Modelli di città e pratiche di autogestione. Riflessioni dal possibile sgombero del Leoncavallo
(foto da: la terra trema)
Pubblichiamo a seguire l’estratto di una riflessione dal sito de La Terra Trema,
scritta dal gruppo omonimo insieme agli attivisti e le attiviste del
Folletto25603.
Il Leoncavallo rischia di sparire per sempre. Nella sua forma di via
Watteau sembra avere vita breve. L’amministrazione pubblica, il sindaco e il
loro entourage tecnico e politico, offrono un “capannoncino” nell’estrema
periferia sud della città. Una proposta tutta da verificare e costruire. Una
proposta che ha il sapore di una “deportazione”, come ha già detto, giustamente,
qualcuno. Una deportazione che rischia di far morire il confinato lungo il
tragitto, aggiungiamo noi. Una soluzione “pragmatica, nel rispetto delle norme,
che salvaguardi l’esperienza, la storia e l’evoluzione che il centro sociale
Leoncavallo ha vissuto negli ultimi anni”. Questo quello che scrivono e offrono
l’amministrazione pubblica e le politiche istituzionali a questa storia
cinquantennale di autogestione, dopo aver lasciato campo libero per decenni alla
speculazione immobiliare.
[…] Se quella del Leoncavallo è una storia difficile da sintetizzare a freddo,
ha invece più senso concentrarsi sui dispositivi che stanno portando a decretare
la fine di questo spazio per come lo conosciamo (la sua fine e non solo la sua);
sugli attori che hanno determinato quel percorso che ha prodotto un habitat
sempre più inaccessibile, soprattutto per alcuni viventi. A Milano e in questo
terribile mondo. E forse, guardare a questa storia, può essere l’occasione per
ritornare a dire cosa vogliamo, cosa non vogliamo perdere, cosa desideriamo per
noi e per le città che viviamo, e animiamo, cosa vorremmo mettere in discussione
di tutto questo, radicalmente.
La forma delle occupazioni, pratica novecentesca variamente motivata (occupi uno
spazio per dare luogo e possibilità a attività/desideri/ambizioni che
altrimenti, altrove, ti sarebbero negate: suonare / ascoltare musica / mettere
dischi / recitare / mangiare / socializzare / sbombolettare / formarti /
imparare / insegnare / agire politicamente / abitare / danzare / ballare /
fotografare / documentare) pare non sia più esercizio di questo tempo, che non
serva più, non sia più adeguata alla forma metropoli, che già offre tutte le
alternative possibili, ognuna delle declinazioni richieste, ognuno dei tuoi
desiderata. Se puoi permettertelo, è chiaro. Altrimenti, no.
Le mutazioni gentry stanno già ridisegnando la forma di chi può abitare
quartieri e città: dentro gli investitori, le dinastie elette, le nuove
aristocrazie, i negozietti, le belle scuole, i laboratori creativi, prezzolati e
hype, i festival, i sorrisi giusti col drink totale, la spensieratezza
completamente scollegata dall’oggi. Alle vecchie e nuove povertà, ai fallimenti,
agli indomabili diamo sterminate periferie. Scollegate, irraggiungibili,
deprivate dei servizi, scomode, inospitali. È il grande scollamento della
mutazione gentry, la volontà totale di vivere in assenza di batteri, in città
disinfettate dal conflitto, decontaminate, lustre, deprivate del contatto tra
tessuti sociali. E, certo, qui, gli spazi occupati intra moenia, sono visioni
stonate, inaccettabili interferenze. Inutili alle élite metropolitane, alle loro
tavole già apparecchiate di cultura a tutto tondo, cibo sano, cliniche private.
Le mutazioni gentry hanno già ridisegnato la forma di chi può abitare quartieri
e città mettendo in atto un cambiamento che sembra inarrestabile e che vede
Pubblico e Privato collaborare nel ridisegnare i contorni di una città
antropofaga, dalle economie cannibali: speculazioni compiute in nome di
rigenerazione e riqualificazione, accompagnate da narrazioni promozionali ben
confezionate a camuffare un modello trito e ritrito e nell’insieme sempre
barbaro, ottuso, capitalista. Questa Milano nuova si è fatta fortezza. Si è
fatta fortezza su persone e luoghi. Sempre più deprivata dei propri spiriti
indomabili, delle contaminazioni impure. Sempre meno luogo per stupore, per
ignoto, per l’incontrollabile, per pratiche, azioni e luoghi che non siano già
stati dogmati. Ogni cosa ricondotta a controllo, digitalizzazione, profitto,
ogni cosa ha la sua deriva commerciale. Gentrificazione degli spazi, degli
altrove, dei luoghi dell’agire in autogestione, gentrificazione dei margini,
gentrificazione intima dei nostri corpi e delle possibilità che ci diamo.
[…] La messa in discussione dell’esistenza del Leoncavallo, la volontà degli
organi preposti di impossessarsi di uno spazio pubblico autogestito, per conto
della Società L’orologio srl, del gruppo Cabassi, è emblema di questo. È, sì,
archetipo di un processo consolidato nel quale il Pubblico finisce per definire
i suoi piani del governo del territorio apparecchiando tavole su misura di chi
sta speculando su ogni metro quadrato, incurante di vite e collettività.
I prezzi degli immobili salgono e gli abitanti vengono espulsi dai propri
contesti di vita per essere sostituiti da altri abitanti, abbienti. Le relazioni
quotidiane, le relazioni mutualistiche e solidali sono sostituite da rapporti
mercificati. Interi quartieri popolari vengono definitivamente stravolti,
urbanisticamente e socialmente. Ed è così che la natura dei luoghi cambia
profondamente.
Cancellare il Leoncavallo in via Watteau vuol dire cancellare il lavoro
trentennale che ha permesso di trasformare architettonicamente un’enorme area
industriale dismessa in uno spazio culturale e politico multiforme, attraversato
anche da migliaia di persone in una sola serata. Con la sola forza della lotta
politica, dell’autogestione, dell’autorganizzazione, dell’autofinanziamento.
Forse non ci si rende conto del lavoro che c’è voluto per trasformare
quest’area, di quanto materiale tecnico e umano, di quanti pezzi di vita ha
contenuto e contiene lo spazio di via Watteau. Forse non è ben chiaro il valore
reale e simbolico di questa esperienza. Forse non è ben chiaro che questo spazio
è una conquista collettiva e che non è proprietà di nessuno.
Oggi sembra quasi impossibile, in una città come Milano, produrre cultura,
ricerca, servizi e addirittura attivismo senza finanziamenti privati, bandi
pubblici e crowdfunding. L’amministrazione del welfare, ormai liquefatto, è
definitivamente delegata a privato e imprenditoria sociale. Pochi coloro che si
turbano. In questo mare oleoso naviga a vista un terzo settore popolato da
vecchie organizzazioni in affanno per la sopravvivenza e da nuove
organizzazioni, generazioni rampanti che sgomitano per avere protagonismo e
finanziamenti.
La stragrande maggioranza della produzione culturale e dei servizi sociali sono
riconducibili ai capitali delle fondazioni bancarie e d’impresa. Basti dire
Fondazione Cariplo: a Milano e Lombardia sembra impossibile farne a meno.
Fondazione Cariplo è la maggior azionista, insieme alla fondazione Compagnia di
San Paolo, della Banca Intesa San Paolo, il primo e più importante gruppo
bancario in Italia. Questo dispositivo assurdo meriterebbe una profonda
discussione sulle implicazioni e sulle traiettorie che ha comportato, comporta e
comporterà. In special modo se la funzione del terzo settore/privato sociale
serve a mascherare il volto della politica, delle banche, delle imprese che
determinano esclusione, povertà e speculazioni. Come può il terzo settore
diventare attore critico e del cambiamento se continua a essere, a parte rare
eccezioni, finanziato e promosso da fondazioni bancarie e d’impresa? Quelle
stesse banche e quelle stesse imprese che hanno determinato il modello Milano e
Paese. Quelle stesse banche che finanziano armi e guerra. È un’ipocrisia
gigantesca.
[…] Archiviato lo stato sociale, ai bisogni e alle emergenze di reddito, di
casa, di salute e cultura, si risponde con progetti e servizi di cooperative,
associazioni, organizzazioni filantropiche e caritatevoli, spesso inadeguati.
L’efficacia di questo numero considerevole di progetti e servizi prodotti è, in
aggiunta, pari a una goccia nel mare. Limiti e criticità sono poco indagati. E
la sostanza, fuor di retorica, rimane la stessa: sono sempre di più le persone
povere, marginalizzate ed espulse dalle città. Sono sempre meno le politiche e i
piani pubblici. Sono sempre meno gli spazi pubblici, di autonomia e cooperazione
comunitaria.
Alla richiesta diffusa di bisogni specifici di infrastrutture, servizi e
possibilità si risponde con la repressione, con una immaginifica rigenerazione,
con i canoni della turistificazione e un inconsistente neowelfare. Rimane sempre
meno spazio vitale al di fuori dalle traiettorie disegnate e sponsorizzate
dai padroni delle città e dalla loro filantropia.
Siamo dentro un cambiamento epocale, dalla prevalenza delle esperienze
relazionali alla dominanza delle connessioni virtuali. Vite, relazioni, azioni,
confronti, scontri, movimenti, sono mediati sempre più da dispositivi digitali
proprietari. Sempre meno spazi ed esperienze comuni reali. Siamo sempre più soli
e davanti a uno schermo. Poveri, stoccati e connessi. Sempre più del nostro
tempo di vita è forzato all’interazione con le macchine digitali e AI. Macchine
che influenzano comportamenti e agiti sociali/politici. Il valore d’uso, le
apparenti comodità, i falsi miti imposti dalla digitalizzazione e dalla sua
potenza di calcolo stanno progressivamente limitando competenze, conoscenze,
creatività, intelligenze, i nostri sensi e la nostra sensibilità di fronte agli
orrori che ci circondano. […]
Di fronte a questo inesorabile finimondo sociale coltivare relazioni forti,
solidali e di complicità è l’unico modo di attraversarlo. Coltivare spazi
(fisici, non virtuali) dove si sviluppino pratiche radicali e indipendenti
dall’impianto istituzionale, dove si riconoscano i diritti e si lavori
sull’eliminazione delle differenze sociali, di classe e genere; con la
consapevolezza a quale classe sociale si appartiene e con la volontà
di decolonizzare e depatriarcalizzare il presente. Svincolati da finanziamenti e
ricatti pubblici e privati. Dove la produzione culturale non è mercificata, ma
accessibile, autoprodotta e autofinanziata. Dove la cultura non è un fine, un
esercizio meramente estetico ed esclusivo, ma un mezzo per vivere meglio e
motore di trasformazione. Dove l’arte, la creatività e la politica sono un’unica
cosa.
Il Leoncavallo è stato (è) un pezzo importante di queste possibilità. Migliaia
di persone che hanno animato questa storia in una manciata di generazioni.
Migliaia di metri quadri (e cubi!) di possibilità, centinaia di progetti,
migliaia di serate e giornate sottratte alla speculazione e alla
mercificazione. Migliaia di metri cubi di relazioni, esperienze e formazione.
Se oggi il capitalismo si è fatto cibernetico, opporsi a esso significa
coltivare e alimentare relazioni reali e materiali. Non è un caso che La Terra
Trema abbia trovato casa al Leoncavallo. La cultura materiale, i cibi e le
agricolture, l’incontro gioioso in uno spazio liberato, senza sponsor,
finanziamenti e patrocini, in questo paradigma catastrofico, sono decisive
ancore di salvezza.
Oggi non sono messe in discussione solo la storia e le pratiche del Leoncavallo.
Di fronte alle spinte mortifere di speculazione immobiliare e dominanza delle
connessioni digitali e del controllo, di fronte a questo mostro a due
teste serve essere intelligenza sociale collettiva, coesa, lucida. Un’invenzione
sociale collettiva a difesa dei propri spazi di autonomia, di autogestione,
d’incontro e confronto in presenza, ove riuscire a generare pensiero critico e
conflittuale.
La messa in discussione dell’esistenza del Leoncavallo in via Watteau ci
permette di mettere bene in luce le contraddizioni di una città come Milano, una
dopo l’altra. In questi mesi possiamo raccontare un’altra storia, possiamo
provare a costruire qualcosa con quello che ci stanno togliendo. È l’occasione
di porre anche domande importanti.
Autogestione, autorganizzazione, le occupazioni di aree dismesse sono ancora un
patrimonio vitale per questa città? Pensiamo di sì, certo facendo i conti con i
nostri limiti, i nostri errori e i nostri orrori. Consapevoli che il mondo è
cambiato, che alle urgenze che hanno innescato queste pratiche si aggiungono
nuovi bisogni, nuove esigenze e che per questo è urgente immaginare e costruire
pratiche ed esperienze adeguate. Un patrimonio storico e contemporaneo rischia
l’estinzione, ma forse vale la pena raccontarlo e provare ancora ad agirlo con
forza, escogitando nuove possibilità di fronte al baratro. Non c’è alternativa
per chi non ha alternative. Questi mesi auspichiamo possano essere generativi.
Occorre provare a raccontare, far vivere e garantire quello che abbiamo fatto
fino a oggi ma sarà inderogabile pensare, dire e fare quello che non è stato mai
detto e fatto.
È l’occasione per aprire un confronto pubblico e diffuso, per immaginare e
costruire il futuro del Leoncavallo in questa Milano. Se ciò non accadrà temiamo
che lo spazio per l’autogestione, per delle comunità autonome e perturbanti
nelle metropoli, sarà ancora molto più risicato.