Brasile. La normalità della violenza poliziesca
Il 28 ottobre scorso circa 140 persone, di cui 4 agenti, sono state uccise e un
centinaio sono state arrestate nel corso di un assalto condotto da 2500 membri
della Polizia Civile e della Polizia Militare brasiliane, nelle favelas di
Alemão e Penha a Rio de Janeiro. Gli agenti si sono serviti anche di elicotteri
e mezzi blindati.
Su numerosi cadaveri, alcuni con le mani legate, sono stati rinvenuti i segni di
colpi esplosi alle spalle o alla nuca. Oltre alle numerose esecuzioni
extragiudiziali, i testimoni parlano di perquisizioni ed irruzioni nelle
abitazioni private realizzate senza mandato, di torture, di colpi sparati dagli
elicotteri, di feriti morti dissanguati a causa dello stop da parte degli agenti
all’intervento dei sanitari.
Nelle proteste e manifestazioni organizzate da movimenti e associazioni e dagli
abitanti delle favelas di Rio e di altre città, sono comparsi striscioni con la
scritta “Favela Lives Matter”. Tutti denunciano «una violenza sistemica e
razzista» e puntano il dito soprattutto contro le autorità locali, allineate con
l’ex presidente di estrema destra Jair Bolsonaro.
All’ex capo di stato, condannato a settembre a 27 anni di reclusione per il
tentato golpe del gennaio 2023, è strettamente legato Claudio Castro,
governatore dello stato di Rio de Janeiro e membro del “Partito Liberale”
dell’ex presidente di estrema destra.
Questa strage è salita agli onori delle cronache per l’enorme dispiegamento di
forze e per l’elevato numero delle vittime, ma la violenza della polizia nelle
aree dove vive la popolazione più povera e razzializzata è un fatto “normale”.
Ne abbiamo parlato con Simone Ruini
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