
La fiera dell’ipocrisia. Intellettuali progressisti e non violenza
Napoli MONiTOR - Saturday, December 6, 2025
(disegno di renaud eymony)Negli ultimi due anni una classe di intellettuali e analisti progressisti si è imposta come voce autorevole nell’ambito del movimento di solidarietà con la Palestina in Italia. Gli va dato atto di essere riusciti ad abbracciare, almeno retoricamente, anche la visione internazionalista e anticapitalista che sta alla base della lotta di liberazione palestinese e che, dopo anni di mobilitazione di collettivi e movimenti territoriali, si sta radicando anche in altri settori della società italiana.
La lotta di liberazione palestinese si è storicamente presentata come lotta rivoluzionaria, identificando nel sistema internazionale stesso e nell’ordine globale che esso impone le radici delle ingiustizie non solo di controllo e dominio coloniale, ma anche di sfruttamento e oppressione economica e culturale che, con modalità diverse, si riproducono in tutte le diverse geografie. È una lotta di liberazione che non guarda “solo” alla libertà palestinese sulla terra indigena, ma che richiede un cambiamento, una trasformazione sistemica che è tipica di ogni lotta anticoloniale, e che storicamente è stata abbracciata e cercata da ogni movimento rivoluzionario nel Sud globale.
Questi intellettuali progressisti si fanno oggi portavoce di un appello alla cosiddetta “lotta intersezionale”, termine spesso abusato, che nella sua accezione originale richiamerebbe alla lotta congiunta e alla necessità di aprire gli orizzonti a nuove prospettive e rivendicazioni sociali ed economiche. Nonostante il tentativo decoloniale, tuttavia, questi intellettuali ricadono nella contraddizione storica che la caratterizza: nel momento stesso in cui si fanno portavoce di parole d’ordine rivoluzionarie, partendo dalla cosiddetta solidarietà alla lotta anticoloniale palestinese, lo fanno, di nuovo, imponendo le categorie analitiche e discorsive dello stesso sistema che, invece, la visione rivoluzionaria tenta di trasformare.
Si fa un gran parlare, in questi giorni, in Italia, delle pratiche di dissenso individuate da attivisti di differenti estrazioni. La linea generale è che ogni protesta è giusta e va sostenuta fino a quando non sfoci nella violenza. Un coro unanime dei nuovi volti della solidarietà neoliberale si è alzato per ribadire che la non-violenza è imprescindibile per farsi ascoltare. Condanne di vario genere e prese di distanze non richieste si sono affrettate a spiegarci ciò che è giusto o sbagliato, a definire cosa è violento e cosa no. Ma che cosa è la violenza? Chi la definisce? Come si stabiliscono i parametri secondo cui giudicare? Qual è il contesto che definisce un’azione violenta?
In questo caos discorsivo ho ritenuto necessario trovare risposte in chi le rivoluzioni le ha sognate, costruite, cercate, nel tentativo di vivere una vita di dignità e giustizia sociale. È uno sforzo che richiede l’abbandono del privilegio coloniale di cui siamo intrisi, un insieme di privilegi di razza, geografici e di classe che spesso denunciamo a parole ma che di fatto continuano a condizionare il modo in cui ci rapportiamo al mondo, anche e spesso soprattutto nella classe intellettuale. Ho provato a ripartire dalla dicotomia tra violenza e non-violenza: la violenza del colonizzato irrazionale, mai correlata però alla violenza dell’oppressione, che è concepita nell’ordine educato e borghese delle nostre società, che non considera violenza gli arresti arbitrari, le politiche di repressione e sorveglianza, quanto piuttosto i sabotaggi contro queste pratiche e narrative. Ma si può parlare di violenza senza partire dalla struttura di dominio che la produce, dalla geografia del potere che decide cosa è visibile e cosa no, cosa è nominabile come violenza e cosa invece può restare anonimo, amministrativo, “normale”?
Fanon, su questo, va dritto al punto, alla radice di ogni dinamica di liberazione, riparte dal nucleo centrale dei rapporti di potere: la violenza non è un incidente nel percorso della colonizzazione, è il suo principio organizzativo, ciò che costituisce il dominio. Il mondo coloniale è compartimentato, diviso in zone, in cui la presenza armata, la polizia, i checkpoint, le demolizioni, le deportazioni e l’espropriazione della terra non sono eccezioni ma il tessuto quotidiano della vita. È questa violenza originaria – quella che istituisce il colono come soggetto e il colonizzato come oggetto – che rende possibile ogni altra pratica: la legge, il mercato, la scuola, il discorso umanitario. Parlare di non-violenza senza nominare questa asimmetria significa naturalizzare la posizione del colono, assumere come neutro il punto di vista di chi beneficia dell’ordine esistente.
La violenza anticoloniale non è l’irruzione di un irrazionale da contenere, ma l’atto con cui l’oppresso rompe il silenzio altrui sulla violenza che lo costituisce come tale. È, insieme, risposta e smascheramento: risposta alla forza nuda che fonda il mondo coloniale; smascheramento della pretesa di neutralità dell’ordine giuridico, economico e morale che la copre. La domanda “chi definisce la violenza?” non è retorica: la definisce chi detiene il monopolio della narrazione legittima, chi ha la possibilità di imporre come “naturali” le forme lente, burocratiche, istituzionali dell’oppressione, mentre registra come “violenza” ogni gesto che rompe la “normalità” imposta, che si rifiuta di obbedire, che si ribella all’ingiustizia.
Su questo la riflessione fanoniana incontra quella di Guevara. Anche per il Che la violenza rivoluzionaria non nasce nel vuoto, ma da una diagnosi globale di un sistema economico e politico strutturalmente violento: l’imperialismo, la dipendenza economica, la subordinazione dell’intera riproduzione sociale alle esigenze del capitale. Se per Fanon la colonizzazione è un ordine spaziale e razziale fondato sulle armi, per Guevara il capitalismo mondiale è un ordine gerarchico che produce fame, miseria, dittature militari, guerra permanente. La guerriglia non è solo una tecnica di combattimento, è l’assunzione consapevole del fatto che nessuna richiesta “ragionevole” verrà ascoltata fintanto che non si intacca il cuore del sistema.
Se assumiamo questa prospettiva, la violenza rivoluzionaria non è mai separata dalla questione del soggetto. Il combattente non è un mero esecutore di atti violenti, è qualcuno che si trasforma nel processo stesso della lotta, che rompe con l’individualismo, con la passività, con la neutralità impossibile. L’“uomo nuovo” di cui parla Guevara non è una figura mistica, è il tentativo di nominare una soggettività che non accetta più i parametri morali ed economici imposti dall’ordine dominante. La violenza non è, attenzione, feticizzata, ma nemmeno è riducibile a un problema di mezzi da moderare in funzione di fini già dati. È parte di un processo pedagogico rovesciato: non è il sistema a educare il soggetto, è la pratica della rottura – del sabotaggio, dell’insurrezione, della diserzione rispetto alle logiche del profitto – a produrre un soggetto che non si riconosce più nelle categorie del sistema.
È a questo punto che vale la pena spostarsi sul terreno palestinese contemporaneo. C’è, per esempio, Basel al-Araj che ci obbliga a fare un ulteriore passo. La sua riflessione nasce in un contesto in cui la colonizzazione non è più solo quella “classica” dell’occupazione militare e della conquista territoriale, ma è anche e soprattutto un regime “manageriale” nel quadro neoliberale: Oslo, il coordinamento di sicurezza, l’Ong-izzazione della politica, la trasformazione della resistenza in discorsi e quadri d’analisi depoliticizzati e decontestualizzati per progetti umanitari finanziati dai donatori occidentali, tecnicismi per la “democratizzazione” degli “incivili e ineducati” da salvare, lezioni di industrializzazione e “microeconomia” per i “sottosviluppati”. In questo quadro, il discorso sulla non-violenza assume una dimensione ancora più ambigua: diventa spesso la lingua di una solidarietà che, pur proclamandosi radicale, è pienamente interna alle forme neoliberali del sistema che, proprio attraverso questi discorsi egemonici, si assicura il controllo non solo sulle pratiche politiche ma anche sulle percezioni e rappresentazioni di esse.
La violenza diventa la responsabilità di superare il limite oltre il quale il linguaggio dei diritti umani e della diplomazia smette di essere strumento e diventa complicità. La sua pratica – lo studio sistematico della storia, del nemico, delle esperienze rivoluzionarie passate, unito alla scelta consapevole della clandestinità e della lotta armata – mette in crisi l’idea di un sapere “neutro” che possa descrivere la violenza dall’esterno.
Non esiste resistenza palestinese che possa essere separata dalle forme concrete in cui il potere si riorganizza: l’Autorità Palestinese, i donatori, le narrazioni liberali della non-violenza, le gerarchie di classe e di razza dentro e fuori la Palestina. Da questa angolatura, la dicotomia violenza/non-violenza, così come viene mobilitata nel dibattito del Nord globale e soprattutto in questi giorni in Italia, appare non solo insufficiente ma profondamente ideologica. Quando si afferma che “ogni protesta è giusta finché non diventa violenta”, si dà per scontato che la violenza sia un evento eccezionale che interrompe una presunta normalità pacifica. Fanon ci invita a rovesciare lo sguardo: la normalità del mondo coloniale – e, per estensione, del mondo neoliberale securitario – è già di per sé violenta. È violenza il confine che uccide, il centro di detenzione amministrativo, il carcere, il razzismo istituzionale, la precarietà strutturale, l’invisibilità forzata di interi gruppi sociali. La fame e la miseria di milioni non sono un “danno collaterale”, ma il prodotto sistematico di un ordine economico. Al-Araj ci mostra come l’occupazione palestinese sia anche un laboratorio di strategie e pratiche di oppressione che poi vengono esportate altrove: sorveglianza, polizia preventiva, controllo dei movimenti e così via.
In questo quadro, definire violenti i sabotaggi, i blocchi, le forme di disobbedienza che interrompono – temporaneamente e simbolicamente – il flusso ordinario delle merci, dei confini, della rappresentazione, mentre si tace sulla violenza strutturale che quel flusso garantisce, significa collocarsi esattamente nella posizione del colono fanoniano, del borghese che Guevara chiama a tradire la propria classe e che raramente lo fa, dell’intellettuale che al-Araj considera complice. Non si tratta di negare che i gesti di rottura producano danno, conflitto, scontro: si tratta di riconoscere che quello scontro è “imposto” dalla violenza sistemica, che la sua demonizzazione è una difesa delle asimmetrie di potere che garantiscono a quello stesso sistema di difendersi, riprodursi, riproporsi come unico standard, come unica realtà concepibile. Si tratta di rifiutare la morale che li condanna in nome di una pace che coincide, in pratica, con la continuità della violenza “legittima”.
Solo a partire da qui è possibile riformulare le domande iniziali: che cos’è la violenza? Chi ha il potere di nominarla? Quale contesto viene assunto come sfondo neutro e quale viene patologizzato come devianza? Solo a partire da qui è possibile parlare di solidarietà senza riprodurre la postura coloniale di chi rappresenta l’altro, decide al posto dell’altro quale forma di resistenza è accettabile, prescrive all’altro la non-violenza mentre ne beneficia quotidianamente lo sfruttamento. Il punto non è di normalizzare la violenza, ma di smettere di usarla come strumento per silenziare quelle lotte anticoloniali e rivoluzionarie che dicono, in modo esplicito, che la libertà di una parte dell’umanità è inseparabile dalla trasformazione radicale dell’ordine che oggi viene difeso anche, e soprattutto, nel nome della “pace”.
La classe intellettuale progressista che ripropone la stessa dicotomia violenza/non-violenza che è strumentale al sistema, altro non fa che ribadire, di fatto, che la “responsabilità della moderazione” ricade sempre interamente su chi non ha potere; si chiede a chi prova a intervenire sullo status quo di farlo nei modi che il sistema stesso impone, si chiede di essere le vittime buone come se la legittimazione del sistema stesso fosse necessaria per essere visibili. Siano essi i palestinesi, o i giovani che irrompono nelle stanze di una redazione mediatica complice, o chi occupa spazi pubblici per rivendicare diritti. A chi detiene il potere, invece, è garantita l’impunità epistemica di definirsi neutro, civile, pacifico.
È proprio la stessa asimmetria che denuncia Fanon: il colonizzato è chiamato a giustificare ogni gesto, ogni parola, ogni crepa nel consenso; al colono non si chiede nulla. Guevara la riconosce nella retorica dello sviluppo e della democrazia liberale che mascherano la coercizione sistemica dei popoli del Sud globale; al-Araj la vede all’opera nelle dinamiche neoliberali dell’occupazione e nel linguaggio dei donatori internazionali che pretendono di decidere quali forme di resistenza siano “accettabili” e quali invece debbano essere patologizzate come “violenza”.
Assumere questa prospettiva è la condizione minima per sottrarci all’ipocrisia che pretende disciplina dagli oppressi e concede licenza illimitata agli oppressori. È, in ultima analisi, la condizione per parlare di giustizia non come richiesta astratta, ma come trasformazione radicale dell’ordine che continua a nominare “pace” la propria violenza e a chiamare “violenza” ogni tentativo di spezzarne la continuità. (mjriam abu samra)