Tag - crisi climatica

L’esercito statunitense è il più grande nemico della Terra
> Nella scena di apertura del nuovo documentario di Abby Martin e Mike Prysner, > Earth’s Greatest Enemy (Il più grande nemico della Terra), un veterano > senzatetto suona il pianoforte in una tendopoli a Brentwood, in California. > Vive  nell’accampamento popolarmente noto come “Veterans Row”, dove le tende > sono drappeggiate in bandiere statunitensi e le persone che vi passano accanto > ricordano quanto spesso l’esercito americano rovina le persone e poi le > rifiuta. L’uomo inizia a recitare le battute di una vecchia pubblicità di > reclutamento dell’esercito; poi il film fa vedere la pubblicità stessa, con lo > stesso veterano. Lui ne ricorda tutte le battute. Earth’s Greatest Enemy è un documentario sulla crisi climatica e l’imperialismo: su come l’esercito americano sia la più grande istituzione che ci spinge verso il collasso ecologico. A prima vista, la scena di apertura di un veterano che vive per strada potrebbe sembrare non correlata. Nel corso del film, Martin, con attenta precisione, illustra che i danni al clima da parte dei militari statunitensi non vengono inflitti solo all’ambiente che ci circonda, ma a tutti noi, come viene mostrato nelle scene che evidenziano l’acqua contaminata a Camp Lejeune. Il più grande nemico della Terra cattura l’ampiezza insondabile della sofferenza ecologica e umana causata dal militarismo. Evidenzia il costo della guerra per gli oceani, la vita animale e vegetale, l’acqua dolce e altro ancora. Se qualcuno vive nel ventre di questa bestia militare, dovrebbe assolutamente guardare questo documentario. Un segmento del film si concentra sull’impatto delle forze armate statunitensi sugli oceani della Terra, in particolare durante i giochi di guerra guidati dagli Stati Uniti, RIMPAC, la più grande esercitazione militare marittima del mondo. Fanno volare jet  Growler sull’oceano e praticano esercizi di affondamento, facendo esplodere navi dismesse in mare aperto. Sparano proiettili vivi e inquinano l’oceano per cinque o sei settimane consecutive. Martin documenta i militari statunitensi che fanno esplodere le montagne di Okinawa e prendono la terra per riempire le barriere coralline in modo che i militari possano usare il terreno così creato per ampliare la base militare. Una delle rivelazioni più sorprendenti del film è che l’esercito americano determina quanti mammiferi marini possono uccidere. Tutto ciò, ovviamente, influisce sulla pesca e sulla biodiversità che sostiene gli oceani e la vita umana e animale in tutto il mondo, più direttamente le persone del Pacifico, che si tratti delle Hawaii, di Okinawa o di altre isole in cui gli Stati Uniti hanno istituito avamposti militari permanenti. Earth’s Greatest Enemy esplora anche l’inquinamento delle acque causato dall’esercito americano. A metà del film, sentiamo Kim Ann Callan, che ha trascorso gli ultimi 15 anni a scoprire l’impatto dei rifiuti tossici dei militari a Camp Lejeune negli Stati Uniti. Per anni, i militari hanno avvelenato le acque sotterranee che, a loro volta, hanno avvelenato le famiglie dei militari. Di conseguenza, intere famiglie si ammalarono di cancro; l’esercito americano cercò di coprire questa situazione. Il film mostra Callan che cammina attraverso un cimitero con file di lapidi di bambini con la scritta “nato e morto” nella stessa data. Molte famiglie hanno perso più di un bambino per le malattie causate dall’inquinamento dei militari. > Callan riflette: “All’inizio avevo una visione completamente diversa > dell’esercito. E avevo molto rispetto per l’esercito… Ora non ho più rispetto > né per il governo né per l’esercito”. L’avvelenamento delle famiglie militari nella base non è accaduto solo a Camp Lejeune: il film espone quanto siano tossiche le basi militari statunitensi in tutto il mondo, con storie altrettanto devastanti in ciascuna delle oltre 800 basi militari a livello globale in oltre 80 paesi e in centinaia in tutti gli Stati Uniti Martin, ovviamente, discute dell’impatto che la guerra convenzionale ha sul pianeta, come quando gli Stati Uniti o uno dei suoi delegati, come Israele, bombardano incessantemente la terra per un lungo periodo di tempo. Il risultato è spesso un ecocidio totale, in cui i sopravvissuti non hanno quasi più nulla di cui crescere e vivere. Il film rivela l’impatto cumulativo dei proiettili sparati in Iraq. Stime prudenti suggeriscono che, per ogni persona uccisa nelle guerre statunitensi in Iraq e Afghanistan, sono stati usati più di 250.000 proiettili. Ogni proiettile inietta piombo, mercurio e uranio impoverito in aria, acqua e terra. Inoltre, studi hanno trovato titanio nei polmoni dei soldati statunitensi nelle basi e nei capelli di bambini in Iraq e Afghanistan. Gli Stati Uniti dichiarano guerra non solo all’aria, all’acqua e alla terra, ma anche ai corpi e alle generazioni di esseri umani. L’esercito americano sta distruggendo tutte le forme di vita. E per cosa, poi? Anche coloro che combattono le guerre alla fine vengono lasciati per strada quando tornano a casa. Alla fine del film, è abbondantemente chiaro: l’esercito americano è davvero il più grande nemico della Terra. Controlla e minaccia tutta la vita sulla Terra. Come organizzatori all’interno del movimento contro la guerra, ci è molto chiaro quanto la lotta contro di essa possa essere isolata dal resto del movimento ambientalista. Per lottare a favore del futuro del pianeta, noi del movimento contro la guerra dobbiamo unire le forze con il movimento per il clima. I nostri nemici sono gli stessi: gli speculatori di guerra e i politici che ci spingono verso il collasso climatico. Gli organizzatori in prima linea nella lotta contro questa crisi planetaria del militarismo — dalle Hawaii a Okinawa ad Atlanta — lo capiscono. La lotta per la terra è indissolubilmente legata alla lotta contro il militarismo. Non abbiamo altra scelta che tagliare le linee rosse politiche, filantropiche e organizzative che ci separano. Perché, come spiegano Martin e Prysner, attraverso una narrazione umana compassionevole e un giornalismo radicalmente onesto, la macchina da guerra alla fine colpirà tutti noi. Dobbiamo intervenire ora. -------------------------------------------------------------------------------- Aaron Kirshenbaum è attivista della campagna War is Not Green (La guerra non è verde) di CODEPINK e organizzatore regionale della costa orientale. Originario di Brooklyn, New York, dove risiede, Aaron ha conseguito un master in Sviluppo e pianificazione comunitaria presso la Clark University. Ha inoltre conseguito una laurea in Geografia umana-ambientale e urbana-economica presso la stessa università. Durante gli studi, Aaron ha lavorato all’organizzazione di programmi internazionali per la giustizia climatica e allo sviluppo di programmi educativi, oltre che all’organizzazione di iniziative a favore della Palestina, degli inquilini e dell’abolizionismo. Danaka Katovich è co-direttrice nazionale di CODEPINK. Si è laureata in Scienze Politiche alla DePaul University nel 2020. È una voce di spicco contro l’intervento militare degli Stati Uniti, sostenendo il disinvestimento dai produttori di armi e contestando il crescente budget del Pentagono. I suoi scritti sono pubblicati su Jacobin, Salon, Truthout, CommonDreams e altri. -------------------------------------------------------------------------------- TRADUZIONE DALL’INGLESE DI FILOMENA SANTORO. REVISIONE DI THOMAS SCHMID. Codepink
Dichiarazione sulla COP 30 di Fridays For Future International
Ecco le richieste che supportiamo per questa COP 30: Decisione finale:  Chiediamo ai paesi partecipanti alla COP30 di impegnarsi a raggiungere una decisione finale per un percorso che porti all’eliminazione totale dei combustibili fossili. La formula di “transizione” della COP28 e la semplice “eliminazione graduale del carbone” della COP26 non sono più accettabili. Chiediamo inoltre che vengano gettate le basi per un nuovo accordo che vada oltre l’Accordo di Parigi e risponda alle sfide del nuovo contesto climatico e politico globale, in modo da scongiurare il pericolo di superare in modo permanente il limite di aumento della temperatura di 1,5 °C.   Obiettivo finanziario: Chiediamo che il NCQG sia aumentato a 1,3 trilioni di dollari all’anno entro il 2035 a favore dei paesi MAPA, anche per affrontare le perdite e i danni. Chiediamo l’accesso diretto ai finanziamenti affinché questi raggiungano effettivamente le comunità locali e le popolazioni indigene. È essenziale che i finanziamenti non comportino debiti e siano prevalentemente pubblici, che le barriere burocratiche siano ridotte al minimo e che il processo decisionale partecipativo sia rafforzato.   Cancellazione del debito: Senza la cancellazione del debito, i paesi MAPA saranno costretti ad allocare i fondi per il clima e per le perdite e i danni a progetti che consentano loro di ripagare i debiti contratti con il Nord del mondo. Inoltre, i paesi MAPA stanno già cedendo la gestione delle loro aree naturali a paesi stranieri in cambio di una parziale cancellazione del debito, minando così la loro autonomia territoriale. Chiediamo la cancellazione immediata dei debiti del Sud del mondo e la fine delle politiche di austerità, affinché i finanziamenti per il clima possano essere utilizzati per una transizione ecologica autonoma e guidata dalle comunità, dai lavoratori e dalle popolazioni indigene.   Tassare i più ricchi: Siamo favorevoli all’introduzione di un’imposta minima del 2% sul patrimonio dei centimilionari (Zucman), il cui gettito sarebbe destinato al finanziamento della lotta contro il cambiamento climatico e alla protezione delle foreste. Riteniamo inoltre che i paesi con maggiori risorse dovrebbero contribuire in modo proporzionale alla protezione dell’ambiente globale.   NDC 3.0: I paesi devono rivedere i propri contributi determinati a livello nazionale (NDC) e includere misure e politiche concrete in linea con l’obiettivo di limitare il riscaldamento a 1,5 gradi. Non possiamo accettare impegni vuoti che, da un lato, promettono di abbandonare i combustibili fossili e, dall’altro, continuano la loro espansione o trascurano una transizione giusta. Inoltre, è essenziale che le indicazioni del primo Global Stocktake siano attuate.   Palestina: Siamo al fianco della Coalizione palestinese COP30 e sosteniamo le richieste di un embargo energetico globale e della fine delle forniture di combustibili fossili a Israele, attraverso le quali i paesi stanno diventando complici di genocidio. Chiediamo la fine dell’apartheid idrica e della complicità dell’agroindustria. Israele non può partecipare alla COP30 come qualsiasi altro paese; le sue azioni devono essere condannate in ogni forum.   Perdite e danni: I finanziamenti per le perdite e i danni devono coprire i danni materiali e immateriali che le comunità subiscono a causa della crisi climatica, con un fabbisogno minimo di 400 miliardi di dollari all’anno. Ad oggi, sono stati versati nel Fondo solo 402 milioni di dollari: meno dello 0,2% del fabbisogno. È necessario un Segretariato indipendente dalla Banca Mondiale, con una gestione trasparente e inclusiva e canali di feedback diretti con le comunità. Le politiche e i piani nazionali NDC devono integrare gli impegni in materia di perdite e danni. È necessario sostenere risposte rapide agli shock climatici, microprogetti e sovvenzioni su piccola scala, responsabilizzando i governi locali e le comunità. Si tratta di un obbligo legale e di giustizia, secondo i principi di equità e responsabilità comune ma differenziata. Dobbiamo andare oltre i contributi volontari, rendendo vincolanti gli impegni e ritenendo responsabili i maggiori inquinatori.   Adattamento:  Nonostante i danni irreversibili causati dalla crisi climatica e la conseguente instabilità politica, i fondi stanziati per l’adattamento sono 12 volte inferiori al fabbisogno stimato di 310-365 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Solo il 40% del finanziamento totale per il clima è destinato all’adattamento. Per invertire questa tendenza, è essenziale dare priorità alla governance inclusiva e alle soluzioni di resilienza climatica guidate a livello locale, integrando sistematicamente il genere, l’equità e la giustizia nei processi decisionali. L’adattamento non può ignorare un approccio incentrato sulla comunità, soprattutto in contesti in cui le conseguenze della crisi climatica amplificano le vulnerabilità preesistenti. L’Obiettivo Globale di Adattamento (GGA) deve essere trasformato in un quadro operativo con obiettivi quantificabili e misurabili. Gli NDC e i NAP devono essere attuati attraverso sovvenzioni, strumenti agevolati e non generatori di debito per evitare di aumentare le vulnerabilità e le disuguaglianze.   Transizione giusta:  La transizione giusta non deve lasciare indietro nessuno. È la nostra occasione per ottenere posti di lavoro dignitosi, sovranità energetica e alimentare, comunità più forti e un pianeta vivibile per tutti. Non si tratta solo di energia pulita o industria verde; dobbiamo ripensare ogni settore – agricoltura, trasporti, turismo – senza dimenticare chi lavora nell’economia informale, nelle microimprese e chi è coinvolto nell’assistenza. Per raggiungere questo obiettivo, abbiamo bisogno di un meccanismo globale che promuova percorsi inclusivi, equi e incentrati sulle persone, applicando il principio delle responsabilità comuni ma differenziate. Dobbiamo cambiare le regole del gioco economico: modelli che riducano la povertà, tasse ambientali che colpiscano chi inquina (e poi ridistribuiscano le risorse) e la rottura degli accordi neocoloniali. Dobbiamo garantire finanziamenti nuovi, aggiuntivi, adeguati, non generatori di debito e prevedibili per questo meccanismo. E soprattutto, ascoltare i lavoratori e le comunità. Senza una partecipazione reale, non può esserci transizione. Per raggiungere questo obiettivo, la transizione giusta deve essere presa in considerazione negli NDC. Fridays For Future
Pakistan, inondazioni, cambiamento climatico e tensioni internazionali
Negli ultimi 10-15 anni abbiamo assistito a un allarmante aumento del numero, della frequenza e della natura irregolare delle inondazioni in Pakistan. Quando queste inondazioni colpiscono, causano un’immensa mortalità, morbilità e sfollamenti su larga scala. Solo pochi anni fa, nel Sindh, migliaia di anni di civiltà sono stati letteralmente spazzati via: moschee, templi, scuole, ospedali, vecchi edifici e monumenti. Anche quest’anno, le inondazioni in Pakistan hanno segnato un nuovo record. Da fine giugno 2025 a fine settembre, il Pakistan è stato sommerso da inondazioni che hanno devastato le province di Khyber Pakhtunkhwa, Punjab, Sindh e Gilgit-Baltistan, con oltre 1.000 morti, 3 milioni gli sfollati, e quasi 7 milioni di persone colpite. Ad aprile 2025, inoltre, l’India ha sospeso unilateralmente la sua partecipazione al Trattato sulle Acque dell’Indo del 1960, aggiungendo incertezza a una situazione già critica. La decisione indiana di sospendere il Trattato delle acque dell’Indo rappresenta un precedente storico: nonostante decenni di tensioni e crisi diplomatiche, il trattato era sempre stato rispettato da entrambe le parti. L’agricoltura, settore vitale per l’economia pakistana, è in ginocchio. Migliaia di ettari di terreni coltivati e 6.500 capi di bestiame sono andati perduti. I danni economici totali sono stimati in decine di miliardi di dollari. Come ricorda la giornalista Sara Tanveer in un suo recente articolo, il paradosso più crudele è che il Pakistan, con una produzione di appena 2,45 tonnellate di CO2 per persona all’anno, contribuisce meno dell’1% alle emissioni globali ma subisce le conseguenze più devastanti del cambiamento climatico. Due paesi, Cina e USA, producono il 45% delle emissioni globali, e i primi 10 sono responsabili di oltre il 70%. Eppure l’85% dei finanziamenti verdi va a questi stessi 10 paesi. Abbiamo chiesto a Sara Tanveer, scrittrice e giornalista free lance italo pakistana, di parlarci della situazione attuale del Pakistan per quanto riguarda le conseguenze della crisi climatica, e dei rapporti del Paese con India e Afghanistan. Ascolta o scarica l’approfondimento.
Dichiarazione del Vertice dei Popoli alla COP30
Noi, il Vertice dei Popoli, riuniti a Belém do Pará, nell’Amazzonia brasiliana, dal 12 al 16 novembre 2025, dichiariamo ai popoli del mondo ciò che abbiamo accumulato in lotte, dibattiti, studi, scambi di esperienze, attività culturali e testimonianze, durante diversi mesi di preparazione e in questi giorni qui riuniti. Il nostro processo ha riunito più di 70.000 persone che compongono movimenti locali, nazionali e internazionali di popoli indigeni e tradizionali, contadini, popoli indigeni, quilombolas, pescatori, estrattivisti (popoli tradizionali che vivono dell’estrazione sostenibile delle risorse forestali), raccoglitori di molluschi, lavoratori urbani, sindacalisti, senzatetto, spaccatori di noci di babassu, popoli terreiro, donne, comunità LGBTQIAPN+, giovani, afro-discendenti, anziani e popoli della foresta, della campagna, delle periferie, dei mari, dei fiumi, dei laghi e delle mangrovie. Ci siamo assunti il compito di costruire un mondo giusto e democratico, con una buona qualità di vita per tutti. Siamo unità nella diversità. L’avanzata dell’estrema destra, del fascismo e delle guerre in tutto il mondo aggrava la crisi climatica e lo sfruttamento della natura e dei popoli. I Paesi del Nord del mondo, le multinazionali e le classi dominanti sono i principali responsabili di queste crisi. Salutiamo la resistenza e siamo solidali con tutti i popoli che sono crudelmente attaccati e minacciati dalle forze dell’impero statunitense, da Israele e dai loro alleati in Europa. Da oltre 80 anni, il popolo palestinese è vittima del genocidio perpetrato dallo Stato sionista di Israele, che ha bombardato la Striscia di Gaza, sfollato con la forza milioni di persone e ucciso decine di migliaia di innocenti, per lo più bambini, donne e anziani. Rifiutiamo totalmente il genocidio perpetrato contro la Palestina. Offriamo il nostro sostegno e la nostra solidarietà al popolo che resiste coraggiosamente e al movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Allo stesso tempo, nel Mar dei Caraibi, gli Stati Uniti stanno intensificando la loro presenza imperiale. Lo stanno facendo espandendo operazioni congiunte, accordi e basi militari, in collusione con l’estrema destra, con il pretesto di combattere il traffico di droga e il terrorismo, come nel caso dell’operazione “Southern Spear” recentemente annunciata. L’imperialismo continua a minacciare la sovranità dei popoli, criminalizzando i movimenti sociali e legittimando interventi che storicamente hanno servito interessi privati nella regione. Siamo solidali con la resistenza dei popoli sotto attacco imperialista o finalizzato all’accaparramento delle risorse in Venezuela, Cuba, Haiti, Ecuador, Panama, El Salvador, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, Nigeria, Sudan e con i progetti popolari di emancipazione dei popoli del Sahel, del Nepal e di tutto il mondo. Non c’è vita senza natura. Non c’è vita senza etica e senza lavoro di cura. Ecco perché il femminismo è centrale nel nostro progetto politico. Mettiamo al centro il lavoro di riproduzione della vita, che è ciò che ci differenzia radicalmente da coloro che vogliono preservare la logica e le dinamiche di un sistema economico che privilegia il profitto e l’accumulo privato di ricchezza. La nostra visione del mondo è guidata dall’internazionalismo popolare, con scambi di conoscenze e saggezza che creano legami di solidarietà, lotta e cooperazione tra i nostri popoli. Le vere soluzioni sono rafforzate da questo scambio di esperienze, sviluppato nei nostri territori e da molte mani. Ci impegniamo a stimolare, convocare e rafforzare queste costruzioni. Pertanto, accogliamo con favore l’annuncio della costruzione del Movimento Internazionale delle Persone Colpite dalle Dighe, dai Crimini Socio-Ambientali e dalla Crisi Climatica. Abbiamo iniziato il nostro Vertice dei Popoli navigando sui fiumi dell’Amazzonia, che con le loro acque nutrono l’intero corpo. Come il sangue, sostengono la vita e alimentano un mare di incontri e speranze. Riconosciamo anche la presenza di esseri incantati e altri esseri fondamentali nella visione del mondo dei popoli indigeni e tradizionali, la cui forza spirituale guida i percorsi, protegge i territori e ispira le lotte per la vita, la memoria e un mondo di buon vivere. Dopo più di due anni di costruzione collettiva e di svolgimento del Vertice dei Popoli, affermiamo: 1. Il modo di produzione capitalistico è la causa principale della crescente crisi climatica. I principali problemi ambientali del nostro tempo sono una conseguenza dei rapporti di produzione, circolazione e smaltimento delle merci, sotto la logica e il dominio del capitale finanziario e delle grandi corporazioni capitalistiche. 2. Le comunità periferiche sono le più colpite dagli eventi meteorologici estremi e dal razzismo ambientale. Da un lato, devono affrontare la mancanza di infrastrutture e di politiche di adattamento. Dall’altro, devono affrontare la mancanza di giustizia e di risarcimenti, soprattutto per le donne, i giovani, le persone indigenti e le persone di colore. 3. Le multinazionali, in collusione con i governi del Nord del mondo, sono al centro del potere nel sistema capitalista, razzista e patriarcale, essendo gli attori che più causano e traggono vantaggio dalle molteplici crisi che affrontiamo. Le industrie minerarie, energetiche, degli armamenti, dell’agroalimentare e delle grandi tecnologie sono le principali responsabili della catastrofe climatica che stiamo vivendo. 4. Ci opponiamo a qualsiasi falsa soluzione alla crisi climatica, anche nel campo della finanza climatica, che perpetui pratiche dannose, crei rischi imprevedibili e distolga l’attenzione da soluzioni trasformative basate sulla giustizia climatica e sulla giustizia dei popoli in tutti i biomi e gli ecosistemi. Avvertiamo che il Tropical Forest Forever Facility, essendo un programma finanziarizzato, non è una risposta adeguata. Tutti i progetti finanziari devono essere soggetti a criteri di trasparenza, accesso democratico, partecipazione e beneficio reale per le popolazioni colpite. 5. Il fallimento dell’attuale modello di multilateralismo è evidente. I crimini ambientali e gli eventi meteorologici estremi che causano morte e distruzione stanno diventando sempre più comuni. Ciò dimostra il fallimento di innumerevoli conferenze e incontri globali che promettevano di risolvere questi problemi, ma non hanno mai affrontato le loro cause strutturali. 6. La transizione energetica viene attuata secondo la logica capitalista. Nonostante l’espansione delle fonti rinnovabili, non si è registrata alcuna riduzione delle emissioni di gas serra. L’espansione delle fonti di produzione energetica è diventata anche un nuovo spazio per l’accumulo di capitale. 7. Infine, affermiamo che la privatizzazione, la mercificazione e la finanziarizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici sono direttamente contrarie agli interessi della popolazione. In questo contesto, le leggi, le istituzioni statali e la stragrande maggioranza dei governi sono stati conquistati, plasmati e subordinati alla ricerca del massimo profitto da parte del capitale finanziario e delle multinazionali. Sono necessarie politiche pubbliche per promuovere la ripresa degli Stati e contrastare la privatizzazione. Di fronte a queste sfide, proponiamo: 1. Contrastare le false soluzioni di mercato. L’aria, le foreste, l’acqua, la terra, i minerali e le fonti energetiche non possono rimanere proprietà privata o essere appropriate, perché sono beni comuni del popolo. 2. Chiediamo la partecipazione e la leadership dei popoli nella costruzione di soluzioni climatiche, riconoscendo il sapere ancestrale. La multidiversità delle culture e delle visioni del mondo porta con sé una saggezza e un sapere ancestrali che gli Stati devono riconoscere come riferimenti per le soluzioni alle molteplici crisi che affliggono l’umanità e Madre Natura. 3. Chiediamo la demarcazione e la protezione delle terre e dei territori dei popoli indigeni e delle altre popolazioni e comunità locali, poiché sono loro a garantire la sopravvivenza della foresta. Chiediamo ai governi di attuare la deforestazione zero, porre fine agli incendi criminali e adottare politiche statali per il ripristino ecologico e il recupero delle aree degradate e colpite dalla crisi climatica. 4. Chiediamo l’attuazione di una riforma agraria popolare e la promozione dell’agroecologia per garantire la sovranità alimentare e combattere la concentrazione della terra. I popoli producono cibo sano per nutrire la popolazione, al fine di eliminare la fame nel mondo, sulla base della cooperazione e dell’accesso a tecniche e tecnologie sotto il controllo popolare. Questo è un esempio di soluzione reale per affrontare la crisi climatica. Non c’è giustizia climatica senza la restituzione della terra ai popoli. 5. Chiediamo la lotta contro il razzismo ambientale e la costruzione di città e periferie vivibili attraverso l’attuazione di politiche e soluzioni ambientali. L’edilizia abitativa, i servizi igienico-sanitari, l’accesso e l’uso dell’acqua, il trattamento dei rifiuti solidi, il rimboschimento e l’accesso alla terra e ai programmi di regolarizzazione fondiaria devono tenere conto dell’integrazione con la natura. Vogliamo investimenti in politiche di trasporto pubblico e collettivo di qualità con tariffe zero. Queste sono alternative reali per affrontare la crisi climatica nei territori periferici di tutto il mondo, che devono essere attuate con finanziamenti adeguati per l’adattamento al clima. 6. Sosteniamo la consultazione diretta, la partecipazione e la gestione popolare delle politiche climatiche nelle città per contrastare le società immobiliari che hanno promosso la mercificazione della vita urbana. La città della transizione climatica ed energetica dovrebbe essere una città senza segregazione, che abbraccia la diversità. Infine, il finanziamento per il clima dovrebbe essere subordinato a protocolli che mirano alla permanenza abitativa e, in ultima analisi, a un equo risarcimento per le persone e le comunità con terra e alloggi garantiti, sia nelle campagne che nelle città. 7. Chiediamo la fine delle guerre e la smilitarizzazione. Che tutte le risorse finanziarie destinate alle guerre e all’industria bellica siano reindirizzate alla trasformazione di questo mondo. Che le spese militari siano destinate alla riparazione e al recupero delle regioni colpite da disastri climatici. Che siano prese tutte le misure necessarie per prevenire e fare pressione su Israele, ritenendolo responsabile del genocidio commesso contro il popolo palestinese. 8. Chiediamo un risarcimento equo e completo per le perdite e i danni inflitti ai popoli da progetti di investimento distruttivi, dighe, attività minerarie, estrazione di combustibili fossili e disastri climatici. Chiediamo inoltre che i colpevoli di crimini economici e socio-ambientali che colpiscono milioni di comunità e famiglie in tutto il mondo siano processati e puniti. 9. Il lavoro di riproduzione della vita deve essere reso visibile, valorizzato, compreso per quello che è – lavoro – e condiviso dalla società nel suo insieme e dallo Stato. Questo lavoro è essenziale per la continuità della vita umana e non umana sul pianeta. Garantisce inoltre l’autonomia delle donne, che non possono essere ritenute individualmente responsabili della cura, ma il cui contributo deve essere preso in considerazione: il nostro lavoro sostiene l’economia. Vogliamo un mondo con giustizia femminista, autonomia e partecipazione delle donne. 10. Chiediamo una transizione giusta, sovrana e popolare che garantisca i diritti di tutti i lavoratori, nonché il diritto a condizioni di lavoro dignitose, alla libertà di associazione, alla contrattazione collettiva e alla protezione sociale. Consideriamo l’energia un bene comune e sosteniamo il superamento della povertà e della dipendenza energetica. Né il modello energetico né la transizione stessa possono violare la sovranità di alcun Paese al mondo. 11. Chiediamo la fine dello sfruttamento dei combustibili fossili e invitiamo i governi a sviluppare meccanismi che garantiscano la non proliferazione dei combustibili fossili, puntando a una transizione energetica giusta, popolare e inclusiva con sovranità, protezione e riparazione dei territori, in particolare in Amazzonia e in altre regioni sensibili che sono essenziali per la vita sul pianeta. 12. Lottiamo per il finanziamento pubblico e la tassazione delle società e degli individui più ricchi. I costi del degrado ambientale e delle perdite imposte alle popolazioni devono essere pagati dai settori che traggono i maggiori benefici da questo modello. Ciò include i fondi finanziari, le banche e le società che operano nei settori dell’agroalimentare, dell’energia idroelettrica, dell’acquacoltura e della pesca industriale, dell’energia e dell’estrazione mineraria. Questi attori devono anche sostenere gli investimenti necessari per una transizione giusta incentrata sui bisogni delle persone. 13. Chiediamo che i finanziamenti internazionali per il clima non passino attraverso istituzioni che aggravano le disuguaglianze tra Nord e Sud, come il FMI e la Banca mondiale. Devono essere strutturati in modo equo, trasparente e democratico. Non sono i popoli e i Paesi del Sud del mondo che devono continuare a pagare i debiti alle potenze dominanti. Sono questi Paesi e le loro società che devono iniziare a ripagare il debito socio-ambientale accumulato attraverso secoli di pratiche imperialiste, colonialiste e razziste, attraverso l’appropriazione dei beni comuni e attraverso la violenza imposta a milioni di persone che sono state uccise e ridotte in schiavitù. 14. Denunciamo la continua criminalizzazione dei movimenti, la persecuzione, l’uccisione e la scomparsa dei nostri leader che lottano in difesa dei loro territori, così come dei prigionieri politici e dei prigionieri palestinesi che lottano per la liberazione nazionale. Chiediamo l’estensione della protezione dei difensori dei diritti umani e socio-ambientali nell’agenda climatica globale, nel quadro dell’Accordo di Escazú e di altre normative regionali. Quando un difensore protegge il territorio e la natura, protegge non solo un individuo, ma un intero popolo, a beneficio dell’intera comunità globale. 15. Chiediamo il rafforzamento degli strumenti internazionali che difendono i diritti dei popoli, i loro diritti consuetudinari e l’integrità degli ecosistemi. Abbiamo bisogno di uno strumento internazionale giuridicamente vincolante sui diritti umani e le società transnazionali, che si basi sulla realtà concreta delle lotte delle comunità colpite da violazioni, che rivendichi i diritti dei popoli e le regole per le società. Affermiamo inoltre che la Dichiarazione sui diritti dei contadini e delle altre persone che lavorano nelle zone rurali (UNDROP) dovrebbe essere uno dei pilastri della governance climatica. La piena attuazione dei diritti dei contadini riporta le persone nei loro territori, contribuendo direttamente alla loro sicurezza alimentare, alla cura del suolo e al raffreddamento del pianeta. Infine, crediamo che sia giunto il momento di unire le nostre forze e affrontare il nostro nemico comune. Se l’organizzazione è forte, la lotta è forte. Per questo motivo, il nostro principale compito politico è quello di organizzare i popoli di tutti i Paesi e di tutti i continenti. Radichiamo il nostro internazionalismo in ogni territorio e rendiamo ogni territorio una trincea nella lotta internazionale. È tempo di andare avanti in modo più organizzato, indipendente e unificato, per aumentare la nostra consapevolezza, la nostra forza e la nostra combattività. Questo è il modo per resistere e vincere. “Popoli del mondo: unitevi”   Redazione Italia
Cop30, Soka Gakkai Internazionale: “Mobilitare la solidarietà globale per affrontare le sfide poste dalla crisi climatica”
La Soka Gakkai Internazionale (SGI) ha pubblicato una dichiarazione dal titolo “Mobilitare la solidarietà globale per affrontare le sfide poste dalla crisi climatica”, in vista della 30° Conferenza delle Parti (COP30) della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) che avrà luogo dal 10 al 21 novembre 2025 a Belém, in Brasile. Tokyo, 5 novembre 2025. La Soka Gakkai Internazionale (SGI) ha pubblicato una dichiarazione dal titolo “Mobilitare la solidarietà globale per affrontare le sfide poste dalla crisi climatica”, in vista della 30° Conferenza delle Parti (COP30) della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) che avrà luogo dal 10 al 21 novembre 2025 a Belém, in Brasile. È un appello alla solidarietà globale per contrastare la mancanza di unità a livello mondiale nel rispondere alla crisi climatica, e pone l’accento sul ruolo chiave che possono svolgere i giovani. La dichiarazione della SGI afferma che, se il riscaldamento globale supererà il limite di 1,5 gradi stabilito dall’Accordo di Parigi, la vita, i mezzi di sostentamento e la dignità delle popolazioni mondiali subiranno danni ancor più gravi, ed esprime preoccupazione per l’indebolimento della solidarietà a livello internazionale. Si sta perdendo slancio vitale perché la cooperazione globale volta a ridurre significativamente le emissioni di gas serra sta incontrando seri ostacoli. Nella dichiarazione si legge: «In questa situazione di crescente incertezza e instabilità, un senso di rassegnazione sta iniziando a impadronirsi della popolazione mondiale, la sensazione che forse risolvere la crisi climatica è al di là delle nostre capacità. Se tale disperazione si diffonderà, non solo inibirà lo slancio a incrementare le azioni per il clima, ma minaccerà anche l’impegno relativo alle iniziative già esistenti». Per contrastare tutto questo, la dichiarazione avanza due proposte principali. La prima chiede la mobilitazione della società civile, per unire la volontà delle persone di tutto il mondo nel costruire una base di intervento radicata nella determinazione a non rinunciare mai ad affrontare le sfide poste da questa crisi. Sottolinea che le diverse confessioni religiose hanno un ruolo importante da svolgere, poiché più dell’ottanta per cento della popolazione mondiale aderisce a qualche forma di credo. Le comunità di fede sono in una posizione unica per ispirare la trasformazione comportamentale essenziale per affrontare la crisi climatica, e la SGI raccomanda di creare ulteriori opportunità per le comunità di fede di condividere buone pratiche e lavorare insieme per tracciare nuove strade per affrontare la crisi climatica e costruire una società globale sostenibile. La seconda proposta riguarda l’istituzione di un Consiglio permanente dei giovani all’interno del Segretariato dell’UNFCCC (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) per elaborare proposte e strategie di attuazione da presentare a ogni COP. Ciò si ricollega alla richiesta costante da parte dei giovani di essere maggiormente coinvolti nel processo decisionale relativo alla gestione governativa delle questioni climatiche. Hirotsugu Terasaki, direttore generale della SGI per le questioni globali e di pace, ha commentato: «Sono i giovani che hanno levato maggiormente le loro voci in tutto il globo, chiedendo giustizia climatica. Noi crediamo che l’istituzione di tale consiglio – guidato dia giovani – all’interno del Segretariato dell’UNFCCC sarebbe un potente segnale di trasformazione in questo momento così critico». La dichiarazione evidenzia il ruolo essenziale svolto dai giovani nel processo che ha portato all’emanazione a luglio di uno storico parere consultivo da parte della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), in cui si dichiara che gli stati hanno l’obbligo di proteggere l’ambiente dalle emissioni di gas serra e di cooperare reciprocamente nel prendere misure efficaci. È stato il forte sostegno degli Studenti delle isole del Pacifico che lottano per il cambiamento climatico (PISFCC), un gruppo guidato da giovani, che ha indotto lo stato di Vanuatu ad avviare una risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU che ha messo in moto il procedimento giudiziario della Corte Internazionale di Giustizia. Redazione Italia
Lo stato di salute della green economy in Italia registra luci e ombre
Nel 2024 le emissioni di gas serra diminuiscono troppo poco; aumentano i consumi finali di energia per edifici e trasporti e si importa troppa energia dall’estero; il consumo di suolo non si arresta; la mobilità sostenibile si scontra con 701 auto ogni 1.000 abitanti, il numero più alto d’Europa. Dall’altro lato, la produzione di energia elettrica da rinnovabili è arrivata al 49% di tutta la generazione nazionale di elettricità, l’Italia mantiene il suo primato europeo in economia circolare, l’agricoltura biologica cresce del 24% nel 2024 e le città italiane mostrano vivacità nella transizione ecologica. È questa la fotografia dell’Italia delle green economy contenuta nella Relazione sullo Stato della Green Economy 2025 presentata in occasione degli Stati Generali della Green Economy, il recente summit verde promosso dal Consiglio Nazionale della Green Economy e dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica. Per quanto riguarda le emissioni e il clima, dal 1990 al 2024 sono state ridotte complessivamente del 28%, ma nel solo 2024 il taglio delle emissioni di gas serra è stato di poco più di 7 milioni di tonnellate, neanche un meno 2% su base annua: un quarto della diminuzione registrata nel 2023. Per raggiungere l’obiettivo assegnato all’Italia nell’ambito del burden sharing europeo del 43% al 2030, occorre tagliarle di un altro 15% nei rimanenti 6 anni. In Italia il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre, con oltre 3.600 eventi climatici estremi, quattro volte quelli del 2018. Quanto all’energia, dal 2005 al 2024, in Italia i consumi di energia per unità di ricchezza prodotta si sono ridotti del 28% (meno della media europea del 35%). L’Italia rimane inoltre fra i Paesi europei con la più alta dipendenza energetica dall’estero. Per i consumi finali di energia, le stime per il 2024 non sono positive: i consumi registrano un aumento di circa l’1,5%, da ricondursi interamente ai settori degli edifici e dei trasporti, che si confermano i veri settori “hard to abate” per l’Italia. Nel 2024 la produzione di elettricità da rinnovabili ha superato i 130 miliardi di kWh, al 49% della generazione di elettricità, in traiettoria col target del PNIEC, del 70% al 2030. Purtroppo, i dati del primo semestre del 2025 mostrano un nuovo possibile rallentamento – del 17% per le nuove installazioni di eolico e fotovoltaico rispetto al primo semestre del 2024 – probabilmente per la fine del superbonus del 110% e per la frenata attivata da alcune Regioni. Più efficienza, maggiore risparmio energetico e un forte sviluppo delle rinnovabili sono essenziali non solo per la decarbonizzazione, ma anche per ridurre in Italia i costi dell’energia e aumentare la competitività. In merito all’economia circolare, invece, l’Italia primeggia in Europa. La transizione verso una maggiore circolarità dell’economia è particolarmente importante per l’Italia, che utilizza grandi quantità di materiali che importa per il 46,6%. L’Italia ha le migliori performance di circolarità fra i grandi Paesi europei per la produttività delle risorse, cresciuta dal 2020 al 2024 del 32%, da 3,6 a 4,7 €/kg; per il tasso di utilizzo circolare dei materiali, che nel 2023 ha raggiunto il 20,8; per-il tasso di riciclo dell’86% del totale dei rifiuti e per il 75,6% di riciclo degli imballaggi. Attenzione però al mercato delle MPS (materiale recuperato da scarti di lavorazione che può essere riutilizzato in una nuova produzione), in particolare quello della plastica riciclata, precipitato in una forte crisi che, se non risolta, potrebbe produrre ricadute negative anche sugli sbocchi delle raccolte differenziate. Più criticità, invece, si riscontrano sulla mobilità. In Italia, benché nel 2024 abbiamo raggiunto il record europeo di 701 auto ogni 1.000 abitanti (571 la media UE di 571), la produzione è scesa ai minimi storici, a 310 mila unità, con una quota, ormai marginale, del 2,1%, della produzione di auto in Europa. Dopo aver perso il treno dell’industria automobilistica tradizionale, si stanno accumulando ritardi anche nell’industria automobilistica del futuro, quella delle auto elettriche, calate del 13% nel 2024, con una quota di mercato in diminuzione dall’8,6% al 7,6%, un terzo della media UE che è al 22,7%. Benzina e diesel alimentano ancora l’82,5% del parco e il parco auto invecchia ogni anno di più, è arrivato a una media di 12,8 anni. Al contrario, il nostro Paese si muove bene in agricoltura, con il biologico che cresce. Tra il 1980 e il 2023 in Italia i danni causati all’agricoltura da eventi atmosferici estremi sono stati pari a 135 miliardi di euro, il più elevato in Europa. È essenziale che l’agricoltura italiana sia più coinvolta nella transizione climatica, con misure di adattamento e mitigazione. L’Italia è il Paese europeo con il più elevato numero di prodotti DOP, IGP, STG: nel 2023 sono stati 856. Cresce ormai ogni anno l’agricoltura biologica. Nel 2024 la somma delle aree certificate e in conversione è stata di 2.514.596 con un incremento del 2,4% rispetto all’anno precedente e dell’81,2% in confronto al 2014. La Sicilia continua a essere la regione con la maggiore estensione in valore assoluto (402.779), seguita da Puglia e Toscana. Queste tre regioni concentrano il 38% di tutta la superficie biologica nazionale. Purtroppo, non si ferma nel nostro Paese il consumo di suolo: tra il 2022 e il 2023 in Italia è stato di 64,4 km2 circa 17,6 ettari al giorno, il terzo valore più alto dal 2012. L’impermeabilizzazione del suolo aumenta il deflusso superficiale e riduce la capacità di assorbimento delle piogge, contribuendo ad aumentare gli impatti degli eventi atmosferici estremi. In termini di impermeabilizzazione, tra i capoluoghi delle Città Metropolitane, segnaliamo che Napoli con il 34,7% e Milano con il 31,8%, hanno i valori più elevati, mentre Messina (6%), Reggio Calabria (5,8%) e Palermo (5,7%) registrano le minori percentuali. Il Rapporto evidenzia come le città italiane siano molto esposte ai rischi della crisi climatica. Nei mesi estivi del 2024, il 90,6% della popolazione residente nelle città italiane è stata esposta a temperature medie superiori a 40°C. Grazie alla partecipazione ad iniziative europee e ai fondi del PNRR, molte città hanno realizzato interventi di mitigazione e di adattamento alla crisi climatica e iniziative dedicate alla transizione ecologica: impianti innovativi per la gestione dei rifiuti urbani, aumento di piste ciclabili e potenziamento del trasporto pubblico, rinnovo delle flotte di bus, tutela e valorizzazione del verde urbano, ecc. Nel 2026, terminati i fondi del PNRR, occorrerà attivare nuove forme di finanziamento per continuare a sostenere la grande vivacità e qualità delle iniziative per la transizione ecologica avviate nelle città. Qui la Relazione 2025: https://www.statigenerali.org/wp-content/uploads/2025/11/Relazione-sullo-stato-della-green-economy-in-Italia-2025.pdf Giovanni Caprio
Kenya, le donne di Kibera coltivano speranza nel cuore della crisi climatica
Colpite dalla crisi climatica e dall’emarginazione urbana, un gruppo di donne nubiane di Kibera sta rispondendo con soluzioni concrete. Recuperando colture autoctone con metodi innovativi che contrastano i cambiamenti climatici, trasformano l’agricoltura in un atto di resistenza culturale e ambientale. Un gruppo di donne nubiane di Kibera, il più grande insediamento informale del Kenya, sta guidando un progetto innovativo di agricoltura urbana sostenibile. Tra le principali custodi del sapere agricolo tradizionale, le donne della Mazingira Women Initiative hanno saputo mantenere viva la conoscenza delle verdure indigene, dei metodi di cottura e delle pratiche di semina tramandate da generazioni. Lo riporta l’Associated Press. Il Kenya è sempre più colpito dagli effetti del cambiamento climatico: piogge irregolari e siccità prolungate, temperature elevate e scarsità d’acqua rendono difficile la coltivazione nei suoli degradati degli insediamenti urbani. Queste condizioni spingono molte comunità, soprattutto nei quartieri poveri, a cercare nuovi modi di coltivare il cibo e di rendersi più resilienti di fronte a crisi ambientali. Uno degli aspetti più innovativi del progetto riguarda la riscoperta di verdure tradizionali, come bamia, mulkia, nyagwa. Queste verdure sono alla base di piatti nubiani come lo stufato mafrouk mulliavma bamia, composto principalmente da bamia e mulkia.Queste colture, più resistenti alla siccità, richiedono meno risorse e si adattano meglio alle nuove condizioni climatiche. L’iniziativa introduce anche tecniche moderne come l’idroponica, che consente di coltivare piante senza suolo utilizzando fino al 90% in meno di acqua, e il giardinaggio circolare, che riutilizza rifiuti organici e spazi ridotti. Attraverso queste pratiche, le donne di Kibera non solo affrontano la crisi climatica, ma rafforzano anche la resilienza alimentare della loro comunità. Stanno trasformando questo sapere in una forma di resistenza culturale: coltivare bamia, mulkia e nyagwa significa anche riaffermare le proprie radici nubiane in un contesto urbano che spesso le ha marginalizzate. Africa Rivista
Domani inizia la Cop30, da molti definita la “Cop della verità”
Dal 10 novembre fino al 21 novembre si tiene la Conferenza delle Parti a Belém, in Brasile. Non si può prevedere il futuro, e dunque quali saranno le conclusioni di questo summit internazionale, ma le linee di tendenza sono chiarissime da anni, e sono quelle dell’incompatibilità dello ‘sviluppo’ (si fa […] L'articolo Domani inizia la Cop30, da molti definita la “Cop della verità” su Contropiano.
Dieci anni perduti. Rapporto sul sabotaggio dell’Accordo di Parigi
A pochi giorni dall’inizio della COP30 di Belém, in Brasile, ReCommon lancia oggi il rapporto “Dieci anni perduti – Come i protagonisti dell’estrattivismo fossile italiano hanno minato l’Accordo di Parigi”. Lo studio si concentra sulle attività dei protagonisti del comparto fossile e finanziario pubblico e privato oggetto delle campagne dell’associazione: ENI, Snam, SACE e Intesa Sanpaolo, di fatto tutti impegnati a sabotare l’Accordo di Parigi. Alla COP21 tenutasi nel 2015 nella capitale francese, vale la pena ricordarlo, i Paesi firmatari dell’accordo, compresa l’Italia, avevano promesso di «tenere le temperature ben al di sotto di 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, e proseguire l’azione volta a limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali». Dalla COP21 di Parigi, in Italia si sono succeduti cinque governi ed ENI ha prodotto in totale circa 6,39 miliardi di barili equivalenti di petrolio e gas, dichiarando ogni anno la propria volontà di aumentare la produzione di combustibili fossili almeno fino al 2030. Così la più importante multinazionale italiana potrebbe sforare del 73% (2024) e dell’89% (2025) i parametri previsti dagli scenari di zero emissioni nette (NZE) dell’Agenzia Internazionale dell’Energia per raggiungere l’obiettivo di limitare l’aumento di temperatura entro 1,5 gradi. Nello stesso lasso di tempo, Snam e le altre grandi società di trasporto del gas hanno speso fino a 900mila euro in attività di lobbying a Bruxelles, riuscendo a ottenere quasi 50 incontri con i massimi funzionari politici della Commissione Europea per discutere i loro progetti di gasdotti da costruire o acquisire. La società di San Donato Milanese è divenuta in pochi anni il più grande operatore della rete di trasporto del gas in Europa per infrastrutture controllate, corrispondenti a oggi a una rete di oltre 40mila chilometri di gasdotti, terminal di rigassificazione per 28 miliardi di metri cubi di capacità annua gestita, depositi di stoccaggio per 16,9 miliardi di metri cubi. Piani di investimento incentrati su petrolio e gas che non sarebbero possibili senza la mediazione e il supporto delle istituzioni finanziarie, a partire da quelle pubbliche. Controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, SACE è l’agenzia di credito all’esportazione italiana. Il suo ruolo è quello di rilasciare garanzie – cioè un’assicurazione pubblica – sia alle aziende, i cui progetti all’estero possono essere assicurati, sia alle banche commerciali, per garantire i prestiti ai progetti esteri delle aziende. Negli ultimi 10 anni, SACE ha rilasciato garanzie per il settore dell’energia fossile pari a 22,18 miliardi di euro. È l’operatività di SACE a fare dell’Italia il primo finanziatore pubblico dell’industria fossile in Europa e il quarto a livello globale. C’è, infine, il più grande gruppo bancario privato italiano: Intesa Sanpaolo. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel solo 2024 i finanziamenti a carbone, petrolio e gas da parte della banca di Corso Inghilterra sono aumentati del 18% rispetto all’anno precedente, raggiungendo la cifra di 11 miliardi di dollari, mentre gli investimenti sono saliti del 16% (10 miliardi a inizio 2025). ENI si conferma come la corporation fossile più finanziata da Intesa Sanpaolo; forte è anche la crescita del sostegno a Snam (+60% negli investimenti e +96% di finanziamenti nel 2024). «Quando si parla di crisi climatica c’è chi ha maggiori, incomparabili, responsabilità rispetto al singolo individuo: i gruppi industriali e finanziari, che sono parte strutturale di un sistema improntato sull’energia fossile. L’Italia non fa eccezione», commenta Simone Ogno di ReCommon. «Per troppo tempo questa crisi è stata raccontata come un fenomeno astratto, nascondendo così il fatto che ne stiamo già pagando letteralmente le conseguenze sul piano materiale. Crisi climatica significa infatti impatti sociali, economici e ambientali. È arrivato il momento che i responsabili siano in prima fila a pagare i costi di questa crisi», conclude Ogno.     Re: Common
Fridays For Future torna in piazza contro il governo: dalla Palestina alla COP30 più fatti e meno parole vuote
Tra due settimane, a sei mesi dall’ultimo sciopero globale per il clima Fridays For Future torna per le strade di tutta Italia per riportare al centro un grande assente nel dibattito pubblico degli ultimi due anni: la crisi climatica. “Dalla siccità in Sicilia fino alle alluvioni nel nord il nostro Paese ha attraversato un’altra estate da film distopico di fantascienza. Eppure non è di fantascienza che si tratta: negli ultimi 10 anni le morti per ondate di calore sono raddoppiate in Italia” afferma Simona Di Viesti di Fridays For Future. Da quando il movimento è nato 7 anni fa molte cose sono cambiate, oggi viviamo in un mondo in cui la transizione ecologica è una realtà e si sta muovendo anche rapidamente. Ma allo stesso tempo la crisi climatica è peggiorata in modo tragico, sono stati raggiunti alcuni punti di non ritorno e sulle prime pagine dei giornali non si parla mai di queste cose. “La politica insieme a molti altri attori parla di clima in modo marginale; sembra di essere tornati a prima del 2019” commenta ancora Simona. Questa manifestazione vuole mandare un messaggio chiaro ai governi del mondo: affrontate la crisi climatica oppure fatevi da parte. Le richieste sono le stesse dal 2022, quelle contenute nell’Agenda climatica redatta dal movimento prima che la coalizione di Giorgia Meloni vincesse le elezioni, ma il problema oggi è che nessuno sembra ascoltarle. Serve dare uno scossone, cambiare gli equilibri. Da Trump al governo italiano, il bilancio fatto da Fridays For Future è negativo: “Questi governi non parlano di clima perché metterebbe in pericolo gli interessi fossili da cui sono sorretti. Nell’amministrazione Trump, secondo il Guardian, si contano oltre 40 funzionari legati strettamente alle industrie di gas e petrolio” racconta Guglielmo Rotunno di FFF. Ma anche in Italia la situazione è poco incoraggiante: “Tanto da portare la Corte di Cassazione a pronunciarsi. Re Common e Greenpeace hanno ottenuto una vittoria storica quest’estate nei confronti di ENI, MEF e Cdp: la Suprema Corte ha affermato che sono legittime le cause intentate per i danni derivanti dal cambiamento climatico” continua Guglielmo. Ma Fridays For Future non dimentica il tragico contesto internazionale in cui ci troviamo, dalla Palestina fino ai crescenti conflitti in Europa che hanno portato ad un piano di Riarmo europeo che dirotta i fondi destinati alla riconversione ecologica. Nello specifico il regime coloniale, genocida e di apartheid di Israele dipende fortemente dal sostegno energetico esterno per mantenere le sue operazioni. In risposta, i palestinesi hanno chiesto un embargo energetico totale per fermare il genocidio e contribuire alla liberazione della Palestina. Queste richieste di embargo energetico sono in linea con le richieste dei sindacati palestinesi di interrompere il sostegno all’apparato militare israeliano, un movimento che ha già acquisito un vasto slancio globale. Gli embarghi energetici oggi rappresentano uno strumento potente per far rispettare il diritto internazionale e costringere Israele a porre fine al suo regime coloniale e genocida. Per questo Fridays For Future Italia aderisce alle richieste della campagna internazionale: 1. Fermare tutte le esportazioni di energia verso Israele. 2. Porre fine a tutte le importazioni di energia israeliana. 3. Disinvestire dai progetti di estrazione e dalle joint venture con le società energetiche israeliane. Nella striscia di Gaza la situazione resta drammatica e profondamente ingiusta, la pace raggiunta non rispetta l’autodeterminazione del popolo palestinese e rischia di assomigliare ad un colonialismo non dichiarato. Ma non solo: l’impunità verso lo Stato di Israele mette in discussione il diritto internazionale e il ruolo stesso delle Nazioni Unite, attaccate senza pudore dagli alleati di Netanyahu. Tra 10 giorni inizierà in Brasile la COP30, ovvero la trentesima Conferenza delle parti sul clima, che coinvolge quasi tutti i governi del mondo. A organizzarla sono proprio le Nazioni Unite: “E’ necessario ribadire che la cooperazione tra popoli e Paesi è l’unica strada. Ma non solo: questa COP deve portarci dalle parole ai fatti, dopo 30 anni tutti gli ultimatum sono scaduti: i governi del mondo devono agire oppure levare le tende” dice Mattia Catania del movimento FFF. Il 14 novembre Fridays For Future ci invita a “diventare marea”. Per questa battaglia servono tutti e tutte: studentesse e studenti, lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, giornaliste e giornalisti, movimenti, associazioni, sindacati. Una grande piazza per gridare al mondo che la crisi climatica esiste ancora e deve essere affrontata.   Fridays For Future