Il Nobel delle cannoniere. Seconda parte
Maga, non Maga….
Nonostante le apparenze, la politica estera dell’amministrazione Trump non è
priva di contraddizioni. Da una parte, ci sono i falchi, capitanati dal
Segretario di Stato, il guerrafondaio cubano-statunitense Marco Rubio (con la
sua ossessione di utilizzare la potenza militare contro Cuba e Venezuela).
Dall’altra, i membri del MAGA nel governo (gruppo in cui Richard Grenell ha una
posizione di rilievo per la politica estera), che sarebbero in contrasto con la
visione di Rubio e che provano a screditarla e ridurne la portata. Un eventuale
intervento militare potrebbe allarmare la base del MAGA, vista la forte
inclinazione isolazionista, con dei costi politici ed elettorali per lo stesso
Trump. Questo braccio di ferro per imporre la propria visione della politica
estera, al momento, traspare anche dai mezzi di comunicazione statunitensi. Le
contraddizioni della Casa Bianca stanno dando al Venezuela il tempo di
prepararsi al peggiore degli scenari, mentre il presidente Maduro si rafforza di
fronte alla minaccia esterna. Per Rubio, il tempo scorre in un clima di tensione
e aumenta la pressione nei suoi confronti. Il movimento MAGA, guidato da
Grenell, spera nel suo fallimento, per espellerlo definitivamente dal gabinetto
di Trump.
La risposta bolivariana
Da parte sua, il governo venezuelano non sottovaluta il pericolo di conflitto.
Oltre ad aver posto in stato di allerta le FF.AA., mobilitato la marina e la
milizia popolare, il governo è impegnato in un’offensiva diplomatica. Tra le
altre iniziative, ha convocato una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite, tenutasi il 10 ottobre, per denunciare
l’escalation bellicista. Il Segretario generale del Partito Socialista Unito del
Venezuela (PSUV), Diosdado Cabello, ha affermato che «la Nazione utilizza tutti
i meccanismi diplomatici per evitare sempre qualsiasi conflitto, non solo nel
territorio venezuelano, ma in qualsiasi parte del mondo», dato che «il Venezuela
si è sempre contraddistinto per la sua diplomazia bolivariana di pace».
Scheda
Un poco di storia del Premio Nobel per la Pace
L’Istituto Nobel, anche nel lontano passato, si è s/qualificato con
l’assegnazione del premio a personaggi a dir poco sinistri. Solo per rinfrescare
la memoria delle perle più eclatanti, nei primi decenni del secolo scorso furono
insigniti del Premio Nobel per la Pace due dei presidenti più guerrafondai di
tutta la storia coloniale degli Stati Uniti: Theodore Roosevelt nel 1906 e
Woodrow Wilson nel 1919.
Roosevelt creò la politica del big stick (speak softly and carry a big stick,
you will go far) con cui gli Stati Uniti riaffermarono la possibilità di
intervenire se i loro interessi erano in gioco. Fu così che ordinò la guerra
coloniale del 1898 (la «piccola guerra splendida», come la definì cinicamente)
con cui gli Stati Uniti si impossessarono di Porto Rico, Cuba, Filippine e Guam.
Roosevelt mise anche lo zampino nella secessione di Panama dalla Grande Colombia
per la costruzione del Canale, oltre a invadere Cuba, Haiti, la Repubblica
Dominicana e il Nicaragua.
Woodrow Wilson era un razzista a tutto campo, simpatizzante del Ku Klux Klan e
difensore della “purezza razziale” dei bianchi statunitensi, che approfondì la
segregazione nella pubblica amministrazione. Non contento, ordinò operazioni
militari in Messico (l’invasione di Veracruz e le spedizioni punitive contro
Pancho Villa), ed appoggiò lunghe occupazioni con i marines ad Haiti, nella
Repubblica Dominicana e in Nicaragua. A quei tempi, la proxy war fu condotta dal
pirata William Walker, fedele mercenario ed esecutore della teoria del “destino
manifesto”.
Più recentemente, altri tre Premi Nobel per la Pace hanno fatto scandalo.
Il primo, nel 1973, a Henry Kissinger per i negoziati nella guerra del Vietnam e
per i successivi accordi di pace di Parigi, anche se in realtà la guerra di
liberazione nazionale terminò con la vittoria dei Việt Cộng e la caduta di
Saigon nel 1975. In quell’occasione fu insignito del Nobel anche il Presidente
vietnamita Le Duc Tho, l’unico a rifiutare il premio in tutta la storia del
Nobel per la Pace. Come si ricorderà, Kissinger era stato Consigliere per la
sicurezza nazionale e poi Segretario di Stato del Presidente Nixon, allargando
la guerra del Vietnam al Laos e alla Cambogia, con pesanti bombardamenti nei due
Paesi. In America Latina è stato il cervello del colpo di Stato contro Salvador
Allende in Cile del 1973 e delle altre dittature civili-militari oltre
all’inventore del macabro Plan Condor. Lo scandalo del premio fu tale che due
membri del comitato Nobel decisero di dimettersi.
Nel 2009, è stato premiato Barack Obama «per i suoi straordinari sforzi volti a
rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». Peccato
che l’ex presidente democratico abbia continuato le guerre in Afghanistan e Iraq
iniziate da George W. Bush; ha inoltre distrutto la Libia di Gheddafi (il Paese
più prospero e sviluppato di tutta l’Africa); ha sostenuto la guerra civile in
Siria contro il governo di Bashar al-Assad ed appoggiato l’Arabia Saudita nella
sua guerra contro gli Houthi dello Yemen.
E nel 2016, il premio è toccato al presidente colombiano Juan Manuel Santos per
gli accordi di pace firmati all’Avana con la guerriglia delle FARC-EP. Ma come
ministro della Difesa di Álvaro Uribe, Santos è stato responsabile dei
cosiddetti “falsi positivi”, con centinaia di esecuzioni extragiudiziali di
indigeni o contadini, fatti passare come guerriglieri uccisi in combattimento.
Viceversa, non si può che salutare positivamente l’incontrovertibile
assegnazione del premio a Desmond Tutu e Nelson Mandela per la loro lotta contro
l’apartheid in Sudafrica, a Martin Luther King per la sua battaglia contro
l’apartheid negli Stati Uniti, o a Adolfo Pérez Esquivel per la difesa dei
diritti umani durante l’ultima dittatura civile-militare argentina.
Ma, da tempo, l’ago della bilancia del Nobel pende sempre più a destra, con un
premio geopolitico, utilizzato per dare una verniciata di legittimità alle cause
e alle figure ben viste dalle potenze occidentali nei momenti più opportuni.
Seguendo la geografia dei premi, possiamo identificare la mappa degli avversari
dell’Occidente collettivo: la ex-Unione Sovietica, la Cina governata dal Partito
Comunista, il mondo arabo-mussulmano o la Russia di Vladimir Putin.
Link alla prima parte dell’articolo.
Redazione Italia