La fiera dell’ipocrisia. Intellettuali progressisti e non violenza
(disegno di renaud eymony)
Negli ultimi due anni una classe di intellettuali e analisti progressisti si è
imposta come voce autorevole nell’ambito del movimento di solidarietà con la
Palestina in Italia. Gli va dato atto di essere riusciti ad abbracciare, almeno
retoricamente, anche la visione internazionalista e anticapitalista che sta alla
base della lotta di liberazione palestinese e che, dopo anni di mobilitazione di
collettivi e movimenti territoriali, si sta radicando anche in altri settori
della società italiana.
La lotta di liberazione palestinese si è storicamente presentata come lotta
rivoluzionaria, identificando nel sistema internazionale stesso e nell’ordine
globale che esso impone le radici delle ingiustizie non solo di controllo e
dominio coloniale, ma anche di sfruttamento e oppressione economica e culturale
che, con modalità diverse, si riproducono in tutte le diverse geografie. È una
lotta di liberazione che non guarda “solo” alla libertà palestinese sulla terra
indigena, ma che richiede un cambiamento, una trasformazione sistemica che è
tipica di ogni lotta anticoloniale, e che storicamente è stata abbracciata e
cercata da ogni movimento rivoluzionario nel Sud globale.
Questi intellettuali progressisti si fanno oggi portavoce di un appello alla
cosiddetta “lotta intersezionale”, termine spesso abusato, che nella sua
accezione originale richiamerebbe alla lotta congiunta e alla necessità di
aprire gli orizzonti a nuove prospettive e rivendicazioni sociali ed economiche.
Nonostante il tentativo decoloniale, tuttavia, questi intellettuali ricadono
nella contraddizione storica che la caratterizza: nel momento stesso in cui si
fanno portavoce di parole d’ordine rivoluzionarie, partendo dalla cosiddetta
solidarietà alla lotta anticoloniale palestinese, lo fanno, di nuovo, imponendo
le categorie analitiche e discorsive dello stesso sistema che, invece, la
visione rivoluzionaria tenta di trasformare.
Si fa un gran parlare, in questi giorni, in Italia, delle pratiche di dissenso
individuate da attivisti di differenti estrazioni. La linea generale è che ogni
protesta è giusta e va sostenuta fino a quando non sfoci nella violenza. Un coro
unanime dei nuovi volti della solidarietà neoliberale si è alzato per ribadire
che la non-violenza è imprescindibile per farsi ascoltare. Condanne di vario
genere e prese di distanze non richieste si sono affrettate a spiegarci ciò che
è giusto o sbagliato, a definire cosa è violento e cosa no. Ma che cosa è la
violenza? Chi la definisce? Come si stabiliscono i parametri secondo cui
giudicare? Qual è il contesto che definisce un’azione violenta?
In questo caos discorsivo ho ritenuto necessario trovare risposte in chi le
rivoluzioni le ha sognate, costruite, cercate, nel tentativo di vivere una vita
di dignità e giustizia sociale. È uno sforzo che richiede l’abbandono del
privilegio coloniale di cui siamo intrisi, un insieme di privilegi di razza,
geografici e di classe che spesso denunciamo a parole ma che di fatto continuano
a condizionare il modo in cui ci rapportiamo al mondo, anche e spesso
soprattutto nella classe intellettuale. Ho provato a ripartire dalla dicotomia
tra violenza e non-violenza: la violenza del colonizzato irrazionale, mai
correlata però alla violenza dell’oppressione, che è concepita nell’ordine
educato e borghese delle nostre società, che non considera violenza gli arresti
arbitrari, le politiche di repressione e sorveglianza, quanto piuttosto i
sabotaggi contro queste pratiche e narrative. Ma si può parlare di violenza
senza partire dalla struttura di dominio che la produce, dalla geografia del
potere che decide cosa è visibile e cosa no, cosa è nominabile come violenza e
cosa invece può restare anonimo, amministrativo, “normale”?
Fanon, su questo, va dritto al punto, alla radice di ogni dinamica di
liberazione, riparte dal nucleo centrale dei rapporti di potere: la violenza non
è un incidente nel percorso della colonizzazione, è il suo principio
organizzativo, ciò che costituisce il dominio. Il mondo coloniale è
compartimentato, diviso in zone, in cui la presenza armata, la polizia, i
checkpoint, le demolizioni, le deportazioni e l’espropriazione della terra non
sono eccezioni ma il tessuto quotidiano della vita. È questa violenza originaria
– quella che istituisce il colono come soggetto e il colonizzato come oggetto –
che rende possibile ogni altra pratica: la legge, il mercato, la scuola, il
discorso umanitario. Parlare di non-violenza senza nominare questa asimmetria
significa naturalizzare la posizione del colono, assumere come neutro il punto
di vista di chi beneficia dell’ordine esistente.
La violenza anticoloniale non è l’irruzione di un irrazionale da contenere, ma
l’atto con cui l’oppresso rompe il silenzio altrui sulla violenza che lo
costituisce come tale. È, insieme, risposta e smascheramento: risposta alla
forza nuda che fonda il mondo coloniale; smascheramento della pretesa di
neutralità dell’ordine giuridico, economico e morale che la copre. La domanda
“chi definisce la violenza?” non è retorica: la definisce chi detiene il
monopolio della narrazione legittima, chi ha la possibilità di imporre come
“naturali” le forme lente, burocratiche, istituzionali dell’oppressione, mentre
registra come “violenza” ogni gesto che rompe la “normalità” imposta, che si
rifiuta di obbedire, che si ribella all’ingiustizia.
Su questo la riflessione fanoniana incontra quella di Guevara. Anche per il Che
la violenza rivoluzionaria non nasce nel vuoto, ma da una diagnosi globale di un
sistema economico e politico strutturalmente violento: l’imperialismo, la
dipendenza economica, la subordinazione dell’intera riproduzione sociale alle
esigenze del capitale. Se per Fanon la colonizzazione è un ordine spaziale e
razziale fondato sulle armi, per Guevara il capitalismo mondiale è un ordine
gerarchico che produce fame, miseria, dittature militari, guerra permanente. La
guerriglia non è solo una tecnica di combattimento, è l’assunzione consapevole
del fatto che nessuna richiesta “ragionevole” verrà ascoltata fintanto che non
si intacca il cuore del sistema.
Se assumiamo questa prospettiva, la violenza rivoluzionaria non è mai separata
dalla questione del soggetto. Il combattente non è un mero esecutore di atti
violenti, è qualcuno che si trasforma nel processo stesso della lotta, che rompe
con l’individualismo, con la passività, con la neutralità impossibile. L’“uomo
nuovo” di cui parla Guevara non è una figura mistica, è il tentativo di nominare
una soggettività che non accetta più i parametri morali ed economici imposti
dall’ordine dominante. La violenza non è, attenzione, feticizzata, ma nemmeno è
riducibile a un problema di mezzi da moderare in funzione di fini già dati. È
parte di un processo pedagogico rovesciato: non è il sistema a educare il
soggetto, è la pratica della rottura – del sabotaggio, dell’insurrezione, della
diserzione rispetto alle logiche del profitto – a produrre un soggetto che non
si riconosce più nelle categorie del sistema.
È a questo punto che vale la pena spostarsi sul terreno palestinese
contemporaneo. C’è, per esempio, Basel al-Araj che ci obbliga a fare un
ulteriore passo. La sua riflessione nasce in un contesto in cui la
colonizzazione non è più solo quella “classica” dell’occupazione militare e
della conquista territoriale, ma è anche e soprattutto un regime “manageriale”
nel quadro neoliberale: Oslo, il coordinamento di sicurezza, l’Ong-izzazione
della politica, la trasformazione della resistenza in discorsi e quadri
d’analisi depoliticizzati e decontestualizzati per progetti umanitari finanziati
dai donatori occidentali, tecnicismi per la “democratizzazione” degli “incivili
e ineducati” da salvare, lezioni di industrializzazione e “microeconomia” per i
“sottosviluppati”. In questo quadro, il discorso sulla non-violenza assume una
dimensione ancora più ambigua: diventa spesso la lingua di una solidarietà che,
pur proclamandosi radicale, è pienamente interna alle forme neoliberali del
sistema che, proprio attraverso questi discorsi egemonici, si assicura il
controllo non solo sulle pratiche politiche ma anche sulle percezioni e
rappresentazioni di esse.
La violenza diventa la responsabilità di superare il limite oltre il quale il
linguaggio dei diritti umani e della diplomazia smette di essere strumento e
diventa complicità. La sua pratica – lo studio sistematico della storia, del
nemico, delle esperienze rivoluzionarie passate, unito alla scelta consapevole
della clandestinità e della lotta armata – mette in crisi l’idea di un sapere
“neutro” che possa descrivere la violenza dall’esterno.
Non esiste resistenza palestinese che possa essere separata dalle forme concrete
in cui il potere si riorganizza: l’Autorità Palestinese, i donatori, le
narrazioni liberali della non-violenza, le gerarchie di classe e di razza dentro
e fuori la Palestina. Da questa angolatura, la dicotomia violenza/non-violenza,
così come viene mobilitata nel dibattito del Nord globale e soprattutto in
questi giorni in Italia, appare non solo insufficiente ma profondamente
ideologica. Quando si afferma che “ogni protesta è giusta finché non diventa
violenta”, si dà per scontato che la violenza sia un evento eccezionale che
interrompe una presunta normalità pacifica. Fanon ci invita a rovesciare lo
sguardo: la normalità del mondo coloniale – e, per estensione, del mondo
neoliberale securitario – è già di per sé violenta. È violenza il confine che
uccide, il centro di detenzione amministrativo, il carcere, il razzismo
istituzionale, la precarietà strutturale, l’invisibilità forzata di interi
gruppi sociali. La fame e la miseria di milioni non sono un “danno collaterale”,
ma il prodotto sistematico di un ordine economico. Al-Araj ci mostra come
l’occupazione palestinese sia anche un laboratorio di strategie e pratiche di
oppressione che poi vengono esportate altrove: sorveglianza, polizia preventiva,
controllo dei movimenti e così via.
In questo quadro, definire violenti i sabotaggi, i blocchi, le forme di
disobbedienza che interrompono – temporaneamente e simbolicamente – il flusso
ordinario delle merci, dei confini, della rappresentazione, mentre si tace sulla
violenza strutturale che quel flusso garantisce, significa collocarsi
esattamente nella posizione del colono fanoniano, del borghese che Guevara
chiama a tradire la propria classe e che raramente lo fa, dell’intellettuale che
al-Araj considera complice. Non si tratta di negare che i gesti di rottura
producano danno, conflitto, scontro: si tratta di riconoscere che quello scontro
è “imposto” dalla violenza sistemica, che la sua demonizzazione è una difesa
delle asimmetrie di potere che garantiscono a quello stesso sistema di
difendersi, riprodursi, riproporsi come unico standard, come unica realtà
concepibile. Si tratta di rifiutare la morale che li condanna in nome di una
pace che coincide, in pratica, con la continuità della violenza “legittima”.
Solo a partire da qui è possibile riformulare le domande iniziali: che cos’è la
violenza? Chi ha il potere di nominarla? Quale contesto viene assunto come
sfondo neutro e quale viene patologizzato come devianza? Solo a partire da qui è
possibile parlare di solidarietà senza riprodurre la postura coloniale di chi
rappresenta l’altro, decide al posto dell’altro quale forma di resistenza è
accettabile, prescrive all’altro la non-violenza mentre ne beneficia
quotidianamente lo sfruttamento. Il punto non è di normalizzare la violenza, ma
di smettere di usarla come strumento per silenziare quelle lotte anticoloniali e
rivoluzionarie che dicono, in modo esplicito, che la libertà di una parte
dell’umanità è inseparabile dalla trasformazione radicale dell’ordine che oggi
viene difeso anche, e soprattutto, nel nome della “pace”.
La classe intellettuale progressista che ripropone la stessa dicotomia
violenza/non-violenza che è strumentale al sistema, altro non fa che ribadire,
di fatto, che la “responsabilità della moderazione” ricade sempre interamente su
chi non ha potere; si chiede a chi prova a intervenire sullo status quo di farlo
nei modi che il sistema stesso impone, si chiede di essere le vittime buone come
se la legittimazione del sistema stesso fosse necessaria per essere visibili.
Siano essi i palestinesi, o i giovani che irrompono nelle stanze di una
redazione mediatica complice, o chi occupa spazi pubblici per rivendicare
diritti. A chi detiene il potere, invece, è garantita l’impunità epistemica di
definirsi neutro, civile, pacifico.
È proprio la stessa asimmetria che denuncia Fanon: il colonizzato è chiamato a
giustificare ogni gesto, ogni parola, ogni crepa nel consenso; al colono non si
chiede nulla. Guevara la riconosce nella retorica dello sviluppo e della
democrazia liberale che mascherano la coercizione sistemica dei popoli del Sud
globale; al-Araj la vede all’opera nelle dinamiche neoliberali dell’occupazione
e nel linguaggio dei donatori internazionali che pretendono di decidere quali
forme di resistenza siano “accettabili” e quali invece debbano essere
patologizzate come “violenza”.
Assumere questa prospettiva è la condizione minima per sottrarci all’ipocrisia
che pretende disciplina dagli oppressi e concede licenza illimitata agli
oppressori. È, in ultima analisi, la condizione per parlare di giustizia non
come richiesta astratta, ma come trasformazione radicale dell’ordine che
continua a nominare “pace” la propria violenza e a chiamare “violenza” ogni
tentativo di spezzarne la continuità. (mjriam abu samra)