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Ai Combattenti per la Pace il Premio Res Publica di quest’anno a Mondovì
Una cerimonia davvero bellissima, sentita, partecipata quella che il piccolo comune di Mondovì in Piemonte ha allestito ieri pomeriggio (25 ottobre) nella magnifica Chiesa della Missione per l’VIII Edizione del Premio Res Publica. Ideato e diretto dall’economista e scrittore Antonio Maria Costa, (ex sottosegretario generale delle Nazioni Unite e direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine) il riconoscimento ha premiato anche quest’anno alcune situazioni di eccezionale valore nel segno della ‘circolarità del bene’, come ben rappresentato dalla scultura bronzea di Riccardo Cordero. E nella categoria “Pace e Giustizia” ecco premiate le ‘nostre’ Eszter Koranyi e Rana Salman, co-direttrici del movimento di liberazione collettiva Combattenti per Pace, che da tempo seguiamo e sosteniamo su questa testata. Qui di seguito il discorso che hanno pronunciato a due voci, lungamente applaudito alla fine dai presenti. > Cari membri della Fondazione Res Publica, amici e ospiti… > > A nome dei Combattenti per la Pace, siamo profondamente onorati di ricevere il > Premio Res Publica, un premio nato dalla convinzione che la pace e la dignità > appartengano al bene pubblico, non al potere. Questo riconoscimento è sia un > onore che una profonda responsabilità. > > Combattenti per la Pace è stata fondata da ex combattenti israeliani e > palestinesi che un tempo si consideravano solo nemici. Insieme, hanno fatto la > coraggiosa scelta di deporre le armi e intraprendere una lotta non meno dura e > difficile: la lotta nonviolenta per la pace e la liberazione collettiva. Il > nostro movimento è nato da un atto di coraggio: il coraggio di ascoltare, di > vedere l’umanità l’uno nell’altro e di immaginare un futuro diverso. > > Negli ultimi giorni, il cessate il fuoco e il ritorno di ostaggi Israeliani e > prigionieri Palestinesi hanno portato un certo sollievo in Israele e > Palestina. Come tanti altri, abbiamo provato una profonda gioia per le > famiglie che hanno sofferto un dolore inimmaginabile e ora possono > riabbracciare i loro cari. Ma accanto a questa gioia resta il dolore per > coloro che non sono stati restituiti, per coloro che hanno perso la vita e per > le famiglie che non saranno mai più intere. > > Momenti come questo ci ricordano le motivazioni che ci sostengono nel nostro > lavoro. Ci ricordano che la pace non è una parola da pronunciare in momenti di > calma, ma una realtà che deve essere costruita ogni giorno con coraggio, > compassione e umanità condivisa. > > La pace non può significare un ritorno allo status quo che ci ha portato a > questa realtá di fragile calma mantenuta con la forza, né un accordo politico > plasmato dal potere e dalla convenienza. La vera pace deve essere radicata > nell’uguaglianza, nella libertà e nella sicurezza per tutti. Per raggiungere > questa pace, deve esserci una leadership coraggiosa, sia palestinese che > israeliana, impegnata per la giustizia e i diritti umani per tutti coloro che > vivono nella nostra terra. Sappiamo che qualsiasi vera risoluzione deve essere > radicata nel riconoscimento reciproco, nella responsabilità e nell’impegno a > porre fine all’occupazione. > > Sin dal momento della nostra fondazione, Combattenti per la Pace ha lavorato > per costruire una comunità condivisa, per trasmettere i principi della > nonviolenza e per creare spazi in cui il dialogo sostituisca la divisione. > Oggi, il nostro movimento è orgogliosamente guidato da noi due, due donne, > offrendo una voce alternativa alle tipiche narrazioni di conflitto e potere e > investendo nella prossima generazione di leader palestinesi e israeliani in > grado di garantire la piena inclusione delle donne nella creazione della pace. > > Questo Premio ci ricorda che non siamo sole. In tutto il mondo, ci sono > persone che credono, come noi, che la nostra comune umanità sia più forte > della paura e che la nonviolenza non sia debolezza, ma un potente strumento di > cambiamento, per resistere all’ingiustizia e all’oppressione senza odio o > crudeltà. > > La speranza, in questo momento, è fragile. Ma è anche viva. E non deve essere > sprecata. Insieme, con i nostri fedeli partner, possiamo garantire che questo > momento, questo fragile cessate il fuoco, questo raggio di sollievo, possano > diventare il fondamento per un cambiamento reale e duraturo. > > Immaginiamo un futuro in cui palestinesi e israeliani vivano fianco a fianco > in uguaglianza, dignità, giustizia e libertà. Questo non è un sogno. È una > necessità pratica. E sappiamo che è possibile, perché noi di Combattenti per > la Pace stiamo già incarnando quel futuro nel presente. > > Grazie per questo riconoscimento e grazie per la vostra solidarietà. Redazione Italia
Vita e resistenza in Palestina
Un ennesimo, meritatissimo Premio ai Combattenti per la Pace per l’impegno che ogni giorno sono in grado di rinnovare sui vari fronti del conflitto: e in questi giorni eccoli impegnati in particolare su quella guerra strisciante, che giorno dopo giorno sta distruggendo economie, speranze, progetti di vita e territori in Cisgiordania. Si tratta del Premio ResPublica che il Comune di Mondovì conferirà sabato pomeriggio, 25 ottobre, alle due co-direttrici di questo movimento, Eszter Koranyi e Rana Salman, che i nostri lettori dovrebbero ormai ben conoscere grazie alle interviste e ai pubblici incontri di cui sono state protagoniste un annetto fa (tra Milano, Torino, Firenze, Roma e Napoli), puntualmente riportati su questa testata. E sulla via per Mondovì, eccole domani sera ospiti di una serata che avrà come tema proprio la guerra così poco raccontata in Cisgiordania: incontro già da tempo nel calendario di Assopace Palestina Milano, per documentare le esperienze di interposizione che in più occasioni hanno visto protagoniste Elena Castellani e Sara Emara – e che con l’occasione di questo rapido passaggio per Milano, ha coinvolto anche Eszter e Rana, naturalmente felicissime di esserci! “Ne sapete più noi di voi” mi dice Eszter Koranyi, che raggiungo su Zoom a Cipro, dove è stata in questi giorni per una conferenza insieme alla collega Rana Salman. “A parte alcune eccezioni come le testate Local Call o + 972, è raro che sui nostri media escano notizie su ciò che succede in Cisgiordania.” “Una ragione di più per continuare a fare quello che facciamo” aggiunge Rana Salman, che partecipa alla stessa chiamata su Zoom. “Da anni organizziamo spedizioni in sostegno agli agricoltori, ai pastori, alle abitazioni, ai villaggi che ahimè vivono sulla propria pelle questa continua aggressione da parte dei coloni, con crescenti livelli di violenza; la situazione sta diventando davvero seria. E quel che è peggio è la presenza dei militari, che invece di garantire almeno un minimo di ‘ordine pubblico’, intervengono in sostegno degli aggressori: inaccettabile! E infatti noi non ci arrendiamo, e siamo sempre di più, con sempre più giovani da Tel Aviv e altre città israeliane che partecipano alle nostre proposte di interposizione.” In questi giorni il confronto più duro è sul fronte degli ulivi, o quel che resta degli uliveti dopo le decine di migliaia di piante distrutte, sradicate, spiantate con la forza dal 7 ottobre a oggi (cfr OCHA, Ufficio delle Nazioni Unite per gli Aiuti Umanitari). Sulle pagine social dei CfPeace (che trovate tradotte in Italiano su Facebook alla pagina Combattenti per la Pace Italia) è possibile seguire le cronache degli ultimi giorni, nell’uliveto che apparterebbe di diritto alla famiglia di un membro fondatore dei CfPeace, il palestinese Jamil Qassas. Come ogni anno la sua famiglia si stava preparando alla raccolta delle olive, quando è arrivata l’ordinanza che vieta l’accesso ai terreni data la prossimità con l’ennesimo insediamento dei coloni in località Gush Etzion, poco lontano da Betlemme. L’azione di interposizione dei CfPeace è cominciata venerdì scorso: “Eravamo una trentina di persone” specifica il post su Facebook “nonostante le piante fossero in uno stato pietoso siamo riusciti a raccogliere un po’ di olive, ma abbiamo potuto lavorare soltanto un’ora, perché i militari ci hanno ingiunto di lasciare l’area in quanto zona militare! Ecco l’ingiustizia quotidiana dell’occupazione in Palestina. Ecco ciò cui stiamo attivamente co-resistendo con le nostre azioni nonviolente.” La situazione è proseguita con crescente tensione nei giorni successivi fino a che ieri non è arrivata una sonora multa per Jamil e tutto il gruppo che era con lui: “Ennesimo abuso di potere della milizia agli ordini di Ben Gvir nei territori occupati della Palestina.” Se ne parlerà domani sera, 23 ottobre, ore 20.30 allo Spazio ‘Il Cielo Sotto Milano’ di Stazione Porta Vittoria, su Viale Molise: con ricco corredo di foto e video-riprese raccolte da Elena Castellani e Sara Emara nelle loro varie spedizioni, con le testimonianze di Eszter Koranyi e Rana Salman e con l’intervento di Antonio Scordia per Amnesty International. Da NON Mancare!   Daniela Bezzi
Cagliari, al Festival Love Sharing 2025 incontro su tre libri sulla nonviolenza, con Olivier Turquet, Enrico Peyretti e Monica Lanfranco
Ieri, sabato 18 ottobre, al Teatro Sant’Eulalia di Cagliari, si è svolta la seconda serata dedicata alla presentazione di libri sulla tematica della X Edizione del Festival Love Sharing: Isole di nonviolenza, arcipelago di pace. Una serata nella quale c’è stata una buona partecipazione di persone con sala quasi al completo. Il primo incontro, presentato da Carlo Bellisai, è stato con Olivier Turquet e il libro, a cura di Daniela Bezzi, Combattenti per la pace. Palestinesi e israeliani insieme per la liberazione collettiva, Multimage Edizioni, 2024, ormai giunto alla sesta ristampa. Olivier Turquet ne ha scritto la prefazione, ma è stato presente anche in veste di editore, in quanto coordina il gruppo editoriale dell’Associazione Multimage, la casa editrice dei diritti umani. Giornalista di Pressenza – Agenzia di stampa internazionale e scrittore che si occupa di nonviolenza. In primo momento ha raccontato come è nata l’idea del libro che raccoglie le testimonianze di uomini e donne palestinesi e israeliani/e del movimento Combatants for Peace, che — dopo anni di violenze e divisioni — decidono di incontrarsi, ascoltarsi e unirsi per promuovere insieme la pace. Era previsto il collegamento online con Chen Alon e Sulaiman Khatib, figure di spicco del movimento, ma è stato possibile ascoltare solo Sulaiman. Olivier ha posto alcune domande sulla situazione attuale sia in Gaza che in Cisgiordania e quali prospettive di pace intravvede. Una pace difficile, ma non impossibile che il movimento cerca di favorire anche con azioni di interposizione tra la popolazione palestinese e le aggressioni di coloni spalleggiati dall’esercito israeliano come sradicamento di ulivi, rottura di condutture dell’acqua, demolizioni di case. Il movimento è oggi un modello di riconciliazione attiva e convivenza possibile. La lettura delle testimonianze raccolte nel volume rivela come il dialogo e l’esperienza condivisa possano trasformare il dolore in un impegno comune per la riconciliazione. Le domande dal pubblico non potevano che porre la questione centrale della realtà di oppressione vissuta dalla popolazione palestinese ormai da più di 70 anni e l’impunità d’Israele, complice la comunità internazionale. In particolare, la risposta genocidaria del governo israeliano all’attacco stragista di Hamas del 7 ottobre 2023. Non si può definire un atto di resistenza – ha affermato Olivier Turquet – quello che uccide deliberatamente civili inermi. Ma certamente siamo di fronte a un genocidio, ormai conclamato. Sala Teatro Sant’Eulalia – Foto di Pierpaolo Loi Il secondo incontro è stato con Enrico Peyretti sul suo volume, Fino alla liberazione dalla guerra – Pensieri, azioni, speranze di pace, Edizioni Mille, 2025.  Dopo iniziali problemi di collegamento online – l’autore si è scusato per non aver potuto partecipare in presenza – il giornalista Vito Biolchini ha posto alcune domande sui diversi articoli presenti nel libro, incentrati sul ripudio della guerra, e sulla falsa idea che la guerra sia una condizione ineludibile dell’umano come la violenza tra persone. In realtà la guerra è un prodotto culturale e, come tale, può e deve essere trasformato. Il conflitto non è sinonimo di guerra. Bisogna lavorare per superare i conflitti con il dialogo e la nonviolenza. Enrico Peyretti ha raccontato di come, bambino di 9 anni nel 1945, abbia assistito all’uccisione alcune persone in un atto di rappresaglia e come questo fatto lo abbia condizionato per tutta la vita, che ha speso per diffondere la cultura della nonviolenza e della pace. Insegnante di storie e filosofia nei licei, appartenente a diverse associazioni, come il MIR e i Movimento Nonviolento, attualmente è socio attivo del “Centro Sudi Sereno Regis” di Torino. Nel libro ci offre riflessioni filosofiche, narrazioni e poesie a partire da dall’invasione dell’Ucraina (febbraio 2022) fino al 2024. Il terzo incontro con Monica Lanfranco per la presentazione del suo libro, Donne che disarmano. Perché e come la nonviolenza riguarda il femminismo, Vanda Edizioni, 2023. Attivista femminista, giornalista, scrittrice, formatrice sulla nonviolenza e sulla differenza sessuale. Monica inizia l’incontro chiedendo alle persone presenti di superare la barriera tra le relatrici sul palco del teatro e il pubblico in platea, formando un cerchio, che permette una relazione comunicativa più empatica. Teatro Sant’Eulalia, Festival Love Sharing – Foto di Pierpaolo Loi La domanda fondamentale è lo stesso titolo del libro. La risposta sta nella stessa storia dell’autrice che ripercorre la sua storia a partire dall’incontro nella scuola elementare con la sua maestra, Lidia Menapace, femminista cattolica. Difficile riassumere il dialogo tra Bruna Biondo e l’autrice che si dipana sul femminismo, sulla violenza di genere esercitata dai maschi ma, in qualche modo, nutrita fin dal seno materno dalle stesse donne. Il femminismo, più che rivoluzione, che è storicamente violenta, vuole essere metamorfosi, cioè trasformazione delle relazioni. A partire dalle parole, che generano il mondo. Nel suo libro, Uomini che odiano le donne. Virilità, sesso, violenza: la parola ai maschi (2013) c’è il tentativo di coinvolgere gli uomini nella presa di coscienza delle parole usate per parlare delle donne, per agire sulle donne. Dal suo libro è nato il primo laboratorio di teatro sociale per uomini, Manutenzioni-Uomini a nudo. Che viene tuttora rappresentato. Una conversazione intensa, a volte pure scherzosa, che termina con una pratica che Monica propone e che afferma essere capace di far incontrare due persone profondamente: mettersi l’uno/a di fronte all’altro/a e guardarsi negli occhi in totale silenzio per un minuto. La serata si conclude in un modo insolito, forse, ma decisamente coinvolgente.     Pierpaolo Loi
Cosa significa davvero la pace e chi ha il diritto di definirla?
La notizia del recente cessate il fuoco e del ritorno di ostaggi e prigionieri ha portato un immenso sollievo a tutti noi, in Israele e in Palestina. Come tanti altri, noi di Combatants for Peace proviamo una profonda gioia per le famiglie che hanno sofferto dolori inimmaginabili e che ora possono finalmente riabbracciare i propri cari. Allo stesso tempo, ricordiamo tutti coloro che non sono tornati, tutti coloro che abbiamo perso e tutte le famiglie che non potranno mai essere di nuovo complete. In momenti come questo, la parola “pace” riempie ogni conversazione — ma dobbiamo chiederci: cosa significa davvero la pace e chi ha il diritto di definirla? La risposta deve venire da noi, palestinesi e israeliani insieme, perché solo noi possiamo costruirla, viverla e assicurarci che duri nel tempo. La pace non può significare un ritorno allo status quo che ci ha condotti fin qui, un silenzio imposto con la forza o un accordo politico dettato da interessi o avidità esterne. La vera pace deve nascere dall’interno — da una leadership palestinese e israeliana coraggiosa e democratica, che ponga al centro la sicurezza, la libertà e la dignità di tutti, sostenuta da una comunità internazionale impegnata per la giustizia e i diritti umani, non per il potere o la convenienza. Il nostro dolore e il nostro trauma non devono mai essere usati come occasione per permettere a leader stranieri di ergersi a eroi o migliorare la propria immagine politica; la vera diplomazia può sostenerci, ma non può dettare il nostro futuro. La comunità internazionale che ci sostiene ha un ruolo importante da svolgere. Il supporto deve andare oltre le dichiarazioni e i gesti simbolici — deve esigere responsabilità, difendere i diritti umani e rafforzare le voci di israeliani e palestinesi che chiedono giustizia e dignità. La vera pace potrà mettere radici solo quando sarà costruita da chi vive qui, con il mondo come alleato nel garantire che libertà, sicurezza ed uguaglianza non siano più oggetto di negoziazione. La speranza è fragile, ma esiste — e non deve essere sprecata. Questo momento può ancora diventare il fondamento di un cambiamento reale e duraturo. Con il costante sostegno dei nostri partner in tutto il mondo, possiamo assicurarci che la giustizia e l’umanità guidino ciò che verrà dopo. In pace e solidarietà, Rana Salman & Eszter Koranyi Co-Direttrici, Combatants for Peace Traduzione in italiano di Ilaria Olimpico Combatants for Peace
Incontro con la palestinese Aisha Khatib e con l’israeliana Irit Hakim di Combatants for Peace
Nel contesto del Festival dell’Accoglienza 2025 si è svolto presso il CAM – Culture and Mission l’incontro torinese con le attiviste di Combatants for Peace Aisha Khatib e Irit Hakim moderato da Daniela Bezzi. Aisha Khatib ha viaggiato per tre giorni per raggiungere l’Italia e parlare ad una platea di italiani le sembra un sogno. Vedere la partecipazione allo sciopero di lunedì mattina l’ha commossa. Comincia a raccontare la sua storia ed il percorso che l’ha portata a diventare un’attivista di Combatants for Peace, percorso che è iniziato con la morte di suo fratello Mahmud, colpito al cuore da un soldato israeliano. In quel momento si è persa nella rabbia e nel desiderio di vendetta; per ritrovarsi si è impegnata a cercare una via di uscita ed ha incontrato i Combatants for Peace nel 2009-2010; successivamente ha preso l’impegno di coordinare la parte femminile del movimento. Irit Hakim fa parte della settima generazione di ebrei che vivono nel nord di Israele; la sua famiglia conviveva pacificamente con i vicini arabi. Nel 1969 perse un amico diciottenne nella guerra dei sei giorni. Nel 1971 un attacco di fedayn filopalestinesi ad una scuola vicina a quella dove insegnava portò all’uccisione di 22 studenti. La guerra è stata una costante nella sua vita ed ha capito che non è possibile vivere in uno stato di guerra permanente e divenne pacifista. Negli anni 80 il suo partner di allora si rifiutò di servire nell’esercito, una presa di posizione grave allora, diventando uno dei primi refusenik. Tutto questo la convinse ad entrare nel movimento Peace Now, il primo movimento che immaginava la possibilità di comunicare con il “nemico”. Nel 2009 le capitò di partecipare ad uno strano memorial day[1], la Memorial Ceremony organizzata dai Combatants for Peace che ricorda i morti di entrambe le parti; dal palco in quell’occasione hanno parlato due padri che hanno perso le loro figlie e si è resa conto di essere nel posto giusto. Il movimento lavora in maniera congiunta per tutti gli aspetti delle sue attività, con particolare attenzione al rafforzamento ed all’educazione; il lavoro principale dei  Combatants for Peace è quello di creare spazi di confronto a partire dalle Freedom School, campi di studio in cui ragazzi israeliani e palestinesi condividono un periodo di studio e vacanza. Daniela Bezzi domanda alle due donne cosa ha significato per loro il 7 ottobre: per Aisha il 7 ottobre è stato uno shock per tutti. Tutte le attività che si occupavano del dialogo tra israeliani e palestinesi hanno avuto un momento di stop. Subito dopo abbiamo pensato che era il momento di fare di più. Irit ricorda che dopo il 7 ottobre è stato impossibile per alcuni giorni parlare tra loro, poi si è deciso che era importante rivedersi, almeno virtualmente, e la prima riunione via zoom è stata una riunione di pianti. A chi domanda cosa pensa CfP della soluzione “due popoli, due stati” Aisha risponde che in Palestina vivono due nazioni nello stesso territorio, non è rilevante che ci siano anche due stati; CfP non ha l’obiettivo di dare soluzioni a quello che è un problema politico, il compito del movimento è quello di costruire metodi di riconciliazione, legami e formazione in tal senso. Aisha lancia un ultimo, forte, messaggio prima della chiusura dell’incontro: “Siamo venute da due società diverse che sono nemiche, ma non vogliono essere nemiche. Prendiamo sulle nostre spalle la responsabilità della mia gente di Gaza e la responsabilità delle madri degli ostaggi. I nostri figli sono la cosa più cara e più importante, non scordatelo per favore.” [1] Il giorno in cui in Israele si ricordano i caduti nelle guerre per la costituzione dello stato Giorgio Mancuso
Co-resistenza nonviolenta: le proteste del Venerdì a Beit Jala
Venerdì 12 settembre 2025 si è svolta a Beit Jala la settima settimana consecutiva di protesta congiunta di attivisti-e israeliani e palestinesi di Combatants for Peace, provenienti da tutta la regione, contro la guerra e il genocidio a Gaza, la pulizia etnica e la crescente violenza dei coloni in Cisgiordania, e per un futuro di giustizia e pace per entrambi i popoli. Durante le manifestazioni, il movimento ha denunciato che, dalla settimana precedente, l’esercito israeliano ha installato un cancello giallo vicino al luogo dell’incontro, destinato a fungere da ulteriore checkpoint all’ingresso di Betlemme. Si tratta di uno dei centinaia di nuovi checkpoint istituiti in Cisgiordania, che limitano ulteriormente la libertà di movimento dei palestinesi – per recarsi al lavoro, a scuola, visitare parenti o raggiungere ospedali. Non si tratta di una misura di sicurezza, ma di un atto politico volto di fatto ad annettere ulteriormente la Cisgiordania. Avner Wishnitzer, un attivista israeliano, storico e cofondatore dell’organizzazione Combatants for Peace (CfP), da Beit Jala, ha ripetuto che la condizione per la fine del conflitto israelo-palestinese è la fine dell’occupazione e ha detto “saremo uniti-e, insieme, in modo nonviolento, finché non finirà”. Altre foto dell’evento https://www.instagram.com/p/DOqYFNBCLuW/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA==   #FreePalestine #GazaUnderAttack #SolidarityProtest #NonviolentResistance #PeaceForAll Ilaria Olimpico
Lunedì per Gaza – La loro fame è la nostra
Lo scorso 8 settembre 2025 è stata lanciata la campagna internazionale #Mondays4Gaza, che si svolge ogni lunedì, per l’intera giornata (00:00 – 23:59), ovunque nel mondo. Palestinesi, israeliani-e e internazionali hanno iniziato a digiunare ogni lunedì in solidarietà con la popolazione di Gaza. Il digiuno è un “atto spirituale di resistenza”: un modo per “restare umani in un mondo che diventa insensibile”, “creare presenza” e “rompere la continuità”. L’attivista Mai Shahin,  palestinese, co-fondatrice di Satyam e membro di Combatants for Peace,  ha detto: “Questo sciopero della fame non è solo una protesta. È un appello alla liberazione collettiva — per tutti i popoli, dal fiume al mare. Musulmani, ebrei, cristiani. Nessuno sarà liber@ finché tutti-e non lo saranno.”  #Mondays4Gaza è stata promossa da @their_hunger_is_ours, Combatants for Peace @combatantsforpeace_english, Satyam @satyamhomeland e American Friends of Combatants for Peace @afcfpeace. La campagna invita a: Partecipare alle call su Zoom del lunedì sera (ore 20:00, ora di Gerusalemme) per collegarsi con attivisti-e da diversi Paesi. Unirsi al movimento: digiunare (ognun@ nel modo e nella misura che può), testimoniare, resistere.   LINKS   https://linktr.ee/mondays4gaza    https://www.instagram.com/p/DOOe7SWCK5i/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA==   https://www.instagram.com/reel/DMpkAQOoeCE/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA==  Ilaria Olimpico
Dichiarazione sulle atrocità in escalation a Gaza e in Cisgiordania – Questo è genocidio
In quanto movimento binazionale di palestinesi e israeliani impegnati nella nonviolenza e nell’uguaglianza, Combatants for Peace rilascia questa dichiarazione urgente alla luce della crescente crisi umanitaria e politica a Gaza e in Cisgiordania: In risposta alla continua politica di carestia a Gaza e all’accelerazione della pulizia etnica delle comunità palestinesi in Cisgiordania, siamo costretti a parlare chiaramente: questo è un genocidio e deve essere fermato. Non usiamo questa parola alla leggera. Come sottolineato nel recente rapporto di B’Tselem, ” Il nostro genocidio “, ciò a cui stiamo assistendo non è semplicemente un fallimento nel proteggere la vita dei civili, ma la sua deliberata distruzione, autorizzata dallo Stato. A Gaza, più di 60.000 persone sono state uccise, tra cui migliaia di bambini. Famiglie muoiono di fame e interi quartieri sono stati ridotti in macerie. Israele ha sistematicamente e deliberatamente distrutto oltre il 70% degli edifici di Gaza, danneggiato o distrutto il 94% degli ospedali e spazzato via l’89% delle scuole. Gli aiuti sono ostacolati, l’acqua è tagliata e i civili vengono colpiti mentre cercano di raggiungere il cibo. Non si tratta di un disastro naturale: è una scelta politica deliberata volta a distruggere le condizioni di vita dei civili. In Cisgiordania le restrizioni alla circolazione sono peggiorate drasticamente, con posti di blocco che si moltiplicano, strade chiuse senza preavviso e interi villaggi tagliati fuori da ospedali, scuole e mercati, il tutto mentre intere comunità rurali palestinesi vengono sfollate da coloni armati e unità militari che lavorano in tandem. Nella Valle del Giordano, sulle colline a sud di Hebron e nei distretti settentrionali, case sono state incendiate, fonti d’acqua avvelenate, bestiame ucciso e persone costrette a fuggire. Proprio ieri sera, Awdah Hathaleen, un noto e amato attivista della comunità di Umm al-Khair, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco in un altro attacco omicida da parte di coloni. Settimane prima, Sayfollah Musallet è stato picchiato a morte nel villaggio di Sinjil mentre difendeva la terra della sua famiglia dall’invasione dei coloni. Questi non sono atti isolati. Fanno parte di una strategia chiara e documentata per allontanare i palestinesi dalla loro terra: ciò che il diritto internazionale riconosce come pulizia etnica. Riconosciamo anche il dolore e l’angoscia delle famiglie israeliane i cui cari rimangono tenuti in ostaggio a Gaza. Questi ostaggi devono essere restituiti illesi ora o, se necessario, devono ricevere una degna sepoltura. La loro immensa sofferenza non può essere ignorata. Ma non può nemmeno giustificare la fame e l’uccisione di massa di un’intera popolazione civile. Allo stesso tempo, migliaia di prigionieri politici palestinesi rimangono imprigionati nelle carceri israeliane, in condizioni disumane e degradanti. Molti hanno sopportato anni senza processo, in isolamento o senza accesso alla giustizia. Il loro rilascio deve essere parte di qualsiasi risoluzione politica giusta e duratura. Qualsiasi percorso significativo verso la pace deve affrontare l’intera portata delle violazioni dei diritti umani in questo conflitto, tra cui l’uso sistematico di detenzioni illegali e punizioni collettive contro i palestinesi, e il trauma, l’insicurezza e la persecuzione dei civili subiti dagli israeliani. La giustizia deve essere estesa a tutti coloro che vivono qui, senza eccezioni. Come palestinesi e israeliani che hanno scelto di percorrere la via della nonviolenza, anche in tempo di guerra, invitiamo tutte le persone di coscienza, all’interno e all’esterno delle nostre società, a parlare apertamente. Ad agire. A rifiutare la complicità e a respingere le menzogne che ci dicono che non c’è altra via. Restiamo impegnati per la pace, la nonviolenza e gli uni verso gli altri. Questo impegno affonda le sue radici nella convinzione che l’occupazione debba finire e che la giustizia non sia un sogno, ma un’esigenza. Solo allora potremo iniziare a riparare ciò che è stato distrutto e a costruire il futuro che sappiamo essere possibile: un futuro in cui palestinesi e israeliani vivano in libertà e uguaglianza, guidati da un impegno condiviso per la nonviolenza e l’umanità. In solidarietà e speranza, Combattenti per la pace.   Traduzione in italiano di Daniela Bezzi per Pressenza Italia Combatants for Peace
Sciopero della fame per Gaza
Noi, Combattenti per la Pace israeliani e palestinesi, invitiamo tutti ad aderire allo sciopero di protesta e solidarietà con i nostri fratelli e sorelle di Gaza, sottoposti a una politica di fame deliberata e di completa privazione delle condizioni di vita essenziali. Lo sciopero avrà luogo a Beit Jala, in concomitanza con lo sciopero della fame indetto dal Comitato Supremo di Coordinamento dei Palestinesi del 48′. Questo sciopero della fame è uno strumento di lotta civile e di resistenza nonviolenta congiunta, ed esprime il nostro risoluto rifiuto di usare la fame come arma. Ci rifiutiamo di continuare a vivere le nostre vite come se nulla fosse, mentre la fame viene usata per distruggere la vita di un intero popolo e il futuro comune di tutti noi. Crediamo che la vera pace inizi con la resistenza nonviolenta congiunta contro l’ingiustizia. Unitevi a noi da Beit Jala, Jaffa o da qualsiasi altro luogo vi troviate. Domenica-martedì 27-29.7.25, dalle 10:00 alle 21:00, ora di Gerusalemme, tutti i giorni * Il livestream online avrà luogo tutti i giorni nel pomeriggio (ora di Gerusalemme) adesioni anche a distanza: https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSeBvPv4wNPsObi3HwfnAGmbu4wdz5iNF_15AXNFyuhpudKYlA/viewform Combatants for Peace
Un giorno racconteranno cosa è successo
Un giorno racconteranno cosa è successo in quel posto lì. All’inizio pochi, poi un po’ di più. Dall’intensità della pressione nei loro petti, le parole saranno sussurrate, come il sibilo del vapore, dapprima alcune, esitanti. Poi un po’ di più. Ci sarà chi riuscirà a tenerle dentro e parlerà solo tra qualche decennio, quando si saranno raffreddate un po’ e non bruceranno più sulle labbra. Ci sarà chi non parlerà mai. Solo nel sonno torneranno immagini, incubi, e si sveglieranno sudati. A chi gli starà accanto, che si sveglierà anche lui allarmato, dirà che non è niente. È stato solo un brutto sogno. Un giorno racconteranno cosa è successo in quel posto lì. Forse sarà un operatore di droni a raccontare delle persone “non coinvolte” che ha ucciso. “Era un momento particolare”, spiegherà. “Era dopo gli orrori del 7 ottobre e tutti dicevano che non c’erano innocenti lì, e il presidente del paese firmò un colpo di artiglieria. Poi dissero che non si poteva rinunciare al Corridoio di Filadelfia e che la pressione militare avrebbe liberato gli ostaggi, e io avevo solo vent’anni e ci credevo. E soprattutto volevo essere un bravo soldato. Ricordo che il comandante mi diede una pacca sulla spalla quando abbattei un edificio e provai orgoglio, ma anche un certo disagio. Forse il disagio arrivò dopo, non ne sono più sicuro.” Forse sarà un comandante di battaglione corazzato. “Abbiamo sparato all’ospedale perché dicevano che era ‘הופלל – hoflal’ (nel gergo delle IDF o della sicurezza, quando un edificio o un luogo viene definito “הופלל – hoflal”, significa: è presumibilmente utilizzato dai combattenti). Col senno di poi, penso che sia esattamente quello che abbiamo fatto: abbiamo incriminato. Abbiamo accusato, e anche se non sempre c’erano prove, abbiamo emesso una sentenza – spesso [la sentenza era] la morte. Ma poi abbiamo semplicemente pensato che questi fossero gli ordini. E poi, cosa non bella da dire, avevamo paura. Non ne abbiamo parlato con i giornalisti militari che sono entrati, e ai politici che ci hanno mandato non importava granché. Ma quella paura costante, la paura e il nervosismo – ti rendono insensibile. Li ho visti, attraverso il binocolo, disperdersi nei convogli, senza niente, smarriti, e ho ripensato a quelle immagini con cui siamo cresciuti. Non si dovrebbe fare paragoni, ma con la mano sul cuore, questo è ciò che mi è venuto in mente. Non hai il controllo su queste cose. Ma cosa avrei potuto fare, davvero? Ripensandoci, mi sembra che la cosa che temevo di più fosse che i miei ufficiali, persino i miei soldati, mi considerassero yafeh nefesh, [“anima bella”; termine dispregiativo per qualcuno considerato troppo morale o ingenuo], che dicessero che… non lo so. È difficile da spiegare oggi. O forse sarà un portavoce dell’IDF a rivelare in un post sui social media, di aver redatto un comunicato stampa in cui si affermava che l’ospedale era un quartier generale di Hamas. “In seguito, ho sentito su uno dei canali televisivi, come il comunicato che avevo redatto avesse preso vita propria. Uno dei giornalisti ha detto che l’ospedale era un ‘nido di vespe’. Ho cambiato idea. E in tutti gli articoli che ho scritto sul giornale da allora, non ne ho mai parlato. Strano, vero?” Forse sarà uno di quei commentatori a essere ricordato di quei giorni. “Dovete capire”, dirà, “quella era l’atmosfera. Veniva dalla redazione e, in ultima analisi, dai proprietari del canale. E poi, se il portavoce dell’IDF ci ha passato delle informazioni, di certo le hanno controllate prima. Dopotutto, non si distrugge un ospedale così. Cosa siamo, animali? Eppure, forse avrei dovuto dire di più. Sospettavo che stessimo facendo cose… come dire… Dopotutto, sono usciti così tanti video, centinaia. Ma no…” E un uomo anziano racconterà alla nipote che per tutto questo tempo è andato a lavorare come al solito. “Non è che tutto si sia fermato o qualcosa del genere. Ogni giorno decine di persone venivano uccise laggiù, a Gaza, a volte più di cento, ma non ne parlavano in TV. Voglio dire, parlavano di Gaza, ma non di queste cose. Parlavano principalmente di ‘manovre potenti’ e di quanti membri di Hamas avessimo ucciso. Non dicevano che stavamo annientando tutto, che stavamo distruggendo tutto. Non dicevano che stavamo facendo morire di fame la gente, solo che non facevamo arrivare gli aiuti. Vedete? Forse è per questo che non abbiamo protestato. Poi è arrivata la guerra con l’Iran e non ne hanno parlato affatto. Hanno smesso di parlare anche dei rapiti, persino dei soldati che sono stati uccisi. Vedete? Per quelli in alto, la vita aveva perso valore, e noi? Ci eravamo abituati.” Un giorno racconteranno cosa è successo lì. All’inizio pochi, poi un po’ di più. Molti altri rimarranno in silenzio, per paura di incriminare se stessi o i propri compagni dell’unità. Pochi ascolteranno con interesse, molti altri si muoveranno a disagio. Altri continueranno a giustificare le uccisioni e la distruzione, l’espulsione e la fame, per il resto della loro vita. Se hai anche solo il minimo timore di non essere uno di loro, che un giorno te ne pentirai; se senti, anche vagamente, in un modo che non si può esprimere a parole, che ogni giorno che passa un’altra arteria del tuo cuore si blocca, un’altra parte della tua anima viene distrutta – non ignorare, non rimanere in silenzio, non restare a guardare. Chiedi di Gaza, parla di Gaza, opponiti alle uccisioni. Scegli la vita. Avner Wishnitzer Avner Wishnitzer è un co-fondatore di Combattenti per la Pace ed è docente di storia all’Università di Tel Aviv. Riprendiamo con il suo permesso questo recente articolo per la testata on line in lingua ebraica Local Call.   Pressenza IPA