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L’Italia della paura
L’Italia da anni vive dentro un paradosso che è ormai diventato la sua cifra politica e culturale: più la società si impoverisce, più cresce la domanda di sicurezza. È un automatismo che non nasce dal caso, ma da una precisa dinamica economica e sociale. Le persone che vivono nella precarietà, […] L'articolo L’Italia della paura su Contropiano.
L’Italia della paura
-------------------------------------------------------------------------------- Mercato Pignasecca, uno dei più antichi di Napoli. Foto di Ferdinando Kaiser -------------------------------------------------------------------------------- L’Italia da anni vive dentro un paradosso che è ormai diventato la sua cifra politica e culturale: più la società si impoverisce, più cresce la domanda di sicurezza. È un automatismo che non nasce dal caso, ma da una precisa dinamica economica e sociale. Le persone che vivono nella precarietà, schiacciate da salari bassi, servizi carenti, vita instabile, si sentono più esposte, più fragili, più sole. La paura, in un tale contesto, non è un’emozione: è un prodotto sociale, quasi un sottoprodotto dell’austerità, dell’erosione del welfare, della cancellazione dei diritti. Eppure, invece di affrontare le cause strutturali dell’insicurezza – la precarietà del lavoro, le disuguaglianze crescenti, la desertificazione dei servizi pubblici, la povertà abitativa – la politica ha scelto per anni la scorciatoia più redditizia: trasformare la paura in consenso. Il centrodestra ha fatto di questo meccanismo un’arte, costruendo su di esso un’egemonia culturale che oggi appare quasi inscalfibile. Gli basta sollevare il tema della sicurezza, agganciarsi a un fatto di cronaca qualsiasi, amplificarlo fino alla distorsione, e usarlo per dipingere un Paese invivibile, assediato da nemici interni ed esterni. È un copione che conosciamo bene: paura-audience-consenso. Una catena che si autoalimenta e che non richiede soluzioni, solo narrazioni. Non importa che i reati siano in calo: ciò che conta è la percezione, che può essere manipolata con estrema facilità. La destra rende il Paese più impaurito, e un Paese impaurito vota per chi promette ordine, disciplina, repressione. Una macchina perfetta, che produce insicurezza per poi venderne la cura. Il centrosinistra, di fronte a questa strategia, non solo è apparso incapace di proporre un discorso alternativo, ma spesso si è consegnato alla logica dell’avversario. Diviso, litigioso, ripiegato su ambiguità e tatticismi, ha rinunciato a imporre un tema che parli ai bisogni materiali del Paese: lavoro, casa, cure, istruzione, diritti. Ha inseguito la destra sul terreno della sicurezza, accettandone le categorie, adottandone persino la lingua. Così facendo, ha contribuito a legittimare un immaginario sicuritario che è esattamente ciò che blocca ogni possibilità di cambiamento. Il risultato? L’Italia rimane imbrigliata in una doppia assenza: assenza di welfare e assenza di alternativa. Ma nel frattempo, qualcosa di più profondo è cambiato. Siamo di fronte a una mutazione antropologico-cognitiva che ha riscritto le fondamenta del discorso pubblico. L’uguaglianza, per anni pilastro della cultura politica italiana, è stata sostituita dalla legalità. La giustizia sociale è stata rimpiazzata dal giustizialismo. Il conflitto sui diritti e sulle risorse è stato cancellato e sostituito dal conflitto identitario, dal linciaggio morale, dalla caccia al colpevole. La cronaca nera è diventata il principale prisma attraverso cui osserviamo noi stessi. Tutti si percepiscono “giusti”, e i “colpevoli” sono sempre gli altri: i poveri, i migranti, i giovani, i marginali, chi non può difendersi. La logica del capro espiatorio domina la scena. Si invoca la gogna, il processo mediatico, la punizione esemplare. È un rito collettivo che non risolve, non spiega, non approfondisce. Serve solo a canalizzare la rabbia di un Paese sempre più impoverito contro bersagli facili, distogliendo lo sguardo da chi quella rabbia la produce. Basta salire su un treno, ascoltare le conversazioni, leggere i commenti sui social: ovunque si respira risentimento, sospetto, incattivimento. Non è un tratto caratteriale: è il risultato politico di un impoverimento materiale e simbolico che dura da decenni. Su questo terreno il governo Meloni ha costruito la propria identità. La risposta è sempre la stessa: più forze dell’ordine, più controlli, più repressione. Ogni fragilità sociale diventa devianza, ogni disagio diventa minaccia. La sicurezza non è una politica, ma un dispositivo ideologico: serve a giustificare misure eccezionali, a spostare il discorso pubblico, a disciplinare i corpi e le menti. Perfino la scuola, luogo per eccellenza del pensiero critico, viene inglobata nel paradigma sicuritario: presidi di polizia, lezioni sul rispetto dell’autorità, punizioni esemplari. Ma una scuola che educa alla paura e all’obbedienza non è più scuola: è il preludio culturale dell’autoritarismo. Eppure i numeri raccontano un’altra storia. L’Italia è oggi il Paese europeo che, in proporzione, spende di più per la sicurezza pubblica e privata. Abbiamo un apparato sicuritario ipertrofico, che cresce mentre il welfare arretra. E tuttavia nessuno – né governo né opposizione – ha mai avviato una valutazione seria dell’efficacia degli strumenti utilizzati. Ad esempio per le politiche migratorie: l’80% dei fondi destinati ai migranti viene speso in misure di repressione, solo il 20% in integrazione, formazione, sostegno. È un modello fallimentare che produce marginalità anziché ridurla. Ma funziona benissimo come propaganda. Intanto, la spesa sociale italiana è sotto la media europea di due punti e mezzo di Pil. Il sottofinanziamento è evidente ovunque: politiche abitative inesistenti, sostegno al reddito insufficiente, servizi per i non autosufficienti drammaticamente carenti. È qui che nasce la vera insicurezza: nella solitudine dei lavoratori poveri, delle famiglie senza casa, degli anziani abbandonati, dei giovani senza prospettive. Eppure nessuno ha il coraggio di dirlo. Perché parlare di welfare, di diritti sociali, di redistribuzione significa spostare l’attenzione dal nemico inventato al nemico reale: un modello economico che genera precarietà e un paradigma politico che la trasforma in paura. Invertire questo ordine del discorso è un’urgenza democratica. Significa affermare che la sicurezza non è il contrario della libertà, ma della disuguaglianza. Significa dire che l’Italia non è più povera perché “invasa”, ma perché sfruttata. Che non è più insicura perché ci sono “troppi giovani fuori controllo”, ma perché non ha case, scuole, sanità, salari adeguati. Che la repressione non è una politica, ma una rinuncia alla politica. Ricostruire un immaginario alternativo significa rimettere al centro ciò che tiene insieme una società: la cura, il lavoro, la dignità, i servizi pubblici, la solidarietà. Significa dire chiaramente che la sicurezza reale – quella che cambia la vita delle persone – nasce da un welfare forte, non da uno Stato armato. Nasce da case accessibili, da salari dignitosi, da scuole libere, da quartieri vivi. L’Italia non è condannata all’incattivimento. Ma per invertire la rotta serve un atto di coraggio politico: rompere la liturgia della paura, smontare la retorica tossica della legalità come surrogato dell’uguaglianza, rifiutare l’idea che il controllo sia la risposta universale ai problemi del Paese. Serve ricostruire un movimento culturale e politico capace di dire che un’altra Italia non solo è possibile, ma è necessaria. Una politica che protegge invece di punire, che crea orizzonti anziché fantasmi, che non alimenta l’emergenza ma rivendica il futuro: è da qui che bisogna ripartire. Il resto è solo gestione del declino. -------------------------------------------------------------------------------- Italo Di Sabato, coordinatore Osservatorio Repressione -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MARCO REVELLI: > La paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’Italia della paura proviene da Comune-info.
Il bene, il male e l’evoluzione
Questi sono tre concetti di cui pensiamo di sapere cosa significano. Ma quello che ci confonde di più è il «bene». Buoni sono i bambini, il pappagallino nella gabbia, il gatto che fa le fusa, il cane che si distende su tutte e quattro le zampe quando lo si accarezza. Buoni sono anche la nuova auto e il nuovo cellulare. E buono è naturalmente il buon Dio. Solo che ormai quasi nessuno crede più in Lui. Il bene appare banale e quindi, secondo il pregiudizio comune, non è qualcosa da prendere sul serio, a meno che il male non si trasformi in bene. «Buona» è allora la collega che, rispetto a me, ha avuto la peggio; «buona» è l’assicurazione che non si è accorta che non mi spetta una somma così alta; e «buono» è il nemico sconfitto, la città nemica distrutta. Chi non conosce la frase: «Solo un indiano morto è un buon indiano». Il male, invece, cerca costantemente di attirare la nostra attenzione: la guerra in Ucraina, l’uragano Melissa, la miseria di Gaza, le atrocità nel Darfur, Guantanamo, il diavolo. Se si possa definire tutto questo «male» o piuttosto – in modo più rassicurante – cattivo, riprovevole, abominevole o semplicemente «negativo», è oggetto di discussioni infinite e animate. A questo punto lo ritengo superfluo. Tutti sanno cosa intendo. Ma perché prestiamo così tanta attenzione a tutte queste atrocità? Perché ci occupiamo più del diavolo che del buon Dio? LA FUGA DI BAMBI A mio avviso, la colpa è dell’evoluzione. Lasciatemi spiegare con l’esempio di un capriolo. Immaginate una soleggiata serata autunnale. Il nostro capriolo, che per semplicità chiameremo Bambi 2.0, è nella radura, si gode i raggi del sole sul pelo e bruca tranquillamente. Tuttavia rimane vigile, perché il mondo non è solo gustoso. Improvvisamente Bambi 2.0 interrompe il suo banchetto e fugge con ampi balzi leggeri verso destra. Cosa è successo? Bambi ha notato un movimento pericoloso sulla sinistra. Un giovane lupo, ancora inesperto, si era avvicinato troppo rapidamente al margine del bosco. Il nostro capriolo fugge quindi ad ogni movimento? No, assolutamente no. Prima che arrivasse il lupo, il vento aveva scosso violentemente i rami. Non solo dieci, ma centinaia di foglie erano cadute a terra, centinaia di movimenti avevano avuto luogo, eppure Bambi 2.0 era rimasto rilassato. Perché? Perché da mesi osservava questi movimenti innocui e vi era abituato. Solo quel movimento insolito ai margini sinistri del bosco ha scatenato la sua fuga. Niente stress Bambi 2.0 dovrebbe essere grato al lupo. Se non fosse fuggito davanti a lui, ora sarebbe morto. Infatti, un bracconiere era rimasto immobile ai margini del bosco con il fucile carico, in attesa del momento giusto. Un minuto dopo avrebbe premuto il grilletto. Perché Bambi 2.0 non lo aveva scoperto? Molto semplice: l’uomo non si era mosso. Il che ci porta all’evoluzione. Essa ha insegnato agli animali che tutto ciò che si muove può essere pericoloso. Tutto ciò che si muove viene quindi analizzato, classificato, valutato. Un albero in piedi è innocuo. Ma guai se cade. L’evoluzione ha organizzato tutto in modo molto ragionevole: una volta che gli animali hanno riconosciuto una situazione come «innocua» – o lo hanno imparato dai loro genitori – possono risparmiarsi molto stress per il resto della loro vita. Possono ignorare gran parte dei movimenti e dedicarsi al bene, al piacere e alla gioia di vivere. Se dovessero rivalutare costantemente ogni movimento intorno a loro, lo stress invaderebbe l’intero regno animale, finora così rilassato. Gli animali avrebbero bisogno di smartphone per fissare appuntamenti. Il che ci porta agli esseri umani. UN MONDO PERICOLOSO Anche noi vogliamo mangiare, digerire, riprodurci e dormire. Ma abbiamo creato un mondo pieno di pericoli, il pericolo fa parte della vita quotidiana. Durante il tragitto verso il supermercato può verificarsi un incidente mortale, nella zona pedonale possiamo essere urtati e romperci il collo sul bordo del marciapiede, possiamo essere derubati, minacciati, persino aggrediti. Lo schermo può esplodere, una piastra elettrica dimenticata può provocare un incendio devastante in cucina. Possiamo addormentarci nella vasca da bagno e annegare, e nostro figlio corre naturalmente il rischio di essere abusato da pedofili mentre va a scuola. Quindi dobbiamo, sì, dobbiamo accompagnarlo a scuola, all’asilo, al club sportivo, alle lezioni di organo. Forse avete notato che questi pericoli esistono, ma prevalentemente in teoria, nella nostra testa. Il nostro cervello non è in grado di distinguere tra pericolo reale e immaginario, perché entrambi ci raggiungono sotto forma di segnali elettrici e chimici; ecco perché ogni pericolo che ci assale come pensiero dalle profondità dell’inconscio, dalle paure o addirittura dai traumi, ci fa reagire come Bambi 2.0: reagiamo con la fuga. Oppure ci irrigidiamo. Oppure diventiamo aggressivi per respingere l’illusione, la tempesta in un bicchiere d’acqua. LO STRESS È NECESSARIO. O NO? L’evoluzione ci ha insegnato a riconoscere i pericoli e a prenderli sul serio. Un pericolo è tutto ciò che può danneggiare la mia vita, la mia salute fisica e mentale. E la somma di tutti i pericoli è proprio il male. Non c’è da stupirsi quindi che ci sentiamo circondati dal male, che ci fermiamo davanti agli incidenti stradali e siamo felici che non sia toccato a noi. Occuparsi del male, ovvero di ciò che è cattivo, riprovevole, abominevole o negativo, è del tutto normale. Dopo tutto, il nostro comportamento è dovuto all’evoluzione. Pertanto, ci sembra logico e sensato che la polizia ottenga sempre più diritti di intercettarci, affinché possa porre fine al male; che la stampa riporti costantemente le notizie peggiori, obbedendo semplicemente a una necessità evolutiva. E se facciamo la guerra, è solo per respingere tutto il male del mondo. Ne siamo fermamente e irremovibilmente convinti. È ovvio che una vita del genere non può essere priva di stress, motivo per cui consideriamo lo stress come una cosa naturale e immanente alla vita. IMPARARE DA BAMBI Ben diverso è il Bambi 2.0, superiore a noi in questo. Si gode la vita al massimo, non si preoccupa dei diplomi scolastici o delle sofferenze del mondo, non ha a che fare con il fisco e si concentra sul bene, che è molto più presente del male. Gli animali sono realistici, non hanno altra scelta. Bambi 2.0 sa che nel prato crescono molte più erbe di quante ne possa mai consumare. E se un giorno dovesse arrivare il lupo, Bambi gli offrirà il suo collo delicato da mordere, perché fino a quel momento avrà avuto una vita meravigliosa e deliziosa. È così, e nemmeno il lupo sembra cattivo a Bambi. Ma ci sono sorprendentemente pochi lupi nei dintorni di Bambi; e i lupi frustrati da una caccia fallita preferiscono nutrirsi di topi e conigli piuttosto che di Bambi. In effetti, le statistiche ci dicono che solo tra l’uno e il cinque per cento di tutti i caprioli cadono vittime dei predatori. Non vale quindi la pena imparare da Bambi? Concentrarsi sul bene, sul vero e sul bello, tanto più che anche noi siamo circondati solo da pochi lupi, esclusi quelli presuntuosi. Il detto «chi chiama nel bosco, riceve un eco» vale anche per il male. Più ne sospetto la presenza nella foresta, anzi, più ne sono certo, più troll, orchi e fantasmi vi si insediano. E viceversa. Io, ad esempio, oggi ho vissuto solo cose positive: ho fatto una passeggiata mattutina senza incidenti con mio figlio, non mi sono strozzato né a colazione né a pranzo; ho bevuto un deliziosa tisana della giusta intensità senza scottarmi la lingua; mi sono goduto un pisolino pomeridiano e mi sono svegliato prima della sveglia. E sulla tastiera per questo saggio ho trovato tutti i tasti senza slogarmi nemmeno un dito; la sera mi aspetta un bicchiere di vino che so già non sarà diventato aceto. A dire il vero, potrei raccontare almeno altre venti cose positive di questa giornata, ma non voglio annoiare nessuno più del necessario. Anche il fatto che, mentre riflettevo su questo saggio, mi sia venuto in mente prima Bambi e non il lupo cattivo mi diverte. Qualcosa mi ha influenzato positivamente. E può essere stato solo qualcosa di buono. O no?   -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid con l’ausilio di traduttore automatico. Bobby Langer
Di Gaza e di Noi – di C.S. Cantiere, Milano
Gaza. Palestina. Mondo.    Sono passati due anni di genocidio dal 7 Ottobre e 77 dall’inizio dell’occupazione della Palestina storica. Un accordo di “pace” è stato firmato. Il popolo palestinese festeggia il cessate il fuoco: la sua resistenza ne ha affermato la vita. Tuttavia, il piano di “pace”  ha condizioni che nessuna persona accetterebbe mai, senza [...]
La pista maranza – di Milin Bonomi
In principio era la pista anarchica, poi il mondo cambiò (in peggio), con nuovi fascismi e neocolonialismi. Servivano nuovi mostri e paure da creare (perché come diceva Eco, quando il nemico non c’è, bisogna costruirlo). E pista maranza fu. Per iniziare, lasciateci dire che siamo profondamente deluse. Prima di tutto, perché alla pista anarchica [...]
Hebron/Cisgiordania, MSF: “Violenza israeliana incessante. Popolazione allo stremo fisico e mentale”
In Cisgiordania, la salute mentale della popolazione palestinese è costantemente minata dalla paura di aggressioni e violenze da parte dei coloni e delle forze armate israeliane, soprattutto per chi vive nella zona meridionale di Hebron, come gli abitanti di Masafer Yatta. Qui, la minaccia quotidiana di trasferimenti forzati, ferimenti e – come si è visto nelle ultime settimane – uccisioni, è costante. Medici Senza Frontiere (MSF), che gestisce cliniche mobili nella zona, sta vedendo ostacolate le proprie attività a causa della situazione di forte insicurezza, aggravata dalla crescente violenza dei coloni. “Stiamo assistendo a numerose demolizioni di abitazioni da parte delle forze israeliane, che fanno ripetutamente incursione nei villaggi di Masafer Yatta. In alcuni villaggi è stato demolito fino all’85% delle abitazioni. Le politiche e le pratiche del governo israeliano volte all’annessione della Cisgiordania, hanno effetti devastanti sulla salute fisica e mentale dei nostri pazienti” dichiara Frederieke Van Dongen, responsabile degli affari umanitari di MSF a Hebron. “Gli attacchi dei coloni, spesso insieme all’esercito israeliano, sono ormai quasi quotidiani e sempre più violenti, responsabili di un numero crescente di feriti e di ricoveri ospedalieri”. Negli ultimi mesi, gli attacchi dei coloni israeliani contro gli abitanti di Masafer Yatta si sono intensificati, provocando ferite fisiche e psicologiche sempre più gravi. I racconti parlano di episodi di frequenza quotidiana: pestaggi, animali lasciati intenzionalmente liberi per devastare i campi coltivati, strade bloccate, case demolite e una pressione psicologica costante. Negli ultimi 12 mesi, la maggior parte dei nuovi pazienti che si sono rivolti alle cliniche MSF a Hebron per ricevere supporto psicologico lo ha fatto a seguito di episodi di violenza. Solo a giugno 2025, il 94% degli ingressi era legato ad attacchi violenti. Le cliniche mobili di MSF a Hebron hanno risposto ai nuovi bisogni delle comunità beduine di Masafer Yatta, offrendo cure di base e supporto psicologico a chi è stato colpito dagli attacchi dei coloni – inclusi bambini, donne e anziani. Inoltre, MSF sostiene anche i palestinesi costretti a fuggire dalle proprie case a causa della violenza e delle demolizioni. A maggio, i coloni hanno preso d’assalto la comunità di Jinba, lasciando tra la popolazione corpi feriti, raccolti distrutti e una crescente convinzione che la pace non sia più possibile. “Hanno colpito un anziano alla testa, ha avuto bisogno di oltre 15 punti di sutura” racconta Ali Al Jabreen, membro della comunità di Jinba. “Un altro ferito ha ancora una mano rotta. E un uomo ha riportato gravi problemi psicologici dopo due settimane in terapia intensiva. La violenza non si ferma mai”. “Sono arrivati con tre macchine, erano circa 17 coloni. Hanno picchiato me, mio padre e mio fratello Ahmad. Poi quella stessa notte sono tornati. Hanno distrutto il nostro rifugio, la clinica e la moschea. Mio padre era in condizioni critiche – il suo battito era sceso a 35. Mio fratello è rimasto incosciente per giorni. Siamo rimasti circondati per più di un’ora prima che un’ambulanza potesse passare” racconta Qusay Al-Amour, ragazzo diciottenne che dopo l’attacco ha zoppicato per settimane. “Psicologicamente è dura. I coloni vengono quasi ogni giorno, anche di notte. Ma noi non ce ne andiamo. Noi restiamo qui. Spero che un giorno se ne vadano loro e potremo vivere finalmente in pace”. Anche i bambini sono esposti fin da piccoli a violenze e intimidazioni, che li portano a sviluppare chiari sintomi di trauma come incubi, attacchi di panico e difficoltà di concentrazione a scuola. “La sofferenza non risparmia nessuno. La costante minaccia di violenza porta le persone a immaginare continuamente scenari drammatici. Si chiedono che cosa succederà se i coloni arrivano a casa loro, se hanno una moglie incinta o delle figlie, riusciranno a proteggerle o dovranno rimanere impotenti? Cosa accadrà se verranno sfollati di nuovo? E se la madre, o un altro membro della famiglia, ha una disabilità fisica, riuscirà a trasferirsi in un altro posto?” continua Van Dongen di MSF. Purtroppo, l’accesso alle comunità colpite da parte dei team mobili di MSF resta fortemente limitato a causa della crescente insicurezza. Oltre al timore di aggressioni da parte dei coloni, i posti di blocco militari israeliani e la recente guerra di 12 giorni tra Israele e Iran hanno reso la situazione ancora più instabile. I team sul campo riferiscono di ritardi negli interventi, strade bloccate e bisogni crescenti in tutta la Cisgiordania. “La recente intensificazione degli attacchi da parte dei coloni e delle forze militari israeliane fa parte di una politica di sfollamenti e annessioni forzate, che deve finire immediatamente. Israele, in quanto potenza occupante, ha l’obbligo di proteggere i palestinesi” conclude Van Dongen di MSF. “Al contrario, le forze israeliane agevolano o contribuiscono direttamente agli attacchi dei coloni contro la popolazione palestinese. La comunità internazionale è rimasta in silenzio troppo a lungo. È ora di agire con vere pressioni politiche ed economiche sulle autorità israeliane per fermare le azioni israeliane che stanno deliberatamente spingendo i palestinesi a lasciare le proprie terre”. Medecins sans Frontieres
Cinecagna – horror queer edition: giovedì 17/10 ore 20.30 proiezione di “I saw the TV glow” di Jane Schoenbrun
ᴵ ᵗᵒˡᵈ ᵐʸˢᵉˡᶠ ‘ᵗʰⁱˢ ⁱˢⁿ’ᵗ ⁿᵒʳᵐᵃˡ. ᵗʰⁱˢ ⁱˢⁿ’ᵗ ⁿᵒʳᵐᵃˡ. ᵗʰⁱˢ ⁱˢⁿ’ᵗ ʰᵒʷ ˡⁱᶠᵉ ⁱˢ ˢᵘᵖᵖᵒˢᵉᵈ ᵗᵒ ᶠᵉᵉˡ’ 𝓒𝓘𝓝𝓔𝓒𝓐𝓖𝓝𝓐 presenta: 𝐈 𝐒𝐀𝐖 𝐓𝐇𝐄 𝐓𝐕 𝐆𝐋𝐎𝐖 di Jane Schoenbrun (100′, USA, 2024) Giovedi 17 ottobre – ore 20.30 🎃 Owen cerca di … Continue reading →