All’arrembaggio!Il mondo si è fermato
Mò ce lo riprendiamo.
Mai più io sarò saggio – 99 Posse
Chi campa ‘nsiene ‘a te, te para’ nient’
Si jesce pazz è pazz overamente
L’unica verità pe’ tutte quante
Sarria chell’ ‘e fui’
Ma po’ addo’ jamm’
Vesuvio – Canti popolari
Quando si verifica un’esplosione, di solito si corre a cercare la miccia, e i
più spavaldi rivendicheranno di averla accesa loro. Ma quando la terra trema e
poi esplode in fiumi di fuoco, non c’è nessuna miccia, solo il magma bollente
che dal cuore del pianeta si fa strada verso la superficie, verso l’aria aperta.
La portata degli eventi di fronte a cui ci troviamo non ci permette più di
pensare semplicemente in termini di convergenza al centro (perché la somma delle
parti è sempre più del tutto), ma piuttosto valutare il risultato di un insieme
di contingenze, calcoli e intuizioni che hanno portato a un accumulo di
tensione, frustrazione e desiderio in attesa di un punto di sfogo, la goccia che
facesse traboccare il vaso.
E la goccia è arrivata, con l’intercettazione e l’assalto delle navi della
Global Samud Flotilla da parte dell’Idf, e così tacitamente, senza bisogno di
comunicazioni formali, ma per necessità, mosse da uno slancio di rabbia vitale,
ci si è riversate ancora e ancora nelle piazze e nelle strade, dove finalmente
abbiamo potuto vedere quel nuovo, che da tempo ci diciamo che sta nascendo,
muovere i primi passi e iniziare a prendere forma.
Riteniamo utile a questo proposito riflettere sui rapporti tra spontaneismo e
organizzazione, che non sono mai nettamente dicotomici e manichei, ma anzi due
elementi di un binomio da cui bisogna trarre sempre nuove pratiche di conflitto.
Gli ultimi due anni hanno inciso profondamente sulle società politiche
occidentali, inaridite e frammentate, per le quali l’intensificarsi
dell’operazione sionista di pulizia etnica del popolo palestinese, avviata dal
regime sionista quasi ottant’anni fa, ha rappresentato la secchiata d’acqua
fredda che ci ha riportato con i piedi per terra.
Da una parte per l’enormità e la gravità di ciò che accadeva – e accade tutt’ora
– in Palestina, che ci ha richiesto di agire con urgenza e determinazione;
dall’altra perché è stato chiaro fin da subito, dalle prime manifestazioni di
complicità dei nostri governi e delle nostre Istituzioni, che gli orrori che ci
venivano trasmessi in tempo reale via social dall’altra parte del Mediterraneo
erano il requisito fondamentale su cui si regge un meccanismo di estrazione di
valore e di risorse, di estrazione della vita stessa, che ha radici proprio qui,
nell’Occidente ’democratico‘ e ’progressista’.
GLOBALIZZARE L’INTIFADA (PERCHÉ IL SISTEMA ESTRATTIVISTA È GLOBALE)
Il senso di urgenza scaturito dal concretizzarsi del disegno genocidario in
Palestina ha risvegliato, nei contesti occidentali, il desiderio e la voglia di
essere parte attiva di qualcosa che possa incidere sul reale, e questo
allargamento capillare della partecipazione ha prodotto, secondo noi, diversi
effetti.
l primo è che oggi, finalmente, parliamo di Palestina globale, dopo due anni di
attivismo umanitario. Le strade e le università di tutto il mondo si sono
riempite di nuovo di striscioni e cori che incitavano a “Globalize the
Intifada!”: abbiamo visto in maniera evidente come il colonialismo dei regimi
imperialisti si radica qui, in Occidente, e che si sostiene e si rigenera
attraverso il nostro lavoro, attraverso i nostri consumi, ed è lo stesso regime
estrattivista che da una parte uccide in Palestina e dall’altra non ci permette
di arrivare a fine mese pur di avere le armi per continuare a sterminare. E le
rivolte che nel frattempo sono scoppiate in molti, moltissimi Paesi del ’Sud del
mondo‘, ci hanno ricordato che se il nemico è globale, deve esserlo anche
l’Intifada.
Tuttavia, globalizzare l’Intifada non vuol dire solo renderla un fatto
internazionale, ma legarla alle lotte che già in ogni Stato e territorio si
muovono contro il sistema estrattivista: le lotte per la casa, per l’aumento dei
salari, contro le privatizzazioni selvagge e le speculazioni.
In particolare, le collaborazioni istituzionali con i colossi della filiera
bellica e del capitalismo fossile (a tutti i livelli, da quelle dei Comuni a
quelle universitarie) si sono dimostrate il vero punto cruciale da colpire. E
sono state difese a tutti i costi, sfoderando un alto livello di repressione.
Nell’università si incontrano il processo di aziendalizzazione, che va avanti
ormai da anni, e i legami strettissimi con il settore privato e della difesa.
Decine di Atenei collaborano con aziende come Eni e Leonardo, simboli
dell’industria estrattivista e complici del genocidio in Palestina. Israele
intrattiene centinaia di collaborazioni di varia natura con gli Atenei e gli
Enti di ricerca italiani.
Già da due anni le studenti delle università stanno provando a costruire
strategie di boicottaggio, mosse dalla necessità di svelare la sistematicità dei
processi di privatizzazione e neocolonialismo.
La colonizzazione della Palestina e il genocidio del suo popolo rappresentano,
infatti, un paradigma perfetto del sistema estrattivista, che delimita zone di
sacrificio e masse in eccesso, ed elimina tutto ciò da cui non può trarre
profitto. Assistiamo, quindi, al funzionamento a pieno regime di una zona di
sacrificio globale, di una messa a profitto di corpi ormai divenuti anch’essi
sacrificali, e alla produzione di esternalità negative generate dall’adozione di
economie di guerra nei Paesi offensori.
Abbiamo parlato di globalizzare l’Intifada e ripensare la convergenza: non si
tratta di un generico richiamo a un’unità posticcia, ma di un bisogno di uscire
dall’immobilismo, di trovare ognuno il proprio ’porto da bloccare‘, mettendo in
campo tutte le pratiche, le esperienze e i metodi che caratterizzano le diverse
anime che compongono un Movimento, per produrre un nuovo, inaspettato metodo che
insidi il sistema estrattivista-coloniale in cui viviamo.
di Fotomovimiento (Flickr)
PROSPETTIVE DI MOVIMENTO
Negli ultimi due anni abbiamo osservato il lento e graduale inizio di un
processo di svecchiamento, rinnovamento nelle pratiche tanto quanto nei
contenuti che, dopo lo strappo, il vuoto, lo scollamento generato dal Covid,
inizia a germinare nelle università con le mobilitazioni per la Palestina,
l’intifada studentesca e contagia tutti gli strati della società. Le giovani di
tutto il mondo si avvicinano alla politica mosse da necessità e urgenza. Nasce
in maniera decentralizzata, contingente e spontanea una rete internazionale che
si aggrega non più attorno all’identità dell’ideologia, ma all’obiettivo:
bloccare gli accordi di collaborazione con il regime genocidario, boicottare
l’industria bellica, rendendo in questo processo protagoniste le persone e i
loro corpi.
Al tempo stesso il regime di guerra globale innestato dal genocidio in
Palestina, in Congo e in Sudan, permette e facilita l’avanzamento di un fascismo
anch’esso globale, di cui stiamo iniziando a conoscere le insidie anche in
Italia: ne sono un esempio la vera e propria guerra alle donne e libere
soggettività che questo governo sta conducendo sul piano legale, tramite la
legge finanziaria e a colpi di decreti, e su quello ideologico, culturale,
mentre il numero di femminicidi del 2025 continua a salire; decreti sicurezza,
militarizzazione dei territori e gentrificazione stanno modificando la
percezione collettiva dello spazio pubblico, e la situazione nel suo complesso
inizia a essere inquietante.
Alla luce di questo, in quelle giornate elettriche e di fermento che hanno
portato masse oceaniche a “Bloccare tutto!”, si è liberato qualcosa: quella
spinta – individuale e collettiva, spontanea e organizzata – a invadere ogni
spazio pubblico con parole, corpi e musica. Abbiamo liberato quella voce che ci
chiede di sollevarci dai margini e andare a invadere il centro del discorso, il
centro della città, della produzione, dell’università, della scuola, della
fabbrica.
Insomma, l’importante non è stato bloccare tutto, ma aver fatto capire alle
persone che se vogliono, possono farlo. Prima delle mobilitazioni in Italia e in
Francia al grido di “Blocchiamo tutto!”, molto prima, il Movimento femminista
Non Una di Meno portava l’attenzione sul fatto che “Se ci fermiamo noi si ferma
il mondo”, ed è questo che crediamo sia il punto focale, il “se”. Perché se
abbiamo il potere di fermare il mondo, allora abbiamo anche il potere per farlo
ripartire in un’altra direzione.
Per bloccare realmente la catena produttiva bisogna essere in tante, essere
ovunque: non funziona più accentrare le forze per sferrare colpi decisi: è il
momento di infiltrarsi in tutti gli spazi e gli interstizi del potere,
infestarlo come edera per farlo collassare su se stesso, a partire dalle sue
fondamenta reali, materiali. Non mettere più al centro della propria strategia
il fare la guerra, il braccio di ferro, quanto piuttosto il fare la vita, e
farla bella, libera e felice.
All’arrembaggio!
L’articolo originale è stato pubblicato su Attac.it. La copertina è di pierre
c.38, da Flickr
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