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Quando la fede taglia i ponti con il fossile
MENTRE A BELÉM, IN BRASILE, LA COP30 INCIAMPA NEI SOLITI VETI INCROCIATI SUL PHASE-OUT DEI COMBUSTIBILI FOSSILI, LONTANO DAI RIFLETTORI POLITICI ARRIVA UN SEGNALE FORTE DALLE CHIESE CATTOLICHE E PROTESTANTI : 62 ISTITUZIONI RELIGIOSE – SCELGONO DI DISINVESTIRE DAL FOSSILE. UN GESTO DI DISOBBEDIENZA MORALE CHE NASCE NEI TERRITORI DOVE CRISI CLIMATICA E FRAGILITÀ SOCIALE CAMMINANO ORMAI INSIEME Il 18 novembre, mentre governi e grandi compagnie trattano il futuro come fosse merce di scambio, parrocchie, diocesi, ordini religiosi, reti protestanti e istituti finanziari ecclesiali hanno fatto un passo semplice e radicale: tagliare i legami economici con il petrolio, il gas e il carbone. È uno dei più grandi annunci collettivi di disinvestimento mai realizzati dalle comunità di fede. Ci sono diocesi cattoliche italiane (Siena, Montepulciano, Lucca, Cremona…), istituzioni canadesi, ordini religiosi europei, reti protestanti come l’Arbeitskreis Kirchlicher Investoren (AKI) che riunisce 42 investitori istituzionali della Chiesa tedesca. Un mosaico che dimostra come la conversione ecologica evocata da anni non sia solo un richiamo spirituale, ma si giochi nel concreto della finanza, della gestione delle risorse, dei progetti comunitari. L’Italia che brucia e che si allaga: la scelta delle diocesi In un paese dove ogni giorno si misurano i danni prodotti dalla crisi climatica , città sommerse e colline franate , il disinvestimento non suona come gesto ideologico, ma come atto di sopravvivenza comunitaria. Il cardinale Augusto Paolo Lojudice, tra Siena e Montepulciano, lega con chiarezza combustibili fossili e conflitti globali, ricordando che la crisi climatica non è una distrazione ecologica ma una questione di pace: “La decarbonizzazione è un atto di giustizia… esprime solidarietà con coloro che subiscono le conseguenze di conflitti alimentati dalla dipendenza dal fossile.” > Il Vescovo di Lucca, Paolo Giulietti, mette insieme finanza etica e comunità > energetiche rinnovabili (CER), mostrando una strada forse più politica che > religiosa: > “La sostenibilità è rispetto per il creato e amore per il Creatore. Alle CER > si aggiunge il nostro impegno negli investimenti fossil-free.” Ancora più esplicita la Diocesi di Cremona, dove il disinvestimento cammina di pari passo con la costruzione di sei – presto sette – Comunità Energetiche Rinnovabili in 27 Comuni: un lavoro nascosto e tenace, fatto di incontri tra parrocchie, amministrazioni, enti del terzo settore, fondazioni e cittadini. Cremona ricorda che la transizione non si fa nei convegni, ma negli oratori, nei tetti delle scuole, nelle assemblee di quartiere. Foto Rosa Jijon Quando la crisi climatica si chiama “migrazione” Tra le voci che compongono questa scelta collettiva c’è anche quella di chi conosce ogni giorno le ferite della mobilità forzata. Emanuele Selleri, dell’Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo, non usa mezzi termini: > “Il cambiamento climatico è una delle cause più tragiche delle migrazioni > forzate. Non possiamo voltarci dall’altra parte.” Per chi vive a fianco di chi fugge, la connessione tra il fossile e il dolore ha nomi, volti, biografie. È un’eco che a Comune-info conosciamo bene: i luoghi in cui si soffre l’ingiustizia ambientale sono spesso gli stessi in cui si soffre l’ingiustizia sociale. Dall’Europa al Sud del mondo: una pressione che sale Non è solo l’Italia a parlare. Le comunità protestanti tedesche – tra le più avanzate nella finanza etica – ribadiscono criteri chiari: fuori tutte le aziende che fanno più del 5% del fatturato da carbone e petrolio/gas non convenzionali. I gesuiti dell’Europa centrale annunciano il disinvestimento totale, ricordando che a pagare il prezzo più alto sono le popolazioni povere del Sud globale. E nei mesi scorsi i vescovi cattolici di Africa, Asia e America Latina hanno lanciato un appello netto: il fossile va abbandonato non solo per il clima, ma per riparare un debito ecologico e morale. Parole che spostano il discorso: non è più solo una questione di obiettivi climatici, ma di giustizia storica. La contraddizione che nessuno può più ignorare Fuori dai cammini comunitari, invece, il mondo del fossile accelera. La compagnia francese TotalEnergies è stata condannata per greenwashing mentre continua a spingere oleodotti devastanti come l’EACOP in Africa orientale e a riaprire progetti di GNL in Mozambico. Un nuovo rapporto Urgewald mostra che l’industria globale pianifica un’espansione del 33% rispetto al 2021: altro che transizione, siamo davanti a un rilancio. In questa contraddizione il disinvestimento delle istituzioni religiose diventa contro-narrazione e azione concreta. È un atto di verità: non si può dire “salviamo il creato” e finanziare chi lo distrugge. Quando la politica non decide, decidono i popoli Papa Leone XIV parla di “azione coordinata e coraggiosa per il clima”, ma soprattutto richiama le comunità a fare pressione sui governi. E in un passaggio che vale come titolo di questo tempo: > “Non possiamo essere complici, nemmeno involontariamente, delle cause > dell’emergenza climatica.” Se gli Stati esitano sugli NDC (i Contributi Determinati a Livello Nazionale), i movimenti di fede rispondono con i PDC – People’s Determined Contributions: impegni concreti presi dai cittadini e dalle comunità. Un cambio di paradigma: la transizione non è delegabile. La posta in gioco: denaro, democrazia, vita Le istituzioni religiose muovono complessivamente 3.000 miliardi di dollari di investimenti e oltre 600 di esse hanno già scelto di disinvestire. Non è un gesto simbolico: è un segnale che può condizionare banche, governi, istituzioni. Ma c’è dell’altro. Qui si parla di comunità che rimettono le mani sulla propria autonomia energetica, sulla capacità di decidere come usare il denaro, sulla possibilità di costruire alternative reali. È la dimensione che raccontiamo da anni: la transizione non è una questione tecnica, ma un processo di riappropriazione del futuro. Una speranza ostinata La climatologa cristiana Katharine Hayhoe ricorda che il grande masso dell’azione climatica non è ai piedi di una montagna impossibile: è già in movimento, e milioni di mani lo spingono nella direzione giusta. Disinvestire dal fossile è una di quelle mani. Non l’unica, certo. Non sufficiente, forse. Ma necessaria. Perché le comunità che dicono no al fossile e sì alla cura della terra mostrano una verità elementare: il cambiamento non arriva dai vertici, ma da chi abita i territori, da chi si prende cura, da chi decide di non essere più complice. E questa, sì, è una buona notizia. Anche mentre la COP30 fatica a decidere. L'articolo Quando la fede taglia i ponti con il fossile proviene da Comune-info.
L’accordo minato
CHI SI È MEZZO DI TRAVERSO PER FAR SÌ CHE L’ACCORDO DI PARIGI, CHE I GOVERNI DEL MONDO TROVARONO 10 ANNI FA PER PROVARE A CONTRASTARE EFFICACIEMENTE LA CRISI CLIMATICA, VENISSE “SABOTATO”? I SOLITI NOTI, VERREBBE DA DIRE LEGGENDO L’ULTIMO RAPPORTO DI RECOMMON “DIECI ANNI PERDUTI – COME I PROTAGONISTI DELL’ESTRATTIVISMO FOSSILE ITALIANO HANNO MINATO L’ACCORDO DI PARIGI” I “protagonisti dell’estrattivismo nostrano” sono ENI, Snam, SACE e Intesa Sanpaolo, soggetti su cui ReCommon conduce campagne da anni. Facendo un passo indietro, alla COP21 tenutasi nel 2015 nella capitale francese i paesi firmatari dell’accordo, compresa l’Italia, avevano promesso di «tenere le temperature ben al di sotto di 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, e proseguire l’azione volta a limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali». Dalla COP21 di Parigi, in Italia si sono succeduti cinque governi ed ENI ha prodotto in totale circa 6,39 miliardi di barili equivalenti di petrolio e gas, dichiarando ogni anno la propria volontà di aumentare la produzione di combustibili fossili almeno fino al 2030. Così la più importante multinazionale italiana potrebbe sforare del 73% (2024) e dell’89% (2025) i parametri previsti dagli scenari di zero emissioni nette (NZE) dell’Agenzia Internazionale dell’Energia per raggiungere l’obiettivo di limitare l’aumento di temperatura entro 1,5 gradi.    Nello stesso lasso di tempo, Snam e le altre grandi società di trasporto del gas hanno speso fino a 900mila euro in attività di lobbying a Bruxelles, riuscendo a ottenere quasi 50 incontri con i massimi funzionari politici della Commissione europea per discutere i loro progetti di gasdotti da costruire o acquisire. La società di San Donato Milanese è divenuta in pochi anni il più grande operatore della rete di trasporto del gas in Europa per infrastrutture controllate, corrispondenti a oggi a una rete di oltre 40mila chilometri di gasdotti, terminal di rigassificazione per 28 miliardi di metri cubi di capacità annua gestita, depositi di stoccaggio per 16,9 miliardi di metri cubi. Piani di investimento incentrati su petrolio e gas che non sarebbero possibili senza la mediazione e il supporto delle istituzioni finanziarie, a partire da quelle pubbliche. Controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, SACE è l’agenzia di credito all’esportazione italiana. Il suo ruolo è quello di rilasciare garanzie – cioè un’assicurazione pubblica – sia alle aziende, i cui progetti all’estero possono essere assicurati, sia alle banche commerciali, per garantire i prestiti ai progetti esteri delle aziende. Negli ultimi 10 anni, SACE ha rilasciato garanzie per il settore dell’energia fossile pari a 22,18 miliardi di euro. È l’operatività di SACE a fare dell’Italia il primo finanziatore pubblico dell’industria fossile in Europa e il quarto a livello globale. C’è, infine, il più grande gruppo bancario privato italiano: Intesa Sanpaolo. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel solo 2024 i finanziamenti a carbone, petrolio e gas da parte della banca di Corso Inghilterra sono aumentati del 18% rispetto all’anno precedente, raggiungendo la cifra di 11 miliardi di dollari, mentre gli investimenti sono saliti del 16% (10 miliardi a inizio 2025). ENI si conferma come la corporation fossile più finanziata da Intesa Sanpaolo; forte è anche la crescita del sostegno a Snam (+60% negli investimenti e +96% di finanziamenti nel 2024).  «Quando si parla di crisi climatica c’è chi ha maggiori, incomparabili, responsabilità rispetto al singolo individuo: i gruppi industriali e finanziari, che sono parte strutturale di un sistema improntato sull’energia fossile. L’Italia non fa eccezione», commenta Simone Ogno di ReCommon. «Per troppo tempo questa crisi è stata raccontata come un fenomeno astratto,  nascondendo così il fatto che ne stiamo già pagando, letteralmente, le conseguenze sul piano materiale. Crisi climatica significa infatti impatti sociali, economici e ambientali. È arrivato il momento che i responsabili siano in prima fila a pagare i costi di questa crisi», conclude Ogno. L'articolo L’accordo minato proviene da Comune-info.