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Re-Imagine Peace, conversazione con Noa
Il 31 maggio 2025 ho incontrato  a Firenze Achinoam Nini, conosciuta a livello internazionale come la cantante Noa. È un’attivista per la pace e dice: “Il nostro ruolo di artisti è quello di creare una realtà alternativa“. Quello che apprezzo è che il suo impegno per la pace non finisce con i suoi discorsi, commoventi e belli come l’ultimo a Firenze (potete vedere il video e leggere il testo qui sotto). Noa incarna l’impegno per la pace: si unisce alle proteste, con i suoi tamburi e la sua voce. Questo fine settimana ha partecipato alla “Marcia Bianca”, un evento di tre giorni in cui ebrei e arabi hanno marciato verso il confine di Gaza per fermare la guerra di annientamento. Quando ci siamo incontrate a Firenze, abbiamo parlato di pace come concetto di azione coraggiosa. La pace è spesso fraintesa come una visione ingenua e “sottile” della quiete. Al contrario, la pace richiede coraggio: il coraggio di immaginare una realtà alternativa e di trasformare il conflitto in un’opportunità di coevoluzione. La prima cosa che Noa ha condiviso è stato il prossimo evento che sarà ospitato e sostenuto dalla città di Firenze in settembre: Re-Imagine Peace. Mi sembra che gli ingredienti principali di questo evento siano un’intenzione orientata al futuro, il ruolo essenziale di ebrei, arabi e movimenti di base e naturalmente il ruolo delle arti come catalizzatore di trasformazione, dialogo e immaginazione. “Firenze ci sta dando la straordinaria opportunità di creare un festival chiamato Re-Imagine Peace. Riguarda principalmente il futuro. Citerò il nostro fantastico amico, Maoz Inon, che dice: “Posso perdonare il passato e posso perdonare il presente, ma non posso perdonare il futuro”, che significa “Non posso perdonarci per non aver cercato di creare il futuro”. Questa è la direzione che dobbiamo guardare. Questo momento è un pozzo di oscurità e dolore. La grande domanda è: ‘Dove stiamo andando??  Stiamo condannando noi stessi e i nostri figli alla guerra eterna, allo spargimento di sangue, all’odio, alla paura e al deterioramento? O stiamo dando a noi stessi e ai nostri figli la possibilità di vivere in modo diverso? Ecco di cosa tratta questo festival. Ci saranno artisti e musicisti di tutti i generi, dalla musica classica ai cori, dagli artisti folk all’hip hop, al rap e alla musica elettronica. Ci saranno relatori stimolanti come David Grossman, che ha accettato di onorarci con la sua presenza. Ci saranno molte organizzazioni che si riuniranno: Combatants for Peace, Women Waging Peace, Women of the Sun, Parents Circle, Standing Together, per citarne alcune. Questi sono israeliani e palestinesi che hanno lavorato insieme, il che, oggi, è davvero un atto di coraggio. L’ordine sociale ci richiede di schierarsi “. Sembra che Noa e io condividiamo l’impegno di amplificare le voci dei movimenti di base composti da ebrei e arabi in Israele e Palestina. Quindi abbiamo approfondito l’accusa di “normalizzazione”. Durante un’intervista alla CNN, la giornalista Christiane Amanpour ha ricordato a Rula Daood, co-direttrice di “Standing Together le critiche di alcuni palestinesi. “Ti accusano di aver in qualche modo normalizzato l’occupazione. Il movimento BDS ha detto che questa è la normalizzazione…”. Rula ha risposto: “. Quando sei seduto nel comfort della tua casa negli Stati Uniti o in Europa, è molto più facile guardarci e non capire le realtà in cui viviamo… A volte può essere dovuto all’ignoranza… Sono una cittadina palestinese di Israele e la vita non è facile. Siamo cittadini di seconda classe… Quindi venire qui e boicottare gli unici attivisti – sia palestinesi che ebrei – che osano opporsi a questo governo, parlare una lingua diversa, dire che questa occupazione deve finire, che questa guerra deve finire, che ci deve essere un accordo sul tavolo in modo che gli ostaggi possano tornare a casa significa semplicemente andare contro la volontà del popolo. Se sei veramente rivoluzionario, capisci che ci sono persone che soffrono e ci sono governi “. Noa è d’accordo con Rula Daood e ha commentato l’accusa di “normalizzazione”: “Ho un grosso problema con il movimento BDS. A mio parere, ha ferito la causa palestinese per anni, danneggiando gli israeliani che la sostengono, come me e altri artisti. Opporsi alla comunicazione tra israeliani e palestinesi e attaccare gli attivisti, come fanno loro, sta normalizzando l’odio e lo spargimento di sangue. Come se non bastasse che persone come noi paghino un prezzo perché vengono attaccati dalla destra israeliana, lo pagano anche per gli attacchi della sinistra palestinese.” Noa ha parlato del movimento“Standing Together” e del suo lavoro: “Penso che Standing Together sia una delle organizzazioni più meravigliose che lavorano sul campo oggi. Sono splendidi. Non è un segreto che alcuni di loro siano stati recentemente arrestati per essersi recati al confine di Gaza per opporsi alla guerra. Si trovavano nella Città Vecchia di Gerusalemme per proteggere i cittadini arabi dai coloni pazzi che attaccavano con violenza gli abitanti. È vergognoso per chiunque sia ebreo vedere una persona che indossa una kippah comportarsi in modo così atroce.” In occasione del Giorno della Memoria dell’Olocausto, Noa ha pubblicato un video su Instagram, dicendo: “Mai più significa mai più per nessuno”. Più di una volta, quando parla Noa usa questa formula: “Come ebrea, come israeliana, come donna, come madre, come essere umano, dico: non in mio nome”. Le ho chiesto di riflettere sull’identità, su come nutrire il nostro bisogno di appartenere a una comunità e come questo può diventare una trappola. “Il mio direttore musicale di lunga data ha fatto questa bellissima osservazione sull’identità: ci sono due vettori nell’identità. Ci sono persone che concentrano la propria identità in un unico granello. Quindi, sono ebrei, ma sono ebrei di origine sefardita. Di origine marocchina. Ebrei sefarditi marocchini. E sono uomini. Vivono in questa città. Indossano questo cappello. A loro piace questa squadra di calcio. I loro occhi sono marroni. E moriranno per questo: sacrificheranno la loro vita per assicurarsi che il loro senso di identità rimanga intatto. Poi c’è il vettore opposto. Sono una donna israeliana, ma anche una cittadina di Israele, del Medio Oriente. Sono una donna, ma anche una parte della famiglia umana. Sono collegata ad alberi, piante e uccelli. È la direzione opposta. Apro il mio senso di identità e dispiego le ali. Lo faccio per il bene della vita. Quando apri le ali, sei in grado di volare. Quando le chiudi, stai proteggendo te stesso. Quello è un luogo di paura, al contrario di un luogo di fiducia. Questa è la nostra sfida: come trovare l’equilibrio tra l’importanza dell’identità e l’importanza dell’unità e della connessione.” Infine, siamo tornati al tema dell’immaginazione politica. Ispirata dalla scrittrice e attivista Elise Boulding, ho invitato Noa a descrivere un futuro radicato nelle culture della pace. “Ho passato molti anni della mia vita a pensarci. La soluzione è costituita da due Stati. Israele vivrebbe accanto allo Stato di Palestina. Non vedo un solo Stato, non ancora. Magari più avanti. In primo luogo, abbiamo bisogno della nostra identità, della nostra indipendenza. Entrambi i Paesi sarebbero governati da leader che servono come funzionari pubblici. Mi piacerebbe vedere donne in ruoli di leadership. Immagino democrazie sociali. Credo nelle pari opportunità per tutti. La religione avrebbe il suo posto, ma non in primo piano. La religione è una cosa bella, spirituale, privata. Sarebbe meraviglioso se tutti parlassero ebraico, arabo e inglese. Immagino frontiere libere e aperte per poter viaggiare. Per me, è un sogno viaggiare in auto in tutto il Medio Oriente, andare nello Yemen, da dove proviene la mia famiglia e dove non sono mai stata. E per di più, dobbiamo trovare un modo per lavorare insieme per Madre Terra. Penso che sia possibile? Certamente. Sarebbe bellissimo.” Intervento al concerto di Firenze, 29 maggio 2025 Prima di cantare, devo parlare. Prima di innalzare la mia voce per chiamare gli angeli, per invocare lo Spirito Santo affinché apra i cuori e le menti della famiglia umana, prima di chiamare le dee, le matriarche, le profetesse, le antiche guerriere, le madri primordiali di tutte le cose e implorarle di instillare compassione e gentilezza nei cuori di tutti i loro figli, prima di spiegare le mie ali di luce e trasformarmi in un uccello, volando in alto sopra la terra, in alto sopra la follia degli uomini, in alto sopra il dolore e la sofferenza, la crudeltà, l’avidità, la paura paralizzante, la follia accecante, l’orribile violenza, Prima di aprire le mie braccia e invitarvi a unirvi a me in questo viaggio, devo parlare in termini chiari. Come israeliana, come donna, come ebrea, madre, essere umano, chiedo la fine immediata dell’orribile guerra condotta a Gaza, che è stata giustificata inizialmente come rappresaglia per il mostruoso attacco contro i civili Israeliani del sette ottobre, dove Hamas ha massacrato, violentato, mutilato e rapito uomini, donne e bambini, ma che da allora si è mostruosamente trasformata in una guerra di attacchi messianici, folli, illegali e immorali contro civili innocenti, tra cui migliaia di bambini, che vengono affamati e uccisi in modo indiscriminato. Questo va al di là delle parole, al di là dell’immaginazione; sono devastata, disgustata e furiosa, desidero innalzare la mia voce in modo chiaro e inequivocabile: non in mio nome si sta facendo questo, né in nome di milioni di Israeliani che sono stati illusi, plagiati, ingannati, traditi e rapiti, sì, rapiti!… da un gruppo demoniaco, folle e corrotto di individui che condurranno non solo Gaza, ma anche Israele, alla morte, se non verranno fermati. È importante che voi sappiate che noi in Israele stiamo lottando valorosamente contro questi criminali, così come gli abitanti di Gaza, anche nella tragedia indicibile che stanno soffrendo, innalzano le loro voci coraggiose contro Hamas, spesso a costo della morte, e abbiamo tutti bisogno del vostro aiuto. Vi chiediamo di stare con il popolo israeliano, NON con il governo israeliano, proprio come dovreste stare con il popolo palestinese, NON con Hamas. Abbiamo bisogno di voi, abbiamo bisogno della comunità internazionale, ma NON con altro odio, altri guerrafondai e veleni, NON con altra propaganda, menzogne, antisemitismo e islamofobia, NON con altre armi, NO, mai più bombe! Abbiamo bisogno di un’azione diplomatica chiara e decisa, abbiamo bisogno che i nostri amici denuncino la folle leadership di ENTRAMBE le parti e sostengano una leadership moderata, insistendo sulla fine IMMEDIATA della guerra, sull’IMMEDIATO ritorno di tutti gli ostaggi, sull’IMMEDIATO avvio di un processo diplomatico che garantisca la sicurezza e la prosperità di entrambi sia degli israeliani che dei palestinesi. Riconoscete la Palestina insieme a Israele, non la Palestina al posto di Israele. Non cercate di risolvere una tragedia mentre ne create un’altra. Questa è la ricetta per un eterno spargimento di sangue e nessuno sarà risparmiato, né in Medio Oriente, né altrove. Sostenete la soluzione dei due Stati, abbiamo tutti bisogno di un luogo sicuro in cui prosperare, con la nostra lingua, cultura e identità… nessuno vuole imporsi sull’altro, occupare, governare e abusare dell’altro, ma piuttosto, da una posizione di equilibrio, da una posizione di fiducia, cerchiamo di avvicinarci e costruire ponti e legami, per il benessere di tutti. Ci vorrà tempo, siamo due popoli profondamente feriti e traumatizzati, ma questa è la strada che dobbiamo percorrere. Non possiamo correggere il passato, ma possiamo sicuramente concentrarci sul futuro. Tra pochi mesi, miei cari amici fiorentini, avrete l’opportunità di far sentire la vostra voce per la pace insieme a noi, qui nella vostra città, in un bellissimo e unico festival di ventiquattro ore che stiamo organizzando insieme alla cara Sindaca Sara Funaro, al Comune e a tutti i nostri partner, chiamato “Re-Imagine Peace”… il 13 e 14  settembre, proprio mentre l’estate volge al termine. Vi porteremo relatori, organizzazioni, artisti e musicisti di ogni genere, palestinesi e israeliani che lavorano insieme, reinventando con coraggio il nostro presente e il nostro futuro, diffondendo luce e speranza, correndo dove la strada è interrotta, cantando dove non si pronunciano parole. Dalla città natale del Rinascimento, speriamo di incoraggiare un nuovo rinascimento, fatto di compassione, coesistenza e pace.  L’ingresso sarà gratuito. Unitevi a noi, portate i vostri amici e i vostri figli, venite a imparare, a sostenere, ad ascoltare, condividere, cantare e ballare la danza della speranza. Abbiamo bisogno di voi.  Grazie! Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro Revisione di Anna Polo Ilaria Olimpico
La resistenza israeliana: quanto conta quella marcia verso Gaza
Il gesto di solidarietà simbolico di ebrei e arabi mostra che la guerra non ha sconfitto il desiderio di pace. I contrari al conflitto sono i due terzi. «Non siamo impotenti. Di fronte alla tragedia di questa guerra, alziamo insieme la voce, per dire basta». Cappellino per difendersi dal sole, t-shirt e pantaloni, qualche migliaio di cittadini israeliani, ebrei e arabi – almeno duemila per le forze di sicurezza, ben di più a giudicare dalle immagini – ha marciato da Tel Aviv fino al confine della Striscia, un’ottantina di chilometri a sud portando sulle spalle sacchi di generi alimentari. Una dimostrazione simbolica: sapevano che le autorità israeliane non avrebbero consentito agli aiuti di oltrepassare il valico di accesso. Eppure questo non ha impedito a Standing together e a una miriade di altri gruppi di mettersi in cammino. Non tanto per raggiungere una meta, bensì per mostrare con il proprio corpo il movimento in atto da tempo nella società israeliana, molto più plurale e complessa di come spesso viene rappresentata. La guerra, drammaticamente, ne ha acuito le tensioni, ma ha anche mostrato un fermento in apparenza sopito. L’opposto della narrativa promossa dal governo di Benjamin Netanyahu che ha cercato e cerca di paralizzare il Paese nello choc del 7 ottobre. Il sostegno al conflitto, sull’onda del massacro di Hamas, da tempo ha smesso di essere maggioritario. Fin dal principio, in realtà, a ben osservare, la presunta unanimità appariva più una reazione di pancia che una scelta di campo. I gruppi e i movimenti impegnati per la pace, nonostante il duro colpo, sono stati capaci di resistere. E di reinventarsi grazie anche all’inclusione di nuove leve. Se i familiari degli ostaggi sono stati i primi a manifestare in difesa dei propri cari, questi ultimi hanno cominciato ad affiancarli già dalla fine del 2023. Il punto di svolta è stata l’invasione di Rafah della primavera successiva, che ha mostrato al pubblico l’assenza di un orizzonte politico da parte del premier al di là della retorica della «vittoria totale». In centomila sono rimasti accampati una settimana davanti alla Knesset di Gerusalemme per protestare contro il governo. In prima linea, certo, c’erano i familiari dei rapiti, ma accanto, su Kaplan street, c’erano formazioni di diverso orientamento, dai progressisti ai conservatori, veterani delle dimostrazioni contro la riforma giudiziaria, ex militari e formazioni pacifiste. A questo periodo risale anche la prima presa di posizione pubblica di un gruppo di riservisti. Da allora è stato un crescendo, come confermato dai due eventi di It’s time – a luglio 2024 e lo scorso mese – che hanno riunito decine di organizzazioni e migliaia di persone determinate a immaginare alternative al muro contro muro. La marcia verso il confine affonda le radici in questo processo. E, al contempo, gli dà ulteriore slancio. Perché dimostra la capacità di collaborazione stabile fra i differenti raggruppamenti e settori. E che la guerra, l’orrore, la violenza non hanno sconfitto il desiderio di incontro fra questi due popoli: i nostri lettori, a giudicare dai commenti su Facebook, lo hanno compreso. Si insiste, a volte, sul fatto che, comunque, rappresentano una minoranza. In realtà, le recenti rilevazioni rivelano che a essere minoranza – un terzo della popolazione – sono i sostenitori del conflitto. I due terzi chiedono un accordo. Non tutti per le stesse ragioni, è ovvio: per molti la priorità è salvare gli ostaggi, per altri mettere fine alla carneficina, di civili ma anche di soldati, nella Striscia, per altri ancora uscire dalla crisi economica e politica causata dalla temperie bellica. Il punto è semmai tradurre questa consapevolezza civile in un’alternativa politica concreta. In questo, Israele è lo specchio rovesciato della Palestina. Anche in Cisgiordania e a Gaza – nella prima lo certificano i sondaggi, nella seconda lo confermano le manifestazioni anti-Hamas sotto i bombardamenti – l’appoggio agli estremisti non supera il 30 per cento dei cittadini. Il resto, però, non è ancora riuscito a tradurre il sentire in un programma di rinnovamento della leadership. Israeliani e palestinesi, però rifiutano di attendere inerti tale maturazione. Il popolo della pace, pur tra mille ostacoli, continua a camminare. Ripubblicazione autorizzata dall’autrice Redazione Italia
Standing Toghether mette i propri corpi per interporsi tra i violenti e le vittime
Il 26 maggio 2025, migliaia di nazionalisti israeliani hanno partecipato alla Marcia delle Bandiere a Gerusalemme, attraversando il quartiere musulmano della Città Vecchia e intonando slogan razzisti come “Morte agli arabi” e “Che il tuo villaggio bruci”. L’evento, che commemora la conquista israeliana di Gerusalemme Est nel 1967, è stato segnato da tensioni crescenti nel contesto della guerra in corso a Gaza. Tra i manifestanti sono stati esposti striscioni provocatori, tra cui uno che recitava: “Gerusalemme nelle nostre mani, 1967. Gaza nelle nostre mani, 2025” Secondo fonti internazionali come Associated Press, The Guardian, Reuters ed El País, diversi manifestanti hanno molestato palestinesi, giornalisti e attivisti israeliani, spesso senza l’intervento delle forze di sicurezza.  The Guardian, Thousands join Israeli flag march through Muslim quarter of Old City in Jerusalem – https://www.theguardian.com/world/2025/may/26/thousands-join-israeli-flag-march-through-muslim-quarter-of-old-city-in-jerusalem Reuters, Far-right Israelis confront Palestinians, other Israelis in chaotic Jerusalem march, witnesses sayhttps://www.reuters.com/world/middle-east/israeli-far-right-police-minister-visits-al-aqsa-mosque-site-ahead-jerusalem-2025-05-26 Quel giorno, attivistə di Standing Together hanno usato i loro corpi per interporsi tra i violenti e le vittime dell’aggressione. Standing Together è un movimento di ebrei e arabi che vogliono “Pace e indipendenza per israeliani e palestinesi, piena uguaglianza per tuttə in questa terra, e vera giustizia sociale, economica e ambientale” (dal loro website https://www.standing-together.org/en ) Nella loro newsletter scrivono così sulla giornata di Lunedì 26 maggio: “La violenza nella nostra terra continua ad aumentare. La nostra risposta? Mettere i nostri corpi in prima linea per combattere il razzismo e l’odio nella nostra società. È esattamente quello che abbiamo fatto ieri, quando decine di attivistə della nostra Humanitarian Guard si sono mobilitatə per proteggere palestinesi contro le bande di estrema destra che erano arrivate per creare violenza nella Città Vecchia di Gerusalemme, in occasione del Giorno di Gerusalemme. Siamo andati a Gerusalemme per proteggere i-le residenti palestinesi, ma anche per far sentire la nostra voce contro l’estremismo e a favore dell’umanità. Ci stiamo mettendo fisicamente in mezzo alla violenza, e vogliamo assicurarci di avere il tuo sostegno”. In questo video Nati, uno degli attivisti della Humanitarian Guard, si lancia in mezzo alla folla per proteggere un giovane. https://www.instagram.com/reel/DKIKDgCKzLx/?utm_source=ig_web_copy_link Ancora dalla loro newsletter: “Questa marcia razzista, che si tiene ogni anno, è finanziata dal Comune di Gerusalemme e sostenuta dal governo. Come movimento dal basso formato da ebrei e palestinesi, il nostro lavoro è chiaro: non solo dobbiamo contrastare la violenza contro i palestinesi nel momento in cui accade, ma dobbiamo anche combattere i sistemi più ampi che la alimentano e la rendono possibile. Non si tratta solo di reagire, ma di impegnarsi per costruire, dalle fondamenta, la società in cui vogliamo vivere. Nessun@ di noi può essere veramente liber@ o al sicuro in una società che tollera questa violenza.” Ilaria Olimpico
Momenti di tensione e vari arresti per la marcia dei pacifisti israelo-palestinesi verso Gaza
Succedeva ieri, domenica 18 maggio. Doveva essere il giorno inaugurale della pulizia etnica una volta per tutte, con le operazioni di terra che avrebbero definitivamente ammassato a sud della striscia di Gaza una popolazione già stremata da 19 mesi di guerra, gli ultimi dei quali segnati dal blocco degli aiuti, dalla pianificata carestia, dalla deportazione come unico possibile orizzonte per i sopravvissuti: l’apocalisse della quale siamo tutti  da mesi impotenti testimoni… E invece (colpo di scena) ecco che nel primo pomeriggio, sulle stesse chat che avevano contribuito a promuovere il People Peace Summit di Gerusalemme dello scorso 8 e 9 maggio, arriva la seguente notizia/convocazione:    “E’ oggi! Molla tutto e unisciti a noi. Appuntamento alle 17.000 alla Stazione di Sderot per la marcia verso il Muro di Gaza: basta con la guerra, tutti a casa! Attivisti anti-guerra e anti-carestia, famiglie degli ostaggi, madri dei soldati, riservisti: mobilitiamoci tutti, finiamola con questa follia!  Siamo di fronte a un’emergenza. Nelle prossime ore, giorni, Smotrich, Ben-Gvir e Netanyahu progettano di invadere la striscia con decine di migliaia di soldati per affamare ancor più bambini, uccidere ancor più civili palestinesi, evacuare ancor più nuclei familiari, e senz’altro sacrificare gli ostaggi oltre a chissà quanti addetti alla cosiddetta sicurezza, con l’unico obiettivo di insediarsi nella striscia e impadronirsi di Gaza. Oggi (18 maggio) sospendiamo qualsiasi altro impegno per essere il più numerosi possibile alle 17 alla stazione ferroviaria di Sderot. Da lì ci metteremo poi in marcia verso il muro di Gaza dove pianteremo le tende per le notte, creeremo azioni di disturbo, faremo massa critica.”  Il messaggio si concludeva con le istruzione circa come arrivare: via treno, bus pubblici o privati, auto comunitarie… e qualche ora dopo, dalle pagine social di vari attivisti partecipi di quel variegato ‘Campo di Pace’ che da tempo seguiamo su questa testata, ecco le foto della Sderot Station riempirsi di gente, con il post (uno fra i tanti): “… sta arrivando gente da tutta Israele! E’ chiaro a tutti che questa è una situazione di emergenza… E’ ora di chiedere seriamente la fine della guerra, denunciare l’abbandono degli ostaggi e mettere fine a questo indiscriminato massacro dei civili!”  Dalla pagina FB di un’altra attivista alcuni scatti presi durante in viaggio in treno: per esempio per documentare il trasporto di un carro armato, in viaggio verso Gaza; e lo scompartimento pieno di soldati, “giovani ragazzi che vengono mandati a servire in una guerra brutale e delirante, mettendo in pericolo se stessi, uccidendo e magari venendo anche uccisi, per ragioni di vendetta che non esita a utilizzare l’arma della fame.”  Solo mezz’ora dopo: la marcia è cominciata e dalle brevi riprese che circolano in rete si capisce che sono in parecchie centinaia. Eloquente striscione con i volti di Smotrich, Ben-Gvir e Netanyahu ad aprire il corteo, slogan scanditi con convinzione… … ma poi, h 18, è già tutt’altro film, con gli stessi attivisti che aprivano la marcia reggendo lo striscione, buttati a terra e malmenati dagli sbirri. I quali però appaiono più che altro rabbiosi di sorpresa: niente caschi, né scudi, né tenuta antisommossa, e però quella massa di pacifisti vocianti di slogan al rullo dei tamburi devono essere fermati… Il pomeriggio si conclude con l’arresto di Alon Lee Green, personaggio ben noto nell’ambito del pacifismo israelo-palestinese, nel ruolo di co-direttore di Standing Together, movimento arabo-ebraico popolarissimo tra i giovani, sedi operative in varie città d’Israele e Cisgiordania. Arrestati insieme a lui altri nove: violazione dell’ordine pubblico, blocco di traffico, deviazione dal percorso inizialmente concordato, i soliti capi d’imputazione. La replica di Standing Together: “Questo arresto è un tentativo di mettere a tacere la protesta di un crescente numero di persone, israeliani e palestinesi, contro le uccisioni, la fame, le devastazioni.  Non ci fermeremo finché la guerra non finirà e finché non verrà raggiunto un accordo che riporti indietro tutti gli ostaggi e garantisca un futuro di sicurezza per tutti. Questa protesta non può essere fermata.” Redazione Italia
Verso il People’s Peace Summit di Gerusalemme, 8-9 maggio. Quando le donne si muovono…
Mancano ormai pochissimi giorni al Peace Summit di Gerusalemme ed eccomi a parlare su zoom con queste tre donne formidabili, che già sono state tra le principali organizzatrici di quella prima convention che il 1° luglio scorso ha riempito il Menorah Stadium di Tel Aviv (ne abbiamo parlato qui), con il sostegno di cinquanta organizzazioni pacifiste arabo-israeliane. Ed eccole di nuovo nello stesso ruolo di “art directors” per questo prossimo evento di Gerusalemme che vede coinvolta un’alleanza ancora più ampia. Si chiamano Mika Almog, May Pundak e Maya Savir, e tutte e tre potrebbero essere descritte come “figlie d’arte” nell’arte, o meglio, infinita ricerca della “pace”. La prima che vedete nella foto, Mika, è infatti la nipote di Shimon Peres, Premio Nobel nel 1994 insieme a Yitzhak Rabin ed Arafat per gli Accordi di Oslo, ed è ben nota in Israele come attrice, sceneggiatrice e giornalista (molto polemista); la seconda, May, è un avvocato, alla guida (insieme alla palestinese Rule Hardal) dell’organizzazione A Land for All, ed è figlia del pacifista Ron Pundak, scomparso nel 2014 e considerato tra i principali ‘architetti’ dei suddetti accordi; la terza, Maya Savir, è nel direttivo dell’organizzazione Search for Common’s Ground e ha lavorato in vari progetti di sviluppo in Sudafrica che l’hanno portata a scrivere un libro intitolato On Reconciliation, sul processo di riconciliazione in Sudafrica e Ruanda, oltre a essere figlia del pacifista e scrittore Uri Savir, che addirittura guidò i negoziati che portarono agli accordi di Oslo. Tre donne che con la pace (o meglio: con la difficoltà di arrivarci) sono proprio cresciute. Ed eccole a condividere di nuovo la sicura riuscita di questa due giorni che si terrà a Gerusalemme l’8 e il 9 maggio per ribadire la richiesta di un accordo che consenta a entrambi i popoli di immaginare “il giorno dopo la fine del conflitto”, un compito davvero enorme… Qual è stato per voi l’inizio di questo impegnativo percorso? Maya Savir – A pochi mesi dall’inizio della guerra era tutto così terribile, come ricorderete, e a un certo punto un piccolo gruppo di donne, credo non più di dieci, si è riunito per ragionare sul che fare: era inverno, era buio, faceva freddo, ma sentivamo il bisogno di agire. Si sono tenute varie riunioni a Tel Aviv e abbiamo capito che per superare lo scoraggiamento, era necessario mettersi al lavoro per creare questo “campo di pace”, per donne e uomini, se non altro per contarsi e magari scoprire che non siamo pochi, ma anzi più di quanto pensiamo. La gravità della situazione dopo il 7 ottobre era tale che abbiamo chiamato questo progetto “È ora”, per significare l’urgenza… Abbiamo immediatamente lavorato all’idea di una coalizione che è davvero unica, perché, come puoi immaginare, non è facile mettere d’accordo così tante organizzazioni, ognuna con il proprio background di pensiero critico. Ma la situazione era così grave che siamo riuscite ad andare oltre le differenze e a convergere sui punti fondamentali: immediato cessate il fuoco, fine dell’occupazione, un accordo di pace tra due Stati alla pari, questi erano i punti che ci vedevano tutte d’accordo. May Pundak – L’urgenza della nostra risposta è stata innescata da un’enorme conferenza organizzata dal movimento dei coloni a Gerusalemme poco dopo l’inizio della guerra, con la partecipazione di diversi rappresentanti del governo, tutti di estrema destra. Una parata impressionante, erano in tantissimi… Mika Almog – La nostra insomma è stata una risposta senza precedenti a una situazione senza precedenti, e mi riferisco solo in parte a quanto accaduto il 7 ottobre a Gaza. Tutto ciò che ha portato a quel momento, tutto ciò che è successo in Israele negli ultimi 30 anni, la messa in pericolo della nostra democrazia: non è un caso che non si possa nemmeno più parlare di pace, il concetto stesso è stato ridicolizzato! Il processo di rimozione di ogni tipo di confronto da parte del nostro governo era diventato sempre più estremo e questo ha causato un senso di totale impotenza in chiunque volesse riaccendere il dibattito. Dopo il 7 ottobre si aveva l’impressione che tutto si stesse spostando a destra, anche perché la sinistra aveva così poco da offrire… E riguardo alla conferenza dei coloni citata da May, ricordo il commento di una di noi, Tami Yakira, che lavora per il New Israel Fund: “Noi ci posizioniamo in opposizione a loro, ma la loro forza è come riescono a proiettare la loro visione del futuro” e questo è stato probabilmente il punto di partenza: il desiderio di riaccendere una risposta, e la consapevolezza che doveva essere forte e che per essere forte era necessaria un’organizzazione forte … E come sapete, all’interno dei movimenti possono esserci differenze di ogni tipo, ma la priorità di concordare su qualcosa di così importante ha superato il privilegio di dissentire su questioni secondarie. Queste dieci donne erano là in rappresentanza di alcune particolari organizzazioni? Maya – Solo alcune, è stato davvero un incontro spontaneo e poi ognuna ha convocato altre donne e naturalmente anche uomini, e il lavoro di rete ha fatto sì che in 6 mila abbiamo riempito il Menorah Stadium di Tel Aviv il 1° luglio scorso: eravamo in 50 organizzazioni, e per questi prossimo evento saremo più di 60,  stiamo crescendo! Tutte loro sono rappresentate all’interno del comitato direttivo, organizzate in gruppi di lavoro. E ognuna di loro contribuisce con la propria prospettiva e visione e questo ci rende più forti. May – La difficoltà di elaborare una narrazione coerente è sempre stata un problema per la sinistra in tutto il mondo. Come dicevano Mika e Maya, c’è molto pensiero critico, che a volte genera disunità, e questo non è ciò che vediamo sul fronte opposto al nostro: ciò che vediamo è piuttosto una forte unità, la capacità di mobilitarsi compatti per ciò che considerano il “bene supremo”. Ma mi sembra che molti che in passato sono stati magari poco attivi a livello politico si stanno risvegliando, con l’obiettivo di creare una nuova narrazione. Sono disponibili a contribuire con idee forti, con una nuova visione, con immaginazione politica, per aggregare sempre più soggetti dal basso, per fare massa critica, e con inedita creatività, cultura, competenze: siamo in questo incredibile momento di partecipazione, in cui si riscopre il bisogno di essere uniti, come vediamo da questa gran varietà di eventi, persone, luoghi, settori e credenze diversi, unite dal desiderio di realizzare qualcosa d’importante. E la pace è davvero per tutti, che siate religiosi o laici, più o meno giovani, amanti della musica… la pace è per tutti, questa è la forza di ciò che stiamo facendo. Mika – Una caratteristica molto importante di questa alleanza è che è composta da organizzazioni ebraiche e arabe, sia all’interno di Israele che transfrontaliere: è il caso dell’organizzazione di cui May è co-direttrice che si chiama A land for All, come dell’organizzazione che io stessa dirigo. Nella loro struttura e leadership, hanno tutte una partecipazione sia israeliana che palestinese a tutti i livelli, dall’alto verso il basso. E anche i  dibattiti e gli incontri del Peace Summit sono stati concepiti secondo questo criterio di rappresentanza binazionale. Dal 1° luglio dell’anno scorso ad oggi la situazione è molto cambiata e in peggio; stiamo assistendo in tempo reale a una catastrofe senza precedenti… Eppure state descrivendo un movimento pacifista in crescita, con una partecipazione della società civile inimmaginabile pochi mesi fa. Mika – E’ così. A volte è necessario raggiungere un certo abisso di crisi per cambiare rotta. Imparare dai conflitti risolti in altri luoghi del mondo sarà infatti uno dei temi principali del nostro Peace Summit… Maya – … avremo esperti che parleranno di come è stata raggiunta la pace in Irlanda del Nord e in Bosnia, e ricercatori che hanno studiato e confrontato il “filo conduttore” che caratterizza questi processi e ciò che tutti hanno in comune: quel punto di rottura che porta a rendersi conto che le promesse fatte più e più volte per raggiungere la vittoria sono semplicemente… inattuabili. Anche qui da noi l’accettazione generale della guerra come unica opzione è molto cambiata rispetto a quando abbiamo iniziato a immaginare questi eventi di pace mesi fa: la situazione è diventata così catastrofica, come hai detto, che rende possibile parlare di pace come mai prima. Sempre più persone capiscono che non c’è altra scelta. Solo pochi giorni fa abbiamo assistito a quell’incredibile piazza piena di gente a Tel Aviv, in protesta non solo per gli ostaggi, ma anche per i 18.000 bambini uccisi a Gaza…  Mika – … e poi la Cerimonia Commemorativa Congiunta organizzata dai Combattenti per la Pace insieme al Parents Circle Family Forum, seguita in streaming da migliaia di persone in tutto il mondo. Entrambi gli eventi sono stati organizzati da membri della nostra alleanza, quello di Tel Aviv da un formidabile movimento che si chiama Standing Together, che ha contribuito anche alla Cerimonia Commemorativa. E’ così che “funziona” questa coalizione: come un movimento di movimenti, ed è un grosso risultato. Maya – Tornando alla difficoltà di parlare di pace: prima del 7 ottobre la maggioranza degli ebrei israeliani considerava il conflitto “controllabile” o comunque distante, ma ora le cose sono cambiate. Anche se troppi israeliani continuano a sostenere soluzioni inquietanti e immorali, finalmente c’è un dibattito. C’è una crescente consapevolezza che il 7 ottobre è successo per una serie di ragioni… e che la pace è l’unico modo per impedirne un altro. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno: amplificare il dibattito, è il solo modo per contrastare la mentalità della destra. Mika – Una prova che le cose stanno cambiando è la lettera sottoscritta da centinaia di piloti qualche settimana fa: ha dato il via a un dibattito enorme, migliaia di riservisti si sono espressi in solidarietà, con i loro nomi, prendendo posizione. Alcuni di loro saranno al Peace Summit per l’evento di apertura, fantastico! E quindi è vero che da un lato le cose stanno peggiorando, una catastrofe senza precedenti come hai detto; dall’altro però si stanno creando queste piattaforme di aperta opposizione alla guerra, e sembra che l’opinione pubblica sia finalmente disposta ad ascoltare… Maya – Per molto tempo la grande maggioranza degli ebrei israeliani ha scelto di ignorare cosa stava succedendo a Gaza, ma ora è diverso: sempre più atrocità commesse dagli israeliani stanno raggiungendo gli ebrei israeliani e stiamo assistendo a una reazione, forse non abbastanza forte, ma è un inizio. May – Come ha già sottolineato Maya, prima degli eventi del 7 ottobre la sfida più grande era convincere gli israeliani e la comunità internazionale della necessità di porre fine a questa guerra: la sfida era l’accettazione, lo status quo. Ciò che è chiaro ora è che quei tragici eventi hanno creato quella che considero un’opportunità molto importante per far capire a un numero crescente di persone che non si può continuare così: l’urgenza di porre fine a tutto questo non è mai stata così chiara. Il fatto che parecchi israeliani stiano sostenendo le atrocità in corso a Gaza può suggerire che la società israeliana sia irrecuperabilmente malata di razzismo ed estremismo… ma allo stesso tempo assistiamo a un graduale spostamento dell’opinione pubblica, che si rende conto che risolvere il conflitto è l’unica via verso la sicurezza. È quindi vero che la società israeliana sta attraversando il suo momento più buio, ma allo stesso tempo sempre più persone stanno capendo che per porre fine al conflitto è necessario un accordo politico che preveda uno Stato palestinese indipendente e sovrano. È importante considerare entrambe queste tendenze nella loro complessità e il fatto che non si escludono a vicenda, come emerge anche dai sondaggi. Maya – La consapevolezza che non si può sopravvivere affidandosi alla forza militare, come continua a proporre la destra, è un segno di maturità. Quello a cui stiamo assistendo tra tanti ebrei israeliani, in risposta a questa opzione militare esclusiva, è un sentimento di tradimento: gli ostaggi sono stati traditi, i soldati che abbiamo mandato a combattere si sentono traditi per essere stati coinvolti in crimini di guerra, e la gente è stanca di non vedere alcuna ragione in tutto questo, a parte i problemi legali del nostro primo ministro, che è un uomo pericoloso. May – Stiamo affermamdo dei valori: la sicurezza e l’incolumità del nostro popolo, il ritorno degli ostaggi, i bambini di Gaza. In tutti questi casi stiamo scegliendo la vita, stiamo dando priorità al futuro, nella consapevolezza che non saremo mai al sicuro finché gli stessi palestinesi non lo saranno. Questa conclusione è molto chiara all’interno del nostro campo pacifista: il fatto che dobbiamo procedere insieme, israeliani e palestinesi, consapevoli dell’interdipendenza tra i due popoli. Stiamo creando una nuova narrazione… Mika: … e questa è una cosa che dovrebbe essere amplificata il più possibile: abbiamo partner palestinesi in Cisgiordania e anche a Gaza che, nel pieno di questa catastrofe, e sotto la più insopportabile oppressione, stanno scegliendo la pace e sono pronti a far sentire la loro voce. Alcuni di loro saranno presenti al vertice, non di persona ovviamente, ma con videomessaggi… May – … dobbiamo però ricordare che la situazione tra Israele e Palestina è tutt’altro che equa. Maya ed io siamo alla guida di organizzazioni israelo-palestinesi per cui siamo spesso in Palestina; è quindi naturale per noi condividere e discutere queste idee con i nostri compagni palestinesi, ed è incredibile vedere il crescente favore per il nostro movimento anche lì. Ma è anche giusto dire che per i palestinesi parlare di pace è difficile in questo momento. Porre fine al genocidio è la priorità, la loro preoccupazione è la sicurezza, la sicurezza dei loro figli, il cibo in tavola. Ovvio che molti di loro vogliano la pace, ma più importante di ogni altra cosa è fermare il genocidio. E anche se questo Peace Summit è stato concepito come evento congiunto, è giusto considerarlo principalmente un’iniziativa israeliana, in termini di assunzione di responsabilità, un aspetto molto importante. È nostra responsabilità organizzare questo evento adesso: i palestinesi non sono in grado di porre fine a questa guerra, spetta agli israeliani farlo. Maya – (…) Non potete sapere quanto sia difficile essere attivisti per la pace in Israele e Palestina di questi tempi: perciò abbiamo bisogno del vostro sostegno. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale sostenga questo campo di pace che sta lentamente guadagnando terreno tra Israele e Palestina. Abbiamo bisogno di sostegno come società civile, stiamo mantenendo vivo questo spazio in circostanze difficili. Nessun altro lo sta facendo. May – E volete sapere qual è il carburante che sta muovendo questo percorso? La leadership femminile… (tutte e tre sorridono) Mika, Maya, Tami, potrei citarne tante altre… è ciò che ha reso possibile arrivare fino a qui… Cosa potete prevedere all’orizzonte di questo summit? Mika – È una bellissima domanda su cui stiamo discutendo e per la quale non abbiamo ancora una risposta, ma certamente tutta questa grande energia che stiamo creando non potrà non avere un qualche risultato a livello politico. Dobbiamo prepararci per le prossime elezioni, non necessariamente creando un nuovo partito, ma senz’altro influenzando: qualcosa del tipo “guardateci, imparate da ciò che stiamo facendo, prestate ascolto a ciò che stiamo dicendo…” Maya – Dobbiamo essere molto leggeri, flessibili, le cose cambiano rapidamente… La priorità immediata è il cessate il fuoco, dovremo dedicare le nostre migliori energie a questo: porre fine alla catastrofe. Poi ci concentreremo sulla fine definitiva del conflitto e siamo molto ambiziosi: vogliamo la pace, niente di meno. Ma dobbiamo considerare anche l’attuale terribile crisi in Israele in tutti i suoi aspetti, compreso il colpo di Stato giudiziario: una situazione che è il risultato dell’occupazione. E se davvero vogliamo ripristinare la nostra democrazia, la democrazia così imperfetta di Israele, dobbiamo sottolineare in tutti i modi possibili e al più ampio pubblico tutti questi aspetti, instancabilmente… May – Sono d’accordo con tutto ciò che ha appena detto Maya e vorrei solo aggiungere una cosa: ogni conflitto alla fine si conclude con ciò che si chiama “accordo di pace”, che non è mai lineare. Le cose cambiano molto rapidamente. Quello che stiamo cercando di fare in questo momento è assumerci le nostre responsabilità, all’interno della società israeliana, al fine di costruire la più grande e forte base di sostegno alla pace, che è l’ovvia via per un futuro migliore ed è qualcosa di elementare per noi, come israeliani che hanno a cuore se stessi e la propria vita, come lo è per i palestinesi che hanno a cuore se stessi e la propria vita. Ma giusto per chiarire: l’evento di Gerusalemme non sarà un Festival Peace & Love, ma un’affermazione collettiva, in termini di scelta per la vita, di scelta di un futuro migliore, e con un approccio molto pragmatico. Questo è in estrema sintesi il nostro progetto: essere sempre di più e tutti insieme gridare a gran voce, con quanti più partners e risorse in campo, che stiamo lavorando per un futuro di pace. Le precedenti uscite su Pressenza sul People’s Peace Summit di Gerusalemme: Intervista a Maoz Inon: https://www.pressenza.com/it/2025/04/verso-il-peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-e-9-maggio-intervista-a-maoz-inon-uno-degli-organizzatori/ Intervista a Aziz Abu Sarah: https://www.pressenza.com/it/2025/04/verso-il-peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-e-9-maggio-intervista-ad-aziz-abu-sarah/ Intervista a Nivine Sandouka: https://www.pressenza.com/it/2025/04/verso-il-peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-9-maggio-bisogna-sostenere-la-societa-civile-dice-la-palestinese-nivine-sandouka/       Daniela Bezzi
Verso il People’s Peace Summit di Gerusalemme, 8-9 maggio. In tantissimi per la ventesima Cerimonia Congiunta dei Combattenti per la Pace
Una bella, condivisa e partecipatissima anticipazione di cosa sarà l’ormai imminente People’s Peace Summit l’abbiamo già avuta ieri sera con la ventesima edizione della Joint Memorial Ceremony israelo-palestinese, come sempre organizzata dai Combattenti per la Pace in collaborazione con il Parents Circle Families Forum: quest’anno l’evento si è tenuto in un teatro di Giaffa, in collegamento streaming con una piazza di Beit Jala e con ben 160 altre postazioni, sparse tra Israele, Cisgiordania, Stati Uniti e varie città in Europa: una risposta senza precedenti. Importante la data, che come per tutte le altre edizioni ha coinciso con il giorno del Yom Hazikarom, in cui Israele ricorda i suoi morti da quando esiste come Stato. Anche quest’anno, quasi in coincidenza con l’inizio della Memorial Ceremony, le sirene hanno risuonato per tutta Israele, l’intera nazione si è fermata e tutti tutti tutti hanno smesso qualsiasi cosa stessero facendo per mettersi fermi immobili sull’attenti per un minuto. Un minuto che ha inaugurato l’inizio della celebrazione più solenne dell’anno, persino più solenne del Giorno della Memoria, la Yom Ha Shoah che si è celebrato pochi giorni fa. In effetti dal 1948 ad oggi di morti e feriti in terra d’Israele se ne contano a decine di migliaia, come qualche giorno fa quantificava con puntigliosa precisione un articolo del Jerusalem Post che potete leggere qui. Una celebrazione che come tutti gli anni è proseguita più solenne che mai anche il giorno dopo, con le processioni ai vari cimiteri militari, le bandierine listate a lutto, le manifestazioni di corale cordoglio. E domani il tutto culminerà con la Festa dell’Indipendenza, momento dell’anno quanto mai carico di valori militari. E dunque immaginiamo cosa possa essere stato per un’organizzazione come i Combattenti per la Pace decidere di inaugurare vent’anni fa il loro progetto di congiunto attivismo di pace tra ex militari israeliani ed ex detenuti/militanti palestinesi, proprio in coincidenza con una simile scadenza: consapevolmente sfidando quella narrazione unilaterale del dolore che era da sempre la cifra del Yom Hazikaron e arrivando addirittura a proporre una solidarietà o come minimo un rispecchiamento nel dolore del fronte nemico, non meno colpito dalla stessa spirale di violenza. La prima edizione li vide infatti in pochi, come uno dei fondatori, Sulaiman Khatib, ama spesso ricordare. Le polemiche e persino i presidi di protesta non sono mai mancati man mano che questa Joint Ceremony guadagnava adesioni, fino a raggiungere le 15 mila presenze in un parco centralissimo di Tel Aviv, nell’edizione precedente al 7 ottobre, disturbatissima dagli oppositori. La situazione di particolare tensione di quest’anno, come già per l’anno scorso, ha di nuovo imposto agli organizzatori la scelta di uno spazio chiuso, in un teatro di Giaffa appunto, e solo per inviti e però fruibile anche in streaming, registrandosi sia individualmente che come “sedi ospitanti”. Ancora non sappiamo quante siano state in tutto le visualizzazione, ma ben 160 sono state appunto le platee oltre a quella di Giaffa: venti postazioni in Israele grazie alla collaborazione dell’organizzazione “sorella” Standing Together, parecchie anche in Cisgiordania, la maggior parte nelle varie cappelle della diaspora ebraico-palestinese sparse in Canada, USA, Europa, con ben nove situazioni in Germania, e poi in Francia, Spagna, Belgio, dove la proiezione è stata organizzata addirittura al Parlamento Europeo! Per l’Italia non possiamo non menzionare il bel collegamento virtuale organizzato da Ilaria Olimpico insieme a Uri Noy Meir per Imaginaction, e la piccola cittadina di Chiavenna in Valtellina, con una forte tradizione di pacifismo. Quest’anno il tema era “Scegliere l’umanità, scegliere la speranza” e sul palco si sono alternate le testimonianze del palestinese Sayel Jabarin, da Beit Jala, seguita da quella del giovane israeliano Liel Fishbein sopravvissuto al massacro nel Kibbutz Be’eri, dove ha perso l’amatissima sorella … e poi quella del palestinese Mousa Hetawi (in video messaggio causa divieto di ingresso in Israele) che nell’ultimo anno di guerra a Gaza ha perso 28 membri della sua famiglia. Di nuovo la straziante storia dell’israeliana Liat Atzili, tra le prime ad essere liberata tra gli ostaggi, solo per scoprire la morte del marito e delle figlie e infine il contributo di un’attivista palestinese che ha preferito l’anonimato, letto dalla compagna Amani Hamdan: impressionante rosario di perdite, dolore, distruzione, macerie, amputazioni, illuminato però dalla “speranza che qualcosa possa sempre rinascere, anche dai detriti …” La conduzione della serata, come sempre in arabo ed ebraico con sottotitoli in entrambe le lingue (oltre che in inglese) è stata condivisa tra Fida Shehadeh e Shira Geffen, entrambe ben note nel mondo dell’attivismo israelo-palestinese: la prima impegnata nel movimento “Hutwa Group” che si oppone all’esproprio e demolizione delle case, sempre più frequenti anche in Israele, la seconda attrice e scrittrice dichiaratamente pacifista. Non sono mancati anche quest’anno i tentativi di boicottaggio, alcuni anche piuttosto violenti. In merito ecco il comunicato diffuso in serata dalla coalizione It’s Time che sta organizzando il People’s Peace Summit dell’8-9 maggio: “Questa sera, varie azioni di disturbo hanno tentato di ostacolare lo svolgimento della Joint Memorial Ceremony organizzata come ogni anno dai Combatants for Peace insieme al Parents Circle Families Forum, entrambe organizzazioni da sempre impegnate per la fine della guerra, il ritorno a casa di tutti gli ostaggi e per una pace duratura su basi di reale giustizia per tutti. Tutti noi che aderiamo a questo ‘campo di pace’ non possiamo più tollerare queste intimidazioni. Invitiamo tutti e tutte a partecipare al più grande evento di pace mai organizzato prima d’ora in Medio Oriente, con il People’s Peace Summit che si svolgerà l’8 e il 9 maggio a Gerusalemme.  Aggiungi alla nostra anche la tua voce, perché il nostro appello di pace possa farsi coro e una volta per tutte impossibile da silenziare.”     Daniela Bezzi