L’eco dei fiori sommersi, stasera al Modernissimo. Intervista a Rosa Maietta
(disegno di manincuore)
L’occasione per questo articolo è duplice: per un verso il desiderio di chi
scrive di “stare” su Napoli coi suoi artisti e le sue contraddizioni, le sue
“novità” e le sue puntuali bruttezze; per altro verso la proiezione del
film L’eco dei fiori sommersi al Modernissimo il 5 dicembre alle ore 21;
proiezione inattesa per quanto è difficile trovare un film “piccolo” al cinema,
un film auto-distribuito e aggiungerei femminista. Si parla poco della lotta
politica che si gioca sulla distribuzione: perché il cinema resta l’arte delle
masse e se è preclusa la possibilità di vedere buoni film tutto è perduto.
Ho conosciuto Rosa Maietta durante la lavorazione del film Gli ultimi giorni
dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo. Lei lavorava sul mitico e
irraggiungibile (per me) archivio-fiume di Ghezzi, e questo me la rendeva già
simpatica in via pregiudiziale. In seguito, l’ho incontrata innumerevoli volte
alle rassegne indipendenti che si tengono a Napoli, nei soliti quattro o cinque
spazi dove si può vedere qualcosa di diverso dal cinemino italiano borghese e
fasullo. Siamo diventati amici, e grazie a lei ho scoperto Julio Bressane e
soprattutto Radu Jude, che per me è il Godard del nostro tempo. Lei vive a
Napoli, ha studiato lettere, è cinefila e viene da Benevento. Incredibilmente
siamo nati lo stesso giorno, lei però nel 1990.
L’eco dei fiori sommersi è il suo primo lungometraggio. Partendo dall’idea di un
documentario sull’Archivio di Stato di Napoli, è diventato un film con tutti i
crismi, scritto e messo in scena a partire da storie vere contenute nei faldoni
dimenticati tra i corridoi dell’Archivio. Prendono così vita, in forma poetica e
politica, vicende realmente accadute nei decenni e secoli scorsi. Sono storie di
donne, e accanto a vicende atroci (stupri, aborti clandestini, amori fatti a
pezzi dalla guerra) è sempre riflessa la voglia e il desiderio di liberazione
dai nemici di sempre, il sistema patriarcale e quello capitalistico. Il
documentario ha una durata breve, 67 minuti. Colpisce la ricchezza di soluzioni
stilistiche che adotta, dovuta probabilmente sia all’abilità al montaggio della
regista – che nasce come montatrice –, sia al desiderio di utilizzare al massimo
le possibilità del mezzo. Si va dal registro simbolico a quello teatrale, dal
realismo tipico del documentario all’inserto d’animazione, fino all’utilizzo con
parsimonia di materiale d’archivio. Piuttosto ricercata la scrittura; paradosso,
poiché essa deriva quasi integralmente dalla lingua burocratica utilizzata nelle
carte processuali.
Questo tessuto plurilinguistico e i continui shock a cui assistiamo sono la
forza straniante e felice del film. Il gergo asettico della macchina della
giustizia, che tutto può e a cui tutti si sottomettono, viene messo in
discussione dal film, attraverso l’esplosione soggettiva delle protagoniste, i
fiori sommersi che riemergono in una sorta di giudizio universale. Loro, queste
donne, ci dicono “come sono andate veramente le cose”, non attraverso una contro
argomentazione logico-giuridica, ma coi corpi e con la voce, luoghi privilegiati
della verità e della testimonianza. Per queste ragioni mi sembra un film
importante. Ho conversato con Rosa Maietta sul film a fine luglio. Sintetizzo
qui alcune delle mie domande e delle sue risposte, poiché la conversazione è
durata più di due ore.
Perché hai scelto l’Archivio?
In realtà è un film d’occasione. L’Archivio di Stato, per aprirsi a un pubblico
non di soli specialisti, cercava una rappresentazione cinematografica. Mi è
arrivata la proposta e l’ho accettata. Volevo evitare un documentario basico,
fatto di interviste e immagini “neutre”. Ho allora cominciato a frequentare
l’archivio, e ho notato che ci lavoravano soprattutto donne. Le ho conosciute,
loro mi hanno fatto scoprire quelle storie che poi ho portato nel film. Loro
stesse sono nel film.
L’operazione poetica di portare al cinema il contenuto dei faldoni è inusuale.
Qual è stato il processo creativo?
Volevo evitare di fare un film su una storia, o su più storie. Ho cercato di
dare una certa circolarità al racconto, a mo’ di cantastorie. Insomma, non una
singola storia ma la storia collettiva per le donne. Ho voluto far emergere
l’emozione (il dolore, la passione) che sta dietro quel brutto e inavvicinabile
linguaggio della burocrazia processuale, linguaggio perfettamente consono alla
struttura patriarcale della giustizia e del mondo. Per questo, giocando sul
contrasto, uso luci calde e recitazione forte di contro a questa fredda lingua
del Potere.
Nel film avverto un eccellente lavoro di scrittura. Negli ultimi anni abbiamo
però assistito al desiderio di liberarsi della scrittura, a un certo
sperimentalismo visivo nel cinema indipendente. Tu cosa ne pensi?
L’attenzione alla scrittura oggi mi sembra un modo più democratico e meno
elitario di fare cinema. Quindi sì, ho fatto un enorme lavoro di scrittura.
Passavo le giornate all’archivio a leggere storie, a parlare con le archiviste,
anche in maniera terapeutica, per dimenticare la perdita di mio padre. La
scrittura è un momento decisivo e facilita la relazione col pubblico.
Qual è la differenza tra il tuo lavoro e un documentario standard?
Penso che il cinema venga definito Settima Arte non a caso. Abbiamo un
privilegio e anche una responsabilità con quello che facciamo. Ho provato a
lavorare sul film in quanto pezzo unico, perché non volevo che un singolo
procedimento formale, come la colonna sonora o frammenti simbolici, prevalessero
sul resto e diventassero tappabuchi o toppe. In questo senso, non volevo abusare
di materiale d’archivio anche per avere rispetto di quello che andavo a
utilizzare e manipolare.
Cosa ti domanda il pubblico? Resta più su questioni di stile, o sul perché hai
fatto il film, cosa volevi dire?
Entrambe le cose. Il pubblico è una parte del film, quando si gira si pensa a
quale pubblico è indirizzato, nei limiti del possibile.
Dove è stato proiettato il tuo film? Come sta girando?
Il film lo sto distribuendo io, lo invio assieme alla produzione ai festival e
organizzo le proiezioni in Italia e all’estero. Ovviamente circola in modo del
tutto peculiare: collettivi femministi interessati (come Non Una Di Meno a
Cagliari), amici e amiche via passaparola, e anche l’accademia,
nell’insospettabile sezione degli storici, poiché è uno dei pochi lavori
cinematografici sugli archivi. Poi ci sono i festival in Italia e all’estero. Mi
piace presentarlo in presenza, vedere il pubblico e confrontarmici. Lotto,
insomma, per il mio film.
A Napoli manca comunicazione tra registi, mi capita di parlare di questo
problema anche con altri tuoi colleghi.
I registi dovrebbero frequentare di più i festival, guardare i film degli altri.
Questo non lo fanno, e così c’è poco scambio. Con le ultime vicende politiche, e
la riduzione dei fondi alla cultura, mi è capitato di partecipare alle assemblee
dei lavoratori precari dello spettacolo, dove nessuno parla di cinema. È
assurdo! Napoli è una città senza scambio, io parlo di cinema con te e
pochissime altre persone. Proveremo a portare avanti pratiche per metterci
insieme. Vedremo… (salvatore iervolino)