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Creare comunità nella catastrofe
IL FARE COMUNE COME AZIONE COLLETTIVA APERTA ALL’INCONTRO, COME MODO DI PARTECIPARE CAPACE DI INSINUARSI NEGLI INTERSTIZI TRA PUBBLICO E PRIVATO, MA SOPRATTUTTO COME PROCESSO CHE IMPLICA RELAZIONI DI FIDUCIA. A CASA BETTOLA, REGGIO EMILIA, PENSANO CHE IN BASSO SIA POSSIBILE PERFINO CREARE DIRITTO, COME AZIONE CHE APRE NUOVE POSSIBILITÀ A CHI È MENO PRIVILEGIATO. PRENDENDO SPUNTO DALL’ESPERIENZA MATURATA INTORNO A DIVERSI SPAZI SOCIALI DI NAPOLI, DOVE HANNO TRASCINATO ANCHE L’AMMINISTRAZIONE COMUNALE, QUELLI DI CASA BETTOLA VOGLIONO MOSTRARE CHE È POSSIBILE CREARE E GESTIRE I BENI COMUNI IN MODO COLLETTIVO. “PER QUESTO CHIEDIAMO CHE ANCHE IL COMUNE DI REGGIO EMILIA RICONOSCA CASA BETTOLA COME BENE COMUNE, DOTANDOSI DI UN REGOLAMENTO CHE RENDA POSSIBILE LA GESTIONE COMUNE DI SPAZI RIGENERATI DAL BASSO, PARTENDO DALL’ESEMPIO DEGLI USI CIVICI COLLETTIVI URBANI…”. IL LORO TESTO CREARE COMUNITÀ NELLA CATASTROFE. DALLA DIFESA DEL PUBBLICO ALLA COSTRUZIONE DEL COMUNE È GIÀ UN’AZIONE COLLETTIVA CHE VA OLTRE REGGIO EMILIA, È GIÀ UN MODO PER COMINCIARE DA “NOI”, È GIÀ UNA STRADA CON CUI RIFIUTARE LA PAURA CHE ACCOMPAGNA QUESTI TEMPI. PER SPINGERCI FUORI DALLA CATASTROFE Dopo dieci anni di occupazione, nel 2019 Casa Bettola ha formalizzato la propria relazione con il proprietario dell’immobile, la Provincia di Reggio Emilia, attraverso una convenzione che ne ha riconosciuto l’uso della casa cantoniera. Questa convenzione, della durata di cinque anni, ormai è scaduta da oltre un anno e oggi siamo di fronte alla sfida di ripensare la nostra relazione con le istituzioni del territorio con un approccio istituente, alla ricerca di una forma più vicina a quello che siamo e, soprattutto, quello che vorremmo diventare. Un percorso che guarda a un orizzonte condiviso: quello di riconoscere e consolidare esperienze come la nostra, che attraverso la pratica desiderano diventare fonte di diritto, contribuendo a creare norme capaci di tutelare le realtà esistenti e aprire la strada a quelle che ancora devono nascere sul territorio, nel Paese e oltre. Come diceva Eduardo Galeano, l’utopia è come l’orizzonte: si sposta man mano che andiamo avanti, e a cosa serve dunque se non continuare a camminare. È proprio questo continuo avanzare verso l’orizzonte che ci spinge a immaginare e costruire mondi nuovi, passo dopo passo. A questo proposito, il 7 giugno ci siamo ritrovatɜ a Casa Bettola in un’assemblea pubblica per intrecciare nuovamente teoria e pratica intorno al concetto di beni comuni e al fare comune. Un momento di confronto in cui, attraverso il racconto di esperienze concrete e riflessioni collettive, abbiamo provato a costruire insieme un pensiero che nasce dall’agire, e un agire che si lascia orientare dal pensiero, perché crediamo che teoria e pratica si generano reciprocamente, nella trasformazione continua dei contesti che viviamo. Al dibattito hanno contribuito Massimo de Angelis, docente universitario e autore di Omnia Sunt Communia, Maria Francesca de Tullio, costituzionalista e attivista de L’Asilo (Napoli), Ana Sofía Acosta Alvarado, ricercatrice e attivista dei Beni Comuni (Parigi), Nicola Capone, filosofo, docente, attivista e autore di Lo spazio e la norma.  In questo testo vogliamo mettere in evidenza le idee e le proposte più significative emerse dall’incontro con il desiderio di trasformarle di nuovo in pratica. Dal sostantivo al verbo: dai beni comuni al fare comune Possiamo parlare di fare comune, in inglese commoning, piuttosto che di bene comune, spostando il baricentro dal sostantivo al verbo. Il fare comune cambia la socialità, trasforma i modi di pensare e sentire, è aperto all’incontro, non già come atto individuale ma come processo collettivo. Oggi si dice che la partecipazione è in crisi: eppure basta guardare le folle ai concerti, nei centri commerciali, nei centri storici diventati mangiatoie per turisti; partecipiamo tutte e tutti, allacciati ai processi economici. La questione dunque non è la partecipazione, ma come si partecipa. Partecipare significa mettersi in relazione, nel pubblico partecipiamo votando, approvando le leggi o contestandole, mentre nel privato partecipiamo consumando e spesso in competizione con gli altri a loro discapito. Nel bene comune, la partecipazione si manifesta in altro modo: come forma di reciprocità tra collettività e singolarità in cerca di risonanza. Si trasforma il contesto di vita, sé stessi e si riflette su queste trasformazioni. È un processo di riflessione continua, in cui tutto è sempre aggiustabile, se si riscontrano dei limiti o delle criticità. Le esperienze come Casa Bettola introducono un altro modo di partecipare, che è generativo, crea sempre cose nuove. Le grandi crisi contemporanee, le disparità di ricchezza e redditi, il regime di guerra, non nascono dall’apatia, ma dal fatto che alcune forme di cooperazione sono egemoni, dominanti. Il nostro agire sociale nella quotidianità e nell’economia è racchiuso nella dicotomia pubblico/privato, che agisce come principio generale in quella che è la cooperazione sociale. Questa dicotomia separa ciò che è intrecciato, come vediamo nell’economia, che è un intreccio di relazioni tra esseri umani e altri umani, e umani e ambiente; in conseguenza a questa separazione forzata, le nostre vite sono continuamente esposte a crisi economiche, sociali e ambientali. Qui entra in gioco il commoning come altro modo di partecipare, negli interstizi tra pubblico e privato: non abolisce nessuna delle due sfere, ma si propone come forma alternativa, che inquina entrambe, e riarticola l’intreccio della cooperazione sociale oltre le soglie imposte da pubblico e privato. È un processo in continuo divenire, non è un modello fisso: implica coltivare fiducia, reciprocità e appartenenza, costruisce mondi e non si limita a (ri)-distribuire ricchezza.  Come ogni operazione, il commoning ha bisogno di risorse, che sono principalmente due: spazi e condizioni favorevoli perché esso si sviluppi. Consideriamo solo che in italia ci sono circa 7.000 edifici scolastici abbandonati, 5 milioni di case sfitte e una rete sempre più ampia di negozi vuoti, oltre a 2 milioni di ettari di aree agricole abbandonate, che potrebbero essere lasciate alla cooperazione sociale, per restituirle all’uso. Qui entrano in gioco le public-commons partnerships, che rappresentano un dispositivo istituzionale emergente per creare relazioni strutturate tra pubblico e comunità attive, in un regime di commoning. I beni comuni, per esistere, devono essere infatti gestiti da comunità, sempre. Le public-commons partnerships non vanno pensate come forma di delega, ma come campo negoziale trasformativo, che rompe l’automatismo binario tra pubblico e privato, generando circuiti relazionali che ridanno forma all’intreccio del sociale. Sono diametralmente opposte alle private-public partnerships: introdotte da Blair negli anni Novanta come modello di modernizzazione neoliberale per attrarre capitale privato per la gestione dei servizi pubblici, hanno però finito col comprimere i diritti. Nelle public-commons partnerships si tutela l’autonomia del commoning, senza subordinarlo a logiche di efficienza, mettendo in comune risorse pubbliche inutilizzate e riducendo l’asimmetria tra potere istituzionale e sociale.  Il mantra non è “non importa chi fornisce il servizio, purché funzioni”; la domanda è “chi partecipa alla creazione di valore sociale? Chi garantisce che rimanga comune?”. In Europa ci sono diversi esempi di public-commons partnerships in diversi ambiti: a Liegi c’è una notevole rete agroalimentare che, anche grazie al Comune, ha trasformato le modalità di produzione di cibo; a Londra e a Bologna abbiamo altri esempi virtuosi. Per farle funzionare ci sono due questioni cui prestare attenzione. La prima sono i parametri di valutazione: il settore pubblico è sempre chiamato a giustificare le proprie azioni, ma nei confronti del commoning non può utilizzare criteri aziendali, perché in esso i valori sono relazionali, qualitativi e non quantitativi; non possiamo usare metriche monetarie sul valore creato socialmente.  L’altra problematica è il riconoscimento della comunità che agisce nel bene comune. Essa non è organizzata come un’associazione, in cui c’è una gerarchia: nel commoning, la responsabilità e il potere decisionale sono del comitato, dell’assemblea partecipata orizzontalmente.  Viviamo in un tempo segnato da crisi multiple e con un enorme senso di impotenza nel creare possibili soluzioni. Citando Paolo Virno: l’impotente è colui che rimane paralizzato davanti alla coesistenza degli opposti, e ne è ipnotizzato. Essere ipnotizzati dallo spettacolo degli opposti vuol dire non sapere come agire, e riprodurre il sistema binario.  Come detto precedentemente, il problema non è la mancanza di partecipazione, ma la sua cattura all’interno del dispositivo neoliberale, che ci rende impotenti. Bisogna quindi infilarsi nelle fratture, e da lì pensare a nuove possibilità. Usi civici urbani collettivi: fare comune nelle città  Cosa sono dunque i beni comuni? Secondo Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, costituiscono uno spazio con accesso a risorse naturali con regole condivise, che servono per la sostenibilità della risorsa. Oggi il tema della sostenibilità è importante soprattutto per la questione della crisi climatica. Questi gli elementi portanti: la risorsa, la comunità, le regole che ci diamo per viverla insieme. Ma questo non basta e abbiamo bisogno anche di altro, per differenziare il bene comune da una qualunque cooperativa. I paletti ulteriori devono quindi essere: la giustizia sociale e l’ecologia.  Infatti il capitale egemone si appropria continuamente delle parole “comune” e “comunità”. Sta a noi riprenderci questi termini, curarli e proteggerli. Vorremmo qui riportare l’esperienza napoletana come esempio riuscito di questa regolamentazione. Dopo otto anni di lotta di difesa del territorio, una lotta ecologica contro il traffico dei rifiuti tossici. Ci sono state esperienze di assemblea in discarica, nei blocchi stradali, durante le quali è nata la pratica di messa in comune che ha poi dato i suoi frutti in città nel 2011, quando c’è stato il referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici essenziali. Quel movimento lottò con forza per preservare le risorse sociali ed ecologiche. Mentre si stava scrutinando per il referendum, una parte di lavoratrici e lavoratori della cultura occupò il teatro Valle, a Roma. Anche da lì partì una stagione sui beni comuni, che è poi esplosa in tutto il paese. La difesa dei beni comuni riguardava i beni naturali, perché questa esigenza di occupare uno spazio culturale dunque? Il movimento precarizzato pensò che anche qui mancasse una tutela, quella di un luogo di produzione culturale. Quando pensiamo alla cultura pensiamo di solito solamente agli esiti: pubblicazioni, spettacoli, ecc. Senza spazi fisici però la cultura non si può fare, e a quel movimento servivano proprio gli spazi per potersi riunire e creare. Di teorico c’era il fatto di darsi delle definizioni, e di pratico il luogo in cui discutere. Nel 2011, appunto, il primo atto della nuova giunta De Magistris, rotto l’accordo tra centro destra e sinistra, viene inserito nello statuto comunale, all’art 3, la definizione di beni comuni, che veniva a sua volta dalla commissione Rodotà del 2007-8, dopo un intenso ciclo di lotte. In quella commissione viene data una definizione: i beni comuni sono quelle cose materiali e immateriali i cui usi sono utili per l’esercizio dei diritti fondamentali. Perché un Comune si dovrebbe dare questo strumento? Principalmente, per uscire dalla dicotomia pubblico/privato. Nel nostro paese, lo schema proprietario privato tiene in pugno sia il pubblico che il privato. I comuni si sentono i proprietari dei beni che appartengono a tutte e tutti, e da garante della collettività, come dovrebbe essere, finisce per sentirsi proprietario ed escludere la comunità dall’uso di quel bene. Col bene comune cambia tutto: non si è più passivi nell’interazione coi beni; nell’uso dei beni si esercita un diritto in modo attivo. Così facendo, possiamo funzionalizzare i beni ai diritti fondamentali non partendo dalla proprietà, ma interrogandoci sullo scopo di quel bene, al bisogno che soddisfa. Il bene comune interviene a garantire quella fruizione, restituendo il bene alla collettività. La legge non tiene dentro tutto, non sempre essa coincide col diritto, il quale nasce anche dalle pratiche, dagli usi, dalle consuetudini. Non si è né passivi né competitivi quando si è civici, al contrario si è collettivi e cooperativi. Per mettere in pratica tutto questo occorre però modificare lo statuto comunale, che permetta di riconoscere il bene e i soggetti che lo hanno reso fruibile. Il bene e il suo valore esistono già, dobbiamo solo renderli forma.  Il soggetto pubblico deve essere il primo a liberare spazi oltre il consumo per esercitare i diritti. A Napoli, quando le norme sui tagli della spesa pubblica dicevano di vendere beni pubblici, il comune ha deciso anzi di acquisire beni immobili per metterli a disposizione della comunità.  Una cosa simile è successa a Reggio Emilia: quando Casa Bettola ha stipulato la convenzione con la Provincia, essa non era una convenzione classica poiché non prevedeva un uso esclusivo, ma una dichiarazione di responsabilità, ritenendo importante, come a Napoli, creare diritto. Il diritto non serve a chi è già forte, ma a innovare il sistema per chi è meno privilegiato: Napoli ha creato proprio questo, una forma nuova di diritto da adottare in altri contesti. Sempre nel capoluogo campano, è stata riconosciuta la possibilità di autonormazione della comunità tramite assemblee aperte, in cui si redige un documento basato su alcuni principi imprescindibili: antifascismo, antisessismo e antirazzismo. Nessuno può appropriarsi degli spazi: lo spazio dell’ex Asilo Filangieri di Napoli ad esempio non ha avuto alcun bando, nessuna competizione per “ottenerlo”. Le regole di autogoverno sono state scritte dalla sola comunità con il metodo del consenso e recepite dall’amministrazione comunale in quanto espressione di partecipazione democratica. Fondamentale è includere la redditività civica del bene: la comunità ha rigenerato il bene, ha creato una comunità attiva e vivace laddove c’era un bene sottoutilizzato. Nel contesto partenopeo, in virtù di questa redditività civica, il Comune ha deciso di prendersi in carico gli oneri straordinari e le utenze, per eliminare barriere economiche di accesso.  Conclusioni. Per un nuovo inizio La storia di Casa Bettola inizia con un gesto che formalmente ha varcato la linea della legge per dare sostanza a un diritto. In questo momento non ci vogliamo porre al di fuori della legge ma rivendichiamo di essere parte attiva nella sua trasformazione, come comunità che genera diritto attraverso pratiche vive, usi e consuetudini radicati nel mutualismo, nella solidarietà, nella costruzione di legami sociali come fonte legittima di giurisprudenza, in quanto risponde a bisogni collettivi. Vogliamo poter creare e gestire i beni comuni in modo collettivo – non solo intesi come spazi e risorse -, ma relazioni, servizi e pratiche che ci permettono di soddisfare insieme i nostri bisogni, per costruire comunità, per vivere meglio insieme. Per questo chiediamo che anche il Comune di Reggio Emilia riconosca Casa Bettola come bene comune, dotandosi di un Regolamento che renda possibile la gestione comune di spazi rigenerati dal basso, partendo dall’esempio degli usi civici collettivi urbani. Una proposta concreta che rivendica il diritto delle comunità ad autogovernarsi per soddisfare i propri bisogni fondamentali. Non come sostituzione del pubblico, ma per liberare le potenzialità del comune come forza costruttiva, come energia viva capace di innovare il diritto e restituire centralità alle persone e alle relazioni che tengono insieme la comunità. Per fare questo abbiamo avviato un percorso con il Comune, con la consapevolezza che ci possiamo avvicinare agli obiettivi avanzando per gradi e che sarà possibile raggiungerli solo se siamo in tante e tanti che si organizzano insieme, approfondendo la democrazia ed estendendo il diritto. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMO DE ANGELIS: > Fare in comune -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Creare comunità nella catastrofe proviene da Comune-info.
La democrazia è anche questione di metri quadri. Un ricordo di Franco Marescotti
(disegno di cyop&kaf) Disegni, modellini, progetti su carta lucida, fotografie, libri, riviste e una grande collezione di conchiglie. Tutto nel suo camper fino a Catania, per costruire un corso di architettura nella facoltà di ingegneria. Franco Marescotti, si è trasferito in Sicilia con sua moglie Rosabella nel 1971, ed è rimasto lì fino al 1991, anno della sua scomparsa. Dagli anni Trenta del secolo scorso, Marescotti ha partecipato attivamente al dibattito sulla costruzione della città e delle periferie, con importanti scritti e pubblicazioni sulla casa per tutti e sulla prefabbricazione, collaborando a varie edizioni della Triennale di Milano e alla stesura di vari numeri della rivista Casabella. Negli anni Cinquanta ha fondato uno studio di architettura sociale dopo aver collaborato a diversi progetti per i Centri sociali cooperativi, primi esempi di progettazione partecipata. Qui insieme all’abitazione erano previsti i luoghi collettivi per il libero sviluppo della persona dove esprimere socialità e creare comunità: biblioteche, piscine, sale giochi e sale per il ballo. Il Centro sociale cooperativo Grandi e Bertacchi sul Naviglio a Milano, è un ottimo esempio di quella stagione in cui per Marescotti “la democrazia è anche una questione di metri quadri”. GLI ALLIEVI Due anni fa a Catania ho conosciuto Sabina Zappalà, un’architetta che ha lavorato nel quartiere di Librino, progettato a sud-ovest di Catania dall’architetto giapponese Kenzo Tange, per gran parte della sua vita professionale. La sua passione per l’architettura è legata a Franco Marescotti di cui è stata allieva e amica, amicizia condivisa fin dagli anni Ottanta con due giovani studenti di ingegneria Roberto De Benedictis ed Enzo Fazzino. I tre sono stati testimoni del periodo siciliano, nonché coloro che Marescotti ha scelto come eredi del suo lavoro. Un’amicizia e una frequentazione che negli anni ha unito profondamente i tre. Catania è un pezzo di terra scura affacciata sul mare, col monte Etna a fare da coronamento. Negli anni Ottanta Marescotti si stabilisce in una cittadina sul fianco del vulcano, a pochi chilometri dal comune di Valverde, dove grazie a Sabina incontro Enzo e Roberto arrivati da Siracusa. Una struttura comunale ospita il piccolo Museo delle conchiglie, una preziosa collezione appartenuta a Marescotti e venduta al Comune negli ultimi anni della sua vita. «Le conchiglie non vengono tutte dalla Sicilia – racconta Sabina –, ovunque è andato Marescotti ha raccolto conchiglie, coralli; il suo studio della casa per l’uomo mirava all’essenzialità». La ricerca teorica sulla casa moderna risale all’inizio del secolo scorso, quando diversi studi, soprattutto tedeschi, si pongono il problema dell’eccezionale sviluppo economico e del conseguente aumento demografico. Importanti urbanisti e architetti, come Hilberseimer, Mies van der Rohe e Le Corbusier, tra gli altri, compresero la necessità di ricercare una coerenza tra estetica e funzionalità nell’architettura moderna, piuttosto che la ricerca di uno stile unitario. «Marescotti – continua Sabina – aveva memoria della Sicilia già nell’immediato dopoguerra, perché faceva immersioni e conosceva le sue coste perfettamente. In fondo nelle conchiglie lui trovava l’ideale della casa per l’uomo. La conchiglia è perfetta, essenziale, autocostruita, ogni animale ha esattamente dentro di sé la matrice di ciò che è la sua casa. Probabilmente era questo uno dei motivi per cui ne era così attratto». Dopo questo passaggio presso il Museo, insieme a Sabina, Enzo, Roberto e sua moglie, ci sediamo a un bar nelle vicinanze. L’ingegnere Enzo Fazzino, tornato in Sicilia dopo molti anni di lavoro presso l’Unesco, racconta: «Ero attratto da questa figura e mi sono trovato in aula con gli studenti degli ultimi anni, si insegnava composizione architettonica. Eravamo negli anni Settanta, e si parlava di cose che non avevo mai ascoltato da nessun altra parte, sembrava non avesse niente a che fare con l’architettura. Sulla lavagna aveva disegnato una linea, l’equazione sessuale, e interrogava gli studenti su quanto si sentissero uomo o donna: tutto ciò in una facoltà di ingegneria! Credo che il messaggio di Marescotti sia sul lungo termine. Sono convinto che il suo lavoro continuerà a parlare alle persone, ben oltre l’architettura, perché parla di umanità e di impegno». L’altro amico e allievo è Roberto De Benedictis, anche lui ingegnere, deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana per tre legislature fino al 2012. «La speranza di costruire ambienti urbani che fossero a misura d’uomo – dice –, doveva essere sorretta da una politica. Marescotti nutriva, o meglio, si era formato un’idea in cui era possibile coltivare questa illusione sulla scorta degli esempi che stavano fuori dall’Italia». Il dibattito sull’architettura moderna vede uno dei momenti cruciali nell’Esposizione di Stoccarda del 1927, in cui architetti di fama internazionale si misurano con la progettazione di un quartiere residenziale. Da quell’esperienza, molti furono i dibattiti sul futuro della città, che vennero poi ripresi nei Ciam (Congressi internazionali di architettura moderna): teorici, architetti, urbanisti, proposero la loro idea di sviluppo delle città, attraverso lo studio di tipologie edilizie e sistemi di prefabbricazione. A Milano, Marescotti, in sodalizio con Irenio Diotallevi, costruirà uno dei più importanti riferimenti teorici per le nuove generazioni di architetti italiani. «Dopodiché questa stagione si è conclusa, ma lui continuava a fare “casette” – continua Roberto –; progettava tipologie edilizie, quando ormai il tema non era più attuale. Negli Istituti autonomi delle case popolari ancora resisteva un barlume di studio sulle tipologie e sulle abitazioni, e fino alla metà degli anni Ottanta c’era ancora la concezione che l’edilizia popolare fosse un servizio per la società, ma di questo oggi non c’è più traccia. Marescotti credeva che l’azione degli individui potesse cambiare le cose. La politica è questo, persone che si mettono insieme e fanno cambiare le cose. E con quale strumento? Ciascuno con il suo. Lui partecipava con l’architettura, altri partecipavano con la scrittura, con la poesia, con l’arte, o con la politica in senso stretto». L’EREDITÀ  Roberto de Benedictis continua a parlare di Marescotti e del suo lascito: «Sì, noi abbiamo avuto una lettera di consegna, in cui ci ha lasciato tutto il suo lavoro, il suo materiale. Non per farne necessariamente qualcosa, ma perché non gli era rimasto molto. L’accademia lo ha rifiutato. Non era laureato e questo in Italia contava moltissimo. Negli ultimi anni ha sofferto molto perché non aveva una pensione. Ricordo che una volta lo abbiamo trovato che provava a bruciare parte del suo lavoro nel camino. Sono stati anni molto difficili per lui, di solitudine. Lo abbiamo supportato e probabilmente siamo stati gli unici. Dall’Università non l’ha cercato più nessuno, è rimasto solo, anche per il suo carattere difficile». Sabina, Enzo e Roberto, dopo svariati tentativi di consegnarli all’Università di Catania, nel 2015 hanno affidato il suo archivio all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma, uno storico e importante istituto dove sono conservati molti archivi di artisti e architetti degli ultimi quattrocento anni. Proprio quest’anno, a dieci anni da quell’affidamento, l’Accademia è riuscita a digitalizzare l’archivio rendendolo pubblico lo scorso 15 maggio sul sito ufficiale. Già Francesco Moschini nel maggio 2016, all’epoca segretario generale dell’Accademia, parlava della complessità di questa figura: “Franco Marescotti ha una centralità nel dibattito architettonico che in qualche modo non viene resa pubblica e non viene resa spendibile, c’è sempre una condizione di marginalità dovuta all’integerrima e ferrea sua volontà di mantenere la dimensione etica […]. Questo forse gli ha precluso una diffusione ulteriore del proprio portato teorico e realizzativo nonostante le straordinarie esperienze e operazioni: come quella di Grandi e Bertacchi, esempi straordinari che hanno segnato in fondo una sconfitta rispetto quello che poi è successo dell’intero paese. […] Il suo archivio è composto da oltre millecinquecento disegni, un centinaio di plastici, molti materiali di documentazione fotografica, raccolte editoriali di libri e di riviste”. L’Accademia di San Luca ha messo l’archivio a disposizione degli studiosi: «Io penso che esistano autori, architetti o pensatori che sono assolutamente ignorati in vita, e poi anni, secoli dopo vengono capiti, rivalutati», chiosa EnzoFazzino. (daniele balzano)
Modelli di città e pratiche di autogestione. Riflessioni dal possibile sgombero del Leoncavallo
(foto da: la terra trema) Pubblichiamo a seguire l’estratto di una riflessione dal sito de La Terra Trema, scritta dal gruppo omonimo insieme agli attivisti e le attiviste del Folletto25603. Il Leoncavallo rischia di sparire per sempre. Nella sua forma di via Watteau sembra avere vita breve. L’amministrazione pubblica, il sindaco e il loro entourage tecnico e politico, offrono un “capannoncino” nell’estrema periferia sud della città. Una proposta tutta da verificare e costruire. Una proposta che ha il sapore di una “deportazione”, come ha già detto, giustamente, qualcuno. Una deportazione che rischia di far morire il confinato lungo il tragitto, aggiungiamo noi. Una soluzione “pragmatica, nel rispetto delle norme, che salvaguardi l’esperienza, la storia e l’evoluzione che il centro sociale Leoncavallo ha vissuto negli ultimi anni”. Questo quello che scrivono e offrono l’amministrazione pubblica e le politiche istituzionali a questa storia cinquantennale di autogestione, dopo aver lasciato campo libero per decenni alla speculazione immobiliare.  […] Se quella del Leoncavallo è una storia difficile da sintetizzare a freddo, ha invece più senso concentrarsi sui dispositivi che stanno portando a decretare la fine di questo spazio per come lo conosciamo (la sua fine e non solo la sua); sugli attori che hanno determinato quel percorso che ha prodotto un habitat sempre più inaccessibile, soprattutto per alcuni viventi. A Milano e in questo terribile mondo. E forse, guardare a questa storia, può essere l’occasione per ritornare a dire cosa vogliamo, cosa non vogliamo perdere, cosa desideriamo per noi e per le città che viviamo, e animiamo, cosa vorremmo mettere in discussione di tutto questo, radicalmente. La forma delle occupazioni, pratica novecentesca variamente motivata (occupi uno spazio per dare luogo e possibilità a attività/desideri/ambizioni che altrimenti, altrove, ti sarebbero negate: suonare / ascoltare musica / mettere dischi / recitare / mangiare / socializzare / sbombolettare / formarti / imparare / insegnare / agire politicamente / abitare / danzare / ballare / fotografare / documentare) pare non sia più esercizio di questo tempo, che non serva più, non sia più adeguata alla forma metropoli, che già offre tutte le alternative possibili, ognuna delle declinazioni richieste, ognuno dei tuoi desiderata. Se puoi permettertelo, è chiaro. Altrimenti, no. Le mutazioni gentry stanno già ridisegnando la forma di chi può abitare quartieri e città: dentro gli investitori, le dinastie elette, le nuove aristocrazie, i negozietti, le belle scuole, i laboratori creativi, prezzolati e hype, i festival, i sorrisi giusti col drink totale, la spensieratezza completamente scollegata dall’oggi. Alle vecchie e nuove povertà, ai fallimenti, agli indomabili diamo sterminate periferie. Scollegate, irraggiungibili, deprivate dei servizi, scomode, inospitali. È il grande scollamento della mutazione gentry, la volontà totale di vivere in assenza di batteri, in città disinfettate dal conflitto, decontaminate, lustre, deprivate del contatto tra tessuti sociali. E, certo, qui, gli spazi occupati intra moenia, sono visioni stonate, inaccettabili interferenze. Inutili alle élite metropolitane, alle loro tavole già apparecchiate di cultura a tutto tondo, cibo sano, cliniche private. Le mutazioni gentry hanno già ridisegnato la forma di chi può abitare quartieri e città mettendo in atto un cambiamento che sembra inarrestabile e che vede Pubblico e Privato collaborare nel ridisegnare i contorni di una città antropofaga, dalle economie cannibali: speculazioni compiute in nome di rigenerazione e riqualificazione, accompagnate da narrazioni promozionali ben confezionate a camuffare un modello trito e ritrito e nell’insieme sempre barbaro, ottuso, capitalista. Questa Milano nuova si è fatta fortezza. Si è fatta fortezza su persone e luoghi. Sempre più deprivata dei propri spiriti indomabili, delle contaminazioni impure. Sempre meno luogo per stupore, per ignoto, per l’incontrollabile, per pratiche, azioni e luoghi che non siano già stati dogmati. Ogni cosa ricondotta a controllo, digitalizzazione, profitto, ogni cosa ha la sua deriva commerciale. Gentrificazione degli spazi, degli altrove, dei luoghi dell’agire in autogestione, gentrificazione dei margini, gentrificazione intima dei nostri corpi e delle possibilità che ci diamo. […] La messa in discussione dell’esistenza del Leoncavallo, la volontà degli organi preposti di impossessarsi di uno spazio pubblico autogestito, per conto della Società L’orologio srl, del gruppo Cabassi, è emblema di questo. È, sì, archetipo di un processo consolidato nel quale il Pubblico finisce per definire i suoi piani del governo del territorio apparecchiando tavole su misura di chi sta speculando su ogni metro quadrato, incurante di vite e collettività. I prezzi degli immobili salgono e gli abitanti vengono espulsi dai propri contesti di vita per essere sostituiti da altri abitanti, abbienti. Le relazioni quotidiane, le relazioni mutualistiche e solidali sono sostituite da rapporti mercificati. Interi quartieri popolari vengono definitivamente stravolti, urbanisticamente e socialmente. Ed è così che la natura dei luoghi cambia profondamente. Cancellare il Leoncavallo in via Watteau vuol dire cancellare il lavoro trentennale che ha permesso di trasformare architettonicamente un’enorme area industriale dismessa in uno spazio culturale e politico multiforme, attraversato anche da migliaia di persone in una sola serata. Con la sola forza della lotta politica, dell’autogestione, dell’autorganizzazione, dell’autofinanziamento. Forse non ci si rende conto del lavoro che c’è voluto per trasformare quest’area, di quanto materiale tecnico e umano, di quanti pezzi di vita ha contenuto e contiene lo spazio di via Watteau. Forse non è ben chiaro il valore reale e simbolico di questa esperienza. Forse non è ben chiaro che questo spazio è una conquista collettiva e che non è proprietà di nessuno. Oggi sembra quasi impossibile, in una città come Milano, produrre cultura, ricerca, servizi e addirittura attivismo senza finanziamenti privati, bandi pubblici e crowdfunding. L’amministrazione del welfare, ormai liquefatto, è definitivamente delegata a privato e imprenditoria sociale. Pochi coloro che si turbano. In questo mare oleoso naviga a vista un terzo settore popolato da vecchie organizzazioni in affanno per la sopravvivenza e da nuove organizzazioni, generazioni rampanti che sgomitano per avere protagonismo e finanziamenti. La stragrande maggioranza della produzione culturale e dei servizi sociali sono riconducibili ai capitali delle fondazioni bancarie e d’impresa. Basti dire Fondazione Cariplo: a Milano e Lombardia sembra impossibile farne a meno. Fondazione Cariplo è la maggior azionista, insieme alla fondazione Compagnia di San Paolo, della Banca Intesa San Paolo, il primo e più importante gruppo bancario in Italia. Questo dispositivo assurdo meriterebbe una profonda discussione sulle implicazioni e sulle traiettorie che ha comportato, comporta e comporterà. In special modo se la funzione del terzo settore/privato sociale serve a mascherare il volto della politica, delle banche, delle imprese che determinano esclusione, povertà e speculazioni. Come può il terzo settore diventare attore critico e del cambiamento se continua a essere, a parte rare eccezioni, finanziato e promosso da fondazioni bancarie e d’impresa? Quelle stesse banche e quelle stesse imprese che hanno determinato il modello Milano e Paese. Quelle stesse banche che finanziano armi e guerra. È un’ipocrisia gigantesca. […] Archiviato lo stato sociale, ai bisogni e alle emergenze di reddito, di casa, di salute e cultura, si risponde con progetti e servizi di cooperative, associazioni, organizzazioni filantropiche e caritatevoli, spesso inadeguati. L’efficacia di questo numero considerevole di progetti e servizi prodotti è, in aggiunta, pari a una goccia nel mare. Limiti e criticità sono poco indagati. E la sostanza, fuor di retorica, rimane la stessa: sono sempre di più le persone povere, marginalizzate ed espulse dalle città. Sono sempre meno le politiche e i piani pubblici. Sono sempre meno gli spazi pubblici, di autonomia e cooperazione comunitaria. Alla richiesta diffusa di bisogni specifici di infrastrutture, servizi e possibilità si risponde con la repressione, con una immaginifica rigenerazione, con i canoni della turistificazione e un inconsistente neowelfare. Rimane sempre meno spazio vitale al di fuori dalle traiettorie disegnate e sponsorizzate dai padroni delle città e dalla loro filantropia. Siamo dentro un cambiamento epocale, dalla prevalenza delle esperienze relazionali alla dominanza delle connessioni virtuali. Vite, relazioni, azioni, confronti, scontri, movimenti, sono mediati sempre più da dispositivi digitali proprietari. Sempre meno spazi ed esperienze comuni reali. Siamo sempre più soli e davanti a uno schermo. Poveri, stoccati e connessi. Sempre più del nostro tempo di vita è forzato all’interazione con le macchine digitali e AI. Macchine che influenzano comportamenti e agiti sociali/politici. Il valore d’uso, le apparenti comodità, i falsi miti imposti dalla digitalizzazione e dalla sua potenza di calcolo stanno progressivamente limitando competenze, conoscenze, creatività, intelligenze, i nostri sensi e la nostra sensibilità di fronte agli orrori che ci circondano. […] Di fronte a questo inesorabile finimondo sociale coltivare relazioni forti, solidali e di complicità è l’unico modo di attraversarlo. Coltivare spazi (fisici, non virtuali) dove si sviluppino pratiche radicali e indipendenti dall’impianto istituzionale, dove si riconoscano i diritti e si lavori sull’eliminazione delle differenze sociali, di classe e genere; con la consapevolezza a quale classe sociale si appartiene e con la volontà di decolonizzare e depatriarcalizzare il presente. Svincolati da finanziamenti e ricatti pubblici e privati. Dove la produzione culturale non è mercificata, ma accessibile, autoprodotta e autofinanziata. Dove la cultura non è un fine, un esercizio meramente estetico ed esclusivo, ma un mezzo per vivere meglio e motore di trasformazione. Dove l’arte, la creatività e la politica sono un’unica cosa. Il Leoncavallo è stato (è) un pezzo importante di queste possibilità. Migliaia di persone che hanno animato questa storia in una manciata di generazioni. Migliaia di metri quadri (e cubi!) di possibilità, centinaia di progetti, migliaia di serate e giornate sottratte alla speculazione e alla mercificazione. Migliaia di metri cubi di relazioni, esperienze e formazione. Se oggi il capitalismo si è fatto cibernetico, opporsi a esso significa coltivare e alimentare relazioni reali e materiali. Non è un caso che La Terra Trema abbia trovato casa al Leoncavallo. La cultura materiale, i cibi e le agricolture, l’incontro gioioso in uno spazio liberato, senza sponsor, finanziamenti e patrocini, in questo paradigma catastrofico, sono decisive ancore di salvezza. Oggi non sono messe in discussione solo la storia e le pratiche del Leoncavallo. Di fronte alle spinte mortifere di speculazione immobiliare e dominanza delle connessioni digitali e del controllo, di fronte a questo mostro a due teste serve essere intelligenza sociale collettiva, coesa, lucida. Un’invenzione sociale collettiva a difesa dei propri spazi di autonomia, di autogestione, d’incontro e confronto in presenza, ove riuscire a generare pensiero critico e conflittuale. La messa in discussione dell’esistenza del Leoncavallo in via Watteau ci permette di mettere bene in luce le contraddizioni di una città come Milano, una dopo l’altra. In questi mesi possiamo raccontare un’altra storia, possiamo provare a costruire qualcosa con quello che ci stanno togliendo. È l’occasione di porre anche domande importanti. Autogestione, autorganizzazione, le occupazioni di aree dismesse sono ancora un patrimonio vitale per questa città? Pensiamo di sì, certo facendo i conti con i nostri limiti, i nostri errori e i nostri orrori. Consapevoli che il mondo è cambiato, che alle urgenze che hanno innescato queste pratiche si aggiungono nuovi bisogni, nuove esigenze e che per questo è urgente immaginare e costruire pratiche ed esperienze adeguate. Un patrimonio storico e contemporaneo rischia l’estinzione, ma forse vale la pena raccontarlo e provare ancora ad agirlo con forza, escogitando nuove possibilità di fronte al baratro. Non c’è alternativa per chi non ha alternative. Questi mesi auspichiamo possano essere generativi. Occorre provare a raccontare, far vivere e garantire quello che abbiamo fatto fino a oggi ma sarà inderogabile pensare, dire e fare quello che non è stato mai detto e fatto. È l’occasione per aprire un confronto pubblico e diffuso, per immaginare e costruire il futuro del Leoncavallo in questa Milano. Se ciò non accadrà temiamo che lo spazio per l’autogestione, per delle comunità autonome e perturbanti nelle metropoli, sarà ancora molto più risicato.