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BASTIONI DI ORIONE 06/11/2025 – IN QUESTA PUNTATA SPICCANO: LA FIGURA DI MAMDANI, ILLUSIONE DI UNIONE DAL BASSO O DURATURA REAZIONE AL TRUMPISMO; LE FOSSE COMUNI A DAR ES SALAAM, COME RISULTATO DELLE “URNE”; LE GUERRE DI TALEBANI INCRINANO LA DURAND LINE
Le molte meteore dell’empireo costellato da fulgide stelle di leader progressisti che si erigono a paladini dei più deboli ci rendono prudenti anche nei confronti di una figura così fresca e spontanea come Zohran Mamdani, figlio della regista indiana Mira Nair e di un docente ugandese, eletto sindaco della più emblematica e contraddittoria metropoli al mondo; abbiamo sentito la necessità di esprimere le nostre perplesse cautele con Giovanna Branca, giornalista che ha seguito per “il manifesto” le elezioni per il municipio di New York. Abbiamo poi proseguito con risultati di elezioni più sanguinose, andando in Tanzania con Elio Brando, africanista per l’Ispi, ne è scaturita una interessante analisi sul paese che si riteneva immune dalla necessità di esibire scontento e istanze di liberazione dal regime autocratico instaurato da Samia Suluhu, subentrata nella democratura alla morte di Magufuli, perpetuando il potere del Partito della Rivoluzione. Il numero di morti risultato dalla repressione ancora a distanza di una settimana oscilla tra 700 e 3000 nel paese che detiene una delle progressioni più ampie di sviluppo grazie alle sue infrastrutture. Questo ha dato il destro al nostro interlocutore per inquadrare quella economia nella regione. Un terzo contributo alla trasmissione è stato assicurato da Giuliano Battiston, che ci ha illustrato la situazione afgana a 4 anni dal ritorno dei talebani mentre è in corso una guerra vera e propria a cavallo del confine tracciato da Durand un secolo e mezzo fa, dividendo clan tra territorio pakistano e territorio controllato da Kabul. Tra terremoti, gender apartheid, remigrazione (9 milioni di profughi in Iran e PAkistan rischiano il rimpatrio), bombardamenti e indifferenza occidentale si assiste a nuove relazioni internazionali tra il potere dei talebani afgani e grandi potenze come Russia e India (motivo dei dissapori con Islamabad) ANOMALIA ZOHRAN? Come nella cultura pop dei film di Mira Nair si alleano i più diversi bisognosi anche nella squadra di suo figlio Zohran si è assistito a un successo derivante dal concentramento di bisogni che sono stati finalmente nominati, ed è bastato questo per travolgere l’establishment. Da ultimo persino Obama ci ha messo il cappello democratico su un’operazione del tutto nata dal basso che ha potuto contare sul moltiplicatore della rete social per ridicolizzare la tracotanza menzognera dello strapotere trumpiano dal lato della narrazione che s’impone, dando voce alla coalizione interclassista dei multimiliardari e dei deprivati redneck razzisti per tradizione e cultura della America Profonda che odia proprio i woke newyorkesi, i quali a loro volta rappresentano l’altro lato della narrazione dell’establishment. La vittoria di Zohran Mamdani non è ascrivibile al Partito democratico, che se l’è intestata. Chi ha portato alle urne l’America avversa a Trump sono stati gli argomenti condivisi da chi abita New York senza avere le risorse per sopravviverci, non la struttura del partito, né le sue strategie. Ma basta questo per collocare Zohran Mamdani in un circuito virtuoso di lotta sociale, senza la superficialità populista delle promesse, anche se queste sono lo specchio delle reali necessità per consentire la sopravvivenza dei newyorchesi alla New York delle lobbies che hanno appoggiato Cuomo? E riuscirà la squadra di avvocati subito schierata a salvarlo dallo strapotere di Potus? Un po’ questo è il centro della nostra chiacchierata con Giovanna Branca che ha seguito per “il manifesto” l’elezione per il sindaco della Grande Mela. CATASTE DI CADAVERI SOSTENGONO LE INFRASTRUTTURE DI DAR ES SALAAM Abbiamo sentito Elio Brando, perché ci eravamo lasciati il 18 ottobre con Freddie del Curatolo reduce dall’aver appena insufflato il dubbio ad alti funzionari governativi in una Dar es Salaam blindata che i giovani potessero assumere come modello la Generazione Z dei paesi limitrofi, ottenendo una risposta che non ammetteva repliche: «Qui non ne hanno bisogno». Avevamo immaginato alludessero al fatto che la Tanzania è un paese in pieno sviluppo, grazie alla collocazione strategica delle sue infrastrutture e dei suoi porti; probabilmente era invece una risposta minacciosa, che alludeva all’apparato repressivo connaturato al regime che Samia Suluhu Hassan ha ereditato dal sanguinario Magufuli, di cui era vicepresidente. E infatti già il 21 ottobre stesso si sono sollevate proteste con urne ancora aperte e dichiarazione di elezione della presidente, fino a una insurrezione stroncata con centinaia di morti, la cifra esatta delle cataste di cadaveri non è ancora chiara e forse non si saprà mai, ma si parla di più di 700 morti. Abbiamo preso spunto dalle violenze postelettorali in Tanzania per aprire una finestra sulla regione e per cogliere se l’establishment avesse compreso quanto una società in evoluzione rapida potesse ancora accettare dei giochetti della vecchia politica e quanto conta la generazione Z negli equilibri dei paesi africani più in sviluppo. Qui si innesca un’analisi dei movimenti di contestazione diversi che si sono affacciati nella regione, a cominciare dal Kenya per arrivare al Madagascar e ora in Tanzania, comparando le differenze tra le istanze e le forme di lotta e la composizione sociale dei “ribelli” e invece la composizione del dissenso e dell’opposizione nei paesi che compongono la regione africana che si affaccia sull’Oceano indiano. E poi le modalità della collaborazione tra i governi nella repressione in opposizione ai rapporti tra contestatori. Allargando un po’ lo sguardo Elio Brando ci ha aiutato da un lato a descrivere le compromissioni di potenze locali (Turchia, Sauditi, Emirates… Israele), che occupano direttamente o sovvenzionano proxy war o gruppi jihadisti e poi il coinvolgimento delle grandi potenze (Cina, Usa, Russia… India) per lo più relativo a infrastrutture e sfruttamento di risorse attraverso corridoi comunicativi e porti; dall’altro l’importanza per l’economia mondiale di siti come i porti tanzaniani – Dar es Salaam in primis –, di infrastrutture come il corridoio di Lobito e la risposta cinese corrispondente, ferrovie e infrastrutture in generale. Dove il colonialismo parla più cinese. ANCORA UNA GUERRA SULLA DURAND LINE In guerra con il Pakistan ma diplomaticamente riequilibrati con India, Sauditi, Emirates… Usa  Dall’ultimo vergognoso volo partito da Kabul nell’agosto del 2021 in Occidente è stata messa la sordina sull’Afghanistan, ma forse questo è il frutto di come si è sbagliato l’approccio, procedendo per preconcetti di cui si andava a cercare una conferma, senza realmente guardare il panorama del paese: di questo Giuliano Battiston ha discusso in un’intervista con un grande fotografo, Lorenzo Tugnoli per “Alias” e poi ripreso su “Lettera22”. Dopo la guerra, quella conclusa da Biden con la fuga precipitosa, bisogna cambiare ulteriormente le lenti dell’ottica con cui illustrare il paese dopo 4 anni di nuovo con i talebani al potere tra terremoti, apartheid di genere, povertà. E nei rapporti con l’esterno come si possono inquadrare le relazioni con le potenze che hanno riconosciuto il paese: la Russia, ma anche l’India, innescando così i conflitti con il Pakistan, con cui esplodono vere e proprie guerre al confine della Durand Line su questioni relative al rifugio concesso ai talebani delle famiglie pakistane del Waziristan (il Ttp), ma anche il rimpatrio forzato dei 9 milioni di rifugiati afgani a Quetta, Islamabad, Karachi… o in Iran. Una guerra che ha visto protagonisti Qatar e Turchia a intessere colloqui di pace.
La battaglia dei Masai per la terra
I Masai di Loliondo, brutalmente sfrattati dalle loro terre per fare spazio a una riserva di caccia, vedono la loro battaglia legale naufragare dopo il verdetto della Corte Suprema tanzaniana. La sentenza apre la strada a nuovi sgomberi, mentre in Kenya altre comunità indigene affrontano lotte simili contro riserve di conservazione imposte senza consenso. «Ci stanno portando via tutto: la nostra terra, la nostra storia, il nostro futuro», denuncia Ole Nadoy, leader della comunità masai di Loliondo. Parole che riecheggiano come un grido di disperazione e resistenza. Nel giugno 2022, oltre 96.000 Masai sono stati sgomberati con la forza dalle loro terre ancestrali per fare spazio alla riserva di caccia Pololeti. Lo scorso ottobre, la Corte suprema di Dodoma ha respinto la richiesta di rientro nelle loro terre, un verdetto che, secondo l’Oakland Institute, rappresenta un pericoloso precedente per i diritti dei popoli indigeni in Tanzania e oltre. Survival International denuncia che i Masai non sono stati consultati né risarciti, benché le loro terre fossero legalmente riconosciute. «Le comunità colpite vivevano in villaggi regolarmente registrati secondo il regime fondiario tanzaniano, eppure la Corte ha ritenuto che il loro diritto alla terra fosse secondario rispetto alle esigenze economiche del Paese», riferisce l’organizzazione che difende i popoli indigeni. E ancora: «La decisione rischia di creare un pericoloso precedente, legittimando sfratti forzati di comunità native a favore di progetti governativi legati al turismo e alla conservazione ambientale». «I motivi su cui si fonda la sentenza», sostengono gli attivisti, «fanno fortemente dubitare dell’indipendenza del potere giudiziario in questo momento storico della Tanzania, Paese ormai ben avviato a diventare un regime autocratico dove la legge non è più uguale per tutti e gli oppositori vengono perseguitati». Vittime della repressione sarebbero anche «i leader masai e quelli delle organizzazioni della società civile che hanno difeso i loro diritti, imprigionati per mesi con accuse pretestuose». La sentenza e le sue conseguenze Il tribunale ha motivato la decisione sostenendo che la riserva è necessaria per la conservazione della fauna selvatica (“le riserve di caccia tutelano l’ambiente e l’equilibrio dell’ecosistema – hanno spiegato i giudici – permettendo l’abbattimento degli animali vecchi o in eccesso”), principale fonte di valuta estera del Paese. Tuttavia, la sentenza contraddice un precedente verdetto della stessa Corte suprema del 2023, che aveva dichiarato illegale la creazione della riserva Pololeti proprio perché i Masai non erano stati coinvolti. Gli attivisti parlano di un grave segnale di deriva autoritaria: «Non solo la giustizia sembra piegata agli interessi economici del governo, ma chi difende i diritti delle comunità indigene viene perseguitato. Leader masai e attivisti della società civile sono stati imprigionati con accuse pretestuose, mentre le forze di sicurezza hanno represso con la violenza le proteste locali». «Il dietrofront evidenzia il peso politico della vicenda e la volontà del governo di piegare le decisioni giudiziarie ai propri interessi economici», chiosano i rappresentanti delle comunità pastorali di Loliondo. La battaglia legale – di cui si annunciano nuovi capitoli – è solo l’ultimo risvolto di un’annosa contesa che da molti anni contrappone le autorità di Dodoma ai Masai. Questi ultimi, uno dei gruppi indigeni più noti dell’Africa orientale, vivono nel nord della Tanzania, e nei territori confinanti del Kenya, e sono tradizionalmente pastori nomadi. Il loro stile di vita dipende fortemente dalla possibilità di accedere a vaste aree di pascolo per il bestiame, una risorsa sempre più minacciata dalla pressione dello sviluppo economico e turistico. Nel corso del tempo, il governo tanzaniano ha progressivamente limitato l’accesso dei Masai alle loro terre, sostenendo che le aree in questione sono necessarie per la conservazione della fauna selvatica o lo sviluppo turistico. Uno degli epicentri del conflitto è proprio la regione di Loliondo, al confine con il Parco Nazionale del Serengeti. Il governo tanzaniano ha a lungo cercato di trasformare questa zona in una riserva naturale. E ciò ha comportato lo sfratto forzato di numerose famiglie masai. Turismo e neocolonialismo La situazione ha raggiunto un punto critico quando il governo, nel 2022, ha inviato le forze di sicurezza per delimitare 1.500 chilometri quadrati come area protetta, scatenando proteste e scontri con le comunità locali. Decine di attivisti sono stati arrestati, alcuni sono stati costretti all’esilio e molte comunità hanno subito violenze durante gli sgomberi forzati. Le immagini degli scontri hanno suscitato reazioni internazionali, con organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch a denunciare presunte violazioni dei diritti umani, chiedendo alla Tanzania di rispettare gli accordi internazionali sulla tutela dei popoli indigeni. Il governo giustifica gli sfratti con la necessità di tutelare l’ecosistema, ma i Masai e le organizzazioni per i diritti umani accusano le autorità di usare la conservazione come pretesto per favorire il turismo di lusso e la caccia sportiva. Secondo fonti di stampa, alcune delle terre sottratte sarebbero già state concesse a compagnie straniere legate agli Emirati Arabi, che organizzano safari esclusivi e battute di caccia per clienti facoltosi. La vicenda ha suscitato indignazione internazionale: l’Unione Europea ha condannato duramente l’accaduto, arrivando a sospendere finanziamenti destinati alla conservazione ambientale in Tanzania, mentre la Banca mondiale ha interrotto l’erogazione di fondi per lo sviluppo turistico a causa delle violazioni dei diritti umani. Lotta senza confini Le conseguenze del caso di Loliondo si fanno sentire anche oltre confine. Il Kenya ha accolto un numero crescente di Masai in fuga, privati dei loro mezzi di sussistenza. Nel gennaio scorso, la giustizia kenyota ha emesso una sentenza storica, dichiarando illegali le riserve di conservazione create dal governo in collaborazione con il Northern Rangelands Trust (Nrt), un’organizzazione che gestisce milioni di ettari vendendo crediti di carbonio a multinazionali come Meta, Netflix e British Airways. Il tribunale ha appurato che quelle aree sono state istituite senza consultare le comunità locali, in maggioranza di etnia borana, samburu e rendille, alimentando il sospetto che dietro la conservazione si nascondano interessi economici globali a discapito dei popoli indigeni. La missione di Nrt sarebbe, in teoria, quella di istituire riserve comunitarie resilienti, trasformare vite e garantire la pace e la conservazione delle risorse naturali. A finire sotto accusa è un progetto del valore potenziale di svariati milioni di dollari (l’importo esatto non è noto poiché l’organizzazione non pubblica bilanci finanziari), da tempo criticato dagli attivisti indigeni perché sarebbe stato istituito a danno delle popolazioni locali. La sentenza, in particolare, riguarda un caso intentato da 165 membri delle comunità presenti in quei territori e sancisce che le riserve sono state istituite incostituzionalmente, senza base giuridica. La Corte ha inoltre ordinato che i guardaparco dell’Nrt, armati pesantemente e accusati dai popoli indigeni della zona, lascino quelle riserve. Interessi stranieri «La sentenza è anche l’ultima di una serie di stoccate alla credibilità di Verra, il principale organismo utilizzato per verificare e validare i progetti di crediti di carbonio», fa sapere Survival International. «Purtroppo questo fenomeno è lungi dall’essere un problema isolato», fa presente Caroline Pearce, direttrice generale dell’organizzazione. «Troppi programmi di compensazione delle emissioni di carbonio si basano sullo stesso modello obsoleto della “conservazione fortezza” e sostengono di “proteggere” la terra mentre calpestano i diritti dei suoi proprietari indigeni e realizzano ingenti profitti strada facendo». Gli interessi stranieri nella gestione di quei territori appaiono evidenti. Secondo l’Oakland Institute, dietro la politica tanzaniana sulla conservazione e il turismo si nasconderebbero ingerenze di rilievo, in particolare statunitensi. Un rapporto pubblicato ad aprile da ricercatori californiani (intitolato Pulling Back the Curtain: How the US Drives Tanzania’s War on the Indigenous) ha messo in luce come Washington abbia esercitato un ruolo determinante nell’influenzare le strategie di gestione del territorio in Tanzania, sostenendo progetti finanziati da Usaid a scapito delle comunità locali. E malgrado l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale sia stata praticamente chiusa nei mesi scorsi da Donald Trump, in pochi si illudono che la nuova amministrazione americana imprimerà o favorirà un cambio di rotta nelle politiche ambientali… Mentre il governo di Dodoma prosegue con le politiche di esproprio, i Masai si trovano a combattere una battaglia sempre più difficile per la salvaguardia dei propri diritti e per il controllo delle loro terre ancestrali.   Africa Rivista
BASTIONI DI ORIONE 16/10/2025 – A PARTIRE DALLA ENNESIMA RIVOLTA GIOVANILE SFOCIATA IN UNA GIUNTA MILITARE AD ANTANANARIVO, QUANTE AFRICHE SI CONFRONTANO TRA DINOSAURI E GENERAZIONE Z? SI PUÒ CONFERIRE ANCORA UNA VOLTA IL NOBEL PER LA PACE A UNA CRIMINALE GOLPISTA? E POI QUAL È IL CONCETTO DI “CRIMINE DI GUERRA”?
Abbiamo deciso di rivolgerci a Freddie del Curatolo che si trova a Dar es Salaam in occasione delle elezioni tanzaniane del 29 ottobre, per avere uno sguardo d’insieme tra le comunità africane, in particolare della costa orientale, per capire meglio da dove nasce e verso dove sfocia la rivolta della Generazione Z formato malgascio, ponendola […]