisti indiani da anni attivi sul terreno, che nel concreto si traduce in continui espropri di terre, migrazioni forzate e durissima repressione per chi osa opporsi. E un modello economico che considera la terra esclusivamente come una risorsa da depredare, fa notare Morgana Capasso, che precisamente su questa dimensione del problema ha impostato il suo dottorato di ricerca, dopo la tesi magistrale non a caso intitolata Jal, Jangal, Jamin (ovvero acqua, foreste e terra), considerati gli elementi principali per la numerosa popolazione adivasi.   “Un modello che deve molto al sistema fondiario britannico, fondato sull’idea di massimizzazione del profitto e di messa a valore dei terreni. Concetti totalmente estranei alle comunità locali, e alla loro ben diversa concezione del rapporto con la natura, che si basa su criteri di cura, reciprocità e continuo dialogo con l’ambiente” aggiunge Morgana.     Redazione Varese
India, il Kerala comunista sradica la povertà estrema
Riportiamo un articolo di DiogeneNotizie sull’eradicazione della povertà estrema nello Stato indiano del Kerala, guidato ormai da anni da un governo comunista. E’ il primo stato indiano a dichiarare sconfitta la povertà estrema. Mentre India e Pakistan si stringono la mano – o meglio, allentano il pugno – con un nuovo cessate il fuoco, e i titoli parlano di tensioni nucleari, equilibri strategici, scenari di guerra, in un angolo meridionale dell’India va in scena una storia completamente diversa. Qui non si mobilitano eserciti, ma dati. Non si schierano droni, ma medici. Non si costruiscono arsenali, ma scuole e ospedali. Benvenuti in Kerala, lo Stato indiano che non alza la voce, ma abbassa la povertà. Il luogo dove il potere si misura non con la forza militare o il dominio mediatico, ma con la capacità concreta di migliorare la vita delle persone. In un Paese guidato da un nazionalismo crescente, il Kerala rappresenta un’anomalia, forse una provocazione, di certo una possibilità. Un altro volto dell’India L’India non è un monolite. È un continente più che uno Stato. Con oltre 1,4 miliardi di abitanti, 22 lingue ufficiali, religioni diverse e forti squilibri tra nord e sud, ricchi e poveri, caste alte e basse. In questo mosaico complicato, il Kerala è sempre stato un tassello particolare. Un piccolo Stato costiero affacciato sull’Oceano Indiano, 34 milioni di abitanti, poco più della Polonia. Ma soprattutto: il più alto tasso di alfabetizzazione del Paese (96%), una delle aspettative di vita più alte dell’Asia, un tasso di mortalità infantile paragonabile a quello europeo, una sanità pubblica funzionante e un’attenzione sistemica al benessere sociale. Sembra poco, ma in un contesto dove anche respirare è spesso una questione di reddito, è rivoluzionario. Contro ogni previsione: comunisti al governo La particolarità più grande? Il Kerala è governato – democraticamente – dal Partito Comunista Indiano (Marxista), in alleanza con altri partiti della sinistra. Un’anomalia globale: comunisti eletti e rieletti in libere elezioni, che governano con pragmatismo e risultati. Non c’è culto della personalità, né nostalgia rivoluzionaria. C’è una visione socialista applicata alla realtà indiana, fatta di riforme agrarie, partecipazione locale, servizi pubblici e lotta alla povertà. Una sinistra amministrativa, attenta, comunitaria, che ha saputo farsi scegliere dai cittadini non per ideologia, ma per risultati. Sradicare la povertà estrema: il piano EPEP Nel maggio 2025, il governo del Kerala ha annunciato che entro l’anno lo Stato sarà libero dalla povertà estrema. Non uno slogan, ma un obiettivo fondato su dati, pianificazione e partecipazione civica. Nel 2021 è partito il Progetto per l’Eradicazione della Povertà Estrema (EPEP). In un Paese dove spesso i dati servono solo a coprire le inefficienze, qui si è fatto il contrario: dati per agire. Sono state identificate, con metodo partecipato, 64.006 famiglie in povertà estrema. L’81% vive in zone rurali. Molte senza casa, senza cure, senza lavoro. “Along the backwaters of Kerala.” by ravalli1 is licensed under CC BY-NC 2.0. Ogni famiglia ha avuto un piano personalizzato: cure mediche gratuite per chi affronta emergenze sanitarie; kit alimentari e aiuti immediati per chi non ha accesso al cibo; alloggi temporanei per chi vive in condizioni abitative precarie; supporto per l’avvio di attività economiche autonome, con il coinvolgimento di cooperative locali; istruzione garantita per i figli, in modo gratuito e pubblico. Il frutto di una storia politica coerente Questo non nasce da un’intuizione recente, ma da decenni di scelte strutturali. Il Kerala ha abolito le grandi proprietà terriere, ha redistribuito la terra, ha investito nella sanità e nella scuola pubblica, ha puntato sulle autonomie locali, ha costruito reti di donne organizzate (come il programma Kudumbashree, con 4,5 milioni di aderenti). Ha fatto tutto quello che si considera “impossibile” nel Sud del mondo – e l’ha fatto con continuità. Il risultato è un modello che non elimina la povertà da solo, ma la combatte davvero. Lo fa con i mezzi della politica, non con le elemosine o gli appalti alle multinazionali. Modi e il Kerala: due idee d’India Nel frattempo, a Delhi, Narendra Modi concentra potere, risorse e immaginario nazionale in un progetto completamente opposto: religione, controllo, grandezze simboliche. L’India ufficiale si racconta con statue colossali, eventi religiosi oceanici, propaganda patriottica. Lo Stato costruisce autostrade e templi, ma lascia indietro milioni di persone. E soprattutto, soffoca il dissenso, taglia i fondi alle università autonome, accentra le decisioni. Il Kerala è tutto ciò che Modi non è. Decentrato, laico, egualitario, popolare. È uno Stato che parla poco, ma che fa. Dove i cittadini votano la sinistra non perché sogna la rivoluzione, ma perché migliora la vita. Il potere del possibile In un mondo in cui il Sud globale viene spesso descritto come destinato all’arretratezza, il Kerala rompe il frame. Dimostra che il cambiamento non dipende dalla ricchezza, ma dalla volontà politica. Che non servono miracoli, ma buone decisioni, partecipazione popolare e continuità amministrativa. E mentre l’India celebra la pace militare con il Pakistan, forse dovrebbe guardare con più attenzione a quella pace quotidiana che il Kerala costruisce tra i suoi cittadini, riducendo le disuguaglianze, proteggendo i fragili, restituendo dignità a chi è stato dimenticato. Il Kerala non fa notizia come un missile o una parata militare. Ma sta vincendo la guerra più importante di tutte: quella contro la miseria. E lo fa senza bisogno di sparare un colpo. “Annual Ritual of Colourful Thanksgiving….. Scene on a Street in Rural Kerala …” by -Reji is licensed under CC BY-NC-SA 2.0. Redazione Italia
Terremoto in Afghanistan: servono aiuti
Un potente terremoto di magnitudo 6,3 ha colpito le regioni settentrionali dell’Afghanistan, in particolare le province di Samangan e Balkh, nelle prime ore di lunedì 12 Aqrab (3 novembre). Secondo le prime stime, più di 50 persone hanno perso la vita e oltre 550 sono rimaste ferite. Questo tragico evento ha causato un grave disagio psicologico ed emotivo tra le comunità colpite. Il numero di feriti è molto elevato, mentre i servizi medici rimangono insufficienti. Molte famiglie hanno perso le loro case di fango e argilla e attualmente affrontano il gelo senza alcun riparo. Testimoni riferiscono che i bambini rischiano di morire di freddo. Il nostro rappresentante sul campo è riuscito a raggiungere la zona con grande difficoltà, poiché le strade sono state danneggiate dal terremoto. Ci ha riferito che le persone, soprattutto donne e bambini, hanno urgente bisogno di indumenti caldi, rifugi temporanei, medicine, cibo e acqua potabile. Fonti locali indicano che il governo non è stato finora in grado di adottare misure efficaci, poiché le attrezzature necessarie per la pulizia delle strade non sono disponibili. Inoltre, l’elettricità importata è stata interrotta e persino l’ospedale provinciale di Samangan ha subito danni, con gravi ripercussioni sui servizi sanitari. In queste difficili circostanze, senza un’assistenza immediata per donne e bambini, si prevede che il numero delle vittime aumenterà drasticamente. Invitiamo sinceramente la comunità internazionale, le organizzazioni umanitarie e i nostri partner ad agire con urgenza e a fornire supporto per soddisfare i bisogni immediati della popolazione colpita. Il vostro sostegno e la vostra solidarietà sono la speranza per la sopravvivenza di queste persone colpite dal disastro. Team di Hawca Per aiutare le popolazioni colpite dal terremoto fai un bonifico bancario a Cisda Beneficiario: COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNEAFGHANE ONLUS* BANCA POPOLARE ETICA – Filiale di Milano IBAN: IT74Y0501801600000011136660 Causale: terremoto Afghanistan *Attenzione: in base alle nuove normative bancarie il nome del beneficiario del bonifico deve corrispondere esattamente all’intestatario del conto per cui va scritto come indicato sopra (donneafghane tutto attaccato e onlus invece di ETS)   CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
L’espulsione dei Rohingya da Myanmar è un grande errore
Nel gioco della geopolitica, forse la regola più importante è “prima l’interesse personale”. Nel Rakhine (regione occidentale del Myanmar precedentemente chiamata Arakan, N.d.r), ogni attore, compresa la giunta militare, il governo civile e la Lega Unita di Arakan (ULA) e l’Esercito Arakan (AA) hanno cercato il proprio interesse, creando una situazione complessa per i Rohingya. Ma “espellere i Rohingya dal Rakhine” è stato il più grande errore di calcolo strategico da parte della giunta e dell’allora governo civile della National League for Democracy (NLD) guidato da Suu Kyi. Prima della pulizia etnica Rohingya del 2017, il Rakhine aveva una popolazione in cui circa il 55% delle persone era buddista, il 43% musulmano, l’1,2% cristiano, lo 0,3% indù e lo 0,1% seguiva l’animismo. Chiaramente, c’erano solo due gruppi importanti, vale a dire i buddisti Rakhine e i musulmani Rohingya. Con 1,2 milioni di Rohingya espulsi dal Rakhine nel vicino Bangladesh, i buddisti Rakhine ora godono di una maggioranza di circa l’80%. Il desiderio del popolo Rakhine di una nazione Arakan/Rakhine indipendente o forse di uno stato Rakhine autonomo è cresciuto come risultato di questa circostanza. Poiché la Lega Unita di Arakan (ULA) o l’Esercito Arakan (AA) ottiene il pieno sostegno dei buddisti Rakhine, l’AA ora sogna un paese Arakan/Rakhine autonomo o addirittura indipendente. L’espulsione dei Rohingya, quindi, ha chiaramente giovato all’ULA/AA e ai buddisti Rakhine. L’ULA/AA ora detiene la posizione di autorità governativa de facto nello stato di Rakhine, che è dominato dai buddisti. La giunta militare controlla solo tre delle diciassette township di Rakhine: Sittwe, Kyaukphyu e Manaung, mentre AA ne controlla attualmente quattordici. Le municipalità di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung, un tempo conosciute come la casa dei Rohingya, sono ora tutte sotto il controllo dell’AA. Se i Rohingya fossero rimasti nella provincia di Rakhine, il rapporto tra Rakhine e Rohingya oggi sarebbe stato di circa 55 : 43. Di conseguenza, i buddisti Rakhine, essendo circa la metà della popolazione, non potevano rivendicare un paese indipendente in base alla loro identità etnica. Ciò giustifica chiaramente il motivo per cui i buddisti Rakhine sono stati coinvolti anche nell’espulsione dei Rohingya dallo stato Rakhine. I conflitti storici tra questi due gruppi sorsero durante la seconda guerra mondiale. In quel periodo, i musulmani Rohingya, che erano alleati con gli inglesi, combatterono contro i buddisti Rakhine locali alleati con i giapponesi. Dopo l’indipendenza nel 1948, il nuovo governo di unione del paese a maggioranza buddista sottopose i Rohingya a un’ampia discriminazione sistematica nel paese. L’esercito del Myanmar, purtroppo, si è costantemente opposto ai Rohingya negli scontri tra buddisti Rakhine e musulmani Rohingya. La Giunta ha sempre ignorato che i Rohingya non avessero mai chiesto la separazione o uno Stato Rakhine indipendente; tutto quello che chiedevano era la cittadinanza e il diritto di vivere nella loro patria come altri gruppi etnici. Quindi, non c’è mai stata alcuna minaccia alla sovranità o all’integrità territoriale del Myanmar da parte del popolo Rohingya. Sfortunatamente, nonostante le ampie prove della presenza etnica dei Rohingya in Myanmar per generazioni, la maggior parte degli attori interni li vede ancora come migranti coloniali e postcoloniali britannici dal vicino Bangladesh. > ‘A Comparative Vocabulary of Some of the Languages Spoken in the Burma Empire’ > di Francis Buchanan (1799), che è stato ripubblicato nel 2003, afferma che, > tra i gruppi nativi di Arakan, ci sono i “maomettani, che si sono da tempo > stabiliti in Arakan, e che si definiscono Rooinga, o nativi di Arakan”. Il > Classical Journal del 1811 identificò la “Rooinga” come una delle lingue > parlate nell ‘”Impero birmano”. Nel 1815, Johann Severin Vater elencò “Ruinga” > come gruppo etnico con una lingua distinta in un compendio di lingue > pubblicato in tedesco. Ignorando la storia, il Myanmar considera ancora oggi i Rohingya come immigrati illegali e non cittadini. Così, la persecuzione dei Rohingya è andata oltre ogni limite. Violente repressioni su larga scala mirate ai Rohingya — come l’ Operazione King Dragon nel 1978e l’ Operazione Clean and Beautiful Nation nel 1991 — costrinsero centinaia di migliaia di persone a fuggire verso il Bangladesh. Lo spietato assalto dell’esercito del Myanmar ai villaggi rohingya nell’agosto 2017 ha segnato l’inizio della fase più recente e probabilmente più grave della persecuzione dei rohingya. In seguito, il capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i diritti umani ha descritto le azioni dei militari come “un esempio da manuale di pulizia etnica”, “atti di barbarie orribile” e possibilmente “atti di genocidio”. La persecuzione ha costretto oltre un milione di Rohingya a fuggire nel vicino Bangladesh, mentre migliaia sono fuggiti in India, Tailandia, Malesia e altre parti dell’Asia sud-orientale. Nella realtà odierna, per salvare l’integrità territoriale di Rakhine e Myanmar, c’è solo una strada per il governo del Myanmar, ed è quella di rimpatriare i Rohingya a Rakhine, restituendo loro la cittadinanza e creando un equilibrio. Gli attori regionali e globali non possono permettersi di sedersi e guardare la caduta di Rakhine come un  qualsiasi attore non statale, perché questo incoraggerà molti gruppi ribelli e separatisti nelle regioni dell’Asia sud-orientale, minacciando la sicurezza e la stabilità. -------------------------------------------------------------------------------- Imran Hossain, docente al Dipartimento di Business Administration, Bangladesh Army International University of Science and Technology (BAIUST), (MBA), (BBA), Università di Rajshahi. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza New York
Festa del Cinema di Roma 2025.” Un semplice incidente”: Panahi, iraniano Palma d’oro, mette in discussione la vendetta
Jafar Panahi è l’eroico regista che nel 2010 fu condannato a sei anni di prigione dal governo di Teheran, nonostante il sostegno di registi e organizzazioni cinematografiche e dei diritti umani di tutto il mondo. Con il divieto, per 20 anni, sia di dirigere film o scrivere sceneggiature, sia di lasciare il Paese, tranne per cure mediche o per partecipare al pellegrinaggio alla Mecca. Gli è stato anche impedito di concedere interviste ai media, sia iraniani sia stranieri. I suoi film sono sempre stati di chiara denuncia, anche quando hanno avuto un ritmo apparentemente leggero. In “Un semplice incidente” Panahi racconta che una notte, mentre una famiglia viaggia in automobile un cane finisce sotto le sue ruote.  Il padre deve fermarsi per riparare il veicolo e un uomo che si trovava nelle vicinanze riconosce in lui un agente dei servizi segreti che in carcere lo aveva torturato. Successivamente l’uomo riesce a sequestrare il sospetto e, nel dubbio che si tratti di uno scambio di persona, va a cercare conferme della sua identità coinvolgendo altri. Tutti i protagonisti del film sono esseri umani che hanno subito la violenza da un potere interessato solo alla propria conservazione e riproduzione. Una violenza provata dallo stesso Pahani. Tutti sono molto arrabbiati: quella rabbia che il regista ha conosciuto per le torture subite in quanto si rifiutava di fare dell’Iran una foto da cartolina nei suoi film. I personaggi di “Un semplice incidente” discutono sulla sentenza da infliggere al loro aguzzino. In questi dialoghi si fa palese quale senso abbia la vendetta. Panahi fa entrare in gioco la questione etica: se sia giusto o sbagliato eliminare l’uomo, diventando come gli oppressori e mostra come la Settima arte, attraverso la capacità di educare, possa essere uno degli strumenti con i quali vadano combattuti i regimi autoritari, in un finale molto significativo che non possiamo raccontare. Un semplice incidente (2025) Un film di Jafar Panahi con Madjid Panahi, Ebrahim Azizi, Vahid Mobasseri, Mariam Afshari. Genere: Drammatico Durata: 101 minuti Produzione: Iran, Francia, Lussemburgo 2025. Uscita nelle sale italiane: giovedì 6 novembre 2025   Bruna Alasia
India, preoccupazione per gli attacchi contro giornalisti
Press Emblem Campaign (PEC), l’organismo globale per la sicurezza e i diritti dei media, esprime grave preoccupazione per l’aggressione di massa ai danni di alcuni giornalisti, impegnati nel loro lavoro, nell’Assam, nell’estremo oriente dell’India, mentre stavano coprendo una manifestazione di protesta nella località di Baksa il 15 ottobre. Un gruppo di agitatori, che chiedeva giustizia per Zubeen Garg, icona culturale dell’Assam, subito dopo la sua misteriosa morte a Singapore il 19 settembre, ha preso di mira i giornalisti e i videogiornalisti mentre i cinque imputati nel clamoroso caso venivano trasferiti dal carcere di Guwahati a quello di Baksa. Gli agitatori chiedevano giustizia immediata e si opponevano con violenza al trasferimento, lanciando pietre contro il convoglio di veicoli della polizia, che ha reagito con azioni di ritorsione. Numerosi agitatori e agenti di polizia, ma anche esponenti dei media hanno riportato ferite. I giornalisti colpiti sono: Dhruba Bora, Pradip Das e Paragmoni Das (ND24), Rana Deka, Banajit Kalita e Apura Sarma (NK TV), Brajen Taluder e Krishna Deka (News Live),  Abhijit Talukder (DY365), Biricnhi Kr Deka (News 18 Assam/NE), Nokul Talukder (Pratidin Time),  Jintumoni Das (Pratham Khabar), Sourav Dey (Prag News), Akhyendra Deka (Pratibimba Live) e Dilip Kr Boro (ETV Bharat). Inoltre, un veicolo di proprietà di un canale satellitare di notizie con sede a Guwahati (DY365) è stato incendiato da un gruppo di malviventi. > “Condanniamo le aggressioni fisiche ai danni dei giornalisti in servizio, che > stavano semplicemente svolgendo il proprio lavoro. Le autorità dell’Assam > devono prendersi cura di tutte le persone ferite e arrestare i colpevoli per > punirli secondo la legge”, ha affermato Blaise Lempen, presidente del PEC > (pressemblem.ch). Ha sottolineato inoltre la necessità di corsi di orientamento per i reporter sul campo e i videogiornalisti, al fine di proteggerli in situazioni di rischio che potrebbero verificarsi in qualsiasi momento nella regione dell’Asia meridionale. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dall’inglese di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Nava J. Thakuria
[Da Roma a Bangkok] Le popolazioni anarchiche dell'Asia
In Asia c'è un'enorme catena di montagne che attraversa l'Asia, dal nord-est dell'India sino al Vietnam, una ragione che si chiama Zomia, che rappresenta una zona di fuga dove si esercitano forme di vita collettiva, costruite per non essere governate. Partendo da questa prospettiva, analizzata anche attraverso il libro dell'antropologo e politologo James C. Scott "L'arte di non essere governati", pubblicato in italiano nel 2009, riflettiamo su anarchia, margine, linee di sviluppo storico e intersezionalità delle lotte.
Incontro nazionale CISDA. Viareggio, 17-19 ottobre 2025
Si è svolto dal 17 al 19 ottobre a Viareggio l’Incontro Nazionale del CISDA. Un momento di confronto che ogni anno vede riunite le attiviste del CISDA per analizzare le attività svolte nell’anno passato e per delineare strategie e attività che dovranno caratterizzare l’Associazione nel 2026. Il sostegno diretto alle donne afghane Positiva la chiusura del 2025 con il finanziamento di progetti realizzati dalle associazioni di donne afghane che lavorano sul territorio e con le quali il CISDA collabora fin dalla sua nascita: educational center, scuole clandestine, Giallo fiducia, corsi di taglio/cucito e alfabetizzazione, piccolo shelter, Vite preziose, Mobile Healt Unit. Inoltre grazie ai propri carissimi donatori, il Cisda ha sostenuto la popolazione afghana colpita in questi ultimi anni da una serie di calamità: servizi sanitari essenziali a donne e bambini che vivono in una baraccopoli auto-costruita da rifugiati interni non lontano da Kabul, emarginati e abbandonati dalle autorità di fatto; aiuti nei villaggi della provincia di Nangarhar, Dasht-e-Barchi; aiuti per l’alluvione nella provincia di Baghlan; visita nel Dar-e-Noor, dove le donne hanno un peso centrale per il sostentamento della famiglia e dall’alba al tramonto lavorano nei campi, si prendono cura del bestiame, preparano il foraggio e gestiscono le faccende domestiche, oltre a crescere i figli; aiuti ai deportati da Iran e Pakistan ad Herat – Islam Qala Border; aiuti alle vittime del terremoto nella parte est dell’Afghanistan. Le attività in Italia Intensa l’attività del CISDA in Italia per raccogliere contributi a sostegno delle donne afghane, per mantenere accesi i riflettori sulla situazione in Afghanistan e per contrastare ogni relazione con i Talebani e i tentativi, più o meno striscianti, del governo de facto. Uno dei pilastri delle attività del CISDA nel 2025 sono state la Campagna Stop Apartheid di genere Stop fondamentalismi e la raccolta firme per la petizione lanciata con la campagna. Questa attività ha consentito all’associazione di ampliare il proprio bacino di relazioni con partiti e personaggi politici, importante per la maggiore visibilità che si è riusciti a dare alla situazione delle donne in Afghanistan anche attraverso canali ai quali fino ad oggi il CISDA aveva un accesso limitato. Sfruttando anche la presentazione della campagna, da ottobre 2024 a oggi sono stati realizzati quasi 80 eventi distribuiti su tutto il territorio. Elevata anche l’attività del Gruppo Scuola, realizzando incontri con le scuole durante i quali è stata approfondita la condizione delle donne in Afghanistan con la proiezione, in alcune realtà, del film What we fight for con la partecipazione delle registe e di attiviste afghane e iraniane. Complessivamente sono stati coinvolti circa 400 studenti. Per quanto riguarda la Comunicazione, il continuo aggiornamento del sito Cisda e di Osservatorio Afghanistan, la diffusione di post su Facebook e Instagram e l’invio della Newsletter hanno consentito di mantenere attiva l’attenzione sull’Afghanistan nella comunità di amici e sostenitori del CISDA. È stato inoltre realizzato l’aggiornamento del Dossier I diritti negati delle donne afghane, che verrà diffuso a partire dal 1° novembre. Strategia e attività future L’impegno principale del CISDA rimane quello di raccogliere fondi per finanziare i progetti delle organizzazioni afghane che sosteniamo, che si affianca a quello di mantenere viva l’attenzione sulla condizione delle donne afghane e, più in generale, del popolo afghano. Per fare questo continuerà a essere attiva la Campagna Stop apartheid di genere Stop fondamentalismi, che rappresenterà la piattaforma sulla quale si innesteranno le diverse attività. Il CISDA continuerà a mantenere e sviluppare le relazioni con le associazioni della Coalizione euro-afghana per la democrazia e la laicità e nel contempo, conscio della necessità di ampliare il bacino cui presentare le proprie iniziative, cercherà di estendere il confronto anche ad altre realtà che si occupano di sostegno alla popolazione dell’Afghanistan. Si cercherà di consolidare la relazione instaurata con il Tribunale Permanente dei Popoli e si seguirà il processo di definizione del crimine di apartheid di genere presso l’ONU e la Corte Penale Internazionale. Pur nell’autonomia comunicativa che deve essere necessariamente il più adatta possibile all’utenza italiana, rimarrà prioritario il confronto con le associazioni afghane che rimangono il riferimento politico del CISDA. Tra gli strumenti che potranno essere utilizzati nei prossimi mesi si ricorda che a partire dalla fine di ottobre saranno disponibili il libro Attraversare la notte. Racconti di donne dall’Afghanistan dei Talebani di Cristiana Cella e il Dossier 2025 Diritti negati delle donne afghane. L’incontro con Belqis L’Incontro Nazionale del CISDA si è svolto nella sede della Casa delle donne di Viareggio che ci ha gentilmente ospitato e nel tardo pomeriggio di sabato le porte si sono aperte per il collegamento con Belqis Roshan, ex parlamentare afghana costretta a rifugiarsi in Germania dopo l’arrivo dei Talebani. La politica afghana ha raccontato a una platea attenta e in alcuni momenti commossa la condizione sempre più precaria nella quale sono costrette a vivere le donne in Afghanistan. Ha inoltre spiegato come adesso le attenzioni repressive dei Talebani si stiano rivolgendo anche agli uomini, con imposizioni sempre più stringenti sull’abbigliamento, la lunghezza della barba o la frequenza in moschea. Belqis ha poi portato l’attenzione su un altro aspetto che sta diventando sempre più inquietante e che riguarda l’aumento della repressione e della violenza all’interno delle famiglie: che sia per paura delle ritorsioni dei Talebani se il controllo sulle donne di casa non è abbastanza “efficiente”, che sia per l’impunità garantita negli atti di volenza nei confronti delle donne, la vita sta spesso diventando un inferno per le donne anche dentro casa. In questo quadro terrificante, Belqis ha voluto anche lanciare un messaggio di speranza ricordando la resilienza delle donne che, nonostante queste condizioni, cercano comunque di istruirsi, incontrarsi e mettere in atto piccole azioni di resistenza quotidiana. Ci ha infine esortato a continuare a sostenere le donne e la popolazione afghana mantenendo viva l’attenzione e mettendo in atto tutte le azioni possibili affinché non avvenga il riconoscimento del governo de facto dei Talebani.         CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane