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Dallo Stato-piano al piano-Casa: Palermo chiama Milano
Leggo ormai da un po’ di Milano, pensando a Palermo. Inizialmente mi era parso che ci fosse una differenza, dovuta ad una maggiore rumorosità di un motore – quello milanese – più performante con un regime di coppia molto elevato. Insomma si dice che chi mangia fa molliche quindi chi mangia tanto ne fa di più. Ma col passare delle settimane la distanza tra le differenti regioni mi appare ridotta. Lì, al nord, come qui, al sud, ad una organizzazione criminale di stampo mafioso con una catena di comando gerarchica e la conseguente responsabilità collettiva per il malaffare si è sostituito altro. Lo descrivo con le parole trovate in una sentenza che chiude un caso siciliano, l’ultimo che aveva avuto l’onore delle cronache ed il rango riconosciuto di un “sistema, ma non un’associazione a delinquere.” Questa precisazione (non è un sistema volto alla accumulazione criminale) è scritta dagli stessi magistrati che hanno fatto salutare la testata del motore. Descrivendo inizialmente un”sistema”. Anche la stampa aveva adottato il termine sistema per far circolare la notizia (anche questo mette valore al prodotto), ma nello specifico la sentenza sarebbe stata al contrario lapidaria: “i reati sono stati commessi ciascuno in adesione ad un patto corruttivo, di scambio di reciproche utilità tra i concorrenti senza che mai si possa individuare l’appartenenza a un gruppo stabile e duraturo“. Sull’associazione a delinquere, dunque, il tribunale non accoglieva la ricostruzione della Procura, che è quanto era invece accaduto nel maxi processo a Cosa Nostra e nella vicenda giudiziaria e politica di Tangentopoli. Ho scientemente tolto il riferimento preciso alla sentenza, per rendere un tratto importante del discorso: non c’è Storia, ma taglio, cancellatura, omissis. Perché oggi “Ciò che manca nel caso di specie – si legge nelle motivazioni di quella sentenza “idealtipica” – è l’accertamento dell’esistenza di una struttura organizzativa idonea a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira. Nel caso di specie i pretesi reati fine o scopo dell’associazione hanno la caratteristica di essere commessi ciascuno di essi in adesione a un patto corruttivo di scambio di reciproche utilità tra i concorrenti, senza che mai si possa individuare l’appartenenza ad un gruppo stabile e strutturato“. Il sistema quindi si è parcellizzato, volatilizzato nella nube degli strumenti finanziari che lo riproducono. Evaporato in una sostanza che passa attraverso i pori della pelle. Produce resti, detriti, si inceppa. Ma… Ha ridotto il suo impatto ambientale. Pare inquinare meno, anzi si dichiara ecologista, digitale, attento ai nuovi diritti, quelli di seconda generazione. E forse ne avremo anche una terza, che già sento di diritto all’abitare e di nuovi motorini non termici da finanziare con bonus e pass per le ZTL. Lascio la metafora e illustro argomentando. Di certo la tradizionale opzione tra investimenti pubblico (con finalità di interesse collettivo) e privato (puntato sul profitto individuale) è stata superata. Almeno così si ripete ossessivamente ricordando la carenza di risorse della mano pubblica, che legittima una transizione. Quella appunto dallo Stato Piano, quello del socialismo reale, che si era offerto in una versione socialdemocratica come welfare ed era stato una battaglia del centro sinistra negli anni che vanno dal boom economico alla crisi del 1973. Va aggiunto che è stato sempre il centrosinistra a mandarlo in soffitta con Prodi, Ciampi e Maastricht negli anni novanta. Che alla destra spettasse non la soffitta ma la galera, poi, siamo abbondantemente autorizzati a crederlo; ma dal punto di vista delle categorie per i berlusconiani, dopo una breve stagione di flirt con i”professori”, tutto gli si può dire tranne che abbiano ideato qualcosa che non fosse per il proprio ombelico. Il sistema e la sua ossatura insomma erano quelle lì, con lo Stato che faceva da capitalista collettivo, le banche (la banca centrale in primis), da pompa di rifornimento e i privati che si spartivano la carcassa, magari litigando tra loro e giocando sporco. Quella macchina consumava tanto, troppo per non compromettere la centrale di comando del sistema. La fine di Craxi e la sua difesa politica di quel motore sporco ma necessario è cosa nota. Oggi quella macchina è mutata, al punto da rendere obsolete le vecchie categorie che la spiegavano. Se di quella macchina volessi immaginarne adesso la architettura, la modalità operativa, forse la dovrei vedere come un’ “Auto mild hybrid”. Cosa significa? La parola mild significa dolce, lieve. Nel Tempo delle scelte di Romano Prodi lessi per la prima volta la teorizzazione di questo nuovo modo di pensare lo Stato. Un veicolo mild hybrid che fosse un ibrido leggero, in cui l’intervento dell’elettrico (il politico) è intelligente, limitato ad alcune fasi, quali l’accensione e il funzionamento in mezzo al traffico in ore di punta, per ricaricarsi poi quando il termico tradizionale lavora a regimi elevati di coppia (cantieri, grandi opere, fondi di investimento, asset assicurativi, approvvigionamento energetico e spese militari). Perché il “termico” per alte prestazioni c’è ancora, e se l’elettrico lo sostituirà sarà perché saprà riprodurre anche quelle. Per illustrare la mia metafora prendo il “caso Milano”, quello che aveva inizialmente fatto pensare ad una “tangentopoli” 2.0. Il caso era di scuola, all’antica, con un motore termico tradizionale. Metti benzina (il comune delibera e le banche anticipano) nella macchina (le imprese vincono gli appalti e avviano i cantieri) e vai. Il malaffare starebbe nel rischio che la centralina sia guastata dalla corruzione, dall’usura eccessiva per l’esposizione a fattori di stress. Banalmente le mazzette, le consulenze inutili, i falsi in bilancio e chi più ne ha più ne metta. Anche le macchine migliori si rompono. Beh, le cose non sono più così semplici e la macchina oggi non ha una sola centrale, ma centraline che regolano l’accesso al credito, i tassi, le coperture assicurative, gli standard occupazionali e il rispetto delle normative, la compatibilità con altri sistemi operativi e la gestione delle informazioni che servono altri sistemi e regolano flussi importanti. Al punto che la previsione di un cantiere, o l’acquisto di un’automobile, oggi sono già redditizi fin dalla sottoscrizione di pacchetti di servizi finanziari e assicurativi che precedono la messa su strada del bene! E qui penso ai cantieri di Palermo, che si aprono e non si chiudono, senza che questo rechi un’offesa alla città. Anzi, è da un ventennio che su questo paradosso qualcuno riesce persino a mettere degli abiti da festa. Per questo la novità del “sistema” è proprio che un sistema non c’è e la macchina riprende a funzionare miracolosamente proprio con le stazioni o le battute d’arresto. Nel caso Milano leggo ad esempio che stanno rilanciando come reazione al “caso” un piano casa, che non si ispirerà però al vecchio disegno di legge “Fanfani” (un motore termico per il quale non c’è più carburante, ovvero fondi pubblici o in termini economico politici welfare) ma a centraline (autonomia differenziata e federalismo fiscale sono i riferimenti teorici e pratici) montate nell’abitacolo. Sarà infatti un ministero per le città quello che riconoscerà alle amministrazioni comunali poteri, risorse e gestioni straordinarie, per riuscire dove la vecchia macchina aveva fallito. Udite, udite, il nuovo avanza e risolverà il problema dell’edilizia popolare, ridurrà l’inquinamento ecologico e politico, affrontando la questione del diritto all’abitare. Immagino già il coinvolgimento di banche e la normativa fiscale per detrazioni, deroghe e mutui, con un nuovo motore meno rumoroso e con tanti aiutini per dare la sensazione di avere basse emissioni di gas incombusti e riciclo (o riciclaggio) totale. È questa la transizione reale che ha incapsulato vecchie coppie concettuali, come quelle di proprietà e godimento, o pubblico e privato, riferite al godimento dei beni. Quindi nessuna Tangentopoli e vai con il mild hybrid!   Michele Ambrogio
L’architettura au-delà della costruzione, per una progettazione decreativa
Simone Weil nel saggio La prima radice (L’enracinement) considera il radicamento come un elemento fondamentale per l’individuo. Il radicamento è inteso secondo la filosofa, come legame profondo tra la cultura, la terra e la comunità. In questo senso, Weil può essere riletta come una pensatrice del paesaggio in potenza, o come una fonte etica e spirituale per chi oggi si interroghi su cosa significhi abitare un luogo senza dominarlo.  Weil intuisce infatti che la modernità e i processi di urbanizzazione e globalizzazione tendono a sradicare l’individuo dal proprio paesaggio originario. Questo sradicamento porta a una perdita di significato e di senso di appartenenza, con conseguenti effetti negativi sulla vita morale e sociale. Oggi che sappiamo che la sua intuizione era fondata, è fondamentale preservare e tutelare il legame con il paesaggio, come elemento di un valore d’uso comune essenziale per il benessere dell’individuo e della comunità. Il modus operandi e l’ideologia costruttiva modernista hanno infatti generato degli effetti negativi sulla città: hanno sradicato l’uomo dal paesaggio e dalla tradizionale sostenibilità delle città; hanno prodotto spazi alienanti e disumani (grandi complessi, zoning funzionalista, torri isolate, periferie);  hanno spezzato – infine – il legame tra architettura, comunità e memoria. Il pensiero di Simone Weil – in particolare il suo invito a “fare spazio”, il concetto di radicamento e la decreazione dell’ego – può essere sorprendentemente fecondo, se messo in dialogo con alcune riflessioni e su che cosa significhi oggi fare architettura, su come l’architettura possa diventare un atto spirituale, etico e poetico, piuttosto che puramente tecnico o produttivo. Il concetto di Fare Spazio di Simon Weil può essere inteso, dunque, in relazione all’architettura ed al paesaggio come: 1. lasciare spazio alla tradizione e alla comunità, senza l’arroganza dell’individuo moderno che si crede autosufficiente;  2. fare spazio al paesaggio, inteso non come risorsa da sfruttare, ma come luogo da abitare con umiltà; 3. fare spazio all’altro, in una società dove ciascuno è radicato non solo in sé ma nella reciprocità.  4. Fare spazio all’altro come atto di giustizia e progettazione partecipata: non si prende ma si accoglie; non si progetta sull’altro, ma si permette all’altro di essere e farne parte attiva. L’architettura diventa pratica etica più che espressione artistica. Rifiutare il costruire, in un’epoca di consumismo e speculazione edilizia, è un gesto di resistenza, una forma di responsabilità comune verso il paesaggio: la memoria dei luoghi, la dignità delle persone, etc. Il non costruire è un invito a non produrre nuove forme finché non si è compreso ciò che va conservato, restaurato, reinterpretato.  Un altro concetto chiave di Weil è l’attesa: la forma più pura dell’attenzione, la disponibilità a ricevere ciò che viene. Il mondo è già pieno di edifici inutili, abbandonati, distruttivi. Il settore delle costruzioni è uno dei più inquinanti al mondo. La cementificazione del suolo contribuisce alla crisi climatica, all’estinzione di biodiversità e al collasso degli ecosistemi urbani. Le città si espandono senza assorbire le funzioni vitali già disponibili. Costruire, oggi, è spesso un atto di spreco, non di necessità. L’architettura inoltre è stata spesso il linguaggio delle élite – monumentale, autoritaria, spettacolare – legata alla firma personale delle archistar, trasformata in oggetto iconico. L’architettura come mercificazione della forma: costruire è diventato un gesto egoico, non dialogico, non necessario.  In molte architetture contemporanee i materiali non parlano dei luoghi, le forme ignorano il clima, la cultura, la memoria, L’edificio cancella il paesaggio invece di dialogarvi. L’architettura del futuro potrebbe non essere un oggetto, ma un gesto: di ascolto, di cura, di attenzione, di decreazione.  L’architettura – fatta di relazioni, ricerca, dialogo con le comunità – è un esercizio dell’attendere, del non saturare, del rispettare il tempo dei luoghi. Essa è anche pratica contemplativa. A volte il vero atto creativo è non fare, ma fare spazio. Non intervenire, ma ascoltare. Non imporre, ma accogliere. L’architettura del futuro potrebbe non essere un oggetto, ma un gesto: di ascolto, di cura, di attenzione di decreazione. Redazione Italia
Omar e la sua Famiglia. Una VITA senza casa
Omar ha 24 anni e vive con sua madre e suo fratello nella periferia Est di Roma, senza acqua e senza corrente elettrica. Spostandosi di casa in casa, ha passato la vita in una situazione di disagio abitativo e psicologico, pagando spesso subaffitti in nero. Eravamo andati a trovarlo a febbraio: a distanza di mesi, la situazione è solo peggiorata. Martedì 27 febbraio a Roma ci sarà un nuovo picchetto antisfratto all’alba, per accompagnare Omar e la sua famiglia nella snervante attesa della polizia e dell’ufficiale giudiziario. Omar è uno dei membri dell’Assemblea di autodifesa dagli sfratti; oggi ha venticinque anni, ha una disabilità, e sin da piccolo subisce le conseguenze psicologiche delle “soluzioni” inadeguate proposte dalle istituzioni per chi non può entrare nel mercato immobiliare. La sua famiglia ha vissuto per anni in diversi centri di emergenza, “residence” e Caat, le strutture dove il Comune di Roma ammassa le persone senza casa. Ecco cosa il comune di Roma offre agli sfrattati, nell’anno del Giubileo, quando cioè tre miliardi di euro del Pnrr verranno spesi per adattare la città all’accoglienza dei pellegrini, mentre nulla si spende per le case popolari. «Anche se lavori, con gli stipendi che ci sono oggi paghi l’affitto e muori di fame». Per tutta la vita, Omar è stato costretto a spostarsi di casa in casa, pagando subaffitti in nero e vivendo in una situazione di disagio abitativo e psicologico. Oggi Omar ha 24 anni, studia economia all’università e abita a Roma, in un appartamento senza luce né gas, insieme a sua madre e suo fratello. Due video che descrivono con le parole di Omar la situazione della sua famiglia. https://www.youtube.com/watch?v=JC5xmOtGvWk https://www.youtube.com/watch?v=7Yim8kvnfFw&t=1s The post Omar e la sua Famiglia. Una VITA senza casa first appeared on CSOA CORTO CIRCUITO.