Tag - Ecologia ed Ambiente

Bresso, no aeroporto commerciale:non ci fermeremo nonostante il dietrofront di Enac Servizi Srl
“Non crediamo alle rassicurazioni date da Enac Servizi Srl e riteniamo le nostre preoccupazioni fondate e legittime. Ecco perché andremo avanti con la nostra protesta e abbiamo deciso di lanciare una raccolta firme in tutti i Comuni interessati dal traffico aereo intorno a Bresso. – dichiara il Comitato Difesa Parco Nord No Aeroporto Commerciale – Inoltre, entro gennaio inviteremo tutte le istituzioni, i Sindaci, Enac ed Enac Servizi Srl ad una assemblea pubblica sulla difesa del Parco Nord e del Protocollo del 2007”. Il Comitato Difesa Parco Nord – No Aeroporto Commerciale, alla luce delle audizioni di ieri in Regione Lombardia, ribadisce la sua completa contrarietà alla Regional Air Mobility e a qualsiasi violazione del Protocollo d’Intesa del 2007 relativo all’Aeroporto di Bresso “Franco Bordoni Bisleri”. Al fianco del Comitato, ieri mattina erano presenti all’audizione il Sindaco di Bresso Simone Cairo, il Vice Sindaco di Cusano Milanino Mario Zanco e di Cinisello Balsamo Giuseppe Berlino, il Presidente di Parco Nord Milano Marzio Marzorati, il promotore del Comitato Difesa del Parco Nord Arturo Calaminici, l’Assessore Elena Grandi del Comune di Milano e i rappresentanti di Città Metropolitana di Milano, che hanno espresso in maniera univoca le loro preoccupazioni sull’impatto che questa eventuale decisione avrebbe per l’inquinamento acustico, ambientale e per la sicurezza dei comuni limitrofi già densamente abitati. Gli auditi hanno, inoltre segnalato l’aumento dei voli dallo scalo milanese. “Sull’aeroporto di Bresso è, inoltre, attualmente in vigore il protocollo d’intesa firmato nel 2007 e sottoscritto da molti enti, tra cui la presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dei Trasporti, la Provincia di Milano e i Comuni coinvolti. – ha precisato il Sindaco di Bresso Simone Cairo – Tale protocollo esclude opere o interventi che potenzino ulteriormente la capacità di traffico aereo”. Il Protocollo di intesa è attualmente in vigore dal 31 luglio 2007 ed esclude tassativamente opere o interventi che configurino un potenziamento della capacità di traffico. Lo stesso Piano di Riassetto Aeroportuale, redatto dall’ENAC nel 2005, sottolineava come lo scopo fosse intervenire senza produrre impatti significativi sul territorio circostante ed escludendo qualsiasi modifica dell’utilizzo dell’infrastruttura o incremento di traffico e quindi anche di inquinamento acustico o atmosferico. A sottoscrivere quel documento furono: Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dei Trasporti, Provincia di Milano, Agenzia del Demanio, Ente Nazionale Aviazione Civile (ENAC), Comuni di Bresso, Cinisello Balsamo e Milano, Consorzio Parco Nord Milano. “Il Parco Nord risponde ai bisogni dei cittadini e alle esigenze di biodiversità. – ha aggiunto Marzio Marzorati, Presidente del Parco Nord Milano – L’anno scorso è stato frequentato da 3 milioni di visitatori. La natura ha assunto un ruolo pubblico. Se Bresso dovesse diventare uno scalo commerciale ci sarebbero conseguenze sulla fruizione del parco e anche sull’ambito residenziale”. “Non esiste nessuna richiesta né progetto che preveda di aprire l’aeroporto di Bresso al traffico commerciale. Le notizie che sono state diffuse nelle scorse settimane sono infondate. Quello che esiste è uno studio realizzato dalla Fondazione PWC Italia che ha esaminato le potenzialità di questa area per lo sviluppo di vari servizi sul territorio, come per esempio il trasporto sanitario di farmaci di nuova generazione con droni a propulsione elettrica e a idrogeno e il trasporto di organi e materiale biologico. Servizi per i quali sono in essere collaborazioni con aeroporti già operativi su questo fronte e con ospedali che sarebbero interessati a fruire di questi servizi”. Così si è difeso l’Amministratore Unico di Enac Servizi Srl Marco Trombetti che però ha firmato con Enac un contratto di programma dal 2025 al 2027 che prevede che dal 1° febbraio 2026 l’aeroporto di Bresso sarà affidato in gestione totale alla sua società la cui missione principale è quella di sviluppare la Regional Air Mobility (RAM), una rete nazionale di scali di aviazione generale come quello di Bresso. Qui un passaggio del documento: 𝐋’𝐞𝐫𝐨𝐠𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 (dei finanziamenti a Enac Servizi Srl) 𝐞̀ 𝐭𝐞𝐬𝐚 𝐚 […] 𝐚 𝐬𝐯𝐢𝐥𝐮𝐩𝐩𝐚𝐫𝐞 𝐞 𝐚 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐞𝐧𝐞𝐫𝐞 𝐥𝐞 𝐩𝐨𝐥𝐢𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐞𝐜𝐞𝐬𝐬𝐚𝐫𝐢𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐢𝐧𝐜𝐞𝐧𝐭𝐢𝐯𝐚𝐫𝐞 𝐥’𝐢𝐦𝐩𝐥𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐫𝐨𝐭𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐑𝐞𝐠𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥 𝐀𝐢𝐫 𝐌𝐨𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐲, 𝐢𝐧 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐢𝐜𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞 𝐬𝐮𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐞𝐫𝐨𝐩𝐨𝐫𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐜𝐮𝐢 𝐚𝐥𝐥’𝐚𝐫𝐭. 𝟒, 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐚𝐝 𝐄𝐍𝐀𝐂 𝐮𝐧 𝐩𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐧𝐞𝐜𝐞𝐬𝐬𝐚𝐫𝐢𝐞. Questo progetto aprirebbe gli aeroporti demaniali statali territoriali a voli commerciali nell’ambito della mobilità aerea territoriale tramite l’utilizzo di velivoli di massimo 19 passeggeri con un raggio d’azione che varia dai 300 a 600 chilometri.   Redazione Italia
Un’Italia policentrica e il fermento delle città intermedie. I dati del Rapporto di Mecenate 90
Sono 157 le città intermedie individuate nel Rapporto ricomponendo la geografia territoriale del nostro Paese – 73 nel Nord Italia, 44 nel Mezzogiorno e 40 nelle regioni del Centro –. È il primo dato tra i tanti raccolti nel secondo volume “L’Italia Policentrica. Il fermento delle città intermedie”, curato da Mecenate 90 in collaborazione con il Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne. Si tratta di città che producono un valore aggiunto pro-capite più alto del 16% rispetto al resto d’Italia (34.154 contro 29.534 euro nel 2022); resistono in prospettiva meglio all’inverno demografico contenendo il calo della popolazione al 4,5% tra il 2024 e il 2050 a fronte di una contrazione prevista del 7,3% della media italiana; presentano un indice di qualità della vita superiore del 7,3% rispetto alle città metropolitane e di ben il 27% più alto delle altre città del Paese. Sono città che ospitano imprese di eccellenza del Made in Italy e ad alto contenuto innovativo, città che esprimono dinamismo sociale, culturale ed economico e creano opportunità concrete per contrastare lo spopolamento e l’insufficiente dotazione di infrastrutture fisiche e digitali. Le città intermedie accolgono 10.690.518 residenti, il 18,1% della popolazione italiana (dati al 2024); 95 Comuni capoluogo non metropolitani; 33 Comuni non metropolitani con presenza o accessibilità ai servizi essenziali e un indice di offerta turistica maggiore o uguale a 4,6 posti letto ogni 100 abitanti; 29 Comuni non metropolitani, con presenza o accessibilità ai servizi essenziali, Centri di un Sistema Locale del Lavoro con specializzazione produttiva prevalentemente manifatturiera. Oltre la metà (83 Comuni) ha una dimensione demografica che va dai 50mila residenti e oltre. La città più grande è Verona con 255.298 residenti; seguono le città di Padova (207.502 residenti), Trieste (198.843 residenti), Brescia (198.259 residenti) e Parma (198.121 residenti). In termini di superficie la città più grande è Ravenna con un’estensione di 651,85 chilometri quadrati di territorio, mentre Riccione è la città con la minore superficie territoriale, pari a 17,9 chilometri quadrati. La città più densamente popolata è Monza, con 3.758 abitanti per chilometro quadrato, mentre Enna è la città che registra la minore densità abitativa, con 71 abitanti per chilometro quadrato. Dal 2010 a oggi la classifica dei tassi di crescita delle imprese ha sempre visto primeggiare le aree metropolitane, così come le città intermedie. Prendendo in considerazione le 12 regioni che presentano all’interno dei propri confini almeno un’area metropolitana si nota come in ben 8 (Piemonte, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Calabria, Sicilia e Sardegna) le città intermedie fanno registrare un tasso di crescita superiore alle aree metropolitane. Oltre che per la qualità della vita queste realtà si distinguono per una produzione di valore aggiunto pro-capite superiore alla media nazionale del 16% – 34.154 euro contro 29.534 euro, dati del 2022 – e per una capacità di resistere meglio, in prospettiva, all’inverno demografico. Si stima, infatti, che nelle città intermedie tra il 2024 e il 2050 la popolazione diminuirà del 4,5%, mentre nel resto d’Italia questa contrazione raggiungerà quota 7,3%. Gli esiti del Primo Rapporto, realizzato prima della pandemia, restituirono profili di città determinate a fare futuro, con un ben definito progetto di città e percorsi necessari per realizzarlo, con modi e forme differenti nel delineare gli obiettivi e nell’attivare azioni condivise tra Istituzioni, imprese e cittadini. Gli esiti di questo Secondo Rapporto ci consegnano profili di città determinate a creare opportunità per contrastare le vulnerabilità dovute al progressivo invecchiamento della popolazione, allo spopolamento, all’insufficiente dotazione di infrastrutture fisiche e digitali. “Pur facendo la tara della mia passione per i processi di autopropulsione della nostra società, scrive il Presidente del Comitato Scientifico di Mecenate 90, Giuseppe De Rita, devo riconoscere che, atterrando ancora una volta sulla realtà (nelle dieci città di Caltagirone, Catanzaro, Chieti, Lecco, Livorno, Macerata, Novara, Padova, Salerno, Taranto) trovo certo delle fragilità antiche e nuove, ma trovo specialmente una forte tensione a crescere e una forte “soggettualità” di sviluppo collettivo”. E il Presidente di Mecenate 90 Daniele Pitteri aggiunge: “Rispetto alle dinamiche di sviluppo dell’ultimo Novecento e del primo decennio di questo secolo, le città intermedie tendono a disegnarsi e a definirsi per differenziazione, definendo una propria ‘dimensione immateriale’ attraverso l’esaltazione dei caratteri di unicità e di tipicità, tuttavia pensando e definendo il proprio posizionamento in una dimensione internazionale che valorizza, armonizzandoli, la tensione allo sviluppo economico e la qualità della vita sociale”. Qui per scaricare la sintesi del Rapporto “L’Italia policentrica. Il fermento delle città intermedie”: https://www.tagliacarne.it/files/251127/sintesi_italia_policentrica_mecenate90.pdf Giovanni Caprio
20 anni dopo l’8 dicembre NoTav a Venaus: in mostra a Susa quell’epica stagione
Nell’ambito delle iniziative per il ventennale dei fatti avvenuti in Valsusa dal 31 ottobre all’8 dicembre 2005, si è inaugurata lo scorso week end al Castello della Contessa Adelaide di Susa una ricca mostra per rievocare non solo quell’epica giornata, ma tutto ciò che successe in Valle prima e anche dopo. Un racconto per immagini (oltre 80 le foto che il Movimento NoTav ha recuperate dagli archivi delle testate Luna Nuova e Valsusa che ringraziamo) ma non solo, perché aggirandosi tra i pannelli esposti sarà possibile rivedere quelle straordinarie “creature” con cui l’artista Piero Gilardi espresse tutta la sua solidarietà e partecipazione al nostro movimento. Il percorso della mostra segue un tragitto cronologico partendo dall’epica battaglia del Seghino (31ottobre 2005), quando popolazioni e sindaci da una parte e forze dell’ordine dall’altra si fronteggiarono: i primi per impedire l’installazione di una trivella che avrebbe significato l’avvio dei cantieri della linea TAV Torino-Lione, i secondi per scortare la trivella stessa. Quel giorno segnò una prima vittoria per il fronte della cittadinanza che insieme ai suoi amministratori si era compattamente opposta all’abuso di una decisione imposta dall’alto e in disaccordo con l’intero territorio. Ma nella notte, centinaia di mezzi di Polizia tornarono sul luogo per militarizzare il comune di Mompantero e completare l’opera. La mostra prosegue quindi con le immagini delle proteste del giorno successivo, con l’occupazione di strade e ferrovie. Fino a quella grande marcia che il 16 novembre disegnò uno straordinario serpentone da Bussoleno fino a Susa, con oltre 50.000 persone, tra loro parecchi parlamentari, esponenti politici, delegazioni da tutt’Italia… ma soprattutto noi, studenti, vigili del fuoco, medici, semplici cittadini, abitanti della Valle. Le foto documentano poi l’escalation di tensione, quando alla fine di novembre le FFOO si attestarono a Venaus per permettere a LTF (oggi TELT) di installare il cantiere per l’inizio degli scavi del tunnel di base. Di nuovo ci fu una vera e propria insurrezione popolare, che creò una situazione di stallo e presidi permanenti per alcuni giorni e notti seguenti, fino a che, nella notte fra il 5 ed il 6 dicembre, i reparti speciali della Polizia diedero l’assalto alla tendopoli dei presidianti, ferendo decine di inermi cittadini, alcuni in modo grave. Su quella notte e sui giorni che seguirono la documentazione fotografica è particolarmente emozionante, soprattutto per quell’epica giornata dell’8 dicembre, quando una moltitudine di persone, si parlerà di 60.000, marciò verso il cantiere, occupandolo e costringendo le forze dell’ordine a battere in ritirata. La mostra si conclude infine con le immagini della grande e festosa manifestazione che si tenne anche a Torino il 17 dicembre: un altro bel serpentone di 50.000 persone, tra loro anche Dario Fo, Franca Rame, Marco Paolini, che arrivati al Parco della Pellerina presero la parola. Fu quello il momento che proiettò l’opposizione al TAV a livello nazionale. Manifestazione a Torino, 17 dicembre 2005 | Foto di Enzo Gargano A corredo di questa ricca carrellata di immagini, volti e ricordi, la mostra offre una rara occasione di rivedere alcune opere ritenute disperse (e che per fortuna siamo riusciti a recuperare) del compianto Piero Gilardi, artista, ambientalista e da sempre vicino alle istanze del Movimento NOTAV. Una foto datata proprio 8 dicembre 2005 lo immortala mentre si porta sulle spalle la “nostra Talpa”, in contrarietà con “la Talpa LTF” che avrebbe dovuto scavare il tunnel nelle viscere della montagna. Oppure nella scultura intitolata Le tre scimmie, ecco rappresentata la connivenza che sostiene il potere politico, insieme a quello finanziario, per non dire della mafia. Ed ecco anche il mitico Giacu, creatura mitica e notturna, con cui per anni il “folletti” del Movimento NOTAV continuarono a disturbare il personale TELT oltre le reti, che nel 2012 Gilardi tradusse in scultura, per una marcia da Susa a Bussoleno. Molto efficace anche un lungo striscione che occupa quasi un intero muro, concepito in collaborazione con alcuni giovani NOTAV, che seguendo una linea del tempo dal ‘93 ad oggi, rievoca con molta efficacia i momenti chiave di 32 anni del Movimento. Dopo l’inaugurazione dello scorso week end, la mostra sarà nuovamente visitabile dal 5 dicembre fino al giorno 8, dalle 14,30 alle 18.00. L’ingresso è gratuito e il visitatore potrà portarsi a casa, con un’offerta volontaria, il libro riccamente illustrato dal titolo L’autunno contro, che la testata Luna Nuova pubblicò pochi mesi dopo quell’epica stagione: con testi di Tiziano Picco, Massimiliano Borgia, Claudio Rovere, Andrea Spessa, Daniele Fenoglio, Paola Meinardi, Davide Chiarbonello e oltre 300 foto a colori di Gabriele Basso, Danilo Calonghi, Alessandro Contaldo, Luca Croce, Marco Giavelli, Claudio Giorno, Renzo Miglio, Eva Monti, Norma Raimondo, Stefano Snaidero. Giorgio Mancuso
Brasile di Lula tra la Cop30, i territori indigeni e le promesse mancate. Intervista a Loretta Emiri
Cop30, le trame oscure del “green capitalism”, la colonizzazione dei crediti di carbonio, le false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica, la lotta per il riconoscimento dei territori indigeni amazzonici e le mancate promesse del governo Lula, ormai totalmente dipendente dal Congresso Nazionale in mano alla destra neoliberista. In questa intervista c’è tutta la passione di una ecologista e indigenista italiana che ha vissuto con gli indigeni amazzonici del Brasile e con loro ha respirato la loro lingua, la loro cultura, la loro spiritualità, la profonda connessione con la Natura, la difesa dei loro sistemi di medicina tradizionale, la lotta per la difesa dell’Amazzonia e dei territori indigeni dall’estrattivismo e dalla deforestazione. Nel 1977 Loretta Emiri si è stabilita nell’Amazzonia brasiliana dove, per 18 anni, ha sempre lavorato con o per gli indios. I primi quattro anni e mezzo li ha vissuti con gli indigeni Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini. Fra di loro ha svolto lavori di assistenza sanitaria e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, del quale l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. In quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, fra i quali: Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), Cartilha yãnomamè (Abbecedario yãnomamè), Leituras yãnomamè (Letture yãnomamè), Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese). Nel 1989 è stato pubblicato A conquista da escrita – Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che Loretta ha organizzato insieme alla linguista Ruth Monserrat, e che include il capitolo Yanomami di cui è autrice. Nel 1992 ha pubblicato la raccolta poetica Mulher entre três culturas – Ítalo-brasileira ‘educada’ pelos Yanomami (Donna fra tre culture – Italo-brasiliana ‘educata’ dagli Yanomami). Alcune sue poesie sono state incluse nel volume 3 della Saciedade dos poetas vivos. Nel 1997 ha pubblicato Parole italiane per immagini amazzoniche, opera che riunisce ventisette poesie; tredici sono in portoghese, lingua nella quale sono state generate, accompagnate da versioni in italiano. Nel 1994 ha pubblicato il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. Nel 2022 ha pubblicato Educada pelos Yanomami (Educata dagli Yanomami), libro di poesie e foto scattate tra gli Yanomami. In italiano, Loretta ha pubblicato i libri di racconti Amazzonia portatile, A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, Discriminati che ha ottenuto il Premio Speciale Migliore Opera a Tematica Sociale del 12º Concorso Letterario Città di Grottammare-2021; le presentazioni degli ultimi due libri sono entrate nel programma ufficiale del Salone Internazionale del libro di Torino, rispettivamente nel 2017 e 2019; invece per Amazzone in tempo reale  ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013. Nel 2020 ha pubblicato Mosaico indigeno, che riunisce testi con taglio giornalistico sulla congiuntura indigena. Loretta è anche autrice del romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, 2011, e di Romanzo indigenista, 2023. Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più è stato divulgato in versione pdf nel gennaio del 2023. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, AMAZZONIA ­– fratelli indios, Euterpe, Pressenza, La bottega del Barbieri, Sarapegbe, Atlante Residenze Creative, Cartesensibili. Nel maggio del 2018 è stata insignita del Premio alla Carriera “Novella Torregiani – Letteratura e Arti Figurative”, per la difesa dei diritti dei popoli indigeni brasiliani. Come è andata la Cop30 a Belem, in Brasile? Le conferenze climatiche sono sempre servite per stilare accordi tra capi di governo e esponenti del capitale globale. A ogni anno che passa, questa realtà è sempre più squallidamente evidente.   Tali accordi mascherano le disuguaglianze storiche e perpetuano le strutture coloniali. Ciò che cambia negli anni, sono le parole e le strategie usate per mantenere gli interessi autocratici e geopolitici determinati da coloro che detengono il potere economico. A Belem si è ripetuto il teatrino: nonostante la massiccia presenza di indigeni, comunità tradizionali, lavoratori, movimenti sociali, il processo ufficiale è stato dominato totalmente dai suddetti interessi economici. L’espressiva presenza delle minoranze e delle classi oppresse è servita, però, a mettere in evidenza, in modo eclatante, definitivo, proprio il distanziamento che c’è tra il potere costituito, asservito al capitalismo, e le popolazioni. La Cop30 in molti avevano previsto che sarebbe stata l’ennesima occasione persa, per via della prospettiva completamente eurocentrica che sembra aver preso in questi anni trattando fondamentalmente del tema del net-zero, della retorica sulla “neutralità carbonica” e delle false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica: quello che il presidente della Bolivia Luis Arce aveva definito “colonizzazione dei crediti di carbonio” e “capitalismo green”. Ha riscontrato anche lei questa tendenza? Rispondendo alla prima domanda, ho risposto parzialmente a questa. Ma il quesito posto merita un approfondimento a partire dalla definizione “green capitalism”. Dietro questo termine così moderno e accattivante si nasconde tutto il marciume del capitalismo selvaggio, dell’ipocrisia, del colonialismo tuttora vivo e vegeto. Ripeto: ciò che cambia sono le parole e le strategie. Vi faccio un esempio concreto parlandovi degli Yanomami, con i quali ho avuto il privilegio di vivere per oltre quattro anni nella loro patria/foresta, e di cui sono un’alleata storica. La gioielleria francese Cartier ha creato una fondazione attraverso la quale finanzia pubblicazioni e mostre che hanno a che vedere con gli Yanomami. Il territorio di questo popolo è sistematicamente violato dai cercatori d’oro; durante l’invasione organizzata nel 1987 dalle oligarchie locali, l’etnia ha rischiato l’estinzione; nel 1992 il suo territorio è stato ufficialmente omologato, ma ciò non ha fermato le invasioni; durante il governo Bolsonaro gli Yanomami hanno di nuovo rischiato di scomparire; nel marzo del 2024, il governo Lula ha ordinato la rimozione dalla Terra Indigena Yanomami dei cercatori d’oro, con la distruzione delle loro sofisticate armi e dei potenti macchinari di cui oggigiorno dispongono. Quest’ultima è stata senz’altro una iniziativa lodevole ma, storicamente, succede che i cercatori vengono allontanati per poi sempre tornare invadendo altre aree; i politici parlano di successi e conquiste, gli Yanomami continuano a denunciare le sistematiche nuove invasioni (che potrebbero essere evitate adottando provvedimenti più efficaci già identificati e ripetutamente suggeriti).  Come vogliamo definire la Cartier, potente gioielleria francese che finanzia iniziative relative gli Yanomami minacciati di estinzione proprio a causa dell’estrazione dell’oro nel loro territorio? È ipocrisia anche cercare di convincere l’opinione pubblica che l’estrazione legale dell’oro è differente da quella illegale, dato che gli habitat sono ugualmente distrutti, le popolazioni locali sono ugualmente sfruttate e si ammalano a causa dello stravolgimento dell’ambiente, mentre i capitalisti mondiali divengono più oscenamente obesi di quello che già sono.  Per non parlare di un altro fenomeno che sta sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno affronta: professionisti (antropologi, fotografi, scrittori, e persino filosofi o pseudo-tali) che hanno raggiunto notorietà e fama internazionale, nelle loro attività sono finanziati da fondazioni simili a quella della Cartier; fondazioni create da colossi mondiali che, attraverso il “capitalismo green”, perpetuano il colonialismo. Dal gennaio del 2023, cioè da quando Lula è tornato al potere, sono impegnata in una battaglia persa: fomento la creazione di un Centro di Formazione Yanomami, che potrebbe essere facilmente creato nell’unica area del loro territorio raggiungibile attraverso la strada. Una delle finalità della proposta è quella di incentivare l’unione e la collaborazione tra i gruppi locali, storicamente nemici fra di loro, perché solo l’unione e l’organizzazione permetterà agli Yanomami di sopravvivere fisicamente e culturalmente. Un’altra finalità è quella di preparare professionalmente i giovani, affinché assumano funzioni e ruoli a tutt’oggi svolti o controllati dai bianchi, mettendoli in condizione di prendere decisioni autonomamente e dispensare gli “intermediari”, cioè le poche persone che decidono per loro. L’unione e la formazione sono strumenti di lotta che rafforzerebbero l’organizzazione e l’autonomia della società yanomami. Io penso e scrivo le stesse cose da oltre quarant’anni, ma coloro che potrebbero concretizzare la proposta della formazione rivolta a tutta il popolo, e non solo ad alcuni privilegiati individui o gruppi locali, continuano, imperterriti, a fare “orecchie da mercante”. Come si sta muovendo il governo di Lula di fronte ai temi dell’ambiente? Sta portando avanti i temi della deforestazione, della fine dell’estrattivismo e della consegna delle terre agli indigeni come aveva promesso? Naturalmente, in occasione della Cop30 Lula ha omologato alcune poche terre indigene, tanto per dare un contentino; ma ce ne sono oltre sessanta di cui il processo amministrativo è stato completato e alle quali manca solo la sua firma. Lula è potuto tornare al governo facendo accordi a dir poco “ambigui”, così che può decidere ben poco. Chi decide è il Congresso Nazionale, nel cui seno sono confluiti loschi figuri legati al governo anteriore e quindi all’estremissima destra. E il Congresso non dà tregua: mi riferisco al Progetto di Legge definito Della Devastazione; al Senato che in cinque minuti ha approvato una legge che beneficia termoelettriche a carbone; alla crescente offensiva dell’agribusiness contro i popoli indigeni, offensiva incentivata dall’indecente tesi del Marco Temporale, tesi che contraddice quanto stabilito dal STF (Supremo Tribunale Federale), e cioè che la data della promulgazione della Costituzione Federale non può essere utilizzata per definire l’occupazione tradizionale delle terre indigene. Dato che era già stato approvato nella Camera dei Deputati, il suddetto progetto di legge venne inviato a Lula che ne vietò la tesi e altri dispositivi; i veti presidenziali vennero poi rigettati dal Congresso, cosi il progetto è diventato la Legge Nº 14.701/2023. Lo scienziato Philip Fearnside, ricercatore dell’INPA (Istituto Nazionale di Ricerche dell’Amazzonia), reputa che la Cop30 sai stata caratterizzata da una generalizzata mancanza di coraggio politico per affrontare i temi centrali della crisi climatica. Nell’intervista concessa alla rivista Amazônia Real, egli afferma che la conferenza ha ignorato i combustibili fossili e non ha fatto passi in avanti per combattere la deforestazione; decisioni queste che, secondo lui, mettono a rischio immediato la sopravvivenza dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali dell’Amazzonia. Inoltre, Fearnside afferma che il Brasile sbaglia anche nella transizione energetica, mantenendo contraddizioni come l’asfaltatura della strada BR-319 e nuovi progetti di estrazione del petrolio, mentre i provvedimenti emergenziali in atto non hanno la capacità di accompagnare la velocità con cui avviene il surriscaldamento della terra. Alla vigilia della Cop30 l’Ibama (Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle Risorse Naturali Rinnovabili, che è un’autarchia federale) ha autorizzato la Petrobras a realizzare ricerche per rendere viabile l’esplorazione del petrolio a cinquecento km. dalla Foce del Fiume Amazonas, nel cosiddetto Margine Equatoriale, in alto mare, a confine tra gli Stati di Amapá e Pará. Mentre, appena la Cop30 si è conclusa, il Congresso ha rigettato i veti che erano stati suggeriti e ha autorizzato nuovi interventi in punti critici della strada BR-319; notizia, questa, del 27 novembre 2025. Durante la Cop30 sono successe cose che, per un spettatore esterno sembrerebbero assurde. Le proteste degli indigeni alla Cop30 sono state represse duramente. Cosa è successo precisamente? Il fatto che la Cop30 sia stata realizzata in Brasile ha permesso che un grande numero di indigeni ed esponenti di popolazioni tradizionali si facessero presenti a Belem, che è la capitale simbolica dell’Amazzonia brasiliana. La loro massiccia presenza, la coloratissima diversità culturale che li caratterizza, le manifestazioni che hanno saputo organizzare, le loro accorate dichiarazioni, che sono frutto di oltre cinquecento anni di soprusi e sofferenze, hanno messo sotto i riflettori le contraddizioni dell’attuale governo. A stento Lula si barcamena tra ciò che potrebbe fare, ma non ha il coraggio sufficiente per fare, e ciò che fa, costretto dall’estremissima destra che controlla il Congresso Nazionale. Le forze dell’ordine hanno represso i manifestanti, proprio come accade in qualsiasi altro Paese che pensa di essere democratico: le popolazioni vengono represse quando osano mettere in discussione le scelte di Stato. Txulunh Natieli, che è una giovane leader del popolo Laklãnõ-Xokleng, ha riassunto brillantemente il risultato della Cop30 dicendo che la conferenza ha esposto le contraddizioni stesse del Brasile, la cui politica è molto esterna e poco interna. Invece Luene, del popolo Karipuna, ha affermato che il Brasile potrà guidare la transizione climatica soltanto se dichiarerà l’Amazzonia “zona libera dai combustibili fossili”. Il documento finale della conferenza invita alla cooperazione globale, ma evita di citare paroline quali “petrolio”, “carbone”, “gas”; dal documento è stata esclusa anche la locuzione “eliminazione graduale”. Gli accordi firmati durante la Cop30 rivelano la squallida farsa della sostenibilità, le lobby dei fossili, dell’oro, dell’agribusiness. Nonostante siano stati fatti alcuni pontuali passi in avanti, la conferenza è terminata lasciando grandemente frustrati leader indigeni, specialisti, osservatori, cioè tutti coloro che si rifiutano di essere servi di un sistema sociale piramidale. Cosa è successo tra Raoni e Lula e perché ha fatto così scalpore? Raoni è molto amato dagli indigeni e dai loro alleati, ma è molto conosciuto anche all’estero da quando il cantante Sting lo aiutò a far uscire la problematica indigena dall’ambito brasiliano per proiettarla a livello mondiale. È un adorabile vecchietto, dai più considerato e amato come “nonno”.  Durante tutta la vita, è stato coraggioso e coerente; il tema più ricorrente nei suoi discorsi riguarda il riconoscimento e l’ufficializzazione delle terre indigene. Come può sopravvivere un popolo senza un territorio dove vivere bene e perpetuarsi? Quando Lula è stato rieletto, il giorno della cerimonia ufficiale per l’inizio del suo nuovo mandato di presidente, ha voluto Raoni accanto a sé. Ha salito la rampa che lo ha condotto nel Palazzo del Planalto, sede del Potere Esecutivo Federale, tenendo a braccetto il vecchio leader indigeno. Durante la Cop30, senza usare mezzi termini, Raoni ha manifestato la sua profonda delusione di fronte al fatto che alle solite promesse non fanno mai seguito le scelte politiche che andrebbero fatte e, naturalmente, la sua presa di posizione ha avuto una grande ripercussione sia in Brasile che all’estero. Gli indigeni, come sempre, sono solo usati, strumentalizzati. Le foto scattate a Lula al fianco di Raoni sono l’espressione visiva delle promesse mancate contrapposte alla cruda realtà dei fatti. Quale è la situazione delle popolazioni indigene amazzoniche ora e cosa bisogna cambiare? In Brasile gli indigeni dovrebbero rifiutare di farsi cooptare dal governo federale, dal momento che molto poco riescono a fare: molti di loro si sono già “bruciati”, cioè hanno deluso il movimento indigeno organizzato perché difendono o tacciono su molte scelte ambigue fatte dal governo. In Italia, quello che andrebbe fatto sarebbe smettere di definire “di sinistra” persone e governi. La sinistra esiste ancora solo attraverso i movimenti e le organizzazioni popolari. Se Lula è stato un solido leader sindacale, fondatore del Partito dei Lavoratori, non significa che per arrivare ad essere eletto e rieletto presidente di un paese continentale come il Brasile non abbia dovuto modificare principi e posizioni, non abbia dovuto allearsi alle più disparate e ambigue forze politiche. Inoltre, come spiegare il fatto che all’interno del suo partito, apparentemente, sembra non esserci nessuno in condizione di sostituirlo? Corre voce che si candiderà per l’ennesima volta; e questa, almeno per me, non è democrazia, ma il perpetuarsi di una posizione di potere. Quello che andrebbe fatto sarebbe di analizzare con più equilibrio, più attenzione, meno retorica la situazione politica brasiliana ma, soprattutto, dovrebbe essere denunciato coraggiosamente, senza mezzi termini, il “capitalismo green”, che è fortemente praticato anche da multinazionali di origine italiana. Ciò che andrebbe fatto è denunciare e porre fine al colonialismo, che continua vivo e vegeto attraverso l’invenzione di nuovi termini e nuove strategie, che sono così efficaci da ingannare individui e intere popolazioni.  Ciò che gli indigeni fanno, da oltre cinquecento anni, è resistere per esistere.   Bibliografia Amazônia Real https://amazoniareal.com.br/repercussao-da-cop30-oscila…/ Apib Oficial https://apiboficial.org/2025/10/13/as-vesperas-da-cop-povos-indigenas-cobram-demarcacao-de-terras-67-so-dependem-de-uma-assinatura-de-lula/? Mídia Ninja https://www.facebook.com/MidiaNINJA Loretta Emiri, “Amazzonia – Il piromane ha nome e cognome” https://www.pressenza.com/it/2019/09/amazzonia-il-piromane-ha-nome-e-cognome/ Centro de Formação Yanomami no Ajarani – Dossier https://drive.google.com/file/d/1O_A3dR4u28VLB_iyrj3Xpxk–xRyYkC0/view?usp=share_link Durante la privilegiata, come lei stessa sostiene, convivenza con gli Yanomami, ha raccolto oggetti della cultura materiale di questo popolo. Di particolare rilievo è il nucleo dedicato all’arte plumaria, collane ed orecchini. Per lunghi anni ha accarezzato il sogno di sistemare i materiali in luogo pubblico. Il sogno si è concretizzato all’inizio del 2001, quando il Museo Civico-Archeologico-Etnologico di Modena ha accolto i 176 pezzi della Collezione Emiri di Cultura Materiale Yanomami. Nel maggio del 2019, una parte della collezione è stata esposta al pubblico e ufficialmente inaugurata. Durante tutto il 2023 e 2024 si è dedicata, sistematicamente, al fomento della creazione del Centro di Formazione Yanomami, da strutturarsi nell’area indigena Ajarani, producendo e divulgando vari testi riuniti nel Dossier “Moyãmi Thèpè Yãno – A Casa dos Esclarecidos – Centro de Formação Yanomami – Dossiê”, Loretta Emiri, CPI/RR, 01-24. Lorenzo Poli
Extinction Rebellion blocca la convention della Difesa e dell’Aerospazio a Torino. “Difendere la Terra, non i confini”
Extinction Rebellion ha bloccato l’Aerospace and Defence Meeting, la convention internazionale su aerospazio e difesa. Una trentina di persone si sono incatenate ai cancelli, mentre tre di loro sono riuscite ad arrampicarsi su una struttura dietro il Palazzo della Regione. Il movimento denuncia il coinvolgimento delle aziende presenti nei conflitti globali e le profonde responsabilità del Governo e della Regione nel sostenere un settore che causa vittime e accelera il collasso climatico. Questa mattina, a Torino, Extinction Rebellion ha bloccato la decima edizione dell’Aerospace and Defence Meeting (ADM) all’Oval di Lingotto, una delle più importanti business convention internazionali per l’industria aerospaziale e della difesa. L’evento, che si svolge ogni due anni nella città piemontese, vede infatti riunirsi aziende e istituzioni di livello internazionale nel campo della difesa e dell’aerospazio, con l’obiettivo di “consolidare alleanze commerciali, sviluppare tecnologie avanzate e promuovere partnership strategiche nel settore militare”. Poco prima dell’apertura delle porte, un gruppo di circa 30 persone è riuscito a entrare nel cortile della struttura, incatenarsi ai pali e ai cancelli, esponendo striscioni con scritto “Difendere la Terra, non i confini” e ostacolare quindi l’ingresso alla convention. Pochi minuti dopo, tre persone sono riuscite a salire su un edificio dietro il Grattacielo della Regione, una forma di protesta già messa in atto alla precedente edizione, nel novembre 2023, e hanno appeso un enorme striscione con la scritta “Qui si finanziano guerra e crisi climatica” (lo stesso che era stato sequestrato dalla polizia due anni fa e poi dissequestrato dopo le archiviaizoni delle denunce e l’annullamento dei fogli di via da parte del TAR). “Blocchiamo nuovamente la più importante fiera italiana del settore bellico, dove vengono strette partnership e firmati accordi tra molte delle aziende i cui investimenti e profitti portano a perdita di vite umane e distruzione dei territori” commenta Pietro di Extinction Rebellion. “Un evento immorale, sostenuto dal Governo, dalla Regione e dal Comune di Torino, in aperto contrasto con i nostri stessi valori costituzionali”. Nell’ultimo decennio, nonostante secondo la Costituzione l’Italia dovrebbe “ripudiare la guerra”, la spesa militare nazionale è aumentata di circa il 30%, a discapito di quelle in sanità, istruzione e ambiente. La nuova legge di bilancio, inoltre, si appresta ad essere votata entro la fine dell’anno e prevede un ulteriore aumento di circa 10 miliardi. “Molte delle aziende che sono qui dentro – come Leonardo, Thales, Avio – sono alcune delle più grandi aziende produttrici di armi che stanno traendo profitto dall’aggravarsi delle crisi globali” aggiunge ancora Pietro. Come riporta l’ultimo report di Greenpeace, infatti, dal 2021 al 2024 le prime 15 aziende italiane produttrici di armi hanno raddoppiato i propri utili (+97%), per un totale di 876 milioni di euro di maggiori profitti. “Investire in armamenti come sta facendo il governo e sostenere eventi come questo, in questo momento storico, significa condannare a morte intere popolazioni, mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell’umanità, della terra e delle altre specie viventi” commenta Rachele, una appesa sull’edificio dietro il Grattacielo. È ormai noto, infatti, che vi è un legame profondo tra le attività militari e l’aggravarsi della crisi ecoclimatica: il 5% delle emissioni climalteranti totali è prodotto dagli eserciti di tutto il mondo e i territori dove si combatte vengono compromessi per decenni a causa della distruzione e della permanenza nei terreni e nelle falde acquifere delle sostanze tossiche rilasciate durante i combattimento, perpetuando le sofferenze anche quando “un cessate il fuoco” è stato dichiarato. A Gaza, infatti, dal 2023 sono scomparsi il 97% delle colture arboree, il 95% degli arbusti, l’82% delle colture annuali, facendo collassare il sistema agricolo. L’acqua è contaminata da munizioni e liquami. Sessantuno milioni di tonnellate di detriti aspettano di essere rimossi, prima che la contaminazione diventi irreversibile. E in novembre, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) ha chiesto con forza di riconoscere l’ecocidio come crimine internazionale, al pari dei crimini di guerra e contro l’umanità. “Viviamo un momento cruciale”, ha aggiunto Rachele. “Le scelte che facciamo oggi determineranno la vita delle prossime generazioni. È ora di smettere di investire nella militarizzazione e nella devastazione della Terra, e iniziare a costruire un futuro di pace, giustizia climatica e giustizia sociale”.   Extinction Rebellion
Attivismo e alberi: un amore necessario
In occasione della Festa degli Alberi, a Torino è stato proiettato The Felling, an epic tale of people power, un documentario di Jaqui Bellamy e Eve Wood, prodotto nel 2022. La proiezione è un’iniziativa del Comitato Salviamo gli alberi di corso Belgio, sorto in difesa dei 240 alberi presenti che l’amministrazione comunale decise di tagliare per sostituirli con peri cinesi, piante che anche nella maturità hanno dimensioni più contenute delle piante attualmente presenti. La motivazione del taglio addotta dagli uffici comunali consisteva in questioni di sicurezza pubblica GLI ALBERI DI CORSO BELGIO La vicenda, portata in tribunale, ha già ottenuto risposta: un’ordinanza del 2024 ha stabilito che gli alberi potranno esseri sostituiti ma i tagli verranno programmati in un arco di tempo di 5 anni e non i pochi mesi previsti dal progetto comunale. Inoltre, e non meno importante, i “nuovi” alberi non potranno essere troppo piccoli. L’ordinanza ne specifica le dimensioni minime: alte almeno 4 metri e 20 cm di diametro del fusto. Questo perché l’ordinanza ha tenuto conto del beneficio che alberate adulte portano alle zone in cui sono presenti, non solo in termini di maggior ossigenazione ma anche in rifermento alla preziosissima ombra, un bene prezioso nelle nostre città che in estate diventano sempre più roventi. Tagliare quegli alberi tutti insieme avrebbe arrecato danni alla salute degli abitanti della zona, un riconoscimento giuridico importantissimo dell’efficiente lavoro svolto dai colossi verdi. THE FELLING: IL CASO DI SHEFFIELD Una storia simile è quella di Sheffield raccontata nel documentario The Felling. Nella cittadina britannica vennero decisi abbattimenti per quasi 5000 esemplari a causa di un progetto di risistemazione di strade e marciapiedi, includendo nella lista anche esemplari perfettamente sani, alcuni ultracentenari. Il progetto era del 2012, valido per 25 anni e pari a 2,2 miliardi di sterline. La popolazione reagì numerosa, un po’ per volta diventando nel tempo una vera azione di disobbedienza civile e diffusa. All’arrivo egli operai gli attivisti si frapponevano fra alberi e motoseghe bloccando i lavori. Nel 2017 il Comune portò la questione in Tribunale che rispose con un’ingiunzione che vietava agli attivisti di ostacolare i lavori ponendosi nella zona protetta dalle transenne. Ma cosa si è disposti a fare per salvare un albero? Molto e questa storia lo dimostra. L’ingiunzione rese necessaria qualche cautela in più: bisognava trovare il modo di essere efficienti e bloccare gli operai senza violare l’ingiunzione evitando le sanzioni pecuniarie che avrebbero messo in difficoltà buona parte dei manifestanti. Gli attivisti si mobilitarono organizzando azioni strutturate e ben coordinate. Bloccando gli operai all’uscita dal deposito mezzi ad esempio. Ma qualcuno si chiese: “E se l’ingiunzione la violassimo? Cosa accadrebbe?” Dodici mesi di reclusione condonati e pagamento delle spese processuali, ecco cosa accadde. Ma la tenacia degli attivisti venne premiata. Nel 2018 gli abbattimenti vennero sospesi e nel 2021 le parti in causa sottoscrissero una nuova strategia di partenariato per la cura di alberi e strade. UN NUOVO ACCORDO ANCHE PER TORINO? Una similitudine con la storia torinese che continua anche su questo punto. Il 19 novembre è infatti stata presentata una proposta di deliberazione di iniziativa popolare per chiedere la sostituzione integrale del vigente articolo 45 del Regolamento del Verde pubblico e privato della Città di Torino. La proposta intende eliminare la possibilità di sostituzione di intere alberate senza la valutazione di pericolosità effettuata per ogni singolo albero. Un cambiamento epocale che segnerebbe il riconoscimento alla salvaguardia di ogni singolo amico verde della città e che è necessario. Sara Panarella Redazione Torino
Superstrada del Parco del Ticino e Parco Agricolo Sud Milano: accettato il ricorso dei comitati
LEGITTIMATO DALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO (CEDU) IL RICORSO PRESENTATO PER TUTELARE I DIRITTI FONDAMENTALI DEI CITTADINI E DELL’AMBIENTE. LA RESISTENZA CONTINUA. Nel luglio scorso un gruppo di cittadini aderenti ai Comitati No Tangenziale, al Circolo Legambiente Terre di Parchi e all’Associazione Parco Agricolo Sud Milano, ha presentato un ricorso alla CEDU per contestare i danni all’ambiente e al territorio, connessi alla realizzazione del progetto denominato “SS11-494 Collegamento Magenta-Vigevano”. Il ricorso denuncia la lesione del diritto alla vita e all’ambiente salubre, alla proprietà, alla ragionevole durata del procedimento subita dai ricorrenti che abitano nei Comuni di Abbiategrasso, Albairate, Boffalora, Cassinetta di Lugagnano, Robecco sul Naviglio ,vittime della imminente realizzazione della tratta A e C della superstrada sita in area protetta, inclusa in due Parchi e nella “Riserva della Biosfera MAB dell’Unesco “inserita nella RER(Rete ecologica Regionale) e nelle Aree prioritarie per la biodiversità di Regione Lombardia. Il 6 Novembre le nostre avvocate, Paola Regina, Veronica Dini e Roberta Bertolani hanno ricevuto, dalla Cancelleria della Corte Europea dei diritti dell’uomo, la comunicazione relativa al fatto che il ricorso è stato dichiarato ammissibile e sarà portato all’esame della Corte quanto prima possibile, grazie alla documentazione inviata. Il risultato è notevole visto che meno del 10% delle segnalazioni fatte alla Corte supera il filtro di accoglimento. Abbiamo lavorato a lungo con le avvocate e abbiamo potuto allegare numerosi documenti comprovanti il costante impegno dei cittadini ricorrenti in tutti questi lunghi anni. Le criticità da sempre lamentate devono essere apprezzate con ancor maggior attenzione oggi, considerato i dati sul consumo di suolo recentemente diffusi da Ispra e le conseguenti ricadute sulla salute dei cittadini derivanti dalla costante esposizione a livelli molto elevati di inquinamento atmosferico. La Superstrada, tra l’altro, dal 2014 ha perso completamente il suo scopo primario, il collegamento tra Malpensa e la Tangenziale Ovest di Milano, infatti la tratta “B”, Albairate-Tangenziale Ovest di Milano, è stata cancellata per criticità economiche e di condivisione con il territorio (Fonte Silos Camera dei Deputati 2022). Non è nemmeno stata prevista una riqualificazione da noi chiesta più volte e al suo fianco si sta realizzando una pista ciclabile. L’opera è stata autorizzata nel 2023 grazie alla nomina del Commissario Straordinario Eutimio Mucilli che, nonostante un denunciato conflitto di interessi connesso alla sua carica di Dirigente di Anas, ha concluso positivamente la Conferenza dei Servizi a dispetto del parere contrario del Parco del Ticino e del Parco Agricolo Sud Milano, di Città Metropolitana di Milano e dei Comuni di Albairate, Cassinetta di Lugagnano e Boffalora. La valutazione ambientale dell’opera (VIA), avviata nel 2005 e conclusa nel 2008, a distanza di 17 anni non è mai stata aggiornata. Le innumerevoli prescrizioni ambientali da realizzare, secondo le indicazioni del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, sono state in grandissima parte rinviate al progetto esecutivo. In tutti questi anni non sono state mai prese in seria considerazione le proposte alternative emerse nel tempo attraverso il coinvolgimento delle realtà locali. L’infrastruttura stradale permette il consumo di suolo agricolo di 1.500.000 mq, pari a circa 200 campi da calcio, di cui il 94,5 % sono costituite da aree del comparto agricolo che verranno asfaltate. Realizzata da ANAS l’immissione in possesso nei terreni espropriati alle aziende agricole nella tratta “C”, recintate le campagne e deturpato il paesaggio agricolo, abbiamo anche fatto esposto alla Commissione Nazionale dell’Unesco perché intervenga a tutela della Riserva della Biosfera denominata “Ticino Val Grande”. Ringraziamo per i contributi ricevuti e speriamo che la nostra lotta continui ad essere di esempio per tanti territori italiani. Comitati No Tangenziale del Parco del Ticino e Parco Agricolo Sud Milano Legambiente Circolo Terre di Parchi Forum Salviamo il Paesaggio
Oltre la bocciatura: la resistenza delle lotte interconnesse
  Sabato 29 novembre ha segnato una giornata di manifestazione atipica. L’aria, solitamente carica di un’urgenza frontale contro un’opera presentata come inevitabile, si è invece saturata di una consapevolezza più stratificata, quasi amara. La piazza si è mossa sotto un cielo diverso: non quello della semplice opposizione a un progetto, ma quello della vigilanza dopo una vittoria tecnica, pur sapendo che la guerra culturale è ben lontana dall’essersi conclusa. La Corte dei Conti, nel suo ruolo di garante della forma e della sostanza della finanza pubblica, ha esercitato il suo potere di visto – un termine burocratico che in questo caso risuona come un colpo di martello. Ha bocciato il progetto definitivo del Ponte sullo Stretto, negando legittimità alla delibera Cipess di agosto. È un atto di cesura giuridico-amministrativa che, in un paese normale, segnerebbe la fine della questione. Eppure, la piazza sa. Sa che, come insegnava il giurista Santi Romano, l’ordinamento giuridico non è solo un mero insieme di norme, ma un corpo sociale in movimento. Un organismo vivente plasmato dai rapporti di forza sociali e dalle istituzioni che li esprimono. E l’organizzazione politica ed economica che sostiene il Ponte è un organismo tenace, capace di rigenerarsi, di trovare nuovi varchi, di resistere alla logica stessa della contabilità dello Stato quando confligge con una certa idea di sviluppo. La minaccia, quindi, non è affatto scongiurata. È semplicemente mutata di forma. Da battaglia contro un’opera “in arrivo” si trasforma in una lotta di trincea contro un’idea persistente. Quella del grande cantiere come soluzione salvifica, come feticcio modernista che ignora volutamente le criticità idrogeologiche, ambientali, economiche e sociali. È una battaglia culturale che si combatte nel sottosuolo del dibattito pubblico, dove le ragioni della tutela, della sostenibilità e del buon uso dei beni comuni devono fronteggiare costantemente il ritorno del rimosso, sotto nuove vesti procedurali. In questo clima di precaria sospensione – non vittoria, ma tregua armata – la piazza ha compiuto un atto di significazione potente: ha intrecciato esplicitamente questa lotta locale e nazionale con la tragedia internazionale della Palestina. Non si è trattato di un semplice accostamento tematico, ma di una riconnessione organica dei fili della giustizia. Questo approccio ha evidenziato, senza bisogno di grandi proclami, che la resistenza contro l’imposizione di opere calate dall’alto e la solidarietà con un popolo sotto occupazione sono espressioni di uno stesso principio. Il rifiuto della violenza strutturale, sia essa quella che stravolge i territori e le comunità in nome del profitto e del simbolo, sia quella che li devasta con le bombe in nome della sicurezza e della ragion di Stato. La “finta pace” di cui si parla per Gaza e la “finta morte del progetto” del Ponte condividono una stessa matrice. L’illusione che una decisione formale (un cessate il fuoco, una bocciatura) possa cancellare le condizioni di ingiustizia che hanno generato il conflitto. E mentre i potenti firmano accordi o studiano cavilli, i criminali, siano essi i bombardieri di quartieri residenziali o i progettisti di speculazioni irrealizzabili che divorano risorse pubbliche vitali, continuano la loro opera. I bambini inermi di Gaza e i bambini del futuro a cui verrebbero sottratte quelle stesse risorse per un’opera faraonica, diventano, nella coscienza collettiva di quella piazza, vittime dello stesso sistema di valori distorto. La manifestazione del 29 novembre ha così intercettato un sentimento collettivo complesso. Non la gioia della vittoria, ma la determinazione lucida di chi sa che la posta in gioco è più alta e interconnessa. È il sentimento di chi comprende che la lotta non è mai definitivamente vinta, ma non è mai definitivamente persa. Simone Millimaggi
Sventolano bandiere palestinesi sulle cime varesine
Sabato 29 novembre un piccolo gruppo di amanti della montagna ha organizzato una camminata di impegno civile. Per protestare contro le guerre e per sostenere la Palestina, l’iniziativa “One top is our shot” ha portato i camminatori sul Monte Grumello, sopra Besano, in provincia di Varese, cima che affaccia sul Lago di Lugano. Questa è la seconda spedizione: la prima era stata il 18 ottobre sul Monte  Poncione di Ganna. Obiettivo delle spedizioni è quello di raggiungere il maggiore numero di cime possibile nel territorio delle Prealpi Varesine e portare la propria testimonianza di protesta contro il genocidio e allo stesso tempo il sostegno al popolo palestinese. Ognuno di noi può esprimere il proprio dissenso contro le politiche di guerra e il sostegno al popolo palestinese: c’è chi scende in piazza, chi organizza convegni, chi scrive, chi informa. Questi giovani hanno scelto una forma originale e alternativa: issare bandiere sulle cime del loro territorio. Oggi dalle fronde di un albero spoglio sul Monte Grumello sventola una bandiera palestinese per ricordare a chiunque passi sul sentiero che la guerra non è mai finita nonostante la falsa tregua annunciata a Sharm el Sheik. Una breve riflessione condivisa su quanto sta accadendo ancora a Gaza e in Cisgiordania ha accompagnato questo gesto simbolico frutto del desiderio di partecipazione tra coloro che amano il trekking. È buona abitudine di chi cammina in montagna, cercare di tenere pulito il bosco e i sentieri e i nostri camminatori non fanno eccezione, per cui è stata organizzata anche una piccola operazione di raccolta di rifiuti da portare a valle. Questa è la filosofia: ogni gesto, anche se piccolo, unito a tanti altri può fare la differenza. A breve verrà definita la terza spedizione che si svolgerà nel mese di dicembre su un’altra cima varesina. Chi volesse partecipare può contattare l’indirizzo e-mail simo.franz@hotmail.it per avere informazioni e dettagli. Foto di Michele Testoni Monica Perri
Più mobilità sostenibile, nonostante alta incidentalità
Si va, seppur lentamente, verso un trasporto a minor impatto (mobilità pedonale, ciclistica/micromobilità e pubblica). Si tratta di progressi ancora modesti, non sufficienti a modificare nel profondo un modello comportamentale che resta incardinato sulla centralità d’uso dell’auto di proprietà. Tuttavia, rispetto all’occasionalità di (piccole) variazioni positive registrate in anni passati, di norma rapidamente riassorbite, gli ultimi 2-3 anni sembrano marcare una promettente continuità dei miglioramenti su questo fronte. E’ quanto si legge nel 22° Rapporto di ISFORT sulla mobilità degli italiani “Eppur si muove”. In particolare (guardando ai numeri): la mobilità pedonale si attesta nel primo semestre del 2025 al 20,6%, un po’ meno dello stesso periodo 2024, ma in linea con il dato del 2019; la mobilità ciclistica (e micromobilità) evidenzia nella prima parte dell’anno in corso la crescita più significativa di share superando per la prima volta la soglia del 5% (5,2%) con una forte progressione rispetto al 2019 (3,3%); la mobilità collettiva sale all’8,9% (primo semestre 2025) quasi un punto in più rispetto al medesimo periodo del 2024; anche il dato consolidato dell’intero 2024 pari a 9,1%, migliora di mezzo punto lo share del 2023. Resta, tuttavia, un gap non marginale rispetto alla soglia raggiunta nel 2019 (10,8%). Per converso, cede qualche punto la mobilità privata motorizzata. In particolare, lo share dell’auto nel primo semestre 2025 scende al 60,8% dal 63,1% del primo semestre 2024. E il dato dell’intero 2024 marca 61,1%, ben tre punti e mezzo in meno rispetto a quanto registrato nel 2023, nonché un punto e mezzo in meno rispetto al 2019. Cresce inoltre il peso dell’auto usata in condivisione, salito al 12,9% nel 2025 (primo semestre), tre punti in più del dato 2024. Ovviamente non va mai dimenticata la palese evidenza che l’uso dell’automobile resta dominante nel Paese. A differenza dell’auto, tra i mezzi individuali motorizzati la moto consolida progressivamente il proprio mercato. La quota modale sale al 4,5% nella prima metà del 2025, un punto in più rispetto allo stesso periodo del 2024 e ben sopra il dato 2019 (3,3%). Dunque, l’uso delle “due ruote” sta crescendo nel suo insieme: gli spostamenti in bicicletta, monopattini e moto pesano oggi per quasi il 10% del totale, contro il 5-6% degli anni preCovid. La crescita delle quote modali della bicicletta e del trasporto pubblico sostiene il balzo in avanti del tasso di mobilità sostenibile che nel primo semestre del 2025 sale al 34,7% (33,4% nello stesso periodo del 2024), valore vicinissimo al livello del 2019 (35%). Quanto all’incidentalità stradale nel nostro Paese, la situazione resta critica: nel 2024 si sono verificati 173.364 sinistri con lesioni alle persone, con un incremento del +1% rispetto al 2023. La curva dell’incidentalità ha mostrato una forte tendenza declinante nei primi 15 anni del nuovo millennio, ma negli anni successivi i tassi di riduzione sono diminuiti e dall’avvio del periodo post-pandemico si assiste ad una crescita dei numeri, seppure molto graduale. Di conseguenza il tasso di incidentalità, ovvero il numero di incidenti ogni 100 abitanti, è passato da 2,81 del 2022 (primo anno post-Covid) a 2,94 nel 2024. Nel 2024 si sono registrati 3.030 decessi, 9 in meno rispetto al 2023, con un indice di mortalità sceso leggermente a 1,7 decessi ogni 100 sinistri. I feriti, infine, nel 2024 sono stati 233.853, il 4,1% in più dell’anno precedente. “Questi numeri, si legge nel rapporto, allontanano l’Italia dagli obiettivi di riduzione delle vittime stradali sanciti a livello europeo; infatti, per raggiungere il target intermedio di 1.586 morti sulle strade al 2030 (si ricorda che il pilastro della strategia europea della sicurezza stradale è la c.d. “vision zero”, ovvero zero morti sulle strade al 2050) i decessi al 2024 non avrebbero dovuto superare la soglia di 2.243 (ovvero circa un quarto in meno degli effettivi)”. I morti negli incidenti stradali sono soprattutto uomini (80%), con un peso molto rilevante nelle fasce di età dei giovani e giovanissimi (quasi 400 vittime nella sola fascia 20-29 anni). I pedoni deceduti in incidenti stradali nel 2024 sono stati 470, 15 in meno rispetto all’anno precedente. L’indice di mortalità per i pedoni resta altissimo, pari a 2,5 decessi ogni 100 investimenti, superiore di 4 volte a quello degli occupanti di autovetture. Circa i mezzi di micromobilità, il monopattino elettrico nel 2024 è stato coinvolto in 3.895 incidenti con 23 morti (va ricordato che nel 2020 si registrò la prima vittima) e 3.751 feriti, numeri in leggera crescita dall’anno precedente. Per le biciclette, gli incidenti con lesioni sono stati 17mila che hanno causato 185 morti (in diminuzione dai 216 registrati nel 2023) e circa 16.500 feriti tra conducenti e passeggeri. La maggior parte dei sinistri si registra nelle aree urbane (quasi 3 su 4, una percentuale molto stabile negli anni). La lesività del sinistro in area urbana è ovviamente più bassa rispetto alle strade extraurbane o alle autostrade dove le velocità medie di percorrenza sono molto maggiori: infatti, la quota dei feriti scende al 69,3% e soprattutto quella dei morti al 42,9% (in ogni caso una percentuale molto elevata). Viceversa, nelle strade extraurbane la percentuale di incidenti supera di poco il 20%, ma le vittime con decesso sono quasi la metà del totale (48,7%). Si tratta di un tasso di mortalità per incidenti stradali particolarmente alto nel nostro Paese: nel 2024 si sono registrate 51,4 vittime ogni milione di abitanti contro una media europea pari a 44,8 (peraltro in calo di un punto dal 2023, mentre nel nostro Paese è praticamente stabile). Il dato italiano è poi molto negativo nel benchmark con i maggiori Paesi europei: 18 punti in più della Germania, 15 punti in più della Spagna e dei Paesi bassi, 3 punti in più della Francia, più del doppio della Svezia (il Paese europeo più virtuoso su questo fronte). Qui per scaricare la sintesi del Rapporto: https://www.isfort.it/progetti/22-rapporto-sulla-mobilita-degli-italiani-audimob/. Giovanni Caprio