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Erano più di 100 i “turisti mercenari” italiani che pagavano per uccidere civili a Sarajevo
Quando l’apertura dell’inchiesta da parte del pm Alessandro Gobbis è stata resa nota alla stampa, si parlava del coinvolgimento di “almeno cinque stranieri” citati direttamente dalla fonte, dei quali tre sarebbero stati italiani: “Un uomo di Torino, uno di Milano e l’ultimo di Trieste”. Quelle sono solo le persone che sono coinvolte nell’indagine sin dall’inizio, ma negli ultimi mesi sono state sentite molte altre persone e più fonti, riuscendo ad avere un numero esatto. “Posso dire che sono sicuramente più di cento gli italiani coinvolti nei safari umani” – ha dichiarato a Fanpage.it la criminologa Martina Radice, la quale ha lavorato insieme al giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni nell’elaborazione dell’esposto che ha dato il via all’inchiesta della Procura di Milano sui “turisti di guerra” che, durante l’assedio serbo, nei fine settimana si recavano nella capitale bosniaca per sparare ai civili dietro il pagamento di elevate somme di denaro. L’esposto di Gavazzeni si basa su quanto affermato da un ex agente dei servizi segreti bosniaci. L’ex 007 ha riferito di numerose persone che negli anni dell’assedio di Sarajevo, tra il 1992 e il 1996, venivano “accompagnati a sparare ai civili” dalle colline che circondano la capitale bosniaca. La criminologa Radice, alla quale si è rivolta Gavazzeni oltre un anno e mezzo fa, ha allegato all’esposto del giornalista una consulenza nella quale ha stilato un profilo di questi soggetti, affermando: “Parliamo di persone che oggi potrebbero avere tra i 60 e gli 80 anni, perché all’epoca negli anni ’90 erano molto giovani, tra i 30 e i 40 anni d’età. Sono soggetti con una elevatissima disponibilità economica, sicuramente sopra la media, che stavano ai piani alti della società e che soprattutto avevano come denominatore comune la passione per la caccia. Sappiamo che questi stessi soggetti già facevano safari illegali, andando a uccidere elefanti, leoni e altri animali di grossa taglia. Fonti sempre più certe ci hanno fornito altri dettagli, di cui però ancora non possiamo parlare per via delle indagini. Tra di loro si chiamavano “arcieri” e oggi possiamo definirli anche come serial killer. (…) Il problema principale è che quando pensiamo a un serial killer, lo immaginiamo come un soggetto ai margini della società, che ha disturbi mentali più o meno evidenti, isolato anche dal punto di vista fisico. Qui, però, si tratta di persone che occupano i corridoi del potere e che vivono nel lusso. Ci sono soggetti che lavoravano come medici, magistrati, avvocati, notai e imprenditori che dal lunedì al venerdì svolgevano normalmente la loro attività e godevano del riconoscimento della società, poi il venerdì sera partivano e andavano a sparare a persone inermi. Un contrasto che possiamo identificare nella psicopatia d’élite, dove il soggetto riesce tranquillamente a vivere entrambe le facce della stessa medaglia. Stiamo parlando di persone che potevano spendere senza problemi anche quelli che oggi sarebbero 300mila euro in un weekend solo. (…) Secondo me, sono soggetti che ancora oggi sono altamente pericolosi. La domanda è proprio questa: finita la guerra in Bosnia, dove sono andati, cosa hanno fatto? (…) È possibile, dunque, che una volta terminata la guerra, negli anni seguenti questi soggetti abbiano commesso altri tipi di reati. Potrebbero essere investimenti pericolosi nel mondo degli affari, o maltrattamenti contro la compagna, o comunque episodi di violenza che non hanno avuto grande copertura giornalistica. Comunque sia, ancora oggi il turismo di guerra è presente. A Gaza arrivano turisti per fare picnic mentre con il binocolo guardano le bombe esplodere e le persone morire.” Per poter uccidere civili a Sarajevo i “turisti della guerra” sarebbero arrivati a pagare anche 300mila euro di oggi in un solo weekend. Per questo motivo, secondo Radice, si trattava di persone “che si trovavano tra i piani alti della società, e che avevano la passione della caccia”, come “medici, magistrati, avvocati, notai e imprenditori che dal lunedì al venerdì svolgevano normalmente la loro attività e godevano del riconoscimento della società, poi il venerdì sera partivano e andavano a sparare a persone inermi”. Secondo Radice, questi “turisti di guerra” non sarebbero stati animati da odio religioso o ideologie politiche, ma “solo dalla ricerca della pura adrenalina”. Mentre la Procura di Milano ha aperto un fascicolo per omicidio volontario plurimo aggravato da motivi abietti e crudeltà, dopo l’esposto presentato dal giornalista Enzo Gavazzeni, con il supporto degli avvocati Guido Salvini e Nicola Brigida, il dottor Gianni Tognoni torna su quei terribili anni della guerra nell’ex Jugoslavia. “In quelle udienze pubbliche, a un certo punto, è venuto fuori da testimonianze dirette di esuli della Bosnia, che c’erano civili di altri Paesi, alcuni anche dal Nord Italia, che avevano trasformato le loro cacce di selvaggina in caccia all’uomo, organizzati e pagando” – aveva affermato a Fanpage.it il dottor Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli che si era occupato nel 1995 dei crimini contro la neonata Bosnia Erzegovina, durante l’assedio di Sarajevo (1992-fine 1995) e il massacro di Srebrenica. “Siamo stati i primi a fare un Tribunale pubblico per quello che stava succedendo nell’ex Jugoslavia, per esprimere un parere indipendente. Allora non c’era ancora la Corte penale internazionale, quella guerra ci aveva fatto fare urgentemente una sessione a Berna con il supporto dell’Unione degli avvocati svizzeri”, ci racconta Tognoni. “Dal punto di vista formale quello dei cecchini europei che andavano a sparare era diventato un problema su cui indagare”, come raccontato dalle testimonianze degli esuli bosniaci riparati in Europa. “Noi non avevamo il potere penale di investigare  – continua Tognoni – ma segnalavamo il problema. Era chiaro che qualcuno doveva prendere in mano la cosa, per approfondire” soprattutto sugli italiani coinvolti. Il Tribunale Permanente dei Popoli è un organismo indipendente, nato nel 1979, per promuovere i diritti umani. Anche grazie al lavoro svolto all’epoca da questa organizzazione, si sono riaccesi i riflettori sui “Safari umani” organizzati durante l’assedio di Sarajevo, quando dalle colline sulla città, oltre ai militari e paramilitari serbi e serbi-bosniachi, anche civili arrivati da Paesi europei avrebbero sparato sulla popolazione inerme. L’assedio di Sarajevo, con i militari schierati sulle colline e la città isolata, ha provocato più di diecimila vittime tra cui oltre 1500 bambini: per questo una corte speciale, il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, ha condannato nel 2016, tra gli altri, l’ex presidente della Serbia Slobodan Milosevic e il capo dei serbi-bosniaci e comandante militare Radovan Karadzic. I crimini commessi all’epoca non si prescrivono. E l’inchiesta di Milano potrebbe portare all’identificazione degli autori: “Confidiamo ci siano risultati significativi” spiega a Fanpage.it l’avvocato ed ex giudice di Milano Guido Salvini che ha curato l’esposto. “È possibile procedere anche in Italia – continua l’avvocato Salvini – perché trattandosi di omicidi per motivi abietti sono punibili con l’ergastolo e sono punibili anche se un italiano li ha commessi in altri Paesi”.   Lorenzo Poli
Dieci anni dopo il Tribunale Permanente dei Popoli: in ricordo di quella storica sentenza
8 novembre 2015, Teatro Magnetto di Almese. Qui, dieci anni fa in una sala gremita, ascoltavo la lettura della sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) su “diritti fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere”. (https://permanentpeoplestribunal.org/) Una sentenza che a dieci anni di distanza andrebbe riletta con attenzione (qui il testo integrale) e la cui lettura in quel memorabile giorno, in particolare le raccomandazioni ai gruppi di interesse che a tutti i costi volevano la costruzione della NLTL (Nuova Linea AV Torino Lione) aveva rappresentato per me e per tutto il Movimento No Tav un momento di profondo orgoglio, la riprova della fondatezza della nostra lotta e il sigillo sulla verità dei suoi presupposti. Sin da marzo del 2015, Il TPP aveva condotto una fase istruttoria densa di contatti con gruppi rappresentativi delle realtà italiane ed europee che si opponevano alle grandi opere. La sua segreteria aveva visitato i territori minacciati incontrando le comunità resistenti. Come il Movimento No Tav, anche le controparti indicate nell’atto di accusa erano state invitate a partecipare alla sessione pubblica. Ma i proponenti della NLTL, in particolare Paolo Foietta e Mario Virano (rispettivamente Presidente dell’Osservatorio Tecnico Torino-Lione, e Direttore Generale di TELT) avevano risposto che le loro posizioni erano chiare, scritte su documenti pubblici, a dimostrazione dell’assoluta correttezza assunta nella questione TAV in Val Susa. La correttezza di Foietta e Virano nell’iter decisionale circa la NLTL, era stata invece smentita dall’istruttoria del TPP. Si era infatti dimostrato che nessuna informazione puntuale e adeguata era stata data alle comunità e alle amministrazioni locali sulle caratteristiche e sugli effetti dell’opera prima dell’accordo Italia-Francia del 2001, che ancora oggi (2025) costituisce la base normativa per la costruzione della nuova linea ferroviaria AV. Le testimonianze raccolte erano unanimemente d’accordo sul fatto che l’informazione istituzionale si era limitata a mera propaganda, a slogan e previsioni mirabolanti, a menzogne e incontri “di facciata”, organizzati dai promotori con la partecipazione di un’esigua rappresentanza del movimento No TAV. La scarsa o deformata informazione sull’opera veniva perciò presentata dal TPP come una chiara violazione della Convenzione di Aarhus che dal 2001 stabilisce tre principi fondamentali, preliminarmente a qualsiasi grande progetto con rilevanti impatti sull’ambiente: 1) l’accesso alle informazioni, 2) la partecipazione dei cittadini al processo decisionale e 3) l’accesso alla giustizia in materia ambientale sono i tre capisaldi che definiscono le condizioni di continuo scambio di informazioni fra proponenti l’opera e comunità locali, all’interno di un quanto mai ampio processo collaborativo e in condizioni di uguali poteri e pari dignità. La scarsità, la non veridicità e l’inadeguatezza delle informazioni denunciate dal Movimento No Tav avevano permesso, secondo il TPP, una progressiva estromissione delle amministrazioni locali dall’iter decisionale, culminata nell’inserimento della linea TAV Torino–Lione fra le infrastrutture di preminente interesse nazionale (Legge Obiettivo del 2001), e trasferendo ogni decisione in tema di compatibilità ambientale al Presidente del Consiglio dei Ministri. Anche l’Osservatorio che era stato istituito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri nel 2006 e propagandato come esempio di corretto rapporto tra istituzioni e cittadini, e come opportunità di partecipazione delle amministrazioni locali alle decisioni sull’opera, non ha retto alla prova dei fatti. L’istruttoria del TPP ha smontato anche quel teatrino, per il fatto di aver “eluso il confronto sul punto centrale – decisivo ai fini di un reale coinvolgimento della comunità locale – circa l’effettiva necessità di una nuova linea ovvero dell’opportunità di ammodernare e utilizzare quella storica”. In altre parole l’Osservatorio, fortemente orientato alla promozione e alla tutela degli interessi dei proponenti l’opera, non ha mai preso in considerazione la cosiddetta “opzione zero”, ovvero la non necessità di costruire una nuova linea AV fra Italia e Francia. Nello sminuire e degradare le istanze dei territori, l’Osservatorio ha “ridefinito le rappresentanze locali” ammettendo alla partecipazione “i soli Comuni dichiaratamente favorevoli […] alla miglior realizzazione dell’opera». Già nel 2015 si paventava, quale presupposto per la costruzione della nuova linea ferroviaria la “prossima saturazione della linea storica”. Il TPP, anche attraverso documenti di fonte governativa (quaderni dell’Osservatorio), dava ragione al movimento No Tav e rilevava che la saturazione dell’attuale linea ferroviaria “era ben lungi dal realizzarsi ed era anzi destinata a non realizzarsi affatto”, essendo la linea storica utilizzata al 20 – 30 per cento delle proprie potenzialità. Ciò che era vero nel 2015 è ancora più vero oggi, come prova la chiusura dell’AFA (Autostrada Ferroviaria Alpina, aprile 2025) fra Bourgneuf (Lione) e Orbassano (Torino) con il licenziamento di 18 addetti. Dopo due anni di interruzione del servizio per la frana che aveva chiuso la linea ferroviaria a La Praz, il servizio intermodale non è più stato riattivato per la pretesa del gestore (Mercitalia) di sovvenzioni statali a copertura della costante perdita economica della tratta. Nonostante gli oltre 40.000 camion all’anno trasportati attraverso il servizio AFA e tolti dalle direttrici stradali, i contributi nazionali di Italia e Francia per la gestione del servizio sono stati sospesi nel 2023 (Ministero dei trasporti guidato da Matteo Salvini), a riprova di quanto le politiche economiche e dei trasporti abbiano scarso interesse al trasferimento modale del trasporto merci dalla strada alla ferrovia, altro presupposto strombazzato a giustificazione della NLTL. Le “informazioni scarse e inadeguate” hanno quindi “inciso in modo significativo sui processi democratici, sia sulla definizione dell’interesse generale (sacrificabile a favore di interessi particolaristici), sia sui processi decisionali e sulla partecipazione agli stessi (che deve fondarsi su informazioni attendibili)”. Anche il ricorso alla giustizia amministrativa o ordinaria del Movimento No Tav per ottenere risposte e tutele (ricorsi, esposti, denunce) ha svelato una fortissima cointeressenza delle istituzioni intorno al TAV in Val Susa al punto che la Magistratura ha trasformato l’accusatore nella sua nemesi. L’esposto, presentato nel 2013 dal presidente di Pro Natura Piemonte sul pericolo cagionato da una frana attiva incombente sull’area della Maddalena a Chiomonte, è diventato il pretesto per un procedimento penale nei confronti dei ricorrenti per “procurato allarme”! La restrizione dell’area di manifestazione e la non tutela di alcuni diritti fondamentali hanno determinato, secondo la requisitoria del TPP, una “elevata e talora aspra conflittualità”, che ha determinato risposte istituzionali oltre “la soglia fisiologica del mantenimento dell’ordine democratico e dell’equilibrato perseguimento dei reati”, inducendo per modalità, distorsioni o eccessi, significative violazioni di diritti costituzionalmente garantiti quali quello alla circolazione, alla manifestazione e all’espressione del pensiero. Tenere la collettività all’oscuro delle decisioni e delle loro conseguenze, modificare, mentendo o distorcendo le informazioni sulla grande opera, delegittimare le domande provenienti da un’opinione pubblica giustamente allarmata e criminalizzare il dissenso erano i tratti comuni di “uno stato di eccezione, di un modus operandi” che accoglieva la progressiva istituzionalizzazione del sistema economico e finanziario internazionale e che accettava l’instaurazione di un sistema di regole parallele, alle quali piano piano ci si piegava e ci si adeguava. Affermazioni propagandistiche e prive di fondamenti oggettivi e scientifici quali “Treno ad alta velocità, si deve fare, costi quel che costi”, “il progresso non va fermato”, “il TAV come occasione per sviluppare strumenti sociali, economici e culturali capaci di unire territori e generazioni”, avevano creato un “anti-modello” e motivato le severe raccomandazioni del TPP rivolte ai promotori della NLTL. Se già nel 2015 erano le ragioni economiche delle lobbies ad imporsi e a indirizzare scelte, strategie e investimenti verso l’unico obiettivo della crescita economica, è ancor più evidente oggi che a venir meno sono le ragioni di quella parte di società che accetta di veder sacrificati beni comuni e “valori di più lungo periodo”. Altre collettività, altre comunità sono invece diventate, usando le parole del TPP, quelle “sentinelle che lanciano l’allarme”, costantemente in grado di smascherare e opporsi a quelle “violazioni del diritto che possono avere un grave impatto sociale ed ambientale”. Smascherando l’anti-modello globale delle grandi opere il Tribunale Permanente dei Popoli riconosceva al Movimento No Tav “la legittimità, il vigore e la qualità di una lotta che riflette la coscienza etica dell’umanità, una coscienza che le permette e le dà la possibilità di vivere in pace con sé stessa e con la natura”. “Ovunque vi sia un territorio, in Val di Susa come in America Latina, minacciato da una grande opera, si assiste alla devastazione ambientale, alla distruzione delle specificità sociali, culturali, economiche, all’irreparabilità del danno e al deturpamento dell’utilità pubblica”. A tutt’oggi il popolo No Tav non ha mai tradito quell’esortazione del TPP a continuare nell’impegno di sorveglianza, intensificando anzi la sua solidarietà e la sua indignazione di fronte all’ingiustizia e (riprendendo le parole pronunciate dieci anni fa da Nicoletta Dosio) affermandosi in resistenza. > Perché resistere non è solo un diritto. È un dovere dell’amore. (NdR: per una dettagliata ricostruzione della quattro giorni del TPP, dal 5 all’8 novembre 2015, e delle varie fasi del processo istrutturio che culminò con il pronunciamento della sentenza al Teatro Magnetto di Almese, si rimanda a questo link del Controsservatorio Valsusa, che riporta anche tutti gli interventi:  Giorgio Mancuso
Crimini di sistema contro il Popolo migrante: quale giurisdizione?
Venerdì 24 ottobre alle 18.30 sarà presentato allo Spazio Sintesi di Palermo il libro di Rino Messina “Closed Arms. Non si accettano migranti” edito dall’Istituto Poligrafico Europeo. Ne discuterà con l’autore, tra gli altri, Fulvio Vassallo Paleologo. Ecco la traccia del suo intervento Nel corso degli anni si è riscontrata una progressiva eliminazione dei diritti di difesa delle vittime delle prassi di allontanamento forzato, respingimento e detenzione amministrativa. La circostanza che le violazioni dei diritti fondamentali di gruppi di persone costrette a lasciare il proprio paese siano diventate tanto frequenti, con modalità omogenee e prive di una qualsiasi sanzione giuridica, tale che ne possa impedire la reiterazione, hanno permesso di individuare un popolo migrante. Un «popolo» dotato di una sua specifica connotazione, nei confronti del quale si commettono reati comuni e crimini internazionali, che possono assumere il carattere di crimini sistematici. Come è emerso da numerose testimonianze individuali e da rapporti concordanti, come quelli delle Nazioni Unite, di MEDU (Medici per i diritti umani) e di altre organizzazioni indipendenti, esaminati nel corso della sessione di Palermo del Tribunale Permanente dei popoli, che si è svolta nel dicembre del 2017, con particolare riguardo rispetto alle rotte migratorie nel Mediterraneo centrale . Nella successiva sessione del TPP, nel 2018 a Barcellona,si rilevava come venissero generati spazi non-giuridici (o di non diritto), “perché le leggi vengono trasformate in mere affermazioni formali: sono perfettamente formulate, ma non hanno applicazione nella pratica. Le politiche di immigrazione distruggono il capitale legale diritti umani: degerarchizzano le norme e i valori supremi che governano le nostre società”. Anche in quella occasione si metteva dunque in evidenza, al di là della peculiare situazione nei singoli paesi, la diffusa negazione della giurisdizione, come strumento per dare effettività al riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone. A Berlino, nel 2020, il Tribunale permanente dei Popoli concludeva che “Le caratteristiche principali e impressionanti degli scenari che sono stati presentati al TPP nei suoi anni di attività, culminati nella Sessione di Berlino, devono essere visti alla luce della sostanziale negazione da parte delle istituzioni nazionali ed europee del permanente e schiacciante accumulo delle prove più tragiche di violazioni dei diritti umani individuali e collettivi dei popoli migranti e rifugiati lungo tutte le rotte marittime e terrestri che conducono ad un luogo europeo che dovrebbe essere un porto sicuro. Nella categoria dei “crimini di sistema”, si comprendono politiche statali e scelte economiche che sacrificano diritti fondamentali della persona. Nella categoria più ampia dei crimini di sistema possono rientrare sia i crimini contro l’umanità, che possono essere sanzionati dalla Corte Penale internazionale e dalla Corte internazionale di giustizia, che reati comuni, sanzionabili già dalla giurisdizione nazionale, come il sequestro di persona, o l’omissione di soccorso, commessi da agenti istituzionali per effetto di scelte politiche. Già nella sentenza del TPP di Palermo si osservava come l’allontanamento forzato delle navi delle ONG dal Mediterraneo, indotto anche dal Codice di condotta Minniti imposto dal governo italiano nel mese di luglio del 2017, avesse indebolito significativamente le azioni di ricerca e soccorso dei migranti in mare e contribuisse ad aumentare quindi il numero delle vittime, consentendo di fatto ai libici di estendere la loro giurisdizione in acque internazionali, come se le zone di ricerca e salvataggio fossero spazi di sovranità, e non piuttosto aree di responsabilità per attività di ricerca e salvataggio. A partire dal 2020 il ruolo di coordinamento della sedicente Guardia costiera è stato più frammentato, dopo il ridimensionamento della missione italiana in Libia, e l’ingresso della Turchia nelle aree costiere della Tripolitania, ma sempre più violento, mentre aumentava la pressione dell’Egitto sulla Libia orientale. Con la conseguenza che anche dalla Cirenaica, soprattutto dalla zona di Tobruk, sono ripresi transiti e partenze che negli anni precedenti sembravano bloccati quasi del tutto. Malgrado accordi successivi, stipulati nel 2023 anche da rappresentanti dell’Unione Europea con il governo Saied, neppure la rotta tunisina veniva chiusa del tutto, e nonostante le violente azioni di repressione e gli interventi talvolta mortali della guardia costiera tunisina, riprendevano periodicamente le partenze verso la Sicilia, ed aumentava il numero delle vittime. In entrambi i casi la polverizzazione delle procedure di conclusione degli accordi a diversi livelli di responsabilità, e la frammentarietà degli interventi di intercettazione in mare, spacciati per operazioni di ricerca e soccorso (SAR), impedivano il ricorso alla giurisdizione e la sanzione dei responsabili. In questo contributo, con particolare riferimento alle rotte migratorie attraverso il Mediterraneo centrale, si esamineranno i diversi casi della giurisdizione interna ed internazionale che in Italia ed a livello europeo, dal 2017 ad oggi, hanno affrontato le materie oggetto della sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli adottata nella sessione di Palermo. Di fronte ad una travagliata involuzione della giustizia internazionale, si può parlare oggi di giurisdizione negata. Si tratta di un fenomeno che, soprattutto in base ad accordi intergovernativi, si rileva con diverse modalità in tutti i settori del Mediterraneo. Nel 2017 la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha riconosciuto la propria carenza di giurisdizione sugli accordi stipulati dai singoli paesi membri con la Turchia. Con tre ordinanze, del 28 febbraio 2017 (T-192/16, T-193/16 e T-257/16), il Tribunale dell’Unione ha dichiarato la propria incompetenza e ha quindi respinto i ricorsi introdotti, a norma dell’art. 263 TFUE, da due cittadini pakistani e da un cittadino afgano, richiedenti asilo in Grecia, con riguardo al c.d.accordo sui migranti del 18 marzo 2016 tra Unione europea e Turchia. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha delimitato la propria giurisdizione in modo da non intralciare le intese operative tra Italia e Libia per sequestrare i naufraghi in acque internazionali e deportarli nei lager dai quali sono fuggiti. Anche per la Corte di Strasburgo, evidentemente, le Convenzioni internazionali di diritto del mare ormai non valgono nulla. E non rileva neppure il ruolo criminale di comandanti libici come Bija o come Abdel Ghani al-Kikli, uccisi in faide tra milizie, dopo essere stati, per conto del governo di Tripoli, interlocutori privilegiati delle autorità italiane e protagonisti di respingimenti collettivi su delega e di sequestri di persone migranti intercettate in acque internazionali. A giugno del 2025 sembra che un cerchio si sia definitivamente chiuso, soffocando i diritti delle persone migranti a partire dal diritto alla vita, fino al diritto di chiedere asilo e di non subire trattamenti disumani o degradanti. I giudici della Corte europea dei diritti dell’Uomo hanno negato la loro giurisdizione sul caso del respingimento collettivo operato da una motovedetta libica il 6 novembre 2017 (caso S.S./Italia), richiamandosi al caso Hirsi del 2009, ma di fatto capovolgendone la portata sostanziale, con la legittimazione delle sedicenti guardie costiere libiche, nei cd. respingimenti su delega, in acque internazionali. La cartina di tornasole della effettiva portata degli accordi con i governi di paesi terzi che non rispettano i diritti umani è stata offerta da ultimo nel caso dell’arresto in Italia del comandante libico Almasri sulla base di un mandato di cattura emesso dalla Corte Penale internazionale e tempestivamente trasmesso alle autorità italiane. Dopo settimane nelle quali diversi esponenti di governo avevano negato l’apertura di indagini da parte della Corte Penale internazionale, il 16 febbraio 2025 la Camera preliminare della CPI ha rivolto un invito alla Repubblica Italiana (“Italia”) a presentare osservazioni per spiegare la mancata consegna di Osama Elmasry/Almasri Njeem alla Corte dopo il suo arresto in territorio italiano. Alla vigilia del rinnovo del Memorandum d’intesa con la Libia, la Camera preliminare della Corte Penale Internazionale ha concluso la sua indagine e lo scorso 17 ottobre ha formulato gravi accuse nei confronti del governo italiano, che non ha prestato la collaborazione dovuta nel caso del comandante libico Njeem Almasri. In via preliminare,” la Camera osserva che l’Italia ha avanzato argomentazioni diverse e contraddittorie nelle sue diverse memorie presentate prima alla Cancelleria e poi dinanzi alla Camera. Nelle sue varie memorie, l’Italia adduce presunte giustificazioni per la mancata consegna del signor Njeem alla Corte, tra cui presunte preoccupazioni relative al mandato d’arresto. La Camera osserva, tuttavia, che l’Italia non spiega, in nessuna delle sue memorie, perché non abbia comunicato con la Corte né le sue preoccupazioni né eventuali ostacoli giuridici interni, prima di restituire il signor Njeem. A tale riguardo, la Camera osserva che il Ministero della Giustizia italiano ha cessato le sue comunicazioni con la Corte poco dopo averle notificato l’arresto del signor Njeem da parte della polizia italiana. Nonostante sia stato ripetutamente interpellato in merito, il Ministero non ha informato la Corte quando si sarebbe tenuta l’udienza dinanzi alla Corte d’Appello di Roma. Inoltre, non ha tempestivamente informato la Corte dell’esito dell’udienza né della sua intenzione di rimpatriare il signor Njeem in Libia a seguito della decisione della Corte d’Appello di Roma”. Il governo italiano ha giustificato il rimpatrio di Almasri con “motivi di sicurezza e il rischio di ritorsioni”, ma la Corte ritiene tali spiegazioni “molto limitate”, osservando che “non è chiara” la scelta di “trasportarlo in aereo verso la Libia”. I tempi dei procedimenti davanti alla Corte Penale internazionale sono molti lunghi, e non è neppure scontato che la Corte arrivi ad una sentenza di condanna, in un momento in cui gli Stati più esposti al suo giudizio, come gli Stati Uniti, la Russia, Israele, seguiti dall’Italia e da altri paesi schierati all’ombra di Trump, ne attaccano sul piano personale i giudici e ne contestano la giurisdizione, nel tentativo di una definitiva delegittimazione della Corte. Sulla mancata autorizzazione a procedere da parte del Parlamento italiano, sulla richiesta del Tribunale dei ministri di mandare a processo i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Mantovano si sono innescati due opposti ricorsi per conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale. Si può temere adesso che le tattiche dilatorie da parte del governo per eludere responsabilità evidenti, magari adducendo procedimenti ancora in corso a livello nazionale, possano comportare ulteriori rallentamenti anche nelle attività di indagine della giustizia penale internazionale. L’articolata denuncia della Camera preliminare della Corte Penale internazionale, al di là dell’esito della procedura presso la stessa Corte, presenta comunque elementi di grande interesse per valutare il comportamento del governo italiano e dei suoi componenti, elementi che potrebbero rilevare anche davanti ai giudici nazionali, e che comunque costituiscono già adesso, anche oltre il caso Almasri, un giudizio assai ben fondato sull’inadempimento dell’Italia rispetto agli obblighi di collaborazione derivanti dallo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale internazionale. Bisogna ripristinare un sistema di controlli giurisdizionali che permetta di sanzionare le violazioni dei diritti umani ed i reati comuni commessi da rappresentanti istituzionali, e tutte le complicità negli accordi con i paesi terzi, fino ai livelli più elevati della decisione politica. Una decisione politica che non può produrre morte e abusi disumani per tentare di raggiungere finalità di blocco delle migrazioni che oggi appaiono definitivamente fallite. Un tribunale di opinione come il Tribunale permanente dei popoli è chiamato a mantenere costanti canali comunicativi con il sistema della informazione, sempre più condizionato dalle grandi proprietà e dai partiti di governo, e con la giurisdizione interna ed internazionale, in un duplice senso. Innanzitutto per trasmettere i risultati delle indagini e le decisioni di condanna che ne potrebbero venire. Ma anche per difendere, attraverso la raccolta di prove e la formulazione di atti di accusa, l’indipendenza di tutte le diverse giurisdizioni, che i governi attaccano perchè ostacolano il raggiungimento delle proprie finalità politiche, sulle quali costruiscono consenso elettorale sfruttando la disinformazione e l’indifferenza. Saranno questi gli impegni per i quali continueranno a battersi nei prossimi anni le associazioni che hanno proposto dal 23 al 25 ottobre una nuova sessione a Palermo del Tribunale Permanente dei Popoli. Fulvio Vassallo Paleologo