La memoria della voce. Studs Terkel, l’intervista, la storia orale(disegno di cyop&kaf)
Durante il corso di scrittura che teniamo in questo periodo in redazione, per
parlare di interviste e storie di vita ci è capitato di rispolverare un vecchio
articolo uscito quando facevamo un piccolo festival dal titolo “Chi racconta la
città”, ai tempi del mensile cartaceo.
Dentro ci sono due persone che ci hanno insegnato molto e a cui vogliamo bene:
Sandro Portelli, che parla di Studs Terkel. Abbiamo pensato che, oltre che ai
partecipanti al corso, andava riproposto a tutti. Potete leggerlo qui di
seguito.
* * *
Se domandare, come ascoltare, sono pratiche che s’imparano assecondando una
cocciuta curiosità, il confronto con chi ne ha fatto ragione di vita diventa il
momento di riflettere sul come e sul perché. Animare gli spazi consueti con la
differenza, seguire altre voci e percorsi, disporsi davanti ai metodi della
ricerca con spirito critico. Alessandro Portelli, professore di letteratura
angloamericana alla Sapienza di Roma e storico orale, è approdato da giovane
negli Stati Uniti, c’è rimasto impigliato, tra andate e ritorni, per trent’anni,
raccogliendo storie dalla viva voce di un’affollata assise d’individui:
rappresentanti sindacali e outsider, celebrità e gente comune, minatori e
reverendi; e il frutto di questa lunghissima discesa nel ventre americano, oltre
che nei numerosi volumi già pubblicati, trova sistemazione nel libro America
Profonda, due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky. Il lavoro di gambe
– leg work in gergo – non l’ha stancato, e qui racconta come sia possibile unire
gambe, voce e orecchie nel fare ricerca sulle fonti orali, prendendo le mosse
dalla storia di Studs Terkel, leggendario giornalista radiofonico americano che
per mezzo secolo ha fatto parlare Chicago e con lei l’America intera,
pubblicando libri letti da generazioni.
«Una delle mie medagliette è quella di aver fatto un seminario annuale di
letteratura su Studs Terkel nel 1983-84. Di letteratura per due ragioni. Intanto
perché è la materia che insegno. E poi perché i libri di Terkel sono degli
straordinari libri di narrazioni, delle raccolte di racconti. Al centro del suo
lavoro sta essenzialmente la parola. Terkel è un giornalista e non ha mai
preteso di essere altro, però è un giornalista che ha lavorato sempre fuori dai
parametri e dalle prospettive a brevissima scadenza che si dà il giornalismo.
Studs Terkel nasce all’inizio degli anni Venti, e viene identificato quasi
interamente con la città di Chicago. Egli è stato per molti anni un giornalista
radiofonico, e questo spiega molte cose, perché non è solo la parola che noi
troviamo nei suoi libri, ma anche e soprattutto la voce. La voce, essendo la
trasmissione in diretta, comporta un elemento di relazione con il tempo e con la
performance che è al centro della comunicazione orale. L’oralità radiofonica è
un evento prima di diventare un testo. Qualche tempo fa c’è stato il
cinquantesimo anniversario della terza rete radiofonica, e mi hanno chiesto di
partecipare, io ho detto che a me piace la radio perché le persone si ascoltano
tra loro, a differenza di quello che vediamo in televisione. Alla radio se due
persone parlano contemporaneamente non si capisce niente. La radio è un medium
che impone un minimo d’educazione, di buone maniere. Quel che è importante è il
rapporto col tempo: tu aspetti che l’altro abbia finito di parlare, e se tu
aspetti vuol dire che l’altro ha il tempo di parlare. È questa la caratteristica
che la radio, così come praticata da Studs Terkel, non ha in comune con la
televisione: l’offerta, a chi veniva intervistato, di avere tutto il tempo che
riteneva necessario per raccontarsi. Terkel sapeva usare il tempo, predisponeva
all’ascolto e così facendo ha costruito un pubblico di destinatari capaci di
ascoltare.
«Un altro elemento che lo caratterizza, e che risalta nei suoi libri, è la
capacità che aveva di far venire fuori sempre il meglio dalle persone con cui
parlava. Prendete il suo libro sulla razza, Race, è un libro straordinario, uno
dei libri migliori su questo argomento usciti in America. Però, in un libro
sulla razza, lui intervista il leader del Ku Klux Klan e riesce a farci avere la
sensazione che il leader del Ku Klux Klan non sia un mostro come persona, cosa
che se ci stiamo bene attenti è più preoccupante, perché ci suggerisce quello
che abbiamo in comune con il leader del Ku Klux Klan, quindi ci dice anche “stai
attento a te”. È fondamentale questa capacità di darci un messaggio complessivo
di fiducia nell’intervistato. Questa mi sembra una delle chiavi di Terkel, la
capacità di accettare l’altro, di accettarlo nel senso di riconoscerne la
presenza, riconoscerne il racconto e dirci che vale la pena starlo a sentire.
Ciò non significa essere traditori, le distanze sono sempre molto chiare, ma
significa prendere atto del diritto dell’altro a esistere e del fatto che le
società di cui parliamo sono fatte della presenza anche dell’altro.
«Hard Times esce a metà dei Settanta e scatena una discussione da cui prende le
mosse un cambiamento di paradigma nell’ambito della storia orale. In Hard
Times, Terkel cerca di raccontare in più di cento voci l’evento più
problematico della storia americana del ventesimo secolo, che è la grande
depressione. Il tipo di discussione che all’epoca si apre su Hard Times è
questo: noi abbiamo ascoltato cento voci sulla depressione ma in che misura
questa straordinaria virtù di accettazione che Terkel esprime nei confronti
delle persone con cui parla ci deve indurre a prendere per buono, acriticamente,
il loro punto di vista. Ed è su questo che si apre un dibattito con Michael
Firsch, che nasce come storico urbano e si ricicla poi come storico orale
proprio a partire dalla discussione con Terkel, e pone il problema di come, nel
fare storia con le fonti orali, forse bisogna fare un lavoro in più. E questo a
me sembra assolutamente vero, però i testi di Terkel sono un’altra cosa, non
sono un’elaborazione di riflessione storiografica, sono uno straordinario
mosaico di autorappresentazioni. In un altro libro bellissimo, Working, c’è
l’autorappresentazione del senso del lavoro, con una narrazione in certi momenti
quasi lirica, tant’è vero che Working è stato trasformato in un musical, e James
Taylor ha fatto da una di queste interviste una meravigliosa canzone.
«La domanda è: gli anni Trenta che escono da Hard Times sono gli anni Trenta
come sono stati o come ce li rappresentiamo? Su questa tensione gioca gran parte
della riflessione contemporanea sull’uso delle fonti orali e sull’intervista. In
questo senso, il modo di presentarli risulta rilevante, incentrato com’è quasi
interamente sul monologo, sulla separazione delle voci, per cui la voce
dell’intervistato è separata dalla voce di Terkel, salvo pochissimi momenti
nelle introduzioni. Che poi è quello che abbiamo visto fare in Italia da Nuto
Revelli. E questo insistere sul monologo, sulla separazioni delle voci, ti fa
dimenticare a volte come nascono queste voci. Riflettendoci, è vero che il
grande intervistatore è quello che fa pochissime domande, e che fa delle domande
che aprono alla narrazione. Quel poco di manuali di interviste che ci sono ti
dicono sempre, non fare delle domande a cui si possa rispondere con un sì o con
un no, non fare domande a cui si possa rispondere con una frase, fai domande a
cui si deve rispondere con un racconto. E qui si apre una riflessione non sul
monologo ma sul dialogo, in cui uno dei dialoganti offre il terreno per
l’autorappresentazione dell’intervistato. Noi leggiamo queste cose quasi
dimenticando che le interviste vengono fatte alla radio, quindi a un pubblico, e
poi gli intervistati stanno parlando a Terkel e riescono a parlare così proprio
perché la persona che li sta intervistando ha quella modalità di accettazione,
di ascolto e di costruzione del dialogo. Il fatto che il destinatario sia Studs
Terkel è in qualche maniera riconoscibile solo in questo strano connubio di
umanità che percepiamo in tutte le interviste, perché poi è questo che viene
fuori… Qui c’è anche una modalità di lettura che dobbiamo tener presente, ovvero
dobbiamo pensare al libro stampato non come un testo ma come una
rappresentazione collegata a una performance, un’istantanea di qualcosa e non un
punto d’arrivo. Il lavoro sulla fonte orale è un lavoro di relazioni: la
relazione tra l’io narrante e l’io narrato, cioè chi sei tu nel momento in
cui racconti e chi eri nel momento di cui racconti, e poi la relazione fra te
che racconti e quello che ti ascolta. Questa dimensione è stata rielaborata e
resa uno strumento teorico centrale del lavoro sulle fonti orali a partire dagli
anni Settanta, dalla discussione che Michael Firsch mise in piedi su Hard Times,
dove in qualche modo la critica a Terkel era strumentale alla necessità di
chiarire certi concetti metodologici.
«Un fatto che ho sempre apprezzato è che lui intervista non solo persone che
hanno vissuto la grande depressione, ma intervista anche i ragazzi suoi
contemporanei, intervista i figli e i nipoti di chi ha vissuto la depressione.
Questa cosa non veniva fatta prima di lui, cioè, vedere la memoria anche come
trasmissione generazionale scavalca il senso di come è ricordata la depressione,
e mette in luce il fatto che è ricordata e vissuta praticamente in contrasto con
il tempo presente. La narrazione è sempre implicitamente la narrazione di un
tempo eccezionale, un tempo altro da quello in cui tu stai raccontando. Ora
questo comporta che quando parliamo di fonti orali usiamo un termine che a me
non convince: testimonianza. Perché? La testimonianza ha un valore religioso o
ha un valore giuridico, e soprattutto la testimonianza è pensata come una
modalità in cui chi parla racconta qualcosa che è altro da sè, qualcosa che ha
visto, qualcosa a cui ha assistito, laddove quando ci avviciniamo al racconto,
cominciamo a renderci conto che chi parla mette se stesso al centro della
narrazione. Nel momento in cui racconti è autobiografia, non è testimonianza.
Ieri a Radio Tre grande discussione con lo storico Gentile, se si possono usare
le metafore per fare storia. Ora, il teorico Haider White ha scritto molti libri
dicendo: tutti gli storici non fanno altro che usare metafore, non si può
raccontare senza le metafore… La gran parte di queste narrazioni, e soprattutto
delle narrazioni sul lavoro, sono intessute di metafore. E perché? A che serve
la metafora? Chi è che usa più di tutti la metafora? I bambini. Perché quando tu
devi descrivere una cosa nuova la puoi descrivere solo sulla base del linguaggio
che hai. I bambini fanno come gli indiani nei film western, bastone tonante per
dire fucile, toro di fuoco per dire treno, gli indiani usano le metafore non
perché sono scemi ma perché devono nominare con un linguaggio esistente delle
cose che non conoscono. Oppure, tu parli per metafore perché devi far capire a
uno che non c’era com’era la vita in passato e quindi devi usare il linguaggio
che quella persona conosce per esprimere delle cose che non conosce. E sul
lavoro una delle cose più affascinanti di Working è proprio andare a guardare
come lo descrivono, cercando di mettere in parole qualcosa che hanno appreso in
forma non linguistica. Il lavoro manuale, di fabbrica, artigiano, non è un
lavoro che tu impari con le parole, è un lavoro che impari con gli occhi, con il
corpo. E allora come fai a descrivere a parole qualcosa che tu non hai mai
veramente verbalizzato. Come si lavorava trent’anni fa? “Eh, si lavorava”, cioè
o è tautologico o è poetico. E le descrizioni che io mi metto a fare della
colata di acciaio in un’acciaieria sono descrizioni cariche di metafore. Allora
non puoi venirmi a dire che si tratta di testimonianze, è qualcosa di molto più
complesso, che non ricostruisce l’oggetto, non ricostruisce il tempo, ma cerca a
di dar forma alla relazione con il tempo… Nella mia vita ho lavorato in due
campi di lavoro, su cui ho fatto interviste, la fabbrica e la miniera,
intenzionalmente non sono mai andato personalmente a vedere la miniera e
l’acciaieria, perché m’interessava nell’intervista conoscere il lavoro di
qualcuno che lo doveva spiegare a me che non lo sapevo.
«Il lavoro dell’intervista, e in questo Terkel è maestro, perché è un lavoro di
ascolto? Ma mica perché sei una persona educata o gentile o umile. Certo, se non
sei educato e gentile e umile le interviste non le fai, ma non basta. Tu sei
consapevole che il senso dell’intervista è sapere, sei consapevole che la
persona che stai intervistando sa delle cose che tu non sai, punto. La
dimensione dell’ascolto nasce da una cosa che raramente pensiamo di mettere in
conto: la nostra ignoranza. Quando cominciai a fare questo lavoro, molto
ispirato da Terkel, sulle regioni minerarie del Kentucky sud orientale degli
Stati Uniti, i miei amici americani mi mandarono lettere terrorizzate, dicendo:
tu sei pazzo lì c’hanno tutti il coltello (non è vero perché c’hanno tutti la
pistola), lì i sociologi li ammazzano, e in realtà si riferivano a un fatto
molto preciso, a un giornalista televisivo, progressista e democratico, che era
andato lì a filmare le condizioni di povertà e di sfruttamento della gente di
quella regione e… li offendeva. Poiché essendo quei minatori calvinisti, se tu
vai dicendo che sono poveri, stai anche implicitamente dicendo che sono dei poco
di buono e quindi era successa questa cosa. Però che lì ci fosse una tradizione
di ostilità nei confronti degli estranei era vero. Dopo due, tre anni che
continuavo ad andarci – sono trent’anni che ci vado sistematicamente – ho
cominciato a chiedermi: com’è che non mi sparano? cosa sto facendo di giusto? E
mi capitò di trovare una persona che parlava un po’ la mia lingua, non nel senso
che parlava italiano, ma nel senso che aveva esperienze politiche e culturali
meno aliene dalle mie. Per capirsi, questa era una donna che lavorava in
miniera, però aveva conoscenza dei movimenti contro la guerra e per i diritti
civili. E io le chiesi, com’è che tutti quanti sono così gentili con me? che
faccio di diverso? E lei rispose, primo non sei di New York e non sei di
Chicago, nel senso che non trasmetti la sensazione di essere uno che viene dai
luoghi dove c’è il potere, sei italiano figuriamoci. Secondo, tu sei qui solo
per raccogliere un po’ di informazioni e le persone sono contente di aiutarti.
Quello che si capovolgeva era, almeno nel momento dell’intervista, il rapporto
di potere: erano loro che aiutavano me, infatti quando si dice che facendo
storia orale noi diamo voce a chi non ha voce, è un grande fraintendimento, sono
loro che hanno la voce e la danno a me, e se non fosse per loro non sarei in
grado di scrivere niente.
«Amplificare è molto bello rispetto a un discorso radiofonico. Pensa, siete in
due dentro a questo studiolo e la vostra voce arriva nelle case e in città, e vi
sente anche chi non vi conosce. E l’operazione di un Terkel, che sta dentro una
tradizione letteraria, è un’operazione di ricostruzione. Lui intervista sia
persone famose, sia gente comune. E in questa operazione non è che si dà voce,
ma si trasmette, si amplifica. In questo senso una delle polemiche che nascono
in America, è sul tema della restituzione alla comunità del materiale che
abbiamo raccolto. Che senso ha la restituzione? Le cose che tu hai raccolto la
comunità già le sa, infatti quando io ho fatto questo libro su Terni i compagni
ternani non erano particolarmente eccitati, “Vabbè, sono dieci anni che ci rompi
le scatole con stò libro, finalmente lo hai fatto…”. Quand’è che si sono
interessati? Quando hanno scoperto che i loro racconti erano stati ripresi nel
libro Una guerra civile di Claudio Pavone, e allora si sono resi conto che
attraverso quell’intervista con me loro sono diventati parte della narrazione
complessiva sulla Resistenza in Italia. Non era più limitato alla loro cerchia
ma era diventato un racconto condiviso, comune».