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Dichiarazione sulle atrocità in escalation a Gaza e in Cisgiordania – Questo è genocidio
In quanto movimento binazionale di palestinesi e israeliani impegnati nella nonviolenza e nell’uguaglianza, Combatants for Peace rilascia questa dichiarazione urgente alla luce della crescente crisi umanitaria e politica a Gaza e in Cisgiordania: In risposta alla continua politica di carestia a Gaza e all’accelerazione della pulizia etnica delle comunità palestinesi in Cisgiordania, siamo costretti a parlare chiaramente: questo è un genocidio e deve essere fermato. Non usiamo questa parola alla leggera. Come sottolineato nel recente rapporto di B’Tselem, ” Il nostro genocidio “, ciò a cui stiamo assistendo non è semplicemente un fallimento nel proteggere la vita dei civili, ma la sua deliberata distruzione, autorizzata dallo Stato. A Gaza, più di 60.000 persone sono state uccise, tra cui migliaia di bambini. Famiglie muoiono di fame e interi quartieri sono stati ridotti in macerie. Israele ha sistematicamente e deliberatamente distrutto oltre il 70% degli edifici di Gaza, danneggiato o distrutto il 94% degli ospedali e spazzato via l’89% delle scuole. Gli aiuti sono ostacolati, l’acqua è tagliata e i civili vengono colpiti mentre cercano di raggiungere il cibo. Non si tratta di un disastro naturale: è una scelta politica deliberata volta a distruggere le condizioni di vita dei civili. In Cisgiordania le restrizioni alla circolazione sono peggiorate drasticamente, con posti di blocco che si moltiplicano, strade chiuse senza preavviso e interi villaggi tagliati fuori da ospedali, scuole e mercati, il tutto mentre intere comunità rurali palestinesi vengono sfollate da coloni armati e unità militari che lavorano in tandem. Nella Valle del Giordano, sulle colline a sud di Hebron e nei distretti settentrionali, case sono state incendiate, fonti d’acqua avvelenate, bestiame ucciso e persone costrette a fuggire. Proprio ieri sera, Awdah Hathaleen, un noto e amato attivista della comunità di Umm al-Khair, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco in un altro attacco omicida da parte di coloni. Settimane prima, Sayfollah Musallet è stato picchiato a morte nel villaggio di Sinjil mentre difendeva la terra della sua famiglia dall’invasione dei coloni. Questi non sono atti isolati. Fanno parte di una strategia chiara e documentata per allontanare i palestinesi dalla loro terra: ciò che il diritto internazionale riconosce come pulizia etnica. Riconosciamo anche il dolore e l’angoscia delle famiglie israeliane i cui cari rimangono tenuti in ostaggio a Gaza. Questi ostaggi devono essere restituiti illesi ora o, se necessario, devono ricevere una degna sepoltura. La loro immensa sofferenza non può essere ignorata. Ma non può nemmeno giustificare la fame e l’uccisione di massa di un’intera popolazione civile. Allo stesso tempo, migliaia di prigionieri politici palestinesi rimangono imprigionati nelle carceri israeliane, in condizioni disumane e degradanti. Molti hanno sopportato anni senza processo, in isolamento o senza accesso alla giustizia. Il loro rilascio deve essere parte di qualsiasi risoluzione politica giusta e duratura. Qualsiasi percorso significativo verso la pace deve affrontare l’intera portata delle violazioni dei diritti umani in questo conflitto, tra cui l’uso sistematico di detenzioni illegali e punizioni collettive contro i palestinesi, e il trauma, l’insicurezza e la persecuzione dei civili subiti dagli israeliani. La giustizia deve essere estesa a tutti coloro che vivono qui, senza eccezioni. Come palestinesi e israeliani che hanno scelto di percorrere la via della nonviolenza, anche in tempo di guerra, invitiamo tutte le persone di coscienza, all’interno e all’esterno delle nostre società, a parlare apertamente. Ad agire. A rifiutare la complicità e a respingere le menzogne che ci dicono che non c’è altra via. Restiamo impegnati per la pace, la nonviolenza e gli uni verso gli altri. Questo impegno affonda le sue radici nella convinzione che l’occupazione debba finire e che la giustizia non sia un sogno, ma un’esigenza. Solo allora potremo iniziare a riparare ciò che è stato distrutto e a costruire il futuro che sappiamo essere possibile: un futuro in cui palestinesi e israeliani vivano in libertà e uguaglianza, guidati da un impegno condiviso per la nonviolenza e l’umanità. In solidarietà e speranza, Combattenti per la pace.   Traduzione in italiano di Daniela Bezzi per Pressenza Italia Combatants for Peace
Sciopero della fame per Gaza
Noi, Combattenti per la Pace israeliani e palestinesi, invitiamo tutti ad aderire allo sciopero di protesta e solidarietà con i nostri fratelli e sorelle di Gaza, sottoposti a una politica di fame deliberata e di completa privazione delle condizioni di vita essenziali. Lo sciopero avrà luogo a Beit Jala, in concomitanza con lo sciopero della fame indetto dal Comitato Supremo di Coordinamento dei Palestinesi del 48′. Questo sciopero della fame è uno strumento di lotta civile e di resistenza nonviolenta congiunta, ed esprime il nostro risoluto rifiuto di usare la fame come arma. Ci rifiutiamo di continuare a vivere le nostre vite come se nulla fosse, mentre la fame viene usata per distruggere la vita di un intero popolo e il futuro comune di tutti noi. Crediamo che la vera pace inizi con la resistenza nonviolenta congiunta contro l’ingiustizia. Unitevi a noi da Beit Jala, Jaffa o da qualsiasi altro luogo vi troviate. Domenica-martedì 27-29.7.25, dalle 10:00 alle 21:00, ora di Gerusalemme, tutti i giorni * Il livestream online avrà luogo tutti i giorni nel pomeriggio (ora di Gerusalemme) adesioni anche a distanza: https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSeBvPv4wNPsObi3HwfnAGmbu4wdz5iNF_15AXNFyuhpudKYlA/viewform Combatants for Peace
Un giorno racconteranno cosa è successo
Un giorno racconteranno cosa è successo in quel posto lì. All’inizio pochi, poi un po’ di più. Dall’intensità della pressione nei loro petti, le parole saranno sussurrate, come il sibilo del vapore, dapprima alcune, esitanti. Poi un po’ di più. Ci sarà chi riuscirà a tenerle dentro e parlerà solo tra qualche decennio, quando si saranno raffreddate un po’ e non bruceranno più sulle labbra. Ci sarà chi non parlerà mai. Solo nel sonno torneranno immagini, incubi, e si sveglieranno sudati. A chi gli starà accanto, che si sveglierà anche lui allarmato, dirà che non è niente. È stato solo un brutto sogno. Un giorno racconteranno cosa è successo in quel posto lì. Forse sarà un operatore di droni a raccontare delle persone “non coinvolte” che ha ucciso. “Era un momento particolare”, spiegherà. “Era dopo gli orrori del 7 ottobre e tutti dicevano che non c’erano innocenti lì, e il presidente del paese firmò un colpo di artiglieria. Poi dissero che non si poteva rinunciare al Corridoio di Filadelfia e che la pressione militare avrebbe liberato gli ostaggi, e io avevo solo vent’anni e ci credevo. E soprattutto volevo essere un bravo soldato. Ricordo che il comandante mi diede una pacca sulla spalla quando abbattei un edificio e provai orgoglio, ma anche un certo disagio. Forse il disagio arrivò dopo, non ne sono più sicuro.” Forse sarà un comandante di battaglione corazzato. “Abbiamo sparato all’ospedale perché dicevano che era ‘הופלל – hoflal’ (nel gergo delle IDF o della sicurezza, quando un edificio o un luogo viene definito “הופלל – hoflal”, significa: è presumibilmente utilizzato dai combattenti). Col senno di poi, penso che sia esattamente quello che abbiamo fatto: abbiamo incriminato. Abbiamo accusato, e anche se non sempre c’erano prove, abbiamo emesso una sentenza – spesso [la sentenza era] la morte. Ma poi abbiamo semplicemente pensato che questi fossero gli ordini. E poi, cosa non bella da dire, avevamo paura. Non ne abbiamo parlato con i giornalisti militari che sono entrati, e ai politici che ci hanno mandato non importava granché. Ma quella paura costante, la paura e il nervosismo – ti rendono insensibile. Li ho visti, attraverso il binocolo, disperdersi nei convogli, senza niente, smarriti, e ho ripensato a quelle immagini con cui siamo cresciuti. Non si dovrebbe fare paragoni, ma con la mano sul cuore, questo è ciò che mi è venuto in mente. Non hai il controllo su queste cose. Ma cosa avrei potuto fare, davvero? Ripensandoci, mi sembra che la cosa che temevo di più fosse che i miei ufficiali, persino i miei soldati, mi considerassero yafeh nefesh, [“anima bella”; termine dispregiativo per qualcuno considerato troppo morale o ingenuo], che dicessero che… non lo so. È difficile da spiegare oggi. O forse sarà un portavoce dell’IDF a rivelare in un post sui social media, di aver redatto un comunicato stampa in cui si affermava che l’ospedale era un quartier generale di Hamas. “In seguito, ho sentito su uno dei canali televisivi, come il comunicato che avevo redatto avesse preso vita propria. Uno dei giornalisti ha detto che l’ospedale era un ‘nido di vespe’. Ho cambiato idea. E in tutti gli articoli che ho scritto sul giornale da allora, non ne ho mai parlato. Strano, vero?” Forse sarà uno di quei commentatori a essere ricordato di quei giorni. “Dovete capire”, dirà, “quella era l’atmosfera. Veniva dalla redazione e, in ultima analisi, dai proprietari del canale. E poi, se il portavoce dell’IDF ci ha passato delle informazioni, di certo le hanno controllate prima. Dopotutto, non si distrugge un ospedale così. Cosa siamo, animali? Eppure, forse avrei dovuto dire di più. Sospettavo che stessimo facendo cose… come dire… Dopotutto, sono usciti così tanti video, centinaia. Ma no…” E un uomo anziano racconterà alla nipote che per tutto questo tempo è andato a lavorare come al solito. “Non è che tutto si sia fermato o qualcosa del genere. Ogni giorno decine di persone venivano uccise laggiù, a Gaza, a volte più di cento, ma non ne parlavano in TV. Voglio dire, parlavano di Gaza, ma non di queste cose. Parlavano principalmente di ‘manovre potenti’ e di quanti membri di Hamas avessimo ucciso. Non dicevano che stavamo annientando tutto, che stavamo distruggendo tutto. Non dicevano che stavamo facendo morire di fame la gente, solo che non facevamo arrivare gli aiuti. Vedete? Forse è per questo che non abbiamo protestato. Poi è arrivata la guerra con l’Iran e non ne hanno parlato affatto. Hanno smesso di parlare anche dei rapiti, persino dei soldati che sono stati uccisi. Vedete? Per quelli in alto, la vita aveva perso valore, e noi? Ci eravamo abituati.” Un giorno racconteranno cosa è successo lì. All’inizio pochi, poi un po’ di più. Molti altri rimarranno in silenzio, per paura di incriminare se stessi o i propri compagni dell’unità. Pochi ascolteranno con interesse, molti altri si muoveranno a disagio. Altri continueranno a giustificare le uccisioni e la distruzione, l’espulsione e la fame, per il resto della loro vita. Se hai anche solo il minimo timore di non essere uno di loro, che un giorno te ne pentirai; se senti, anche vagamente, in un modo che non si può esprimere a parole, che ogni giorno che passa un’altra arteria del tuo cuore si blocca, un’altra parte della tua anima viene distrutta – non ignorare, non rimanere in silenzio, non restare a guardare. Chiedi di Gaza, parla di Gaza, opponiti alle uccisioni. Scegli la vita. Avner Wishnitzer Avner Wishnitzer è un co-fondatore di Combattenti per la Pace ed è docente di storia all’Università di Tel Aviv. Riprendiamo con il suo permesso questo recente articolo per la testata on line in lingua ebraica Local Call.   Pressenza IPA
Israeliani e Palestinesi insieme per la nonviolenza: a Firenze una voce coraggiosa
In un momento storico segnato da guerre, tensioni internazionali e politiche di chiusura, oggi a Firenze si è tenuto un evento che ha dato voce al coraggio, alla disobbedienza creativa e all’umanità. La presentazione del libro “Combattenti per la Pace – Palestinesi e israeliani insieme per la liberazione collettiva”, organizzata dal Gruppo Misto Europa Verde al Consiglio Regionale della Toscana, ha portato nella Sala Affreschi del Palazzo del Pegaso un messaggio forte e chiaro: la pace è possibile solo se parte dal basso, dalle persone, da chi ha scelto di non odiare più. Un incontro ricco di emozioni e riflessioni sulla pace in Palestina che ha visto protagonisti,  in collegamento video, due attivisti dei Combattenti per la Pace, Sulaiman Khatib (palestinese, uno dei fondatori del movimento) e Moran Zamir (israeliano), che hanno raccontato la loro esperienza ventennale di attivismo congiunto tra israeliani e palestinesi, le loro metodologie nonviolente e manifestato la convinzione che solo dal dialogo tra le persone, dalla conoscenza reciproca ci si possa muovere verso la convivenza e la riconciliazione. Le interviste realizzate da Pressenza ai Combattenti sono state  raccolte nel volume curato da Daniela Bezzi per l’Associazione  Multimage, hanno emozionato e colpito i numerosi partecipanti, rivelando una verità semplice e potente: l’incontro umano può disinnescare anche i conflitti più radicati. Ad aprire l’incontro è stata la consigliera regionale Silvia Noferi (Europa Verde), che ha lanciato la proposta di ospitare anche in Toscana un incontro tra ex combattenti, come quello recentemente promosso in Francia dal presidente Macron. “Dare voce a chi sceglie la nonviolenza è un atto politico e culturale profondo – ha dichiarato –. La Toscana ha una lunga tradizione di impegno per i diritti: è tempo di rilanciare con forza questa vocazione”. A fare eco alle sue parole, Eros Tetti, co-portavoce di Europa Verde Toscana: “Le guerre le fanno i potenti, ma a pagarne il prezzo sono i più deboli. I popoli desiderano solo vivere in pace. Per questo dobbiamo costruire insieme una Toscana Terra di Pace, che metta al centro l’umanità e la convivenza”. A prendere la parola anche Eugenio Giani, presidente della Regione Toscana, che ha apprezzato la proposta di Noferi: “Questa è una bella iniziativa. La Toscana è sempre stata un luogo di dialogo per la pace. Domani, alla Cittadella della Pace di Rondine con il Presidente della Repubblica, lanceremo proprio questo messaggio: mettere in contatto israeliani e palestinesi che scelgono la pace”. Ma Giani ha spinto oltre, annunciando l’intenzione di coinvolgere altre Regioni per discutere una proposta di legge di iniziativa regionale per il riconoscimento dello Stato di Palestina: “Sto parlando con altri presidenti di Regione. Anche se le competenze non sono nostre, sono ottimista: la politica deve avere il coraggio di proporre, anche oltre i confini formali”. L’incontro di oggi non è stato solo una presentazione, ma un atto simbolico e concreto: riportare la questione israelo-palestinese dentro il dibattito pubblico, con toni diversi da quelli dominanti. Non propaganda, ma ponti. Non slogan, ma storie di vita. L’evento ha visto la partecipazione anche del Presidente del Consiglio Regionale Antonio Mazzeo, confermando il sostegno delle istituzioni regionali a percorsi di dialogo e riconciliazione. L’iniziativa si inserisce in un contesto europeo e globale in cui il movimento per la pace ha bisogno di nuova linfa. Dare visibilità a chi sceglie la nonviolenza, in un conflitto ancora oggi lacerante, significa indicare una via diversa dalla rassegnazione o dal tifo ideologico. Significa affermare che la convivenza è un diritto e una speranza, non un’utopia. “Europa Verde Toscana rilancia così la sua visione: una politica che non alimenta le paure ma costruisce speranze, una Regione che non si limita a osservare ma si mette in gioco, un impegno concreto per una Toscana che torni ad essere un faro di pace e giustizia nel Mediterraneo”. Conclude Eros Tetti. Redazione Toscana
Un messaggio urgente dai Combattenti per la Pace e da altre associazioni
Negli ultimi giorni, Israele ha intensificato i suoi attacchi contro Gaza, dopo aver bloccato per oltre dieci settimane ogni ingresso di aiuti e altri beni nella Striscia. La recente dichiarazione del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, secondo cui Israele consentirà l’ingresso di “una quantità minima di cibo per la popolazione” al fine di continuare la guerra, dimostra che Israele non ha alcuna intenzione di abbandonare il suo uso illecito degli aiuti come leva di pressione politica. Ogni giorno, l’esercito israeliano uccide e ferisce centinaia di palestinesi a Gaza. Tutti i residenti della Striscia sono a rischio carestia, mentre il sistema sanitario è al collasso a causa della grave carenza di medicinali, attrezzature mediche e carburante. Israele sta deliberatamente infliggendo condizioni che rendono la vita impossibile a Gaza, con l’obiettivo dichiarato di attuare una pulizia etnica. Israele deve fermare subito gli attacchi e permettere l’ingresso degli aiuti! Il piano formulato da Stati Uniti e Israele per la distribuzione di beni non soddisfa le enormi esigenze umanitarie create dal blocco e dai continui attacchi. Le Nazioni Unite e altre organizzazioni umanitarie internazionali che operano a Gaza hanno categoricamente respinto il piano, sostenendo che non rispetta i principi umanitari fondamentali. Israele ha apertamente dichiarato che il piano mira a promuovere i suoi obiettivi di espansione della presenza fisica a Gaza e di trasferimento forzato della popolazione civile. I crimini di guerra commessi da Israele, che potrebbero anche costituire crimini contro l’umanità, non possono più essere accolti con il silenzio e la continua inazione della comunità internazionale. Chiediamo nuovamente il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi. Allo stesso tempo, Israele deve cessare immediatamente i suoi attacchi, porre fine alla sua politica di fame, aprire i valichi di frontiera per gli aiuti a Gaza e consentire alle organizzazioni umanitarie nella Striscia di svolgere il loro lavoro. Aderiscono a questo appello: Academia for Equality, Akevot, B’Tselem, Bimkom, Breaking the Silence, Culture of Solidarity, Combatants for Peace, Emek Shaveh, Gisha, HaMoked – Center for the Defence of the Individual, Ir Amim, Isha L’Isha, Itach Ma’aki, Jahalin Solidarity, Jordan Valley Activists, Looking the Occupation in the Eye, Machsom Watch, Mizrahi Civic Collective, Mothers Against Violence, Neve Shalom, Other Voice, Osot Democratia, Oz VeShalom, Policy Working Group, Physicians for Human Rights Israel, PsychoActive, Rabbis for Human Rights, The Association for Civil Rights in Israel, The Parents Circle – Families Forum, The School for Peace in Wahat al-Salam Neve Shalom, This is Not an Ulpan, Yesh Din, Your Neighbor As Yourself, Zazim   Redazione Italia
A Beit Jala la Commemorazione Congiunta della Nakba organizzata dai Combattenti per la Pace
 Anche quest’anno, per la sesta volta,  i ‘Combattenti per la Pace’ hanno organizzato oggi, 15 Maggio, a Beit Jala in Cisgiordania la Commemorazione Congiunta della Nakba. E’ possibile seguire la diretta streaming  a partire dalle 19 di oggi 15 Maggio chiedendo il link qui: https://form.jotform.com/251032941203443 ); Tra i vari contributi: la refusenik Sofia Or leggerà la testimonianza di un soldato che nel 1948 partecipò alle operazioni di espulsione dei palestinesi in un certo villaggio, che non è più;  molto bello e sentito l’intervento di Lee Mordecai, docente di storia antica a Princeton che tornato in Israele sta lavorando a un monumentale progetto di documentazione di tutti i crimini commessi giorno dopo giorno a Gaza (perché nessuno possa dire: io non sapevo…). La registrazione della serata resterà comunque disponibile da domani sui canali social dei Combatants for Peace. Inoltre qui : https://www.pressenza.com/it/2025/05/15-maggio-nakba-day-tantissime-le-manifestazioni-per-commemorare-la-catastrofe-che-non-e-mai-finita/ abbiamo pubblicato un’intervista alla co-direttrice dei ‘Combatants’ Rana Salman, a introduzione della Cerimonia. Link per sostenere il lavoro dei Combattenti per la Pace: https://www.cfpeace.org/donate Redazione Italia
15 maggio, Nakba Day: tantissime le manifestazioni  per commemorare la catastrofe che non è mai finita
Domani sarà il 15 maggio, 77imo anniversario della ‘catastrofe’ (questo il significato della parola Nakba, come ormai tutti sappiamo) che nel 1948 inaugurò l’esistenza dello stato di Israele con l’espulsione di 750.000 mila palestinesi dalle loro abitazioni e la scomparsa di centinaia di villaggi e insediamenti abitati da generazioni.  Un evento da sempre tabù per la società israeliana, argomento da evitare nel discorso pubblico e nei talk show: “la parola stessa suona ripugnante” ebbe a scrivere Bruno Segre qualche anno fa in un lungo saggio per la rivista Il Mulino “tant’è che di Nakba e di rifugiati palestinesi non si fa cenno né nei corsi liceali di storia né in alcun museo.” E parola più che mai impronunciabile quest’anno, che ancor più di sempre non sarà solo un anniversario, ma la constatazione di una catastrofe che non ha mai avuto fine, che di anno in anno si è solo aggravata, che nell’ultimo anno ha registratp lo sterminio di oltre 52.000 civili nella striscia di Gaza, e l’avanzata sempre più violenta e aggressiva dei coloni in Cisgiordania. Moltissime le manifestazioni previste in varie città europee, come potete vedere dallo slide show alla fine di questo articolo. La prima in ordine di tempo si è svolta già sabato scorso a Lione, 10 maggio, in centinaia all’appuntamento di Piazza Bellecour per l’inaugurazione di una mobilitazione nazionale che nell’arco della settimana e fino a sabato 17 vedrà coinvolte ben 45 città in  tutta la Francia, con la lettura di tutti i nomi dei martiri censiti dal Ministero della Salute di Gaza. Ci sarà un preciso dress code da osservare, tutti vestiti a lutto. E niente musica né slogan, solo qualche candela: un Nakba Day di grande raccoglimento.  Il giorno dopo, domenica 11, è stata la volta di Bruxelles, in decine di migliaia all’appuntamento alla Gare du Nord per denunciare le responsabilità storiche dell’Europa nel conflitto in corso, fin dalla dichiarazione di Balfour del 1917, passando per le varie risoluzioni che portarono alla Nakba, fino ai giorni nostri.   E veniamo agli appuntamenti previsti in Italia domani, 15 maggio, che saranno parecchi: – a Roma dalle ore 11, Presidio davanti alla Farnesina, Viale dei Giusti, per dire Stop al Genocidio; – a Ferrara, dalle ore 16.30 in Piazza Cattedrale, manifestazione promossa dal collettivo “Ferrara per la Palestina”; – a Parma, dalle 17, la Comunità Palestinese organizza una serata in Piazzale Inzani: lettura di testimonianze, presentazione di un libro, su voladora.noblogs.org tutto il programma; – a Rimini, 18.30 a Piazza Cavour: azione scenica con musica di Emiliano Battistini, poesie e letture varie (organizza “Assopace Palestina” insieme a “Vite in transito”);  – a Vicenza, stessa ora, “Fiaccolata Rumorosa” da Piazza Esedra: portare torce e pentolame ad hoc. Succedono ancor più cose sabato 17 maggio: * a Londra è prevista una grande Marcia per la Palestina che partirà dalla stazione di Embankment per raggiungere Downing Street, con la partecipazione di manifestanti da tante altre città; * a Parigi l’appuntamento sarà alle 14 a Piazza Stalingrado, per il riconoscimento dello stato palestinese e per la liberazione di Georges Ibrahim Abdallah, militante libanese detenuto in Francia dal 1984, la detenzione politica più lunga d’Europa.   Ma per restare agli appuntamenti previsti dall’Associazione dei Palestinesi in Italia: – a Firenze dalle ore 14.30 a Piazza Santa Novella; – a Napoli, dalle 15 corteo da Piazza Garibaldi;  – a Milano, dalle 15 da Corso Lodi fino a Corvetto; – a Torino, stessa ora da Piazza Crispi.  Piccolo-gran finale il 18 maggio nella cittadina di Lodi, con il Corteo di Solidarietà con il Popolo Palestinese con partenza da Piazza Castello alle 11. Ma senz’altro l’appuntamento più importante sarà quello organizzato anche quest’anno dai “Combattenti per la Pace” a Beit Jala, in Cisgiordania.  “Da sei anni questa ricorrenza è diventata un momento annuale molto importante all’interno del nostro programma di attività” tiene a sottolineare Rana Salman, co-direttrice palestinese del movimento, che abbiamo raggiunto per telefono l’altro giorno. “Sarà un evento non meno importante della Memorial Ceremony in ricordo dei caduti di entrambi i fronti del conflitto, che abbiamo appena finito di celebrare lo scorso 29 maggio con una risposta di pubblico che non ci aspettavamo: nonostante il grande teatro che avevamo predisposto a Jaffa, moltissimi non sono riusciti a entrare e abbiamo dovuto organizzare proiezioni in streaming all’esterno. Per non dire dei collegamenti in numerose altre città d’Israele, Palestina e in tutto il mondo, una risposta davvero notevole – purtroppo funestata dal grave episodio che si è verificato nella cittadina di Ra’anana, dove la proiezione che era stata prevista all’interno di una Sinagoga è stata impedita da una squadraccia di fondamentalisti, un fatto senza precedenti! Speriamo che vada tutto bene con l’evento di domani sera, che sarà in una piazza, non più di 200 posti a sedere e diretta streaming per quanti vorranno seguirci, speriamo siano in tanti.” (Link per registrarsi qui : https://form.jotform.com/251032941203443)  Quale sarà il tema di quest’anno? “Il tema sarà la casa, così presente per gli israeliani in termini di ‘terra promessa’ e così sentìto per i palestinesi come storia di continua perdita. Aggrapparsi alla casa, aggrapparsi alla speranza: questo il titolo che abbiamo scelto per questo nostro Nakba Day che quest’anno non sarà solo ricorrenza, considerata la tragedia di spossessamento, distruzione, assedio, che vediamo succedere da oltre 18 mesi nella striscia di Gaza, un’intera popolazione condannata a vagare da una tendopoli all’altra sotto i bombardamenti. Per non dire della Cisgiordania dove l’aggressione dei coloni, e l’espulsione dei legittimi proprietari dalle loro case, specie se aziendine agricole, fa parte della quotidianità, con il concorso dell’esercito. Situazione drammatica…” Vuoi darci qualche anticipazione di programma?  “Avremo due belle testimonianze: la prima di Aziz Qatashahm, rifugiato della Nakba del 1948 ormai anziano, costretto a lasciare il villaggio di Beit Jibreen, non lontano da Hebron, dove la sua famiglia viveva da sempre; la seconda sarà una video testimonianza da Gaza di Dima Elhelou, ragazzina di 14 anni che ha vissuto lo sfollamento innumerevoli volte all’interno della striscia dopo aver perso tutto ciò che aveva. L’abbiamo coinvolta grazie a uno dei suoi familiari, attivo nella nostra organizzazione. Poi avremo la testimonianza di un militare israeliano che 77 anni fa si trovò in servizio come agente della Nakba: un testo che, significativamente, verrà letto dalla refusenik Sofia Orr, la cui scelta di obiezione di coscienza ha avuto una notevole eco a livello internazionale e creato non poco rumore in Israele. Importante sarà il contributo di Lee Mordechai, intellettuale israeliano che dall’Università di Princeton, dove insegna Storia dell’epoca bizantina, ha scelto di vivere per qualche tempo in Israele e da mesi sta documentando, sotto forma di accuratissimo archivio digitale tutti i crimini di guerra e le atrocità commesse a Gaza.  E infine avremo un intervento del palestinese Thabet Abu Rass, analista politico e figura piuttosto nota all’interno della società civile israelo-palestinese, che ribadirà l’importanza di pratiche di confronto e di dialogo, come queste che la nostra organizzazione sta portando avanti da anni, per contribuire a quel percorso di umanizzazione e riconciliazione che è l’unico possibile futuro per entrambi i nostri popoli. Alla conduzione della serata ci sarà Abigail Szor, giovane attivista ed educatrice che si è formata all’interno della nostra Freedom School e ben rappresenta una crescente quota di giovani israeliani che, nonostante le omissioni del sistema scolastico e il silenzio del mainstream, vogliono sapere come sono andate veramente le cose, e quali sono le radici del conflitto che da sempre ci opprime tutti quanti. Che è il solo modo per inaugurare un processo di collettiva guarigione, dai troppi traumi inflitti e subiti.” Link per sostenere il lavoro dei Combattenti per la Pace:  https://www.cfpeace.org/donate Daniela Bezzi
15 maggio, Anniversario della Nakba: dai Combattenti per la Pace un messaggio e un invito a partecipare
Ieri era la Festa della Mamma e mentre molte di noi si sono goduti i messaggi di auguri, ho pensato a tutt’altro. Ho pensato alle famiglie che ho incontrato pochi giorni fa nella Valle del Giordano settentrionale: madri e bambini palestinesi che subiscono violenze quotidiane, le loro vite soffocate da una realtà che nessun bambino o genitore dovrebbe sopportare. Come madre che vive in Israele, penso costantemente al tipo di mondo in cui vorrei che crescessero i miei figli. Voglio che abbiano il coraggio di ascoltare, di aprire il cuore agli altri che ci descrivono come nemici. Voglio che vedano ogni persona, indipendentemente dalla sua provenienza, come qualcuno che merita pari dignità, sicurezza e una casa. Ecco perché vi invito a unirvi a me per la Cerimonia Congiunta di Commemorazione della Nakba che anche quest’anno, 15 maggio, sarà organizzata dal Movimento dei Combattenti per la Pace e avrà come tema: Aggrapparsi alla Casa, Aggrapparsi alla Speranza. Perché il mondo che vorrei per i miei figli inizia dalla scelta di vedere, ascoltare e prendersi cura. Per registrarsi ecco il link: https://form.jotform.com/251032941203443  Per sostenere il nostro lavoro: https://www.cfpeace.org/donate Come israeliana, ho imparato l’importanza di mettermi alla prova per ascoltare le dure verità. Cerco di immaginare come sarebbe crescere una famiglia sotto occupazione militare, senza le libertà e la sicurezza che a volte do per scontate. Ho capito che la parola Nakba (ossia catastrofe) non è qualcosa di cui aver paura, ma qualcosa che dobbiamo riconoscere se vogliamo davvero un futuro diverso. Questa cerimonia significa affrontare la storia con occhi aperti e trovare la forza di affermare che i diritti umani appartengono a tutti. Pochi giorni fa sono tornata da una visita alle comunità di Hamra, Ein Hilweh e Farisya in Cisgiordania. Ad Hamra abbiamo incontrato la famiglia Abu Sayf, che ci ha raccontato come i coloni – guidati da Moshe Sharvit, un uomo sanzionato a livello internazionale per attacchi violenti – gli abbiano rubato l’intero gregge di pecore. Mentre mangiavano pane appena sfornato e si riparavano da un improvviso acquazzone, la famiglia ha descritto la sua lotta quotidiana per rimanere sulla propria terra, mentre i coloni disturbavano la loro casa con raggi laser anche di notte, e impedivano ai loro figli di andare a scuola. Tutto questo mentre un uomo di 90 anni era ricoverato in ospedale dopo essere stato aggredito pochi giorni prima da un colono. A Ein Hilweh alle mandrie è impedito di raggiungere i pascoli, e i pastori di Farisya hanno descritto come l’esercito israeliano abbia designato i terreni circostanti come “zone di esercitazione” e “riserve naturali”, privandoli dei pascoli e dell’accesso all’acqua, mentre i coloni vicini li molestavano impunemente. Sono rimasta colpita dalla profonda forza di queste comunità – persone che si sono prese cura di questa terra con competenze tramandate di generazione in generazione – ma anche dalla loro profonda vulnerabilità. Non perché siano deboli, anzi, ma perché sono state sistematicamente abbandonate. Persino le crudeli regole dell’occupazione vengono violate impunemente, mentre la violenza dei coloni si diffonde e la responsabilità viene dimenticata. Eppure, ho trovato speranza. Le famiglie che abbiamo incontrato, ferme e resilienti di fronte a circostanze impossibili, continuano a vivere con dignità, crescendo i figli e curando la terra come meglio possono, nonostante le minacce. Attivisti israeliani e internazionali sono presenti, offrendo protezione, testimoniando e opponendosi a questa ingiustizia. La loro presenza rende più difficile che questa violenza rimanga invisibile e mi ricorda che, anche nella disperazione, tutti abbiamo un ruolo da svolgere.Tornerò nella North Jordan Valley e voglio che anche altri vengano con me. Voglio che i bambini che incontrerò lì – allegri, brillanti, pieni di energia – crescano con le cose semplici che ogni bambino merita: sicurezza, libertà e pace. E voglio che le madri crescano i loro figli senza paura, che abbiano lo spazio per sperare, crescere e riposare. Che possano sognare, come me, una vita migliore per i loro figli – e che sappiano di non essere soli. I bambini non possono scegliere il mondo in cui nascere, ma come madri e come adulte, possiamo fare delle scelte. Che siano israeliani, palestinesi o stranieri, possiamo trovare il coraggio e la convinzione di offrire a ogni bambino la stessa cura, empatia e amore che desideriamo per i nostri. Con speranza e determinazione, Laura Morris Direttrice dello sviluppo dei Combattenti per la Pace Redazione Italia
Verso il People’s Peace Summit di Gerusalemme, 8-9 maggio. Quando le donne si muovono…
Mancano ormai pochissimi giorni al Peace Summit di Gerusalemme ed eccomi a parlare su zoom con queste tre donne formidabili, che già sono state tra le principali organizzatrici di quella prima convention che il 1° luglio scorso ha riempito il Menorah Stadium di Tel Aviv (ne abbiamo parlato qui), con il sostegno di cinquanta organizzazioni pacifiste arabo-israeliane. Ed eccole di nuovo nello stesso ruolo di “art directors” per questo prossimo evento di Gerusalemme che vede coinvolta un’alleanza ancora più ampia. Si chiamano Mika Almog, May Pundak e Maya Savir, e tutte e tre potrebbero essere descritte come “figlie d’arte” nell’arte, o meglio, infinita ricerca della “pace”. La prima che vedete nella foto, Mika, è infatti la nipote di Shimon Peres, Premio Nobel nel 1994 insieme a Yitzhak Rabin ed Arafat per gli Accordi di Oslo, ed è ben nota in Israele come attrice, sceneggiatrice e giornalista (molto polemista); la seconda, May, è un avvocato, alla guida (insieme alla palestinese Rule Hardal) dell’organizzazione A Land for All, ed è figlia del pacifista Ron Pundak, scomparso nel 2014 e considerato tra i principali ‘architetti’ dei suddetti accordi; la terza, Maya Savir, è nel direttivo dell’organizzazione Search for Common’s Ground e ha lavorato in vari progetti di sviluppo in Sudafrica che l’hanno portata a scrivere un libro intitolato On Reconciliation, sul processo di riconciliazione in Sudafrica e Ruanda, oltre a essere figlia del pacifista e scrittore Uri Savir, che addirittura guidò i negoziati che portarono agli accordi di Oslo. Tre donne che con la pace (o meglio: con la difficoltà di arrivarci) sono proprio cresciute. Ed eccole a condividere di nuovo la sicura riuscita di questa due giorni che si terrà a Gerusalemme l’8 e il 9 maggio per ribadire la richiesta di un accordo che consenta a entrambi i popoli di immaginare “il giorno dopo la fine del conflitto”, un compito davvero enorme… Qual è stato per voi l’inizio di questo impegnativo percorso? Maya Savir – A pochi mesi dall’inizio della guerra era tutto così terribile, come ricorderete, e a un certo punto un piccolo gruppo di donne, credo non più di dieci, si è riunito per ragionare sul che fare: era inverno, era buio, faceva freddo, ma sentivamo il bisogno di agire. Si sono tenute varie riunioni a Tel Aviv e abbiamo capito che per superare lo scoraggiamento, era necessario mettersi al lavoro per creare questo “campo di pace”, per donne e uomini, se non altro per contarsi e magari scoprire che non siamo pochi, ma anzi più di quanto pensiamo. La gravità della situazione dopo il 7 ottobre era tale che abbiamo chiamato questo progetto “È ora”, per significare l’urgenza… Abbiamo immediatamente lavorato all’idea di una coalizione che è davvero unica, perché, come puoi immaginare, non è facile mettere d’accordo così tante organizzazioni, ognuna con il proprio background di pensiero critico. Ma la situazione era così grave che siamo riuscite ad andare oltre le differenze e a convergere sui punti fondamentali: immediato cessate il fuoco, fine dell’occupazione, un accordo di pace tra due Stati alla pari, questi erano i punti che ci vedevano tutte d’accordo. May Pundak – L’urgenza della nostra risposta è stata innescata da un’enorme conferenza organizzata dal movimento dei coloni a Gerusalemme poco dopo l’inizio della guerra, con la partecipazione di diversi rappresentanti del governo, tutti di estrema destra. Una parata impressionante, erano in tantissimi… Mika Almog – La nostra insomma è stata una risposta senza precedenti a una situazione senza precedenti, e mi riferisco solo in parte a quanto accaduto il 7 ottobre a Gaza. Tutto ciò che ha portato a quel momento, tutto ciò che è successo in Israele negli ultimi 30 anni, la messa in pericolo della nostra democrazia: non è un caso che non si possa nemmeno più parlare di pace, il concetto stesso è stato ridicolizzato! Il processo di rimozione di ogni tipo di confronto da parte del nostro governo era diventato sempre più estremo e questo ha causato un senso di totale impotenza in chiunque volesse riaccendere il dibattito. Dopo il 7 ottobre si aveva l’impressione che tutto si stesse spostando a destra, anche perché la sinistra aveva così poco da offrire… E riguardo alla conferenza dei coloni citata da May, ricordo il commento di una di noi, Tami Yakira, che lavora per il New Israel Fund: “Noi ci posizioniamo in opposizione a loro, ma la loro forza è come riescono a proiettare la loro visione del futuro” e questo è stato probabilmente il punto di partenza: il desiderio di riaccendere una risposta, e la consapevolezza che doveva essere forte e che per essere forte era necessaria un’organizzazione forte … E come sapete, all’interno dei movimenti possono esserci differenze di ogni tipo, ma la priorità di concordare su qualcosa di così importante ha superato il privilegio di dissentire su questioni secondarie. Queste dieci donne erano là in rappresentanza di alcune particolari organizzazioni? Maya – Solo alcune, è stato davvero un incontro spontaneo e poi ognuna ha convocato altre donne e naturalmente anche uomini, e il lavoro di rete ha fatto sì che in 6 mila abbiamo riempito il Menorah Stadium di Tel Aviv il 1° luglio scorso: eravamo in 50 organizzazioni, e per questi prossimo evento saremo più di 60,  stiamo crescendo! Tutte loro sono rappresentate all’interno del comitato direttivo, organizzate in gruppi di lavoro. E ognuna di loro contribuisce con la propria prospettiva e visione e questo ci rende più forti. May – La difficoltà di elaborare una narrazione coerente è sempre stata un problema per la sinistra in tutto il mondo. Come dicevano Mika e Maya, c’è molto pensiero critico, che a volte genera disunità, e questo non è ciò che vediamo sul fronte opposto al nostro: ciò che vediamo è piuttosto una forte unità, la capacità di mobilitarsi compatti per ciò che considerano il “bene supremo”. Ma mi sembra che molti che in passato sono stati magari poco attivi a livello politico si stanno risvegliando, con l’obiettivo di creare una nuova narrazione. Sono disponibili a contribuire con idee forti, con una nuova visione, con immaginazione politica, per aggregare sempre più soggetti dal basso, per fare massa critica, e con inedita creatività, cultura, competenze: siamo in questo incredibile momento di partecipazione, in cui si riscopre il bisogno di essere uniti, come vediamo da questa gran varietà di eventi, persone, luoghi, settori e credenze diversi, unite dal desiderio di realizzare qualcosa d’importante. E la pace è davvero per tutti, che siate religiosi o laici, più o meno giovani, amanti della musica… la pace è per tutti, questa è la forza di ciò che stiamo facendo. Mika – Una caratteristica molto importante di questa alleanza è che è composta da organizzazioni ebraiche e arabe, sia all’interno di Israele che transfrontaliere: è il caso dell’organizzazione di cui May è co-direttrice che si chiama A land for All, come dell’organizzazione che io stessa dirigo. Nella loro struttura e leadership, hanno tutte una partecipazione sia israeliana che palestinese a tutti i livelli, dall’alto verso il basso. E anche i  dibattiti e gli incontri del Peace Summit sono stati concepiti secondo questo criterio di rappresentanza binazionale. Dal 1° luglio dell’anno scorso ad oggi la situazione è molto cambiata e in peggio; stiamo assistendo in tempo reale a una catastrofe senza precedenti… Eppure state descrivendo un movimento pacifista in crescita, con una partecipazione della società civile inimmaginabile pochi mesi fa. Mika – E’ così. A volte è necessario raggiungere un certo abisso di crisi per cambiare rotta. Imparare dai conflitti risolti in altri luoghi del mondo sarà infatti uno dei temi principali del nostro Peace Summit… Maya – … avremo esperti che parleranno di come è stata raggiunta la pace in Irlanda del Nord e in Bosnia, e ricercatori che hanno studiato e confrontato il “filo conduttore” che caratterizza questi processi e ciò che tutti hanno in comune: quel punto di rottura che porta a rendersi conto che le promesse fatte più e più volte per raggiungere la vittoria sono semplicemente… inattuabili. Anche qui da noi l’accettazione generale della guerra come unica opzione è molto cambiata rispetto a quando abbiamo iniziato a immaginare questi eventi di pace mesi fa: la situazione è diventata così catastrofica, come hai detto, che rende possibile parlare di pace come mai prima. Sempre più persone capiscono che non c’è altra scelta. Solo pochi giorni fa abbiamo assistito a quell’incredibile piazza piena di gente a Tel Aviv, in protesta non solo per gli ostaggi, ma anche per i 18.000 bambini uccisi a Gaza…  Mika – … e poi la Cerimonia Commemorativa Congiunta organizzata dai Combattenti per la Pace insieme al Parents Circle Family Forum, seguita in streaming da migliaia di persone in tutto il mondo. Entrambi gli eventi sono stati organizzati da membri della nostra alleanza, quello di Tel Aviv da un formidabile movimento che si chiama Standing Together, che ha contribuito anche alla Cerimonia Commemorativa. E’ così che “funziona” questa coalizione: come un movimento di movimenti, ed è un grosso risultato. Maya – Tornando alla difficoltà di parlare di pace: prima del 7 ottobre la maggioranza degli ebrei israeliani considerava il conflitto “controllabile” o comunque distante, ma ora le cose sono cambiate. Anche se troppi israeliani continuano a sostenere soluzioni inquietanti e immorali, finalmente c’è un dibattito. C’è una crescente consapevolezza che il 7 ottobre è successo per una serie di ragioni… e che la pace è l’unico modo per impedirne un altro. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno: amplificare il dibattito, è il solo modo per contrastare la mentalità della destra. Mika – Una prova che le cose stanno cambiando è la lettera sottoscritta da centinaia di piloti qualche settimana fa: ha dato il via a un dibattito enorme, migliaia di riservisti si sono espressi in solidarietà, con i loro nomi, prendendo posizione. Alcuni di loro saranno al Peace Summit per l’evento di apertura, fantastico! E quindi è vero che da un lato le cose stanno peggiorando, una catastrofe senza precedenti come hai detto; dall’altro però si stanno creando queste piattaforme di aperta opposizione alla guerra, e sembra che l’opinione pubblica sia finalmente disposta ad ascoltare… Maya – Per molto tempo la grande maggioranza degli ebrei israeliani ha scelto di ignorare cosa stava succedendo a Gaza, ma ora è diverso: sempre più atrocità commesse dagli israeliani stanno raggiungendo gli ebrei israeliani e stiamo assistendo a una reazione, forse non abbastanza forte, ma è un inizio. May – Come ha già sottolineato Maya, prima degli eventi del 7 ottobre la sfida più grande era convincere gli israeliani e la comunità internazionale della necessità di porre fine a questa guerra: la sfida era l’accettazione, lo status quo. Ciò che è chiaro ora è che quei tragici eventi hanno creato quella che considero un’opportunità molto importante per far capire a un numero crescente di persone che non si può continuare così: l’urgenza di porre fine a tutto questo non è mai stata così chiara. Il fatto che parecchi israeliani stiano sostenendo le atrocità in corso a Gaza può suggerire che la società israeliana sia irrecuperabilmente malata di razzismo ed estremismo… ma allo stesso tempo assistiamo a un graduale spostamento dell’opinione pubblica, che si rende conto che risolvere il conflitto è l’unica via verso la sicurezza. È quindi vero che la società israeliana sta attraversando il suo momento più buio, ma allo stesso tempo sempre più persone stanno capendo che per porre fine al conflitto è necessario un accordo politico che preveda uno Stato palestinese indipendente e sovrano. È importante considerare entrambe queste tendenze nella loro complessità e il fatto che non si escludono a vicenda, come emerge anche dai sondaggi. Maya – La consapevolezza che non si può sopravvivere affidandosi alla forza militare, come continua a proporre la destra, è un segno di maturità. Quello a cui stiamo assistendo tra tanti ebrei israeliani, in risposta a questa opzione militare esclusiva, è un sentimento di tradimento: gli ostaggi sono stati traditi, i soldati che abbiamo mandato a combattere si sentono traditi per essere stati coinvolti in crimini di guerra, e la gente è stanca di non vedere alcuna ragione in tutto questo, a parte i problemi legali del nostro primo ministro, che è un uomo pericoloso. May – Stiamo affermamdo dei valori: la sicurezza e l’incolumità del nostro popolo, il ritorno degli ostaggi, i bambini di Gaza. In tutti questi casi stiamo scegliendo la vita, stiamo dando priorità al futuro, nella consapevolezza che non saremo mai al sicuro finché gli stessi palestinesi non lo saranno. Questa conclusione è molto chiara all’interno del nostro campo pacifista: il fatto che dobbiamo procedere insieme, israeliani e palestinesi, consapevoli dell’interdipendenza tra i due popoli. Stiamo creando una nuova narrazione… Mika: … e questa è una cosa che dovrebbe essere amplificata il più possibile: abbiamo partner palestinesi in Cisgiordania e anche a Gaza che, nel pieno di questa catastrofe, e sotto la più insopportabile oppressione, stanno scegliendo la pace e sono pronti a far sentire la loro voce. Alcuni di loro saranno presenti al vertice, non di persona ovviamente, ma con videomessaggi… May – … dobbiamo però ricordare che la situazione tra Israele e Palestina è tutt’altro che equa. Maya ed io siamo alla guida di organizzazioni israelo-palestinesi per cui siamo spesso in Palestina; è quindi naturale per noi condividere e discutere queste idee con i nostri compagni palestinesi, ed è incredibile vedere il crescente favore per il nostro movimento anche lì. Ma è anche giusto dire che per i palestinesi parlare di pace è difficile in questo momento. Porre fine al genocidio è la priorità, la loro preoccupazione è la sicurezza, la sicurezza dei loro figli, il cibo in tavola. Ovvio che molti di loro vogliano la pace, ma più importante di ogni altra cosa è fermare il genocidio. E anche se questo Peace Summit è stato concepito come evento congiunto, è giusto considerarlo principalmente un’iniziativa israeliana, in termini di assunzione di responsabilità, un aspetto molto importante. È nostra responsabilità organizzare questo evento adesso: i palestinesi non sono in grado di porre fine a questa guerra, spetta agli israeliani farlo. Maya – (…) Non potete sapere quanto sia difficile essere attivisti per la pace in Israele e Palestina di questi tempi: perciò abbiamo bisogno del vostro sostegno. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale sostenga questo campo di pace che sta lentamente guadagnando terreno tra Israele e Palestina. Abbiamo bisogno di sostegno come società civile, stiamo mantenendo vivo questo spazio in circostanze difficili. Nessun altro lo sta facendo. May – E volete sapere qual è il carburante che sta muovendo questo percorso? La leadership femminile… (tutte e tre sorridono) Mika, Maya, Tami, potrei citarne tante altre… è ciò che ha reso possibile arrivare fino a qui… Cosa potete prevedere all’orizzonte di questo summit? Mika – È una bellissima domanda su cui stiamo discutendo e per la quale non abbiamo ancora una risposta, ma certamente tutta questa grande energia che stiamo creando non potrà non avere un qualche risultato a livello politico. Dobbiamo prepararci per le prossime elezioni, non necessariamente creando un nuovo partito, ma senz’altro influenzando: qualcosa del tipo “guardateci, imparate da ciò che stiamo facendo, prestate ascolto a ciò che stiamo dicendo…” Maya – Dobbiamo essere molto leggeri, flessibili, le cose cambiano rapidamente… La priorità immediata è il cessate il fuoco, dovremo dedicare le nostre migliori energie a questo: porre fine alla catastrofe. Poi ci concentreremo sulla fine definitiva del conflitto e siamo molto ambiziosi: vogliamo la pace, niente di meno. Ma dobbiamo considerare anche l’attuale terribile crisi in Israele in tutti i suoi aspetti, compreso il colpo di Stato giudiziario: una situazione che è il risultato dell’occupazione. E se davvero vogliamo ripristinare la nostra democrazia, la democrazia così imperfetta di Israele, dobbiamo sottolineare in tutti i modi possibili e al più ampio pubblico tutti questi aspetti, instancabilmente… May – Sono d’accordo con tutto ciò che ha appena detto Maya e vorrei solo aggiungere una cosa: ogni conflitto alla fine si conclude con ciò che si chiama “accordo di pace”, che non è mai lineare. Le cose cambiano molto rapidamente. Quello che stiamo cercando di fare in questo momento è assumerci le nostre responsabilità, all’interno della società israeliana, al fine di costruire la più grande e forte base di sostegno alla pace, che è l’ovvia via per un futuro migliore ed è qualcosa di elementare per noi, come israeliani che hanno a cuore se stessi e la propria vita, come lo è per i palestinesi che hanno a cuore se stessi e la propria vita. Ma giusto per chiarire: l’evento di Gerusalemme non sarà un Festival Peace & Love, ma un’affermazione collettiva, in termini di scelta per la vita, di scelta di un futuro migliore, e con un approccio molto pragmatico. Questo è in estrema sintesi il nostro progetto: essere sempre di più e tutti insieme gridare a gran voce, con quanti più partners e risorse in campo, che stiamo lavorando per un futuro di pace. Le precedenti uscite su Pressenza sul People’s Peace Summit di Gerusalemme: Intervista a Maoz Inon: https://www.pressenza.com/it/2025/04/verso-il-peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-e-9-maggio-intervista-a-maoz-inon-uno-degli-organizzatori/ Intervista a Aziz Abu Sarah: https://www.pressenza.com/it/2025/04/verso-il-peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-e-9-maggio-intervista-ad-aziz-abu-sarah/ Intervista a Nivine Sandouka: https://www.pressenza.com/it/2025/04/verso-il-peoples-peace-summit-di-gerusalemme-8-9-maggio-bisogna-sostenere-la-societa-civile-dice-la-palestinese-nivine-sandouka/       Daniela Bezzi
Verso il People’s Peace Summit di Gerusalemme, 8-9 maggio. In tantissimi per la ventesima Cerimonia Congiunta dei Combattenti per la Pace
Una bella, condivisa e partecipatissima anticipazione di cosa sarà l’ormai imminente People’s Peace Summit l’abbiamo già avuta ieri sera con la ventesima edizione della Joint Memorial Ceremony israelo-palestinese, come sempre organizzata dai Combattenti per la Pace in collaborazione con il Parents Circle Families Forum: quest’anno l’evento si è tenuto in un teatro di Giaffa, in collegamento streaming con una piazza di Beit Jala e con ben 160 altre postazioni, sparse tra Israele, Cisgiordania, Stati Uniti e varie città in Europa: una risposta senza precedenti. Importante la data, che come per tutte le altre edizioni ha coinciso con il giorno del Yom Hazikarom, in cui Israele ricorda i suoi morti da quando esiste come Stato. Anche quest’anno, quasi in coincidenza con l’inizio della Memorial Ceremony, le sirene hanno risuonato per tutta Israele, l’intera nazione si è fermata e tutti tutti tutti hanno smesso qualsiasi cosa stessero facendo per mettersi fermi immobili sull’attenti per un minuto. Un minuto che ha inaugurato l’inizio della celebrazione più solenne dell’anno, persino più solenne del Giorno della Memoria, la Yom Ha Shoah che si è celebrato pochi giorni fa. In effetti dal 1948 ad oggi di morti e feriti in terra d’Israele se ne contano a decine di migliaia, come qualche giorno fa quantificava con puntigliosa precisione un articolo del Jerusalem Post che potete leggere qui. Una celebrazione che come tutti gli anni è proseguita più solenne che mai anche il giorno dopo, con le processioni ai vari cimiteri militari, le bandierine listate a lutto, le manifestazioni di corale cordoglio. E domani il tutto culminerà con la Festa dell’Indipendenza, momento dell’anno quanto mai carico di valori militari. E dunque immaginiamo cosa possa essere stato per un’organizzazione come i Combattenti per la Pace decidere di inaugurare vent’anni fa il loro progetto di congiunto attivismo di pace tra ex militari israeliani ed ex detenuti/militanti palestinesi, proprio in coincidenza con una simile scadenza: consapevolmente sfidando quella narrazione unilaterale del dolore che era da sempre la cifra del Yom Hazikaron e arrivando addirittura a proporre una solidarietà o come minimo un rispecchiamento nel dolore del fronte nemico, non meno colpito dalla stessa spirale di violenza. La prima edizione li vide infatti in pochi, come uno dei fondatori, Sulaiman Khatib, ama spesso ricordare. Le polemiche e persino i presidi di protesta non sono mai mancati man mano che questa Joint Ceremony guadagnava adesioni, fino a raggiungere le 15 mila presenze in un parco centralissimo di Tel Aviv, nell’edizione precedente al 7 ottobre, disturbatissima dagli oppositori. La situazione di particolare tensione di quest’anno, come già per l’anno scorso, ha di nuovo imposto agli organizzatori la scelta di uno spazio chiuso, in un teatro di Giaffa appunto, e solo per inviti e però fruibile anche in streaming, registrandosi sia individualmente che come “sedi ospitanti”. Ancora non sappiamo quante siano state in tutto le visualizzazione, ma ben 160 sono state appunto le platee oltre a quella di Giaffa: venti postazioni in Israele grazie alla collaborazione dell’organizzazione “sorella” Standing Together, parecchie anche in Cisgiordania, la maggior parte nelle varie cappelle della diaspora ebraico-palestinese sparse in Canada, USA, Europa, con ben nove situazioni in Germania, e poi in Francia, Spagna, Belgio, dove la proiezione è stata organizzata addirittura al Parlamento Europeo! Per l’Italia non possiamo non menzionare il bel collegamento virtuale organizzato da Ilaria Olimpico insieme a Uri Noy Meir per Imaginaction, e la piccola cittadina di Chiavenna in Valtellina, con una forte tradizione di pacifismo. Quest’anno il tema era “Scegliere l’umanità, scegliere la speranza” e sul palco si sono alternate le testimonianze del palestinese Sayel Jabarin, da Beit Jala, seguita da quella del giovane israeliano Liel Fishbein sopravvissuto al massacro nel Kibbutz Be’eri, dove ha perso l’amatissima sorella … e poi quella del palestinese Mousa Hetawi (in video messaggio causa divieto di ingresso in Israele) che nell’ultimo anno di guerra a Gaza ha perso 28 membri della sua famiglia. Di nuovo la straziante storia dell’israeliana Liat Atzili, tra le prime ad essere liberata tra gli ostaggi, solo per scoprire la morte del marito e delle figlie e infine il contributo di un’attivista palestinese che ha preferito l’anonimato, letto dalla compagna Amani Hamdan: impressionante rosario di perdite, dolore, distruzione, macerie, amputazioni, illuminato però dalla “speranza che qualcosa possa sempre rinascere, anche dai detriti …” La conduzione della serata, come sempre in arabo ed ebraico con sottotitoli in entrambe le lingue (oltre che in inglese) è stata condivisa tra Fida Shehadeh e Shira Geffen, entrambe ben note nel mondo dell’attivismo israelo-palestinese: la prima impegnata nel movimento “Hutwa Group” che si oppone all’esproprio e demolizione delle case, sempre più frequenti anche in Israele, la seconda attrice e scrittrice dichiaratamente pacifista. Non sono mancati anche quest’anno i tentativi di boicottaggio, alcuni anche piuttosto violenti. In merito ecco il comunicato diffuso in serata dalla coalizione It’s Time che sta organizzando il People’s Peace Summit dell’8-9 maggio: “Questa sera, varie azioni di disturbo hanno tentato di ostacolare lo svolgimento della Joint Memorial Ceremony organizzata come ogni anno dai Combatants for Peace insieme al Parents Circle Families Forum, entrambe organizzazioni da sempre impegnate per la fine della guerra, il ritorno a casa di tutti gli ostaggi e per una pace duratura su basi di reale giustizia per tutti. Tutti noi che aderiamo a questo ‘campo di pace’ non possiamo più tollerare queste intimidazioni. Invitiamo tutti e tutte a partecipare al più grande evento di pace mai organizzato prima d’ora in Medio Oriente, con il People’s Peace Summit che si svolgerà l’8 e il 9 maggio a Gerusalemme.  Aggiungi alla nostra anche la tua voce, perché il nostro appello di pace possa farsi coro e una volta per tutte impossibile da silenziare.”     Daniela Bezzi