Contro l’accademia neoliberale: appunti dalla Normale nell’era del merito
Riprendiamo l’articolo del Collettivo della Scuola Normale Superiore apparso
qui. Buona lettura.
--------------------------------------------------------------------------------
È arrivato novembre. Un altro anno accademico si è aperto e ancora una volta la
cerimonia d’inaugurazione della Scuola Normale si è svolta senza alcuno spazio
di parola studentesco – una singolarità, se si considera che in pressoché ogni
università questo momento coinvolge anche chi l’università la vive
quotidianamente.
Le lezioni ricominciano e sentiamo la necessità di dotarci di strumenti per
leggere la realtà che stiamo vivendo. Negli ultimi mesi, nelle assemblee del
Collettivo, nelle mobilitazioni contro la riforma Bernini e nelle discussioni
quotidiane nelle classi della Scuola, è emersa una consapevolezza sempre più
nitida: le trasformazioni che attraversano l’università non arrivano mai come
fratture improvvise, ma si sedimentano nel quotidiano, si insinuano attraverso
piccole modifiche ai regolamenti, irrigidimenti formali che cambiano
gradualmente il nostro modo di studiare, di organizzarci, di esistere come
comunità accademica.
Con questo articolo proviamo a condividere alcune riflessioni con l’intento di
restituire un’immagine più chiara del contesto in cui viviamo e prendiamo
parola: perché è proprio nelle pieghe della normalità amministrativa che si
rende visibile il progetto di un’università neoliberale e piegata alle logiche
del profitto — e dunque è in questi dettagli che dobbiamo imparare a guardare
per riconoscere il presente e immaginare come trasformarlo.
--------------------------------------------------------------------------------
Negli ultimi decenni l’università italiana è stata progressivamente riscritta
secondo il lessico e le logiche del neoliberismo, un progetto politico ed
economico che ha riorganizzato le società occidentali attorno al presunto
modello “naturale” e “inevitabile” dell’economia di mercato, assorbendo nelle
sue dinamiche istituzioni e diritti un tempo sottratti alla competizione: dalla
sanità alla famiglia, dalla scuola alla casa. Per accademia neoliberale
intendiamo, dunque, l’insieme di riforme e di discorsi che hanno via via piegato
l’università a questa ambizione. In questo quadro abbiamo assistito
all’espansione di criteri di efficienza, di valutazione continua, di
competizione e misurabilità, che hanno trasformato la formazione e la ricerca in
prestazioni quantificabili e la comunità studentesca e docente in una somma di
individui chiamati a ottimizzare il proprio percorso in vista della
competitività complessiva dell’istituzione.
Non si tratta soltanto di un processo di riforma amministrativa o di
trasformazione gestionale, ma di una mutazione profonda del modo stesso in cui
il sapere viene prodotto, legittimato e distribuito. L’università, anziché
pensarsi come spazio di elaborazione culturale e di emancipazione sociale,
assume gli strumenti dell’impresa: indicatori di performance, “attrattività” per
investitori, culto per il ranking. Il sottofinanziamento strutturale, invece che
denunciato come scelta politica che smantella l’autonomia del sapere, viene
rovesciato in narrazione meritocratica: chi “sa fare di più con meno” sarebbe
moderno, virtuoso, efficiente. E così la dipendenza da finanziamenti privati
viene normalizzata come orizzonte inevitabile. Questi processi colpiscono non
solo student3 ma anche docenti e ricercator3 attraverso precarietà strutturale,
carriere frammentate, valutazioni quantitative, adattamento forzato delle linee
di ricerca agli interessi economici dominanti.
Questo quadro produce effetti concreti sulla vita accademica. L’accesso allo
studio si trasforma in competizione e la retorica del merito funziona come
dispositivo di legittimazione dell’esclusione. Si naturalizza la figura dello
studente-imprenditore di sé, che deve sacrificarsi, performare, distinguersi per
guadagnarsi un posto, mentre il diritto allo studio diventa un privilegio da
meritare e non un fondamento della cittadinanza democratica. L’immaginario
aziendalista entra nei corridoi universitari e li popola di parole come
“eccellenza”, “attrattività”, “competitività”, che spesso oscurano la domanda
fondamentale: a chi e per chi serve il sapere che produciamo? 1
--------------------------------------------------------------------------------
Come normalist3 ci chiediamo oggi in che modo le logiche neoliberali si
manifestano nella nostra istituzione. Qui il sottofinanziamento non si
percepisce con la stessa intensità di altre università italiane; e tuttavia
questo apparente scarto non ci sottrae al modello, anzi lo rende talvolta più
silenzioso e pervasivo. Il privilegio materiale può funzionare come schermo che
oscura le trasformazioni in corso, o peggio come giustificazione implicita: se
“qui funziona”, allora il paradigma competitivo, selettivo e aziendalizzato
sarebbe legittimo. Ma a quale prezzo? E per chi?
Quest’autunno la direzione della Scuola ha avviato un processo di revisione dei
regolamenti, intervenendo in modo significativo soprattutto sulla classe di
Lettere. Ciò che percepiamo è l’ennesimo passo dentro un percorso già tracciato
negli anni passati: la progressiva standardizzazione delle carriere e della
didattica per aderire ai parametri ANVUR e ai dispositivi europei di
accreditamento.
Là dove la formazione si voleva costruita attraverso una relazione diretta tra
student3 e docenti, e dove il percorso accademico conservava un margine di
autodeterminazione, oggi prende forma un’architettura rigida e modulare. La
distinzione tra seminari “afferenti” e “non afferenti” è diventata il primo
passo verso un modello in cui la scelta dell3 student3 viene sacrificata in nome
della misurabilità. Per ottenere fondi, per essere riconosciut3 come
“eccellenza”, dobbiamo diventare incasellabili, leggibili da organismi che non
vivono la nostra realtà ma la definiscono.
Un segnale evidente di questa trasformazione è la programmazione didattica. I
corsi annuali, che costituivano l’ossatura tradizionale della formazione in
Normale, lasciano spazio a moduli brevi da 20 ore (3 cfu), presentati come
soluzioni temporanee per “tappare i buchi” (espressione pronunciata in consiglio
di classe dal corpo docente) dopo il pensionamento di tre professori ordinari.
Eppure, più che una contingenza, ci sembra emergere un cambio di paradigma: una
didattica frammentata, affidata a figure chiamate per pochi mesi, senza
continuità progettuale né responsabilità educativa di lungo periodo e che non
dispongono nemmeno delle condizioni contrattuali per poter assumere un ruolo
pieno nella nostra formazione — per esempio accompagnandoci come relatori
interni nei colloqui.
La nostra comunità era costruita – almeno in teoria – sulla presenza di docenti
interni, responsabili della nostra crescita intellettuale e disponibili ad
accompagnarci nei momenti cruciali del percorso accademico. Oggi assistiamo alla
chiusura rapida dei contratti dei docenti esterni, alla lentezza nell’assunzione
di nuovi ordinari e, parallelamente, alla facilità con cui si attivano incarichi
brevi e discontinui. Il risultato è un’istituzione che si presenta rinnovata,
“fresca”, pronta a offrire molti corsi nuovi, ma priva di una struttura solida
che renda possibile una formazione effettiva. In questa stessa direzione si è
mosso anche l’indurimento delle pratiche valutative: in più sedi è stata
rivendicata dai professori l’esigenza di rendere la dinamica del voto più
differenziata. È un dettaglio che dice molto: valutare e distinguere è sempre
più urgente in un’accademia sottofinanziata che potrà accogliere sempre meno di
noi. Troviamo molto ironico che il nostro direttore – che si rifiuta di
confrontarsi con la comunità studentesca su ogni tema – abbia appena dichiarato
che “alla Normale cerchiamo di dare il meno possibile voti”.
Questo dinamismo apparente si ammanta di parole seducenti: interdisciplinarità,
apertura, internazionalizzazione. Nascono così corsi come “studi di genere” e
“culture di minoranza”, potenzialmente preziosi, ma organizzati come una parata
di docenti che terranno poche lezioni, in inglese, senza alcuna continuità né
progettualità. Nel caso di “culture di minoranza” si arriva al paradosso di
dieci lezioni da due ore, tutte affidate a docenti divers3 e su argomenti
differenti. Qui non conta davvero la coerenza della formazione, sembra invece
prevalere l’urgenza di esibire la capacità della Scuola di farsi promotrice di
temi “progressisti”, una strategia che appare più legata alla visibilità nel
network EELISA che alla costruzione di un sapere critico e stabile. La domanda
che ci poniamo non riguarda il valore dei contenuti – che riconosciamo e
desideriamo – ma l’uso che se ne fa: stiamo assistendo a un reale tentativo di
valorizzare saperi non convenzionali, o piuttosto a una risposta opportunistica
a bandi e finanziamenti esterni che impongono agende e priorità? Proprio perché
questi temi sono cruciali, il modo in cui vengono trattati conta: ridurli a una
sfilata di interventi estemporanei, affidati di anno in anno a programmazioni
instabili, rischia di svuotarli. È la logica tipica di un neoliberismo
accademico che inserisce saperi “emersi dal basso” come elementi decorativi,
sradicati da qualsiasi base sociale e comunitaria, pronti a scomparire non
appena cambiano gli indicatori o le aspettative ministeriali. Noi desideriamo
invece una costruzione condivisa che radichi questi saperi nella vita della
Scuola e nella sua comunità, affinché non siano un ornamento progressista, ma
una pratica viva, capace di trasformare modalità di apprendimento e forme del
pensiero.
L’altra faccia di questa trasformazione è un altro elemento, apparentemente
marginale ma rivelatore: l’insistenza, emersa negli ultimi mesi, sulla necessità
di privilegiare relatori interni in nome della “continuità didattica”. Questa ci
sembra da un lato una forma di pressione verso l’iper-specializzazione precoce,
che vede nella linearità curricolare una prova di “serietà” e “produttività”;
dall’altro, la riproduzione di dinamiche di fidelizzazione, in cui la
costruzione di un rapporto privilegiato con chi detiene capitale accademico
diventa garanzia di futuro accesso ai pochi spazi disponibili – dal dottorato ai
progetti di ricerca. È una forma aggiornata di baronaggio, meno rumorosa ma non
meno efficace, che si presenta come razionalizzazione amministrativa
mentre riscrive le pratiche della cooptazione tradizionale. Tanto l’insistenza
retorica sulla “continuità”, quanto la proliferazione di corsi da 3 cfu, ci
appaiono come manifestazioni di un medesimo impoverimento: una didattica
frammentata, che restringe di fatto gli spazi di scelta e di sperimentazione.
Infine, la stretta burocratica sui percorsi – la rigida separazione tra
triennale e magistrale, la regolamentazione minuziosa dei passaggi tra seminari,
il cambio di piattaforma da Serse a Esse3 – sembra testimoniare la volontà di
delegare agli strumenti digitali e ai regolamenti il compito di definire ciò che
possiamo fare, studiare, diventare. È un rovesciamento quasi distopico: non sono
le esigenze formative a plasmare gli strumenti, ma gli strumenti a modellare la
formazione.
Non si tratta, da parte nostra, di rivendicare un passato idealizzato. La
Normale “di un tempo” non rappresenta per noi un modello a cui tornare: anche
allora la formazione era segnata da gerarchie implicite, corsi talvolta
improntati alla mera trasmissione erudita. Nostalgia e mercificazione sono due
lati di una stessa incapacità di immaginare l’università come spazio creativo,
rigoglioso, libero. Piuttosto, ciò che vogliamo aprire è una domanda condivisa
sulla forma che la nostra istituzione potrebbe assumere: come configurare luoghi
in cui la libertà di ricerca non sia retorica, ma pratica quotidiana? Come
costruire relazioni pedagogiche che non siano né tutoring paternalistico né mera
logica di competenze da acquisire? Questa domanda non ha una risposta
preconfezionata; chiede tempo, conflitto, progettualità. Ma rinunciare a
formularla significherebbe consegnare l’università alla gestione
tecnocratica che oggi la svuota di senso.