Dalle strade alla teoria
(disegno di ericailcane)
Dal numero 9 (novembre 2022) de Lo stato delle città
Otto anni fa, era primavera, usciva per Monitor il primo articolo sui quartieri
accanto alla Dora di Torino. Il resoconto menzionava uno sfratto violento
eseguito dalla polizia, i progetti di riqualificazione sognati dagli assessori,
le velleità estetiche di una nota scuola di scrittori e la lotta viva dei
solidali. Da allora ho, abbiamo esplorato il mondo urbano che da piazza della
Repubblica discende fino al fiume e oltre prosegue verso Aurora e Barriera di
Milano. Nel tempo abbiamo raccontato gli sgomberi e le forme d’opposizione,
abbiamo analizzato i piani di rigenerazione e allestito gallerie fotografiche,
pagine di carta hanno accolto la voce di chi ha avuto la forza di resistere:
nella cronaca s’incontrano la voglia di comprendere la città e il desiderio di
supportare le lotte. Ora, quando contemplo i materiali radunati, mi chiedo se da
una sequenza di racconti, immagini e interviste possa nascere un quadro
interpretativo, o una teoria; se la narrazione sia un metodo di conoscenza, e di
quale tipo.
Esistono modelli complessivi, o schemi critici sui processi di trasformazione
urbana: “gentrification”, “turistificazione”, “foodification” o “airbnbfication”
migrano dal linguaggio accademico agli articoli di giornale, ai libri. Fenomeni
peculiari e spesso evidenti – come l’aumento dei prezzi immobiliari,
l’evoluzione dell’offerta consumistica, l’espansione del mercato degli alloggi
per turisti – sono descritti come cause di un effetto generale e raggruppati in
categorie che ambiscono a definire un processo complessivo. Ho il timore che
questi modelli siano ormai cristallizzati e inducano l’osservatore a selezionare
dati utili a corroborare la tesi di partenza. Gli schemi diventano una briglia
per l’immaginazione: i luoghi mostrano quel che i sensi s’attendono, il corso
degli eventi appare lineare e inesorabile.
Appunti, storie orali, fotografie e resoconti di redazione, tuttavia, non sono
meri materiali grezzi e nel tempo ho annotato spunti teorici, tendenze che
possano spiegare i cambiamenti del quartiere e le forze dominanti interessate.
Queste linee sono suggerite dall’esperienza concreta maturata lungo le sponde
della Dora e non è certo che siano applicabili ad altri quartieri o a città
diverse. Ho distinto tre linee tendenziali adeguate a generalizzare i fenomeni:
l’azione degli investitori e delle istituzioni pubbliche; la gestione
commerciale e disciplinare di tratti peculiari dello spazio urbano; il lavoro
simbolico di operatori culturali e funzionari del terzo settore.
Sulla sponda settentrionale della Dora, quando il Lungo Dora Firenze digrada
verso via Bologna, s’apriva un’area libera tra i palazzi. Al centro c’era uno
spiazzo d’asfalto e la domenica s’organizzavano partite di cricket, i giocatori
scavalcavano le recinzioni e trascorrevano l’intero pomeriggio. Quest’area di
ventimila metri quadrati apparteneva al demanio, ma la giunta guidata dalla
Cinque Stelle Appendino ne ha permesso l’alienazione e la svendita per sei
milioni di euro. Una compagnia olandese che controlla la catena The Student
Hotel ha acquistato il prato e gli immobili intorno e ha promesso un
investimento da cinquanta milioni di euro per costruire una struttura ibrida:
camere costose per studenti, stanze per riunioni, uffici per manager flessibili.
E poco più a valle, in via Bologna, s’alza il centro direzionale di Lavazza,
inaugurato nel 2018 dopo un investimento da centoventi milioni di euro. Questa è
la prima linea di tendenza: il quartiere si trasforma grazie all’intervento di
capitali privati supportato dalle istituzioni e dall’impiego della forza
pubblica. Soltanto negli ultimi tre anni abbiamo osservato imponenti operazioni
di polizia per sgomberare chi è considerato pericoloso, indesiderabile o
inadeguato: ora non esistono più il mercato degli straccivendoli in San Pietro
in Vincoli e l’asilo occupato di via Alessandria, un punto d’incontro, di
riflessione e di organizzazione delle lotte in città.
La seconda linea di tendenza può essere percepita da sensi più acuti, attenti ai
minuti movimenti in strada e alla gestione degli angoli del quartiere. Lungo il
fiume i proprietari dei piccoli negozi di generi alimentari e bevande, originari
di India e Pakistan, ricevono ispezioni e multe per futili inadempienze, in
alcuni casi subiscono chiusure temporanee per editti emananti dal sindaco. Sul
ponte di ferro venditori irregolari dispongono stuoie e poche merci e devono
dileguarsi quando giunge la vettura della municipale di ronda. In queste
occasioni i vigili discutono e collaborano con il servizio di guardie private
dell’associazione di commercianti che controlla il Balon, il mercato delle pulci
ormai adeguato alle attese di turisti e abbienti consumatori. Questi guardiani
pattugliano il quartiere ogni sabato e ne garantiscono l’ordine, legittimati dal
comune e dalla questura.
L’egemonia territoriale di peculiari interessi commerciali si scorge anche nei
patti di collaborazione siglati tra il presidente di circoscrizione e alcune
attività di ristorazione e svago lungo il fiume. In nome della cura dei beni
comuni e della manutenzione di aree pubbliche gli esercenti possono gestire lo
spazio intorno ai loro locali in cambio di controllo sociale, pulizia e piccole
opere di abbellimento. In alcuni angoli l’ordine assicurato dagli esercenti
appare dolce e innocuo, ma per il protocollo “Sponde sicure” la violenza è
manifesta. Un barista di Lungo Dora Napoli, referente del protocollo e
informatore della polizia, ha il diritto di controllare il tratto di strada
accanto al parapetto lungo la Dora: può disporre i suoi tavolini sul suolo
pubblico, guadagnare dalla vendita di bevande a turisti e avventori bianchi,
allontanare i poveri che trascorrono le ore con una canna o una birra accanto al
fiume. Così la disciplina in strada, esito di piccoli e quotidiani gesti di
forze pubbliche e private, garantisce il profitto di privilegiate attività
commerciali accanto alla Dora.
La terza linea tendenziale riguarda la gestione del consenso, ovvero
l’amministrazione dei discorsi e dei simboli. I protagonisti sono le
associazioni del terzo settore, gruppi informali, cooperative di funzionari e
operatori culturali. Lungo la Dora è un esempio peculiare il programma Tonite,
un progetto europeo di “community-based urban security”. Secondo Tonite gli
eventi culturali, il consumo nei locali, le attività sportive al tramonto e le
varie iniziative di coinvolgimento della cittadinanza garantiscono la coesione
sociale tra gli abitanti e rafforzano la percezione di sicurezza quando scende
il buio. Al bando di Tonite hanno partecipato enti di ricerca universitaria,
associazioni e cooperative impegnate nel lavoro sociale ed educativo, locali
commerciali, scuole di zona. Abbiamo seguito alcuni progetti: nei mesi artisti
di strada hanno decorato un marciapiede antistante l’ingresso di una scuola; un
espositore di opere artistiche e fotografie ha organizzato laboratori di
editoria lungo il fiume; una fondazione di comunità ha accolto spettacoli
teatrali e intrattenimenti nel giardino; operatori sociali portano al tramonto
un calcetto in mezzo alla strada; una locanda ospita musicisti esotici per
allietare le cene dei clienti. Le foto di ogni azione sono rilanciate nel mondo
virtuale, accompagnate da testi brevi con slogan, i nomi delle istituzioni e
l’auspicio che la sicurezza urbana sia l’esito di attività sociali partecipate e
multiculturali.
Intrattenimenti e spettacoli di Tonite avvengono negli stessi luoghi segnati da
violenze e azioni disciplinari descritte nelle prime due linee tendenziali,
eppure nessuna iniziativa ha elaborato riflessioni e dibattiti sulle
speculazioni immobiliari, le discriminazioni, le violenze tra piazza della
Repubblica e Barriera di Milano, nessun operatore ha avuto il coraggio di
criticare apertamente l’ordine urbano intorno. Le buone intenzioni e la
proclamata coesione sociale di Tonite, allora, sono una forma, per quanto
inconsapevole, di propaganda: allontanano il rimosso dalla coscienza, diluiscono
ogni spunto critico nella soffusa e indistinta patina delle buone intenzioni.
Allo stesso tempo, i governanti della città menzionano Tonite in convegni,
tavole rotonde, presentazioni, corsi universitari. In strada gli eventi sono
spesso partecipati dai soli organizzatori, ma grazie al loro lavoro, spesso
volontario o mal pagato, il progetto di sicurezza urbana ha una portata
simbolica notevole, garantisce un’egemonia sui contenuti culturali e sulle
rappresentazioni, legittima il discorso pubblico delle classi dirigenti.
Tonite è un caso di studio, in verità l’intera offerta culturale è integrata in
un sistema di patrocini istituzionali e finanziamenti assicurati da progetti
europei o fondazioni bancarie. Le opere simboliche, l’arte pubblica, i linguaggi
confezionati non sono mera apparenza, o contenuti immateriali, piuttosto mi
appaiono come oggetti concreti che s’amalgamano con gli interventi di
rigenerazione, gli sgomberi, gli investimenti delle compagnie finanziarie, i
gretti interessi di un commercio che s’adegua allo spettacolo per turisti.
Ritenere che vi siano cause principali ed effetti primari o secondari, o
processi strutturali e rifrazioni immateriali, mi sembra una semplificazione:
nello spazio urbano i fenomeni descritti nelle tre linee di tendenza sono
legati, collaborano e trovano un equilibrio precario. Abbandono la distinzione
tra cause ed effetti e vedo quasi un campo di forze in connessione: alcune, come
gli interventi di polizia e gli investimenti milionari, dispongono di una massa
ingente capace di curvare in modo più accentuato lo spazio intorno. E non credo
esista una regia unica e cosciente, un disegno. Piuttosto variegati e
frammentari interessi puntuali s’incontrano, in certi casi combaciano, e la
città appare dominata da una complessiva collaborazione tra investitori,
istituzioni, esercenti tutelati, artisti e funzionari capaci di mescolare
ingenua inconsapevolezza e spregiudicato cinismo. Forse i legami che tengono
insieme i diversi snodi, o punti di forza, sono assicurati da un comune pensiero
inconscio, una conformazione sopita delle menti, o ideologia.
Ora, alla fine, m’accorgo che la scrittura, se assume un tono saggistico o
espositivo, non può evitare il cristallizzarsi di concetti e discorsi. Le
categorie proposte qui hanno preso forma, sono scritte, e mi sembrano di nuovo
schematiche. Forse gli stessi modelli esplicativi che non mi convincono sono
nati un tempo come intuizioni vivaci e poi si sono consunti, si sono trasformati
in semplificazioni e sono stati applicati in modo automatico fino a diventare
scontati o inconsci. Immagino che la riflessione teorica si muova per cicli: un
nuovo sguardo osserva il mondo, emerge un’intuizione, essa si formalizza,
diviene stabile; poi inizia l’erosione, la teoria diventa uno schema in necrosi
che non interpreta più i fenomeni, ma li imbriglia. Più importante della teoria
è allora disporre di un metodo di ricerca che sappia mettersi in movimento,
cogliere le mutazioni del paesaggio e della sensibilità di chi osserva: sono le
tecniche del viaggiatore e del narratore che si sposta in mondi lontani. Eppure,
per chi esplora sempre lo stesso quartiere è impossibile conservare quel senso
di lontananza che favorisce il movimento e l’instabilità fecondi. Se la
stanchezza dello sguardo è inevitabile, bisogna adottare nuovi espedienti. In
questo testo ho usato in modo ambiguo i pronomi, perché mi muovo dalla prima
persona singolare alla prima plurale – nel “noi” si nasconde una possibilità. Da
tempo esiste un gruppo redazionale di Monitor che s’interroga sul quartiere e
sulle più ampie trasformazioni urbane a Torino: così le attitudini percettive
divengono, stagione dopo stagione, più varie e molteplici, impiegano diverse
tecniche e vari stili e da un’intelligenza collettiva muove il rinnovamento
degli strumenti critici. (francesco migliaccio)