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La Francia in sciopero contro l’austerità
OLTRE 500MILA IN PIAZZA: LA GIORNATA DEL 18 SETTEMBRE NON HA AVUTO L’AFFLUENZA SPERATA. MA LA RABBIA È UNANIME CONTRO MACRON E LECORNU Dalla mattina alla sera, ai quattro angoli della Francia, le stesse parole, la stessa rabbia. Nella giornata di sciopero del 18 settembre, chiamata dall’Intersindacale, sono state censite quasi 600 azioni e manifestazioni. «Stop all’austerità, unitз per una giustizia sociale, fiscale e ambientale», proclamava lo striscione di apertura del corteo parigino, partito da place de la Bastille, a Parigi, verso le 14. Uno slogan generico, certo, ma che riassume lo stato d’animo di tuttз i/le manifestanti. L’obiettivo è quello di pesare contro il «museo degli orrori» delle misure di austerità presentate quest’estate da François Bayrou, e che Sébastien Lecornu, nuovo primo ministro, non ha ancora del tutto escluso dal bilancio che presenterà nelle prossime settimane. «Oggi lanciamo un avvertimento molto chiaro al governo e al primo ministro Sébastien Lecornu, che ci dice di essere aperto al dialogo», ha dichiarato la segretaria generale della CFDT, Marylise Léon. «È ora che il governo ci dica: “OK, abbiamo capito il messaggio, prenderemo decisioni di conseguenza”», ha insistito. Sophie Binet, segretaria generale della CGT, si è invece lanciata in un elenco eloquente: «Vogliamo sapere se il raddoppio dei ticket sanitari sarà accantonato. Vogliamo sapere se la riforma dell’assicurazione-disoccupazione sarà accantonata. Se il taglio delle pensioni e delle prestazioni sociali sarà accantonato. Vogliamo sapere se la soppressione di posti nella funzione pubblica sarà accantonata». Queste domande hanno animato i numerosi cortei, partecipatissimi. Secondo il ministero dell’interno, hanno sfilato oltre 506.000 persone, di cui 55.000 a Parigi. La CGT, dal canto suo, ne ha contati «più di un milione». Mediapart, nel sommario di uno dei suoi pezzi di giornata, spiega che «con circa 500.000 partecipanti, la giornata del 18 settembre non ha avuto l’affluenza sperata. Ma in tutta la Francia, e in tutte le fasce d’età, la rabbia è unanime contro le scelte dell’esecutivo». Liberation titola così: “La piazza interpella Lecornu. La massiccia partecipazione allo sciopero di giovedì dimostra la forza organizzativa dei sindacati. Sul piano politico, il Partito socialista spera di aumentare la pressione sul governo, mentre La France insoumise punta apertamente alle dimissioni di Emmanuel Macron”. La partecipazione è comunque paragonabile a quella dei grandi giorni di protesta contro la riforma delle pensioni del 2023. Lo dice anche l’Humanité, organo del PCF, che nel titolo richiama il milione annunciato dalla CGT e definisce «pacifica e gioiosa» la marea umana che ha manifestato con buona pace del tandem securitario Retailleau-Darmanin del governo dimissionario che aveva paventato un’invasione barbarica per scoraggiare le manifestazioni. Nei servizi pubblici, gli scioperi sono stati all’altezza della mobilitazione. Alle 14, il 10,9% del personale della funzione pubblica statale era in sciopero, soprattutto nell’istruzione – secondo il Snes-FSU, principale sindacato delle scuole secondarie, il 45% dei docenti era in sciopero nei collegi e nei licei, mentre la FSU-SNUipp, principale sindacato della primaria, aveva annunciato la vigilia che un terzo degli insegnanti del primo ciclo sarebbe stato assente. E se i TGV hanno circolato quasi normalmente, non sono mancate le perturbazioni sulla rete Intercités. Quanto alla metropolitana parigina, hanno funzionato tutto il giorno solo le linee automatiche (1, 4 e 14). Le altre hanno garantito il servizio solo nelle ore di punta. Anche EDF ha annunciato una riduzione di carico nelle sue centrali pari all’equivalente di quattro reattori nucleari (la Francia ne conta 57). Il settore delle industrie elettriche e del gas è mobilitato, su appello della CGT, dal 2 settembre, per chiedere aumenti salariali e una riduzione della fiscalità sull’energia per i/le consumatori/trici. Per questa giornata, la CGT rivendica «più di un lavoratore su tre in sciopero». La giornata è stata scandita soprattutto da cortei tradizionali, ma come già il 10 settembre, numerosi blocchi sono stati organizzati fin dall’alba, e regolarmente sgomberati senza riguardi dalle forze dell’ordine. Olivier Besancenot, popolare portavoce del NPA-Anticapitaliste viene intervistato da Basta!, un media indipendente: «Sarà duratura questa auto-organizzazione? Impossibile dirlo. Ma si nota che qualcosa sta accadendo, soprattutto tra gli ospedalieri e in alcune regioni», dice osservando che dopo un lungo declino sta riprendendo piede lo strumento delle Assemblee generali. BLOCCHI SGOMBERATI SENZA RIGUARDI «Un livello di repressione simile non l’ho mai visto», racconta Julien, membro del collettivo L’Offensive, al sito Mediapart, poco dopo essere stato allontanato dal deposito di bus Ilevia a Villeneuve-d’Ascq (Nord), che bloccava con una manciata di compagni. «Durante il movimento contro la riforma delle pensioni, avevamo bloccato per un’ora e mezza davanti al consiglio regionale. Il mantenimento dell’ordine era sul modello tradizionale. Stavolta arrivano, ti sgomberano con intimazioni e lacrimogeni». Le azioni sono state «meno intense del previsto», ha stimato a metà giornata il ministro dimissionario dell’interno Bruno Retailleau. Ciò non ha però impedito alcuni colpi di scena, come l’ingresso spettacolare di un centinaio di sindacalisti di Sud Rail nel cortile del ministero dell’economia, nel XII arrondissement di Parigi, arrivati in corteo dalla vicina Gare de Lyon, con fumogeni in mano. A Marsiglia, la circolazione nel tunnel Saint-Charles è stata bloccata per diversi minuti. Operazioni “a lumaca” hanno avuto luogo su diverse arterie del Paese, ad esempio intorno a Lille e ad Arras, nel Var sull’A57, all’ingresso di Nantes o nei pressi di Poitiers, Limoges e Chambéry. Secondo il ministero dell’educazione nazionale, sono stati effettuati anche settantacinque blocchi totali o parziali di licei. Al liceo Pasteur di Lille, gli studenti si sono organizzati con successo, così come al liceo Ravel, nel XX arrondissement di Parigi, dove 300 persone hanno impedito l’accesso ai cancelli. La questione dei blocchi è oggetto di riflessione. Simon Duteil, sindacalista, ex portavoce di Solidaires, dice che «La buona notizia è che il 10 settembre ha diffuso largamente l’idea che per cambiare le cose bisogna riuscire a bloccare l’economia. I sindacalisti di lotta e trasformazione sociale lo sostengono da tempo. La questione da discutere con quante più persone possibile è: “Come ci si riesce?”. A volte c’è una forma di pensiero magico – diffuso anche da correnti politiche – che implica che basta bloccare un luogo per vincere. In passato è successo attorno alle raffinerie. Io penso profondamente che il blocco dell’economia si ottiene prima di tutto con lo sciopero. È perché le persone smettono di lavorare che si crea il blocco e si libera tempo per il movimento. Certo, possono esserci blocchi puntuali, ma non si costruisce dall’esterno. Non paralizzi il porto perché pochi lo bloccano, lo paralizzi perché i lavoratori portuali smettono di lavorare”. La partecipazione dei giovani a tutte le forme di mobilitazione della giornata è stata un tratto comune in tutto il Paese. Altro punto comune, l’onnipresenza della tassa Zucman, nuovo totem della sinistra che punta a tassare gli ultraricchi al 2% del loro patrimonio. Attac riscuote un certo successo con i manifesti che ritraggono Bernard Arnault in una mise da aerobica anni Ottanta, invitandolo al «fiscal fitness». Durante un’azione davanti al ministero della cultura, anche i circa 70 artisti riuniti su iniziativa del Sindacato nazionale degli artisti plasticien·nes (Snap CGT) non hanno mancato di intonare «Tassate i ricchi!». Ovviamente i ricchi e i loro partiti sono scandalizzati dalla proposta. «C’è qualcosa di indecente nel dibattito pubblico che si scandalizza per una pseudo-stigmatizzazione dei più ricchi – dice Marylise Léon, segretaria generale della CFDT a L’Humanite – loro sono solo 2.000, mentre si parla di 10 milioni di persone in povertà». SERVIZI PUBBLICI ALLO SBANDO In tutta la Francia, forse sono proprio i lavoratori della sanità a esprimere precisamente la precarietà che si è radicata nel Paese, a tutti i livelli. «Ci chiedono di rinunciare ai nostri giorni di riposo, avvertendoci che non siamo nemmeno sicuri di essere pagati, per mancanza di budget», racconta un’infermiera al CHU di Grenoble. «Si continuano a chiudere posti letto, a tagliare posti di lavoro, e ci dicono che bisogna ancora fare economie perché siamo in deficit. Ma siamo in deficit per colpa di chi?», domanda una collega, e segretaria CGT dell’ospedale Saint-Antoine di Parigi. LA PALLA PASSA ALL’INTERSINDACALE Ora si pone la questione della prosecuzione del movimento. Anche in Francia si evoca la convergenza delle lotte. Un operatore sociale di Montpellier spiega: «Noi l’abbiamo fatto, andando a sostenere i ferrovieri. E oggi sono loro a raggiungerci. Bisognerebbe che la settimana prossima facessimo lo stesso con l’Educazione nazionale. E tutto questo andrebbe fatto a livello nazionale! Ci sono tante cose da immaginare, ma per farlo bisogna strutturare e coordinare il movimento». Un suo collega, sentito sempre da Mediapart, concorda: «Si può provare un senso di disperazione quando si resta isolati, ognuno per sé». Entrambi lavorano nel sociale da vent’anni, iscritti a Sud Santé e non hanno mai visto piovere così tanti preavvisi di sciopero nel settore: «Prima, era un preavviso ogni dieci anni. Adesso, è ogni due o tre mesi! Oggi interi servizi decidono di discutere delle proprie condizioni di lavoro. È completamente nuovo. Il periodo è ultracritico, una rabbia si sta costruendo». Queste parole riecheggiano il contesto nazionale. Le manifestazioni gigantesche contro la riforma delle pensioni, poi la dissoluzione e la mobilitazione elettorale contro l’estrema destra, danno a molti l’impressione di combattere invano, contro un potere totalmente sordo. «È chiaro che ci calpestano da tempo – commenta ancora Antoine, di Sud Santé – ma questo mi convince che siamo al posto giusto, in questa opposizione alle nostre lotte», conclude, invocando «auto-organizzazione e autodeterminazione della base». Ma è «l’intersindacale che può premere il bottone, è lei che mette 800.000 persone in piazza». E l’Intersindacale si riunirà il 19 settembre. Olivier Besancenot ricorda le sconfitte – gilet gialli, pensioni ecc… – «quando parti con alle spalle fallimenti globali, cerchi altre strategie, talvolta con un’illusione che occorra rinunciare allo sciopero o all’organizzazione a lungo termine. Ma ci sono anche movimenti sociali che cercano legittimamente come avere peso, un auto-apprendimento importante. Il movimento eredita qualcosa di profondo: la diminuzione dal 1970 del numero di giornate di sciopero, perché il lavoro salariato non è più lo stesso, i contratti sono cambiati e il movimento operaio si è disgregato. Non c’è soluzione miracolosa. Probabilmente ci saranno combinazioni di diverse modalità d’azione, anche alcune che non immaginiamo ancora». The post La Francia in sciopero contro l’austerità first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo La Francia in sciopero contro l’austerità sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Alla Vuelta vince la Palestina!
LA MANIFESTAZIONE FILOPALESTINESE IMPEDISCE ALLA VUELTA DI CONCLUDERSI A MADRID (EL SALTO DIARIO) le foto sono di David F. Sabadell Le proteste in diversi punti hanno mandato in tilt il massiccio dispiegamento di forze di polizia disposto dalla Delegazione del Governo. Alle 18:30, la gara è stata paralizzata dai blocchi stradali nell’ultima tappa della Vuelta a Madrid. Nonostante questa stessa mattina, il 14 settembre 2025, Pedro Sánchez abbia espresso la sua “ammirazione” per le migliaia di persone che hanno protestato contro La Vuelta per la presenza di una squadra israeliana, Israel Premier Tech, nella competizione sportiva, il Governo ha messo in atto un dispositivo di controllo della città di Madrid in grande stile. 2.300 agenti sono mobilitati da sabato e, prima dell’inizio della tappa, sono state diffuse le foto dei blindati della polizia nei punti chiave dove avrebbe dovuto passare la gara nel suo ultimo giorno. Niente di tutto ciò è stato sufficiente, la vittoria del movimento filopalestinese è stata schiacciante: nessun giro sul circuito previsto nella capitale. Zero. Fin dall’arrivo a Madrid, la situazione era impraticabile per il proseguimento dello spettacolo. Dopo le 18:20, diversi interventi dei manifestanti e le informazioni provenienti da diversi punti hanno reso impossibile il proseguimento della gara. La Vuelta si è conclusa con la gara neutralizzata, senza tappa finale e con migliaia di persone che hanno sfidato il forte dispiegamento organizzato, i manganelli, le transenne e gli scudi. Alle 18:00, un folto gruppo di manifestanti ha bloccato il percorso intorno a Gran Vía e Callao. In quel momento sono state diffuse diverse immagini di manganellate e cariche della polizia contro i manifestanti. Le cariche e lo spostamento delle transenne hanno raggiunto l’ultimo chilometro della corsa, intorno a Plaza de Cibeles e anche ad Atocha. Alle 18:10, l’organizzazione ha annunciato che il circuito sarebbe stato ridotto al minimo e che si sarebbe corso solo il tratto tra Neptuno e Plaza de Colón. Anche il piano B non ha funzionato. Non c’era modo di continuare: la situazione era ormai fuori controllo. Il contingente di controllo era composto da 1.100 poliziotti nazionali, 400 guardie civili e 800 poliziotti locali. La corsa è iniziata ufficialmente ad Alalpardo alle 16:30 e prevedeva, sulla carta, sei giri su un percorso urbano lungo i viali centrali della capitale. Centinaia di persone si erano mobilitate con largo anticipo verso i raduni previsti ad Atocha, Cibeles, Callao e Colón. La chiamata per il boicottaggio era stata diffusa già da due settimane tramite gruppi di messaggistica istantanea e social network. Prima delle 17:30, l’organizzazione della Vuelta ha apportato almeno due modifiche al percorso inizialmente previsto. In primo luogo ha ridotto di cinque chilometri il percorso per evitare il passaggio sull’autostrada A6 e, una volta iniziata la gara, ha evitato il passaggio per il centro di Alcobendas, città situata nella parte settentrionale della regione. Dopo lo scoppio della rivolta popolare e l’interruzione della gara, le manifestazioni di protesta improvvisate convergevano intorno a Cibeles. Continuavano le cariche e il lancio di proiettili da parte delle unità antisommossa. Le grida “Questa volta vince la Palestina” o “Israele uccide, l’Europa sponsorizza” risuonavano nelle strade del centro e nella trasmissione della RTVE, abbandonata prima del tempo dai presentatori della gara. Alle 19:00 sono state segnalate forti cariche con lancio di proiettili di gomma nella zona di Neptuno. UN GRIDO CONTRO IL SILENZIO CHE HA ATTRAVERSATO LA VUELTA L’avvocata e attivista per i diritti umani Patuca Fernández Vicens, in una dichiarazione a El Salto, spiega cosa ha significato la mobilitazione di queste settimane intorno alla Vuelta España: “Credo che la presenza di tutte queste settimane della società civile, che ha gridato su tutte le strade, in tutte le vie, in tutte le città, in tutti i paesi, contro il genocidio, è la prova che si tratta di un movimento inarrestabile, che la società civile ha più forza di quanto crediamo, che abbiamo la capacità di condizionare l’agenda politica e di mettere sul tavolo e rendere visibile ciò che per tanto tempo gli agenti governativi, le aziende, le istituzioni pubbliche non hanno voluto vedere. È in atto un genocidio perpetrato da Israele con il sostegno e la complicità del mondo, in particolare di un’Europa che si è dimostrata incapace di difendere i diritti umani che erano parte integrante della sua fondazione”. L’impatto delle proteste in tappe come quelle che dovevano concludersi a Bilbao e Mos (Pontevedra) ha segnato una gara ciclistica che non riceveva tanta attenzione né a livello nazionale né internazionale da decenni. Le due tappe di Madrid erano state designate per concludere la protesta a causa della presenza di una squadra ciclistica che rappresenta gli interessi di soft power dello Stato sionista, responsabile di 64.871 morti confermate al 14 settembre. The post Alla Vuelta vince la Palestina! first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Alla Vuelta vince la Palestina! sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Francia, rabbia enorme e voglia di rivoluzione
COM’È ANDATA LA GIORNATA DEL “BLOCCHIAMO TUTTO”: AZIONI, BLOCCHI E MANIFESTAZIONI SONO STATI BEN VISIBILI COSÌ COME LA REPRESSIONE  [CÉCILE HAUTEFEUILLE] Un potere totalmente sordo alle grida di rabbia della strada. Mentre dall’alba centinaia di azioni venivano organizzate nelle medie e grandi città francesi per la mobilitazione “Blocchiamo tutto” del 10 settembre, il nuovo e il vecchio primo ministro non hanno speso una parola per il movimento sociale in corso. L’immagine rimarrà: il passaggio di potere a Matignon tra François Bayrou e Sébastien Lecornu, nominato il giorno prima, si è svolto con nonchalance e secondo il solito ritmo, mentre fuori i manifestanti urlavano la loro rabbia, venendo talvolta allontanati con violenza dalle forze dell’ordine. Al termine di questa giornata di mobilitazione, iniziata a luglio dopo gli annunci di austerità di François Bayrou, il ministero dell’Interno ha contato 175.000 partecipanti – la CGT ne annuncia 250.000 – in 812 azioni (550 raduni e 262 blocchi). Diverse città hanno registrato un’affluenza massiccia di manifestanti: tra 13.000 e 30.000 a Tolosa (Haute-Garonne), 10.000 e 15.000 a Rennes (Ille-et-Vilaine), 6.000 e 10.000 a Montpellier (Hérault), 5.000 e 10.000 a Strasburgo (Bas-Rhin) e 8.000 a Lione (Rhône) e Marsiglia (Bouches-du-Rhône). Le prefetture hanno seguito le istruzioni di Bruno Retailleau, ministro dell’Interno dimissionario: i tentativi di bloccare strade, ferrovie, stazioni e altri punti strategici sono stati regolarmente impediti dalle forze dell’ordine, come hanno constatato gli inviati speciali di Mediapart in tutto il paese. 80.000 gendarmi e poliziotti sono stati dispiegati alle prime luci dell’alba. Il viadotto di Calix è rimasto comunque bloccato per quattro ore a Caen (Calvados) contro meno di un’ora per la tangenziale di La Rochelle (Charente-Maritime). I blocchi sono stati rimossi con la forza anche a Montpellier, Lione, Clermont-Ferrand (Puy-de-Dôme) e Rennes, dove la tangenziale era stata bloccata in entrambe le direzioni prima delle 7 del mattino. A Parigi, un deposito di autobus è stato bloccato alle 5 del mattino. MANGANELLI E LACRIMOGENI Le forze dell’ordine hanno anche disperso violentemente i cortei in diverse città, utilizzando, come a Montpellier, un idrante. Scontri sono scoppiati anche intorno alla fontana degli Innocenti nel quartiere delle Halles, nel cuore di Parigi. Un edificio è stato incendiato, probabilmente dall’intervento delle forze dell’ordine – “in base alle informazioni disponibili, potrebbe trattarsi di un incendio involontario legato all’intervento delle forze dell’ordine”, ha dichiarato il procuratore della Repubblica di Parigi. In minoranza rispetto alla folla, le forze dell’ordine hanno reagito violentemente, usando manganelli e lacrimogeni. A Lione, ogni manifestazione spontanea è stata sistematicamente dispersa con gas lacrimogeni. A Clermont-Ferrand e La Rochelle, Mediapart ha assistito a violenti arresti: un giovane è stato trascinato, ammanettato e a piedi nudi, dalla polizia antisommossa nella città dell’Alvernia. A La Rochelle, un uomo di vent’anni è stato circondato da diversi agenti e un altro manifestante è stato colpito più volte con manganelli telescopici. Secondo il ministero dell’Interno, la situazione rimane “particolarmente tesa” in prima serata a Rennes, Nantes e Parigi. Si contano tredici feriti lievi tra le forze dell’ordine e 473 arresti su tutto il territorio, di cui quasi la metà (203) a Parigi. Oltre ai blocchi stradali, la mobilitazione è iniziata la mattina presto nelle scuole superiori. Secondo il Ministero dell’Istruzione Nazionale, un centinaio di istituti sono stati “perturbati” e una trentina “bloccati” nelle prime ore del mattino a Parigi, Montpellier, Rennes e Lille. Nel settore dei trasporti, la circolazione dei treni è stata “conforme” alle previsioni della SNCF, senza ripercussioni sui TGV e Ouigo, ma con disagi sui TER e Intercités, a seguito di uno sciopero indetto dalla CGT e da Sud. A Parigi, l’accesso alla stazione Gare du Nord è stato temporaneamente impedito dalle forze dell’ordine, mentre a sud della capitale la stazione Gare de Lyon è stata invasa da 400 persone. Questo movimento sociale ha dato luogo a una profusione di azioni, lontane dai soliti percorsi delle giornate indette dai sindacati. A Chambéry (Savoia), Strasburgo o Clermont-Ferrand, i ciclisti hanno fatto la loro parte per “porter la vélorution”, portare avanti la rivoluzione delle biciclette, arrivando persino a bloccare alcune arterie stradali; Strasburgo ha organizzato un ballo degli indignati, mentre la Place des Fêtes, nel XIX arrondissement di Parigi, è stata trasformata in una “zona femminista”. Nei cortei, l’ira dei manifestanti si è concentrata soprattutto sul capo dello Stato e sulle richieste di dimissioni ripetute in coro. «Finché Macron sarà lì, non potrà cambiare nulla», lamenta Marianne, animatrice in un centro ricreativo, dalla place du Châtelet a Parigi. “La politica di Macron di tagliare le prestazioni sociali avrà un impatto terribile su di noi, famiglie monoparentali”, sospira Stella, durante la manifestazione a Rennes. Se la nomina di Sébastien Lecornu, vicino al presidente, lascia alcuni indifferenti, altri si dicono totalmente “disillusi”. “È da vomitare”, commenta Roberta, che lavora nella pubblica amministrazione a Montpellier e sfoggia un cartello con la scritta “Macro Nie démocratie” (Macron no alla democrazia). Per Henda, insegnante di 46 anni incontrata davanti alla stazione Gare du Nord di Parigi, il nuovo capo del governo, ex ministro della Difesa, è «l’artefice di una militarizzazione record del nostro bilancio». E aggiunge: «Mentre noi, nell’istruzione nazionale, non abbiamo nulla!». Si levano anche richieste di un grande cambiamento. «Non manifestavo dai tempi del liceo, ma ora spero davvero in una rivoluzione», dice Adam* a Strasburgo. «Le dimissioni di Bayrou sono solo il cavallo di Troia delle nostre lotte, non dobbiamo fermarci qui», sostiene il giovane venticinquenne. «Bisognerebbe far cadere delle teste», dice Roberta, di Montpellier. Perché andrà di male in peggio, non illudiamoci». Per questa manifestazione del 10 settembre, alcuni manifestanti hanno confessato di essere in sciopero per la prima volta nella loro vita, come Alen, ingegnere informatico nel settore privato a Parigi. La sua motivazione: «Questo bilancio fa pagare alla classe operaia i regali fatti alle grandi imprese». «Ho molti colleghi che si mobilitano per la prima volta», osserva Philippe, infermiere al CHU di Montpellier. Anche in questo caso, l’austerità è un fattore scatenante: «C’è un’enorme rabbia perché il ministro ha annunciato tagli per diversi miliardi, mentre la situazione dei servizi sanitari è già disastrosa. » Gli operatori sanitari, chiamati a una giornata di mobilitazione in ottobre, si sono mobilitati in massa questo mercoledì. Un centinaio di persone si sono riunite davanti al CHU de Rennes, dove i servizi del centro sono in mobilitazione da settimane per reclamare più personale e migliori condizioni di lavoro. Stesso numero di partecipanti a un raduno davanti all’ospedale Tenon, a Parigi. «Ci ritroviamo con pazienti che aspettano per ore sulle barelle. Quanti morti dovremo aspettare? Stiamo affondando il nostro sistema sanitario“, lamenta Sophie Vilaire, segretaria generale della CGT in questo ospedale. A Tolosa, un folto gruppo di operatori sanitari si è unito al corteo, applaudito dalla folla e al grido di ”Tutti lottano per l’ospedale, l’ospedale lotta per tutti!”. Le organizzazioni sindacali, che hanno indetto una giornata di mobilitazione interprofessionale per il 18 settembre, erano poco visibili nei vari cortei. Solo il sindacato Solidaires aveva indetto uno sciopero per il 10 settembre, mentre la CGT invitava i suoi sindacati a «discutere con i lavoratori e organizzare lo sciopero ovunque fosse possibile». La sua segretaria generale, Sophie Binet, ha approfittato di una visita allo stabilimento Novasco di Hagondange, in Mosella, per criticare la nomina di Sébastien Lecornu alla carica di primo ministro. «Il presidente della Repubblica non impara dai propri errori. L’unica conseguenza di questa nomina sarà quella di rafforzare l’esasperazione sociale e le mobilitazioni”, ha affermato dall’acciaieria sull’orlo del fallimento. MALTRATTATA UNA DEPUTATA Alcune figure dell’opposizione hanno inoltre partecipato alle manifestazioni, come Jeanne Barseghian, sindaco degli Ecologisti di Strasburgo, Jean-Luc Mélenchon e diversi deputati di La France insoumise in Place du Châtelet a Parigi. Poche ore prima, all’alba, la deputata del Nouveau Front populaire di Parigi, Danielle Simonnet, ha partecipato al blocco di un deposito di autobus ed è stata maltrattata dai poliziotti della Brav-M, unità di polizia mobile, che l’hanno espulsa da un bar, come dimostra un video pubblicato sui social network. Durante una conferenza stampa mercoledì mattina, il ministro dell’Interno dimissionario, Bruno Retailleau, ha denunciato una mobilitazione «distorta, confiscata, catturata dal movimento dell’estrema sinistra e dell’ultrasinistra, sostenuta dal movimento degli Insoumis» e ha liquidato con un gesto della mano un movimento che, secondo lui, «non ha nulla di una mobilitazione cittadina». Alla fine della giornata, in tutta la Francia sono state convocate assemblee generali di cittadini per decidere il seguito delle azioni. Nel frattempo, il nuovo primo ministro ha proseguito, come se nulla fosse, i colloqui a Matignon, ricevendo Gabriel Attal, segretario generale del partito Renaissance, Bruno Retailleau, presidente dei Républicains, ed Édouard Philippe di Horizons. Durante il passaggio di consegne con François Bayrou, Sébastien Lecornu ha ritenuto opportuno evocare un «divario tra la vita politica e la vita reale» al quale bisognerebbe porre fine. Non poteva dire cosa più vera.   The post Francia, rabbia enorme e voglia di rivoluzione first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Francia, rabbia enorme e voglia di rivoluzione sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Roma Capitale, le elezioni per le Rsu consacrano i sindacati “pop”
UN COMMENTO SULLA RECENTE TORNATA ELETTORALE DELLE RAPPRESENTANZE SINDACALI DEL COMUNE DI ROMA [GIANNI CARRAVETTA] Il raffronto tra le ultime tornate elettorali delle RSU presso Roma Capitale evidenzia un dato su tutti: i dipendenti capitolini sono convinti fautori del sindacalismo confederale! I risultati delle ultime elezioni, infatti, rafforzano la maggioranza di CISL, UIL e CGIL con una percentuale di consensi senza precedenti, superiore all’86%. Tutt’e tre le Organizzazioni guadagnano voti. La UIL ottiene addirittura 1.110 voti in più! Straordinario anche il numero di preferenze attribuite ai due maggiori contendenti in campo, quasi 1.400 al capolista CISL e oltre 1.100 a quello della UIL; si tratta di numeri incredibili per l’elezione dei componenti di una RSU, numeri che testimoniano la polarizzazione del voto per la contesa della leadership all’interno dell’enclave confederale nel Comune di Roma. Al contrario, è stabile nel tempo la percentuale dei votanti che si attesta intorno al 70%, mentre diminuisce il numero dei dipendenti/elettori che scende sotto la soglia dei 24mila (al netto di circa 500 rapporti di lavoro precari della scuola). La sequenza di risultati a disposizione rappresenta ormai una serie storica, giacché registra una tendenza decennale: nel Comune di Roma, dal 2015 al 2025, le grandi centrali sindacali marciano senza sosta verso l’alto, passando dal 70% del 2015 all’86% del 2025, invece il sindacalismo autonomo e, per quanto ci riguarda, quello autorganizzato languono appiattiti verso il basso. Ci troviamo di fronte ad una consacrazione elettorale che non conosce paragoni in ambito sindacale e politico, poiché nessuna forza di maggioranza, tra quelle che governano apparati di Stato, di Enti territoriali o di intermediazione sociale, ha visto consolidare le proprie posizioni nel corso dell’ultimo decennio in maniera così costante e crescente. I picchi di consensi, anche a livello individuale, raggiunti nell’ultima tornata elettorale ingigantiscono un fenomeno già di per sé eclatante. All’esito delle elezioni del 2022 scrivemmo che “…il mondo capitolino sembra essersi cristallizzato nel tempo. Gli individualismi e i particolarismi, che connotano il contesto lavorativo, producono una struttura di senso fondata sugli equilibri di potere esistenti e sul falso universalismo dei canoni predominanti nel regime di relazioni sindacali. Dunque, il fortissimo malcontento che serpeggia tra i dipendenti capitolini non si tramuta ancora in dissenso, si trasforma in disillusione e si incanala nei solidi margini della conservazione”. Possiamo aggiungere che l’assenza prolungata di conflitto ha ormai generato un’inerzia assoluta; l’arrivo di schiere di neoassunti, chiamati a coprire i vuoti d’organico e irretiti nelle maglie del proselitismo sindacale ancor prima di entrare nei ruoli, può aver giocato un ruolo importante per il trionfo delle sigle confederali. In ogni caso, prevale la sensazione di aver raggiunto un equilibrio definitivo, una pace sociale sorretta dalla convinzione diffusa di poter delegare alle grandi burocrazie sindacali la tutela dei propri interessi particolari, rinunciando alla prospettiva di un miglioramento complessivo del proprio status di dipendenti pubblici. I fortissimi segnali di un disagio profondo provenienti dal personale, rispetto al pessimo clima lavorativo, alle scarse opportunità di carriera o alle basse retribuzioni, si spengono nel momento in cui si decide la sorte collettiva. Eppure, ai più non sarebbe dovuto sfuggire il fatto che il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro patito negli ultimi decenni è direttamente collegato ai meccanismi di contrattazione collettiva a livello nazionale e decentrato di cui sono propugnatori e severi custodi i vertici delle organizzazioni maggioritarie, che concorrono così al declino di cui sono vittime i loro elettori. Siamo al cospetto della consacrazione definitiva dei sindacati “pop”, plasticamente suggellata nella consueta kermesse del 1° maggio, i quali sono in grado di esercitare un’egemonia culturale di massa, priva di particolari connotazioni e di immediata fruizione. Tale constatazione è rafforzata dall’evidenza del peso vieppiù irrilevante della contrattazione, che ora agisce all’interno di un regime di regole che affida alle fonti legislative o regolamentari il compito di disciplinare il rapporto di lavoro pubblico in tutti i suoi aspetti, sia economici sia giuridici, lasciando al confronto sindacale un ridottissimo ambito di iniziativa, un’appendice in cui trovano spazio solo pulsioni neocorporative e l’omologazione burocratica delle (sempre più) fievoli istanze di miglioramento. Nel Comune di Roma è stata dunque avallata l’idea di un sindacato che non serve alla difesa e alla conquista di diritti collettivi, ma all’elargizione di promesse, favori e servizi. Nonostante la perdita di consensi, tuttavia, sopravvive l’idea di una forma di sindacalismo alternativa, fondata sull’adesione volontaria e senza contropartite ad un’organizzazione priva di apparati e direttamente controllabile dalla base. La nostra passione civile e il nostro spirito critico saranno comunque a disposizione di chi vorrà ancora tentare di percorrere l’impervia strada del cambiamento. Gianni Carravetta è Rsu COBAS PI Roma Capitale The post Roma Capitale, le elezioni per le Rsu consacrano i sindacati “pop” first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Roma Capitale, le elezioni per le Rsu consacrano i sindacati “pop” sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Cosa significa amare un prigioniero politico?
«NON HO INTENZIONE DI RIMANERE NEL LIMBO PER SEMPRE». STORIE DI ATTIVISTI AMBIENTALISTI CONDANNATI NEL REGNO UNITO [CLARE HYMER] L’aula della Isleworth Crown Court tace mentre la giuria rientra in aula. Sul banco degli imputati ci sono otto attivisti di Just Stop Oil, arrestati in seguito a un’azione all’aeroporto di Heathrow la scorsa estate. Ho messo gli occhi su due imputati in particolare. Luke Elson e Rosa Hicks hanno già trascorso più di un anno in custodia cautelare. Se condannati per concorso in disturbo della quiete pubblica, rischiano fino a dieci anni di carcere ciascuno. Il presidente della giuria legge i verdetti. Uno dopo l’altro, tutti e otto vengono dichiarati colpevoli. Luke e Rosa rimangono rigidi, con gli occhi fissi davanti a sé. Sono entrambi professionisti e questi verdetti non erano del tutto inaspettati. Ma dietro le loro espressioni vuote, si fanno già i calcoli: le possibilità di condanna, la pena già scontata, i mesi – o gli anni – che mancano alla libertà. Nella tribuna del pubblico, amici e sostenitori si stringono le mani. Alcuni singhiozzano apertamente, nonostante i precedenti appelli del giudice Duncan alla moderazione quando sono arrivati i verdetti. Luke (left) and Phoebe (right): Photo: Rich Felgate Tra loro siede Phoebe Plummer. Phoebe è una delle attiviste più riconoscibili di Just Stop Oil, famosa per aver lanciato una zuppa sui Girasoli di Van Gogh nel 2022. È anche la compagna di Luke. A differenza di altri, non piangono. Phoebe è stata rilasciata dal carcere solo tre settimane fa e in quest’aula, con le sue piccole finestre e i protocolli soffocanti, hanno visto Luke per la prima volta dopo sette mesi di lontananza.  Il primo giorno di processo si erano recate al banco degli imputati e, pur conoscendo le regole, avevano infilato le dita in una fessura dei pannelli di vetro per cercare di toccarlo. La guardia della Serco, racconta Phoebe, non ne fu felice. La compagna di Rosa, Angel Rohan, oggi non è in aula. In realtà non c’è mai stata in nessun altro giorno del processo: vive a 9.000 miglia di distanza, nell’Australia occidentale. Rosa stava costruendo una vita lì con lei, ma il richiamo della Just Stop Oil l’ha riportata in Gran Bretagna. Il periodo di custodia cautelare in carcere di Rosa ha già messo a dura prova il loro rapporto. Ora che è stata dichiarata colpevole, il loro futuro insieme è in pericolo. “Tutti in piedi”, dice l’usciere. Tutti si alzano in piedi mentre il giudice esce. Luke si gira verso Phoebe e le dice “Ti amo” prima che la guardia lo porti via. Un’ora dopo, sulla banchina della stazione ferroviaria di Isleworth, Phoebe è composta, apparentemente non turbata dagli eventi della mattina. “Non piango mai”, mi dice con un’alzata di spalle. “Quindi è stato facile”. Ma mentre parliamo, diventa chiaro che la situazione non è semplice per Phoebe. “Credo che nessuno [in Just Stop Oil] vada al processo aspettandosi di essere dichiarato non colpevole. C’è un elemento di pace con questo per la parte di me che è una persona in resistenza”, spiegano. Ma c’è anche una parte del mio cervello che dice: “È la persona che amo. È appena stato dichiarato colpevole”. “Per molti versi, penso che sia più difficile quando il tuo partner va in prigione che essere in prigione tu stesso”. Luke, Phoebe, Rosa e Angel sono persone le cui relazioni rivelano il costo personale di un impegno politico che raramente fa notizia. Negli ultimi cinque mesi, la giornalista Rivkah Brown e io abbiamo conosciuto queste persone per la nostra nuova serie di podcast, Committed. Volevamo scoprire: come ci si sente quando il proprio partner viene arrestato per attivismo? Come si mantiene la relazione quando uno o entrambi siete in prigione? E, per coloro le cui vite non sono così definite dalla lotta politica, come ci si sente quando il proprio partner sceglie una vita di resistenza piuttosto che una vita con te? Angel (left) and Rosa (right). Photo: Rosa Hicks Phoebe e Luke non hanno mai avuto una relazione normale. “Credo che potrei contare sulle dita di una mano il numero di appuntamenti che io e Luke abbiamo avuto in quasi due anni”, mi ha detto Phoebe la settimana successiva via Zoom. “Non siamo mai usciti a cena”. Il Just Stop Oil non è stato solo lo sfondo della loro storia d’amore, ma le sue fondamenta. Il loro primo bacio è stato a una raccolta fondi della Just Stop Oil con un bar gratuito (“Eravamo entrambi un po’ arrabbiati”, ha detto Phoebe). La storia d’amore non era nei piani di nessuno dei due. “A dire il vero, non riuscivo a credere che fosse successo”, ha detto Luke. “Sono stato preso alla sprovvista”. Da allora si sono visti per lo più in occasione di riunioni e incontri sociali, dove hanno trascorso tutto il tempo insieme. Non molto tempo dopo la loro relazione, a seguito di una marcia lenta in Parliament Square, sono stati arrestati insieme, tenendosi per mano. L’esperienza di Luke e Phoebe non è particolarmente unica all’interno di Just Stop Oil. Molti attivisti affermano che l’impegno politico condiviso accelera l’intimità tra le persone del gruppo, in senso romantico e non. “L’intensità di ciò che facciamo, le esperienze condivise: quasi tutti quelli che incontri facendo questo lavoro hanno un legame immediato con te”, ha detto Phoebe. “Credo che questo sia forse il motivo per cui mi sono innamorata di Luke abbastanza rapidamente, oltre al fatto che lui è, come dire, intensamente amabile, è che non si parte da zero. C’è già questo legame”. Il legame, tuttavia, è stato accompagnato da intese non dette. Che la resistenza viene prima di tutto – “una cosa piuttosto brutale da dire alla persona che ami”, ha riconosciuto Phoebe. E che in un contesto di repressione delle proteste da parte del governo, il carcere era probabilmente nel loro futuro. Phoebe era già stata in prigione quando ha incontrato Luke. “Dalla prima volta che ci sono stata, ho vissuto la mia vita pensando: ‘Sì, certo che finirò di nuovo in prigione’ – è il risultato di un’azione efficace a questo punto”, ha detto. “Credo di aver visto anche Luke affrontare il viaggio”. Quando Luke si è iscritto all’azione Heathrow 10, sapeva che probabilmente sarebbe stato rinviato a giudizio. Il giorno prima di andare al rifugio prima dell’azione, Phoebe era in tribunale per il processo sulla zuppa (the soup trial). Luke si presentò al processo e poi i due si salutarono fuori dal tribunale. “Nessuna delle emozioni era stata realmente assorbita fino a quando, mentre eravamo seduti l’uno di fronte all’altra su questo patetico pezzetto d’erba nel centro di Londra, mi sono resa conto che non avrei più visto lui, la persona che amavo, e che non l’avrei mai più visto per non so quanto tempo”. Fino a poco tempo fa, Phoebe e Luke erano entrambi in prigione. Phoebe ha detto che per certi versi è più facile rispetto a quando uno solo di loro è dietro le sbarre, perché non è come se uno dei due continuasse a vivere la propria vita senza l’altro. Ma ci sono molte altre difficoltà. Non possono visitarsi, ovviamente. Né uno dei due può semplicemente alzare il telefono. La comunicazione deve avvenire alla vecchia maniera: per lettera, spesso più volte alla settimana. Luke manda anche a Phoebe dei disegni che attaccano al muro della cella con il dentifricio (“Una cosa che non imparerai mai finché non sarai in prigione è che il dentifricio è un’ottima puntina blu”, ha detto Phoebe). Per Luke, le sfide della sua relazione con Phoebe valgono la pena. “È difficile, ma va bene”, ha detto. “E se non avessi fatto resistenza, non le avrei mai incontrate [Phoebe]”. Phoebe è d’accordo e ribadisce che la loro relazione alimenta il loro impegno politico piuttosto che distrarlo. “Penso che chiunque possa trovare 101 buone ragioni per non andare in prigione, e l’amore sarà sempre una di queste”, ha detto. “Ma per essere in resistenza, per essere abbastanza resistenti da affrontare tutta l’incertezza, l’ansia e le difficoltà che porta nelle nostre vite, è necessario avere amore, stabilità e cura. E la relazione con Luke mi dà tutte queste cose”. Allo stesso tempo, essere fuori dal carcere senza di lui ha fatto capire a Phoebe quanto sia difficile per chi ama gli attivisti di Just Stop Oil. Phoebe sente la sua mancanza e si preoccupa per lui, ma dall’esterno può fare ben poco per assicurarsi che stia bene. “È stato sicuramente un campanello d’allarme per capire quanto sia diverso essere quello che sta fuori”, ha detto. Credo di aver capito in anticipo che è difficile per i nostri cari quando andiamo in prigione, ma è diverso sperimentarlo visceralmente io stesso”. “In realtà penso che non sarebbe giusto far passare a qualcuno che non è coinvolto nella resistenza civile l’idea di dire: ‘Ehi, sto per andare in prigione’. Non so per quanto tempo, ti amo e mi piacerebbe che tu fossi ancora il mio partner, ma dovrai affrontare questa enorme incertezza con me e io non potrò essere presente per costruire una vita con te”. “È una cosa terribile da affrontare per un partner. E io non vorrei mai far passare una cosa del genere a qualcuno che amo”. Rosa si è trasferita in Australia nel 2017 per un programma di studio all’estero. A quel punto, aveva già fatto un po’ di attivismo per il clima in Gran Bretagna. Ma è stato in Australia, vedendo da vicino incendi e siccità, che ha deciso di farne la sua vita. L’anno successivo Rosa è tornata in Gran Bretagna per terminare la sua laurea e si è immersa nella scena di questo paese. Le proteste dell’Extinction Rebellion del 2019 sono state un momento importante per lei. Ma non appena ha finito di studiare, è tornata in Australia. Poi è arrivata la pandemia e ha deciso di restare qui. Fu allora che incontrò Angel. A differenza di Luke e Phoebe, Rosa non ha incontrato Angel in un contesto politico, ma a una festa in casa. Ci volle un po’ di tempo prima che i due andassero d’accordo. Ma alla fine sono diventate amiche, poi più che amiche. Angel ha sempre saputo che l’attivismo per il clima era una parte importante della vita di Rosa. Era una cosa che amava di lei. “È così solida nelle sue convinzioni”, mi ha detto Angel durante Zoom a dicembre. “Questo facilita le persone intorno a lei ad elevarsi ad uno standard più alto”. Il mondo della resistenza non è estraneo ad Angel. È anche un’attivista, che si batte per i diritti dei giovani nei centri di detenzione australiani. Ma non è un’attivista come Rosa, Luke e Phoebe. “Non è tutta la sua vita”, ha detto Rosa. Nel 2022 Rosa e Angel si sono fidanzati. Volevano trascorrere la loro vita insieme. Ma c’era un problema: Rosa sentiva il bisogno di tornare in Gran Bretagna. Voleva intraprendere quel tipo di azione diretta che rischiava l’arresto, “per dare l’esempio e avere un’integrità adeguata, invece di lavorare sempre nelle retrovie”. Ma essere arrestata e accusata in Australia avrebbe potuto significare essere espulsa. Rosa, inoltre, non voleva che la sua relazione la frenasse. Aveva visto come l’amore delle persone per il proprio partner le avesse impedito di intraprendere un’azione diretta, e lei non voleva essere una di loro. “La quantità di volte in cui le persone si iscrivevano a un’azione […] e poi dicevano: ‘Oh no, mio marito non vuole che lo faccia’ e poi facevano un passo indietro”, ha detto. “Credo sia per questo che prima ero molto convinta: ‘No, devo solo concentrarmi su questo’”. All’inizio del 2023, Rosa ha preso la difficile decisione di lasciare l’Australia per la Gran Bretagna. Disse ad Angel che era solo per sei mesi e che poi sarebbe tornata. Angel capì, ma vide delle complicazioni. Da quando Rosa aveva lasciato la Gran Bretagna, il governo britannico aveva creato nuovi reati penali per la protesta, in parte in risposta alle tattiche della Extinction Rebellion. Di fronte a questo giro di vite, il carcere diventava sempre più probabile per gli attivisti. “Sapevo che non era vero”, ha detto Angel. “Sapevo che se fosse tornata a casa sarebbe andata in prigione, visto il clima politico che si respirava in Inghilterra”. È esattamente quello che è successo. Rosa è tornata in Gran Bretagna e si è buttata nella Just Stop Oil. Allo scadere dei sei mesi, era stata arrestata più volte e aveva una serie di procedimenti giudiziari in corso. Anche Just Stop Oil era importante per lei e non era pronta a rinunciare a tutto questo. Nell’estate del 2024, Rosa si trovava in custodia cautelare presso l’HMP Bronzefield a seguito di un’azione a Heathrow, nella quale, ironia della sorte, nega di essere coinvolta. Il carcere non fece altro che rendere più difficile la già lunga relazione tra Rosa e Angel. C’è voluto molto tempo prima che Angel riuscisse a parlare con Rosa al telefono (la gestione dell’elenco delle chiamate in carcere può essere un’impresa…). (per organizzare l’elenco delle chiamate in carcere ci vuole un po’ di tempo). Inoltre, a causa del fuso orario di sette ore, potevano chiamare solo una volta alla settimana. E quando lo fanno, è solo per 30 minuti o un’ora. “È sempre bello sentire la sua voce, ma credo che siamo entrambi così occupati a cercare di aggiornarci a vicenda su ciò che accade nella vita che mi sembra che non riusciamo mai ad avere delle vere discussioni”, ha detto Angel. “Questo ha sicuramente tolto una sorta di profondità e intimità emotiva”. Angel vuole che Rosa faccia ciò che è giusto per lei. Ma è difficile non sapere per quanto tempo lei metterà l’attivismo al di sopra della loro relazione. “A un certo punto le ho detto […] che se esce, deve tornare subito, o lasciare andare quello che abbiamo, perché non ho intenzione di rimanere nel limbo per sempre”, ha detto. “Non voglio che sia un ultimatum. Voglio solo che lasci andare qualsiasi cosa si stia tenendo stretta. […] Se dicesse che la decisione migliore è che io rimanga in Inghilterra e continui a fare questo, ovviamente mi spezzerebbe il cuore, ma lo rispetterei […] Ma sento che sta vivendo in due mondi. Ed è difficile sostenere qualcuno che è, come dire, tirato tra due cose completamente diverse che vuole”. Nel corso di una serie di telefonate con Rosa di Bronzefield, mi ha detto quanto ama Angel e quanto Angel le sia stata di sostegno. La situazione in cui ha messo Angel non le piace. “Se avesse detto: ‘No, non voglio che tu lo faccia, non voglio che tu vada’ […] allora penso che sarebbe stata una vera sfida”, ha detto Rosa. “Perché credo che avrei dovuto prendere una decisione e sarei andata. Quindi sì, mi sento in colpa, perché alla fine ho scelto questo al posto suo, e nessuno vuole sentirselo dire”. “Ovviamente non voglio ferirla. In definitiva, ci siamo impegnati a voler trascorrere la nostra vita insieme, ma allo stesso tempo c’è qualcos’altro che è così importante […]. Mi sento davvero in colpa perché, sì, lei deve quasi solo […] aspettarmi e stare bene”. Ma Rosa potrebbe non avere molta scelta se tornare o meno in Australia. Ora è fuori su cauzione, in attesa della sentenza di metà maggio. Inoltre, l’anno prossimo dovrà affrontare un processo. Rosa mi ha detto che parlare con noi per Committed ha spinto lei e Angel a fare alcune conversazioni che forse avevano paura di fare. Aspetterà fino alla sentenza di metà maggio prima di prendere decisioni importanti sul futuro della sua relazione. Ma per il momento, nonostante tutto, sono in una buona posizione. “Non sono sempre stata sicura di credere nell’amore incondizionato”, ha detto Rosa. “Ma il fatto che Angel sia stata così fantastica durante il mio periodo di detenzione […], mi fa pensare: “Oh cavolo, […] non me lo merito proprio”. Ma questo non significa che Angel non stia affrontando scelte difficili. “Credo di provare molta resistenza […] a lasciarla andare, perché è una parte così importante della mia vita”, mi ha detto Angel. “Penso che anche se [dovessimo] buttare via il lato romantico […], lei è davvero come una migliore amica, e scegliere di lasciare andare una migliore amica quando non c’è stato alcun litigio o altro – è una decisione molto difficile”. (additional reporting by Rivkah Brown) The post Cosa significa amare un prigioniero politico? first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Cosa significa amare un prigioniero politico? sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Guerra, riarmo e genocidio, la mobilitazione permanente
IL PRESIDENTE DI ARCI ROMA SPIEGA L’IMPEGNO DELLA SUA ASSOCIAZIONE: «LA PACE NON AMMETTE AMBIGUITÀ» [VITO SCALISI] A turbarmi non è stato l’incontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky del 28 febbraio, né l’annuncio che ne è seguito del programma di riarmo europeo di Ursula von der Leyen. A sconvolgermi non sono le minacce di Vladimir Putin, ma sono Israele, con il genocidio in atto in Palestina, e il massacro degli ucraini con la complicità del mio paese e dell’Europa. A questo turbamento si associa una profonda delusione per due anni di balbettii dello storico movimento pacifista e antifascista italiano, incapace di mettere in piedi mobilitazioni nazionali di massa degne di rilievo e che persino nelle ricorrenze del 25 aprile è stato incapace di chiedere tavoli diplomatici per la risoluzione della guerra tra Ucraina e Russia, incapace di schierarsi con le resistenze palestinesi rifiutando gli attendismi, i distinguo, le retoriche ambigue di chi, volente o nolente, ha partecipato alla costruzione del silenzio intorno al genocidio risultando complice di un meccanismo che, mentre uccideva decine di migliaia di persone e ne metteva in fuga milioni, stritolava anche il senso comune e la politica. Le strade di Roma hanno dimenticato quella sinistra dei partiti, associativa e sindacale che per anni ha animato con mobilitazioni di massa il movimento pacifista e che oggi, con il suo cerchiobottismo, ha piuttosto spezzato il fronte del dissenso degli italiani al riarmo e al sostegno acritico a Israele e Ucraina. E’ stata incapace di costruire mobilitazioni con parole d’ordine chiare, prive di ambiguità nel chiamare la guerra, il riarmo e il genocidio con il loro nome. E ancora una volta mentre tuttз ci aspettavamo, all’indomani dell’annuncio del piano di riarmo europeo, quella grande chiamata pacifista tanto attesa a Roma, ci ha pensato l’appello di Michele Serra a erigere l’ennesimo muro pieno di se e di ma. Una piazza che ha escluso dal palco lз pacifistз della marcia Perugia-Assisi tentando “per ore e ore in tutti i modi di fargli chiudere la bandiera”. Ecco perché le piazze romane, piccole ma tante, in cui come Arci Roma abbiamo scelto di partecipare in questi anni sono quelle che hanno avuto il coraggio di nominare e denunciare il genocidio e la pulizia etnica perpetrata da Israele. In futuro le piazze che ci vedranno protagonistз saranno solo quelle che esprimeranno con chiarezza la contrarietà al riarmo e all’invio di armi in una logica decoloniale e antisuprematista. Pur rimanendo convinto che fermare Israele e difendere la Palestina sia la priorità assoluta per poter immaginare un mondo di pace, convinto che la piattaforma contro il riarmo da cui ripartire sia quella di Piazza Barberini del 15 marzo, credendo fermamente che ad appelli nazionali chiari debbano seguire percorsi cittadini condivisi e partecipati, penso che coerentemente, dando priorità all’urgenza, ai contenuti e al ripudio di ogni ambiguità, la manifestazione nazionale del 5 aprile indetta dal M5S a Roma “contro il riarmo, contro lo spreco di miliardi in armi” vada sostenuta. Per questo insieme ad una delegazione di Arci Roma sarò anche in quella piazza in attesa di una chiamata nazionale dei movimenti, all’altezza della situazione. Vito Scalisi è il presidente di Arci Roma The post Guerra, riarmo e genocidio, la mobilitazione permanente first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Guerra, riarmo e genocidio, la mobilitazione permanente sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Caro Michele Serra, abbiamo letto il tuo appello. Ma noi diserteremo
UNA MANIFESTAZIONE PER QUESTA EUROPA? NOI NON CI SAREMO. LETTERA COLLETTIVA LANCIATA DA PEACELINK. L’ABBIAMO FIRMATA ANCHE NOI “Dobbiamo riarmarci urgentemente”, ha detto Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea. Non possiamo accettare un’Europa che alza il budget militare cancellando le vere conquiste europee. Ci siamo sempre battuti per l’Europa. Ma per un’Europa di pace, di diritti, di democrazia. 2 marzo 2025 Lettera collettiva Una manifestazione per l’Europa? Per questa Europa? NOI NON CI SAREMO. Ci siamo sempre battuti per l’Europa. Per un’Europa di pace, di diritti, di democrazia. Abbiamo creduto nell’Unione Europea come il più grande progetto di riconciliazione della storia contemporanea, nato dalle macerie della Seconda guerra mondiale per garantire che nessuna guerra fratricida insanguinasse mai più il nostro continente. Ma l’Europa che oggi si vuole portare in piazza non è più quell’Europa. Non possiamo accettare un’Europa che alza il budget militare cancellando le vere conquiste europee: il primato dell’ambiente, la centralità della sanità, il finanziamento della cultura e della scuola, il welfare che difende i più deboli e che assiste i più fragili, gli anziani. Tutto questo sarà compromesso, se non cancellato, dal programma di riarmo che le istituzioni europee stanno promuovendo. Un riarmo che non serve all’Europa: già oggi, l’Unione Europea e il Regno Unito spendono in armi tre volte di più della Russia. Eppure si continua a spingere per aumentare gli stanziamenti militari, come se una corsa agli armamenti potesse portare sicurezza e non, invece, il rischio di una spirale senza fine. Ancora più grave è la direzione politica presa dal Parlamento Europeo, che a maggioranza ha votato per colpire la Russia in profondità, un’escalation pericolosa che allontana ogni prospettiva di negoziato e moltiplica i rischi di un conflitto diretto e incontrollabile. Abbiamo fortemente creduto negli ideali europei di pace portati avanti da Willy Brandt e Olof Palme. Ideali fatti propri da Enrico Berlinguer. Seminati con la fede di Giorgio La Pira e don Tonino Bello. Con il coraggio di Sandro Pertini. Ma oggi l’Europa calza l’elmetto per fare quella guerra in cui gli Stati Uniti non credono più. Scendere in piazza per questa Europa con l’elmetto significherebbe rinnegare non solo i nostri ideali pacifisti ma anche quelli di uomini di pace come Picasso, Montessori, Chaplin, Russel, Einstein, Follereau, Brecht. Loro rimarrebbero oggi inorriditi nel vedere questo ritorno europeo all’antico motto “si vis pacem para bellum”. Un ritornello ripetuto più volte e in varie forme da esponenti europei da cui ci saremmo aspettati ben altro. Non possiamo scendere in piazza per sostenere un’Unione Europea che si allontana dai suoi valori fondanti e si piega alla logica del riarmo. Continueremo a lottare per un’Europa della pace, della giustizia sociale, della cooperazione. Ma questa Europa del riarmo, no, non ci vedrà al suo fianco. “Dobbiamo riarmarci urgentemente”, ha detto Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea. CARO MICHELE SERRA, ABBIAMO LETTO IL TUO APPELLO. MA NOI DISERTEREMO. -------------------------------------------------------------------------------- Maurizio Acerbo, Maria Antonella Alfonsi, Carlo Amabile, Serenella Angeloni, Checchino Antonini, Giuseppe Aragno, Emanuela Baliva, Federico Barbani, Mauro Bardaglio, Daniela Bartolini, Marco Bello, Marco Bersani, Norma Bertullacelli, Roberto Biscardini, Massimo Bondioli, Liana Bonelli, Annamaria Bonifazi, Alighiero Brega, Antonio Bruno, Danilo Bruno, Michele Bruno, Manuela Buccianti, Paola Buccianti, Paolo Cacciari, Alda Calanchini Monti, Paolo Campanelli, Anna Camposampiero, Cinzia Cantù, Lavinia Capogna, Angelo Caputo, Alessandro Capuzzo, Elisabetta Caroti, Pamela Castro, Patrizia Cecconi, Mauro Cerbai, Rossana Chieffi, Rachele Chill, Anna Lucia Ciarmoli, Danilo Cocco, Mauro Collina, Mauro Coltorti, Comitato per la Pace di Potenza, Maria Luisa Conti, Rita Corsi, Fabrizio Cracolici, Paolo Crosignani, Natale Cuccurese, Adriana De Mitri, Giacomo Di Foggia, Laura Di Lucia Coletti, Giuseppe Di Pede, Franco Dinelli, Matteo Dominioni, Patrizia Donadello, Amilcare Dondè, Isa Evangelisti, Gian Marco Falgiani, Luisella Fantuzzo, Carla Fedele, Andrea Fedeli, Maria Rita Ferrara, Paolo Ferrero, Catiuscia Ficcanterri, Andrea Fonda, Manuela Foschi, Cecilia Galiena, Domenico Gallo, Fiorella Gazzetta, Paola Guazzo, Carla Gentili, Patrizia Gentilini, Nella Ginatempo, Mario Gottini, Letizia Grandolfo, Michele Grandolfo, Maurizio Graziosi, Carla Grossi, Paola Grisendi, Roberto Guaglianone, Massimiliano Guerrieri, Rita Lavaggi, Orazio Licandro, Marina Loro Piana, Michele Lucivero, Luciano Malavasi, Alessandro Marescotti, Lidia Marino, Chiara Martinelli, Gianna Massari, Domenico Matarozzo, Maria Marcella Melis, Liana Michelini, Marlene Micheloni, Giuliana Mieli, Davide Migliorino, Isidoro Migliorati, Carlo Mileti, Giovanna Moretto, Luisa Morgantini, Paolo Moro, Claudio Morselli, Roberto Musacchio, Luciana Negro, Daniele Novara, Elio Pagani, Paolo Palazzi, Giuliana Palermo, Eligio Pallavera, Lidia Parma, Angelo Pascale, Guido Pellegrini, Paolo Peri, Gigi Perrone, Franca Pierantoni, Marina Pompei, Sergio Pratali Maffei, Leonardo Ragozzino, Gianpiero Raineri, Franca Ranghino, Anna Renieri, mons. Giovanni Ricchiuti, Cristina Rinaldi, Monica Rombi, Alessandra Ruffini, Roberta Ruggeri, Silvia Rusich, Maria Salvatori, Paolo Salvi, Marco Sironi, Giovanni Russo Spena, Rita Taroni Maria Cecilia Trinci, Virginio Tromellini, Giacomo Sanavio, Antonio Saponaro, Rosella Simone, Pietro Soldini, Alberto Tamanini, Boris Termolizzo, Elisabetta Tofful, Caterina Tosi, Lucia Tundo, Laura Tussi, Giovanna Ugo, Daniele Verpilio, Antonio Vezzani, Corinna Vicenzi, Alex Zanotelli, Rina Zardetto, Michele Zizzari, Franco Zunino The post Caro Michele Serra, abbiamo letto il tuo appello. Ma noi diserteremo first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Caro Michele Serra, abbiamo letto il tuo appello. Ma noi diserteremo sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
«La nuova Siria deve far smettere gli attachi turchi al Rojava»
MEDIAPART HA INCONTRATO NESRÎN ABDULLAH, LA COMANDANTE IN CAPO DELL’YPJ, L’ESERCITO FEMMINILE DEL ROJAVA [RACHIDA EL AZZOUZI] Hassaké (Rojava, Kurdistan, Siria) – Nesrîn Abdullah è comandante in capo e portavoce delle Unità di protezione delle donne (YPJ), le brigate femminili delle Forze democratiche siriane (FDS), il braccio armato dell’amministrazione autonoma curda della Siria, che controlla gran parte del nord-est del Paese. In un’intervista a Mediapart, reagisce allo storico appello di Abdullah Öcalan, fondatore del PKK, per la fine della lotta armata. Sottolinea che i curdi siriani si considerano ancora in guerra e non intendono deporre le armi. La leader militare, ex giornalista coinvolta nella rivoluzione femminile del Rojava fin dal suo inizio, è appena tornata dal fronte. Si rammarica che il nuovo governo siriano non riconosca a sufficienza l’autonomia de facto che esiste nel Rojava, chiede al nuovo presidente Ahmed al-Charaa di porre fine agli attacchi provenienti dalla Turchia e invoca un cambiamento di mentalità per riconoscere il ruolo centrale delle donne, anche nei ranghi dell’esercito. Mediapart: Come ha accolto l’appello di Abdullah Öcalan? Nesrîn Abdullah : L’appello di Abdullah Öcalan è storico per tutto il Medio Oriente, non solo per la Turchia. L’ho ascoltato più volte. È un appello molto chiaro alla democrazia e alla pace. Non è una resa. Non è la prima volta che Öcalan agisce per la pace. Finora non ha funzionato. Sta iniziando un nuovo processo. Le cose accadranno passo dopo passo, non da un giorno all’altro. Le Forze Democratiche Siriane potrebbero deporre le armi nel breve o medio termine? Öcalan chiede al PKK, non ai curdi siriani, di deporre le armi. Non crediamo che le armi siano la soluzione: dovrebbero essere l’ultima risorsa quando non c’è una politica democratica. Dovrebbero essere usate per proteggersi. Qui, nel nord-est della Siria, è guerra. Non c’è dibattito. Non possiamo deporre le armi. Damasco rifiuta qualsiasi scenario confederale in Siria. L’autonomia de facto che avete conquistato in Rojava dal 2013 è minacciata dal nuovo governo? I curdi siriani non vengono presi in considerazione nelle decisioni politiche e militari del nuovo governo di Damasco. Per questo non attribuiamo loro alcuna importanza. Ma come potete avere una qualche influenza in questa nuova Siria se non siete presi in considerazione? Questo creerà contraddizioni e ostacolerà la creazione della necessaria unità del popolo siriano. Il nuovo governo di Damasco non rappresenta la diversità del nostro popolo e delle sue diverse comunità. Ahmed al-Charaa promette un nuovo governo che incarnerà “la diversità della Siria” (l’annuncio del nuovo governo, previsto per il 1° marzo, non è stato fatto al momento della pubblicazione di questo articolo). Potete crederci quando i curdi sono stati uno dei grandi assenti alla conferenza nazionale sul dialogo siriano, che si è svolta il 25 febbraio? Permettetemi di rispondervi con una domanda. Il [jihadista] Abu Mohammed al-Joulani diventerà davvero Ahmed al-Charaa? Non è sulle parole ma sui fatti che possiamo giudicare le sue politiche. E al momento, le sue azioni non corrispondono alle sue promesse. Per diventare al-Charaa, Joulani deve cambiare seriamente mentalità. Ha incontrato i rappresentanti dell’FDS. In linea di massima, non ci sono problemi, e il terreno comune e il compromesso sono possibili. Ma non appena si entra nei dettagli, le discussioni si chiudono. Come segno di buona volontà, l’amministrazione autonoma della Siria nord-orientale ha ripreso le consegne di petrolio alle zone governative. Se i colloqui dovessero rimanere in stallo, questo accordo verrebbe compromesso? Per noi non si tratta affatto di petrolio, ma di umanità. La gente dall’altra parte è il popolo siriano, è il nostro popolo. Hanno bisogno di petrolio e di benzina. Per questo abbiamo ripreso le consegne. Il popolo del Rojava ha bisogno di acqua ed elettricità, e Ahmed al-Charaa non sta chiedendo alla Turchia di smettere di bombardare la diga di Tichrine, che fornisce questi due preziosi elementi… Se Ahmed al-Charaa è davvero il presidente della Siria, deve chiedere ai turchi di smettere di attaccare la Siria. Cosa che finora non hanno fatto. Le milizie islamiste al soldo della Turchia che ci attaccano sotto la bandiera dell’Esercito nazionale siriano (SNA) sono state aggregate al nuovo esercito siriano che al-Charaa sta costruendo. In altre parole, siamo attaccati anche dal nuovo governo di Damasco. Le Forze Democratiche Siriane, che riuniscono combattenti curdi e arabi, si uniranno a questo nuovo esercito siriano? La proposta di Al-Charaa è che ogni combattente si unisca al nuovo esercito individualmente. Questo non è il punto di vista delle FDS, che propongono l’integrazione delle nostre forze nel loro insieme. Le FDS hanno una grande esperienza. Potrebbero essere una risorsa per il futuro del Paese. Anche se la discussione non si è svolta nelle giuste condizioni, rimaniamo aperti perché l’obiettivo principale delle FDS è garantire la sicurezza del popolo siriano. Se le brigate femminili dell’YPJ non venissero integrate per il fatto di essere un esercito di donne, questo sarebbe un punto di rottura per voi? Sì, è ovvio. Se le FDS finiranno per essere integrate nel nuovo esercito siriano, dovrà essere con l’YPJ. L’YPJ è stato costruito con l’idea di proteggere le donne, non solo le donne curde o quelle del nord-est della Siria, ma tutte le donne della Siria. È stato progettato per non dipendere da un esercito di uomini per difendere le donne siriane. L’obiettivo è chiaramente quello di costruire un esercito di donne siriane che protegga tutte le donne siriane. Quando la Turchia, Daesh e i vari mercenari ci hanno attaccato, si è alzato un esercito di uomini per proteggerci? No. Non ci è mai stato garantito che gli uomini ci avrebbero difeso? Non ci è mai stato garantito che gli uomini ci avrebbero difeso. Siamo un esercito che protegge il popolo. La nascita di questo esercito di donne ha contribuito a cambiare l’atteggiamento patriarcale e a far progredire i diritti e le libertà delle donne in Rojava? Sì, è così. Anzi, è stato notevole. Lo vedo nel rapporto con mio padre! La creazione dell’YPJ ha ribaltato la mentalità. Qui gli uomini ripongono il loro onore nelle donne, nelle loro sorelle, nelle loro mogli, nelle loro madri, nelle loro cugine, il che spiega la persistenza dei delitti d’onore. Non le vedono come persone, ma come il loro stesso onore. La nascita dell’YPJ e, più in generale, la rivoluzione femminista che stiamo conducendo in Rojava mirano a smantellare tutto questo, a far capire loro che siamo il nostro onore e quello di nessun altro. Non siamo proprietà delle nostre famiglie. Non siamo proprietà delle nostre famiglie. Le donne sono ora viste come una forza di decisione, di azione e di parola. Il suo corpo e la sua persona non sono più una questione di vergogna o di onore. Sono ora fonte di orgoglio e di rispetto. Diverse ONG hanno espresso allarme per le violazioni dei diritti umani che coinvolgono i prigionieri jihadisti detenuti dalle SDF. Non abbiamo sentito queste ONG quando le nostre guardie carcerarie sono state bruciate vive o decapitate durante l’ammutinamento nella prigione di Hassaké nel 2022 [la prigione, che ospitava un gran numero di jihadisti, era stata brevemente presa in consegna da Daesh – n.d.t.]. Come valuta il rischio di una recrudescenza di Daesh? Gli attacchi della Turchia e i bombardamenti di Israele sulle infrastrutture e sull’arsenale militare siriano ci stanno indebolendo e stanno aprendo la strada a una rinascita di Daesh. Più di 12.000 combattenti di Daesh sono detenuti nelle prigioni gestite dalle FDS. La maggior parte di loro sono stranieri. Se vengono rilasciati in libertà, cosa succederà? Se la coalizione si ritira e la Turchia continua ad attaccarci, cosa succederà? La responsabilità deve essere condivisa. Questo fardello non può ricadere solo sulle nostre spalle. Quali sono le vostre raccomandazioni? O ogni Paese riprende i propri cittadini e li processa secondo la propria legge, oppure creiamo qui un tribunale internazionale per processare questi prigionieri. Lo chiediamo da anni. Non si è mai concretizzato.   The post «La nuova Siria deve far smettere gli attachi turchi al Rojava» first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo «La nuova Siria deve far smettere gli attachi turchi al Rojava» sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Uguaglianza e giustizia: un movimento senza precedenti scuote i Balcani
LA SERBIA NON È SOLA, LE PROTESTE STUDENTESCHE DILAGANO IN CROAZIA E SLOVENIA, BOSNIA-ERZEGOVINA E MONTENEGRO [JEAN-ARNAULT DÉRENS] Belgrado (Serbia) – “Un mondo, una lotta”: scritto in caratteri cirillici serbi, lo slogan è stato esposto su un enorme striscione seguito da migliaia di persone nelle strade di Lubiana. L’8 febbraio, gli abitanti della capitale slovena esprimevano la loro solidarietà agli studenti serbi, ma pretendevano anche le “scuse” del loro sindaco, Zoran Janković, anch’egli di origine serba, che aveva ritenuto opportuno sostenere il presidente Vučić. Manifestazioni simili si sono svolte a Maribor, la seconda città di questo piccolo Paese, la cui secessione nel 1991 ha portato alla disgregazione della Jugoslavia e che ha aderito all’Unione Europea nel 2004. In Croazia, una sorprendente ondata di sostegno si è diffusa in tutte le città universitarie del Paese: Zagabria, ma anche Spalato, Fiume, Osijek e Pola. Come in Serbia, gli studenti croati hanno brandito cartelli con un palmo insanguinato, ricordando che “la corruzione uccide” e assicurando che “i vicini sono con voi”, prima di osservare quindici minuti di silenzio in onore delle quindici vittime del crollo della stazione di Novi Sad, lo scorso 1° novembre. Anche a Banja Luka, la capitale della Republika Srpska, l’“entità serba” di una Bosnia-Erzegovina ancora divisa, gli studenti hanno manifestato a sostegno dei loro colleghi serbi, ma è a Sarajevo che il movimento sta attualmente prendendo più slancio. Il 10 febbraio, diverse migliaia di studenti e cittadini si sono riuniti davanti al Parlamento della Bosnia-Erzegovina su appello del gruppo informale “Hoće l’ ta promjena” (“Quando arriverà il cambiamento?”), chiedendo giustizia per le ventinove vittime delle inondazioni e delle frane avvenute il 4 ottobre nella regione di Jablanica. I cartelli ricordavano che “le vite non sono statistiche” e che “i disastri naturali sono politici”. Anche in questo caso, i manifestanti hanno denunciato la corruzione che ha portato le autorità a trascurare la manutenzione di dighe, fiumi e sistemi di emergenza e prevenzione. “Possiamo vedere che gli studenti in Serbia sono in grado di cambiare le cose perché sono numerosi e determinati. Sono sicuro che vinceremo anche in Bosnia-Erzegovina”, ha spiegato uno studente citato dalla televisione locale. MOTIVI SIMILI In un momento in cui un nuovo femminicidio ha gettato la Bosnia-Erzegovina nel lutto, la manifestazione organizzata domenica 16 a Sarajevo ha visto la partecipazione di poche centinaia di persone, nonostante il Paese sia ancora in attesa del voto su una nuova legge in materia. Un corteo più numeroso si è snodato per le strade di Zenica, una città industriale della Bosnia centrale con una popolazione di circa centomila abitanti. Qui la “convergenza delle lotte” assomigliava a un catalogo di richieste: la violenza domestica e l’empietà dei politici, la corruzione, l’alto costo della vita e l’inflazione sono stati denunciati in ordine sparso… Una ragazza regge un cartello che riassume tutte le questioni in gioco, chiedendo “un futuro migliore e più sicuro”. L’ondata di rabbia iniziata in Serbia si è ora diffusa in tutti i Balcani, e ovunque le proteste hanno una somiglianza familiare. In Montenegro, gli studenti prendono apertamente a modello i loro colleghi serbi, bloccando strade e ponti e osservando lunghi minuti di silenzio in omaggio alle vittime – qui, del massacro indiscriminato del 1° gennaio a Cetinje. L’assassino ha ucciso dodici persone prima di puntare la pistola contro se stesso, ed è stata la seconda volta nel giro di pochi anni che questa cittadina di 12.000 abitanti, ex capitale reale del Paese, ha subito una tragedia simile. Al momento della tragedia, il 1° gennaio, solo sei agenti di polizia erano in servizio nell’intera municipalità, che copre un’area molto vasta. Il giorno dopo la tragedia, gli studenti montenegrini hanno chiesto le dimissioni del Ministro degli Interni e del Vice Primo Ministro responsabile della sicurezza, sostenendo che le autorità hanno “fallito”. “Il nostro gruppo è stato creato a dicembre, in solidarietà con gli studenti serbi, ma ora abbiamo le nostre richieste“, spiega Marko Vukčević, uno dei leader del gruppo informale ‘Kamo sutra’ (”Dove andremo domani?”). Dopo il blocco del ponte principale nella capitale Podgorica il 1° febbraio, altri blocchi di strade e incroci hanno avuto luogo in tutto il Paese, in particolare a Budva e Cetinje. Il 13 febbraio, studenti e cittadini hanno bloccato la sede del governo per sei ore. In un Paese politicamente polarizzato come il Montenegro, le autorità hanno reagito accusando gli studenti di essere legati a “reti di criminalità organizzata”, ma soprattutto al Partito Democratico dei Socialisti (DPS), il partito di Milo Đukanović, estromesso dal potere nel 2020 dopo trent’anni di dominio incontrastato sul Montenegro. Gli studenti respingono queste accuse, spiegando che tra loro si trovano tutte le opinioni politiche, che alcuni hanno familiari coinvolti nel DPS, altri nei partiti dell’attuale maggioranza… Lo stesso discredito sembra colpire tutti i partiti agli occhi della maggior parte degli studenti. “Questa convergenza di proteste non ha precedenti nei Balcani. Ovunque si ritrova la stessa denuncia della corruzione e la stessa richiesta di democrazia diretta nei plenum che abbiamo sperimentato nel 2011 in Croazia”, spiega il filosofo Igor Štiks, lui stesso native di Sarajevo, storico animatore del movimento studentesco croato, che insegna a Belgrado. ANCHE IN GRECIA Anche in Grecia, dove ci si appresta a commemorare il 28 febbraio 2023 il biennale del disastro ferroviario di Tempé che causò cinquantasette vittime, l’opposizione e la società civile sono scese in piazza per chiedere che venga rivelata “tutta la verità” sulla tragedia. Il 7 febbraio, gli insegnanti delle scuole secondarie si sono uniti agli studenti nelle manifestazioni in molte città. Ad Atene hanno partecipato 40.000 persone, una cifra che ricorda le grandi proteste contro i piani di austerità degli anni 2010. “Viviamo in una società insicura, una società in cui le competenze professionali passano sempre in secondo piano e la cosa più importante è avere la tessera del partito al potere”, ha spiegato uno studente di Podgorica, la capitale del Montenegro, intervistato da Radio Free Europe. Questa osservazione non vale solo per il suo Paese, ma per tutti quelli della regione, siano essi già membri dell’Unione Europea (UE) o solo candidati. Le mobilitazioni regionali che coinvolgono diversi Paesi sono ormai all’ordine del giorno. Un movimento di boicottaggio dei supermercati è iniziato in Croazia il 24 gennaio e si è rapidamente diffuso negli altri Paesi della regione: Slovenia, Montenegro, Kosovo, Macedonia settentrionale e Serbia. Tutti i Paesi della regione (all’interno e all’esterno dell’UE) hanno registrato un’inflazione particolarmente elevata dall’inizio della guerra in Ucraina. Sebbene sia rallentata, nel 2024 si attesterà ancora al 4,5% in Croazia, ben al di sopra della media UE. Allo stesso tempo, gli stipendi rimangono significativamente più bassi, nonostante gli aumenti significativi degli ultimi anni, che hanno spesso ampliato il divario tra le capitali più avvantaggiate e le province. L’ALTO COSTO DELLA VITA I consumatori balcanici sono particolarmente critici nei confronti delle disuguaglianze che subiscono. Perché lo stesso detersivo di marca tedesca costa 0,95 euro in Germania e fino a 2,75 euro in Croazia, in un supermercato DM? In questo esempio, fornito dal movimento dei consumatori croato ECIP, la mobilitazione ha dato i suoi frutti, poiché il prezzo di questo detersivo per piatti è sceso a 1,25 euro, ma queste discrepanze sono comuni: in tutti i Paesi della regione, il circuito dei supermercati è ampiamente controllato dalle catene occidentali. Anche l’industria alimentare, molto sviluppata in Serbia, è passata in gran parte sotto il controllo straniero e un gran numero di prodotti viene importato. Lo stesso panetto di burro viene venduto a tre euro in Germania e a cinque in Bosnia-Erzegovina. Secondo studi sindacali, in Bosnia-Erzegovina come in Serbia, due stipendi medi sono insufficienti a coprire il paniere domestico di una famiglia di quattro persone – a cui vanno aggiunte tutte le altre spese: per l’alloggio, l’abbigliamento, i viaggi, ecc. Che si tratti di denunciare i prezzi elevati, la corruzione o l’inettitudine dei politici, che rendono possibili disastri “naturali” o uccisioni di massa, si sentono le stesse richieste di giustizia e uguaglianza. Le richieste degli studenti sono chiare: chiedono semplicemente il rispetto della legge e della Costituzione”, spiega la regista serba Mila Turaljić. Eppure è proprio questo che il regime di Aleksandar Vučić non può fare”. È anche la vacuità della retorica europea sullo stato di diritto e sui “progressi” che sarebbero stati compiuti dai Paesi candidati all’adesione che viene ora messa a nudo, rivelata dal “silenzio assordante” dell’Unione sull’ondata di rivolta che sta scuotendo la Serbia e che potrebbe estendersi all’intera regione. The post Uguaglianza e giustizia: un movimento senza precedenti scuote i Balcani first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Uguaglianza e giustizia: un movimento senza precedenti scuote i Balcani sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.