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Napoli, 25 novembre: la violenza si combatte molto prima della violenza
Arte, scuola, istituzioni, cultura e testimonianze. Un’unica direzione: educare alla libertà. Le notizie arrivano così fitte che i volti delle donne sembrano quasi sovrapporsi, uno sull’altro, senza il tempo di essere riconosciuti. Quando pensiamo di aver trovato le parole giuste per l’ennesimo femminicidio, arriva sempre un nuovo giorno che ci costringe a riformularle. Riaffiorano allora immagini che l’Italia non riesce a dimenticare. La pancia di Giulia Tramontano, spezzata insieme al figlio che portava in grembo. Il volto giovane di Giulia Cecchettin. La vicenda di Tiziana Cantone, divorata dalla violenza digitale. La vita interrotta di Martina Carbonaro, a soli quattordici anni. La storia di Roua Nabi, uccisa nonostante il braccialetto elettronico al marito. Storie diverse, lontane tra loro, eppure accomunate dalla stessa radice: la cancellazione della libertà altrui. E ancora una volta, la cronaca recente ci obbliga a fermarci. A Qualiano, vicino Napoli, un uomo già denunciato, già sottoposto a codice rosso e ai domiciliari con braccialetto elettronico, ha manomesso il dispositivo, ha raggiunto l’ex compagna e l’ha colpita più volte con un coltello. È viva per miracolo, dicono i medici. Ma quante volte ancora dovremo affidarci alla parola miracolo dopo che tutto il resto non ha funzionato? Questo episodio, come altri, mostra che la repressione, pur necessaria, non basta. Spesso arriva dopo, quando è già tardi. La violenza sulle donne non si esaurisce nelle storie che finiscono in prima pagina, con un nome, una fotografia e una sentenza. Esiste un territorio sommerso, silenzioso e ostinato, fatto di manipolazione, controllo, dipendenza affettiva, svalutazione e isolamento. È una violenza che non lascia lividi sulla pelle, ma scava dentro, corrode lentamente la voce, l’autostima, la libertà interiore. È quella che ti convince che sei tu il problema, che stai esagerando, che forse te la sei cercata. È fatta di parole trattenute, telefoni controllati, amori che diventano confini, e di una casa che, invece di proteggere, diventa prigione emotiva. È una violenza domestica non perché avviene tra quattro mura, ma perché mette la paura dentro la vita. Ha un effetto farfalla. Genera altre fragilità, altre bambine cresciute nella sudditanza, altri bambini educati all’idea del possesso. Perché in un contesto dove non si è liberi non si può insegnare la libertà, e nessuno può trasmettere ciò che non ha il permesso di vivere. I dati ci obbligano a non voltare lo sguardo. In Europa una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale. In Italia il 31,5 per cento delle donne tra i sedici e i settant’anni ha subito violenza. Tra le ragazze più giovani quella psicologica raggiunge il 35 per cento. Nei primi sei mesi del 2024 sono stati denunciati 8.592 atti persecutori, e nel 74 per cento dei casi le vittime erano donne. Il 75 per cento delle italiane ritiene che la violenza psicologica non venga riconosciuta come tale. La prevenzione autentica comincia molto prima della violenza. Prima dei tribunali, delle misure cautelari e dei braccialetti elettronici. Comincia nell’infanzia, nelle famiglie e soprattutto nelle scuole. È un’educazione quotidiana quella che serve, fatta di rispetto, limite, empatia, consenso e libertà. In questa direzione si muovono anche alcuni provvedimenti oggi in discussione in Parlamento: il Disegno di Legge S 979, che propone di introdurre in modo strutturato l’educazione affettiva e sessuale nei programmi scolastici, e due proposte alla Camera, l’AC 2278, che riguarda l’educazione alle relazioni e al riconoscimento dell’identità di genere, e il C 2271, che disciplina le attività scolastiche sui temi dell’affettività e della sessualità prevedendo il consenso informato delle famiglie. È un segnale chiaro. Non è più possibile rimandare. Anche Napoli risponde, e lo fa attraverso linguaggi diversi: l’arte, la cultura, la memoria, l’esperienza, la cura. In Piazza Municipio, la ASL Napoli 1 Centro ha trasformato la riflessione in un’esperienza. All’interno di un grande cubo nero, simbolo del buio e dell’isolamento, si attraversa un labirinto sonoro fatto di voci, rumori, testimonianze e dati. Ogni passo è un frammento di paura, fragilità, controllo, ma anche resistenza. L’uscita è una Porta Rosa, luminosa, simbolo di rinascita. Fuori, operatori e volontari informano sui Percorsi Rosa attivi nei Pronto Soccorso cittadini, offrendo orientamento e protezione. La Direzione regionale Musei nazionali Campania ha diffuso il suo impegno lungo un’intera settimana, dal ventidue al ventinove novembre, trasformando musei e luoghi culturali in spazi di consapevolezza. A Montesarchio, la mostra fotografica Per Lei di Michele Stanzione racconta la presenza femminile attraverso luce, assenza e memoria. A Santa Maria Capua Vetere, l’Anfiteatro Campano si accende di arancione al crepuscolo, in un gesto collettivo che invita a dire insieme: accendiamo il rispetto. A Benevento, il Teatro Romano ospita studenti, psicologi e musicisti per riflettere sull’impatto invisibile della violenza. A Pontecagnano, una serata tra mito, danza e parola prova a immaginare relazioni libere da ruoli imposti. A Eboli, con Clitennestra o del crimine, il mito diventa voce contemporanea, che chiede ascolto e non solo giudizio. Anche il Teatro Trianon Viviani contribuisce a questo percorso. Il 25 novembre, dalle ore 10 alle 13, la Fondazione Campania dei Festival, insieme alla Regione Campania, promuove un incontro dedicato a studenti e famiglie, con interventi di istituzioni, associazioni e realtà impegnate nella tutela dei diritti e nella costruzione di una cultura del rispetto. È previsto anche un breve contributo artistico, con testimonianze e monologhi curati dall’Associazione Forti Guerriere, come forma di narrazione civile e restituzione della voce. Questi sono solo alcuni degli appuntamenti che Napoli e la Campania dedicano, lungo tutta la settimana, non a una celebrazione, ma a un impegno diffuso. Perché la consapevolezza non si costruisce in un giorno, e soprattutto non si costruisce da soli. Il venticinque novembre non è una data. È una domanda. A ciascuno di noi. E Napoli risponde mettendo al centro non solo la tragedia, ma la prevenzione. La cultura, l’ascolto, il linguaggio, la scuola, l’arte, la relazione. Perché la violenza si combatte molto prima della violenza. Nei gesti quotidiani. Nei bambini che imparano a rispettare. Nelle bambine che imparano a non abbassare gli occhi. Se vogliamo cambiare davvero questo tempo, dobbiamo ricominciare da lì. Dalle radici. Lucia Montanaro
Fake news, propaganda e linguaggio mediatico: una conversazione con Giuliana Sgrena
Dalla manipolazione dell’informazione alla narrazione dei femminicidi: la riflessione di Giuliana Sgrena risuona oggi con forza e lucidità. Viviamo nell’epoca della manipolazione digitale, dei conflitti raccontati in diretta e delle narrazioni tossiche che deformano la realtà più rapidamente di quanto la si possa verificare. Le fake news non sono più semplici distorsioni: sono strumenti politici, economici e bellici, capaci di orientare masse, polarizzare società, innescare crisi e condizionare decisioni cruciali. Nel corso degli anni, Giuliana Sgrena ha denunciato con forza come la manipolazione dell’informazione non sia un fenomeno isolato, ma una distorsione trasversale che attraversa ogni ambito del dibattito pubblico. Nel suo saggio Manifesto per la verità (Il Saggiatore), compie una diagnosi impietosa dei mali dell’informazione contemporanea, mostrando come la falsificazione della realtà colpisca in modo particolare i soggetti più vulnerabili: le donne, raccontate con un linguaggio che giustifica la violenza; i migranti, la cui verità “si inabissa come un corpo affogato”; le popolazioni in guerra, di cui arrivano solo frammenti distorti, piegati agli interessi dei governi. «Per papa Francesco», ricorda Sgrena, «Eva è stata vittima della prima fake news uscita dalla bocca del serpente». Una metafora che conserva oggi una drammatica attualità e che ben descrive il peso che le narrazioni tossiche continuano ad avere nelle società moderne. Una voce autorevole, rigorosa e sempre attenta a questi meccanismi, Sgrena offre strumenti fondamentali per comprendere il presente. Di seguito, la conversazione integrale. INTERVISTA A GIULIANA SGRENA «Fu un giorno fatale quello nel quale il pubblico scoprì che la penna è più potente del ciottolo e può diventare più dannosa di una sassata», scrive Oscar Wilde. Quanto ritiene sia ancora attuale questa famosa citazione di Wilde? La libertà di espressione è una grande conquista ma è anche una spina nel fianco dei regimi autoritari e dei dittatori che utilizzano ogni mezzo per impedire qualsiasi critica o qualsiasi pensiero libero. Nel suo saggio Manifesto per la verità, racconta come si possano innescare conflitti dalla scintilla di una notizia falsa o manipolata. Come è possibile difendersi e accedere a informazioni sicure? Purtroppo quando una falsa notizia ha l’obiettivo di scatenare una guerra è sostenuta da una campagna di propaganda mediatica che non si può fermare. Lo si è visto nella seconda guerra del Golfo (2003), quando il movimento pacifista portò in piazza milioni di persone, e fu definito dal New York Times la seconda potenza mondiale, ma non riuscì a bloccare l’invasione dell’Iraq. «La fotografia sconfigge le fake news», queste le parole di Oliviero Toscani durante la conferenza stampa del 2017 per la presentazione della seconda edizione del talent show Master of Photography. Ritiene veritiera questa affermazione? Non è vera. Purtroppo oggi anche le fotografie sono manipolabili e falsificabili. Un esempio clamoroso è quello del fotografo brasiliano Eduardo Martins, che si era costruito un profilo perfetto sui social: trentadue anni, alto, biondo, bellissimo, surfista, scampato alla leucemia. Presente in tutte le guerre, dove scattava foto bellissime vendute alle più note agenzie del mondo. Le foto migliori venivano vendute per beneficenza e il ricavato devoluto ai bambini di Gaza. Troppo bello per essere vero e infatti era tutto falso. Martins non è mai esistito e le sue foto erano tutte rubate e falsificate. Ma anche senza arrivare a questo estremo ci sono foto manipolate e altre diffuse con una falsa didascalia. Alcuni politici si servono di Twitter (280 caratteri) per comunicare, a discapito del confronto giornalistico. Cosa pensa della politica ai tempi del social? I politici si sono facilmente convertiti a Twitter che permette loro di lanciare solo slogan, perché in 280 battute non si può esprimere un concetto complesso. I social sono diventati lo strumento per fare politica evitando il confronto con i giornalisti, che vengono sbeffeggiati per minare la loro credibilità. Così possono far circolare fake news e dati falsi senza essere smentiti e, quando lo sono, definiscono le proprie affermazioni «fatti alternativi», come ha fatto Trump. Nelle cronache di violenze verso le donne troppo spesso incontriamo superficialità linguistica. Espressioni come “amore malato”, “raptus di passione”, “era un gigante buono” lasciano nelle donne violate il dubbio sulle loro ragioni. In quale direzione bisognerebbe andare per invertire una rotta così dannosa? Il modo di descrivere la violenza contro le donne è impregnato di cultura patriarcale. La donna stuprata e ammazzata viene descritta come una che se l’è andata a cercare, mentre si cercano le attenuanti o giustificazioni per chi commette un femminicidio. Le giornaliste dell’Associazione Giulia, insieme alle Commissioni Pari Opportunità della Fnsi e dell’Usigrai, hanno elaborato il Manifesto di Venezia, che indica le regole per una corretta informazione. Gli argomenti trattati nei suoi libri mettono spesso sotto accusa il mondo del giornalismo. Non si è mai lasciata impressionare dalle naturali ripercussioni che questo tipo di inchieste avrebbero comportato? Nel mio libro (Manifesto per la verità) ho fatto un’analisi spietata del modo di fare informazione soprattutto su alcuni temi particolarmente sensibili o manipolabili, per responsabilizzare chi fa informazione e chi ha il diritto di essere informato. Presentando questo libro, che è stato utilizzato anche in alcuni corsi di formazione per giornalisti, ho trovato molti colleghi che condividono le mie critiche. Si avvicina una data importante: il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Lei, che si è sempre occupata di condizione femminile, quale pensiero desidera lasciare alle donne abusate che cercano di reagire ai loro carnefici? Le donne devono denunciare le violenze subite, ma le autorità devono proteggerle. Non basta aumentare le pene per chi commette femminicidi: occorre evitarli. E questo si può fare finanziando le case che accolgono le donne che hanno subito violenze; invece questi finanziamenti vengono tagliati e le case chiuse. Giuliana Sgrena venne rapita il 4 febbraio 2005 dall’Organizzazione del Jihād islamico mentre si trovava a Baghdad per realizzare reportage. Fu liberata trenta giorni dopo, in un’operazione in cui rimase ucciso Nicola Calipari. Cosa è cambiato nella sua vita da quel tragico giorno? Preferirei non rispondere a questa domanda. Le parole di Giuliana Sgrena mostrano come la ricerca della verità sia un impegno che non riguarda solo i giornalisti, ma l’intera società. Nel rumore informativo che caratterizza il nostro tempo, riconoscere le manipolazioni, denunciare le distorsioni e pretendere un linguaggio rispettoso e accurato è un atto di responsabilità collettiva. Lucia Montanaro
Germaica oggi. Il vento che non si ferma
L’uragano Melissa travolge la Giamaica con venti fino a 300 chilometri orari. Tra devastazione, paura e solidarietà, il pianeta sembra gridare nella stessa lingua. Le immagini arrivano dalla Giamaica, oggi. Si sovrappongono, sembrano tutte uguali: case scoperchiate, alberi piegati dal vento, strade sommerse dal fango. Qualche volta facciamo confusione, non ricordiamo più né dove né quando. Oggi è la Giamaica in stato d’allerta, oggi è il suo turno. Indifferentemente potrebbe essere la Florida, New Orleans, le Filippine, la Libia, Rigopiano, Sarno. Oppure, addirittura, potrebbe essere il fiume che passa accanto alla nostra casa a ribellarsi. Un elenco che potrebbe essere infinito. Nessuno può ritenersi al sicuro. Il pianeta sembra ripetere lo stesso grido, in lingue diverse. La Giamaica è un’isola dei Caraibi grande poco più della Sicilia, distesa nel cuore del mare tra Cuba e Haiti. Tre milioni di abitanti, colline di foresta tropicale, piantagioni di canna da zucchero e caffè, coste che si affacciano su un mare di un azzurro quasi irreale. Nella memoria collettiva è Bob Marley, il ritmo del reggae, le spiagge, il turismo che rappresenta quasi un terzo dell’economia nazionale. Ma dietro quell’immagine luminosa ci sono comunità che vivono di pesca, agricoltura e lavori stagionali, spesso in condizioni precarie, in un Paese dove la povertà resta diffusa e la natura, un tempo madre generosa, è diventata sempre più imprevedibile. Ed è proprio questa isola, apparentemente sospesa tra sogno e mare, a essere ora travolta dalla furia dell’uragano Melissa. Un ciclone di categoria 5 che ha raggiunto venti fino a trecento chilometri orari, con onde alte oltre sei metri e piogge torrenziali destinate a proseguire per ore. Le autorità giamaicane hanno dichiarato lo stato d’emergenza e disposto evacuazioni di massa lungo le coste. Secondo i dati disponibili al momento della pubblicazione, si contano tre vittime accertate in Giamaica e almeno sette complessive in tutta l’area caraibica, includendo Haiti e la Repubblica Dominicana. Migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Le abitazioni di lamiera, comuni nelle periferie urbane e nei piccoli villaggi interni, sono state le prime a cedere sotto la forza del vento. In molte zone l’elettricità è interrotta, le comunicazioni difficili, i soccorsi lenti a raggiungere le aree più isolate. Eppure, anche in mezzo alla paura, la solidarietà non si ferma. Le famiglie si aiutano una vicenda, i centri comunitari si trasformano in rifugi, i volontari distribuiscono cibo e acqua potabile. Dalle radio locali si ascoltano voci calme che invitano a mantenere la speranza: “Ricostruiremo, lo facciamo sempre”, ricostruiremo, come sempre. Ogni tempesta come questa racconta una verità più grande: la crisi climatica non è un’ipotesi, è una realtà. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, la regione dei Caraibi sta sperimentando un aumento medio delle temperature oceaniche di oltre un grado rispetto ai livelli preindustriali, e questo incremento favorisce gli uragani sempre più violenti e imprevedibili. Dietro le statistiche ci sono persone, pescatori che perdono le barche, agricoltori che vedono i raccolti distruttivi, famiglie che ricominciano da zero ogni volta. Sono i nuovi profughi climatici, costretti a lasciare le proprie case non per scelta, ma per sopravvivere. In questo scenario, il lavoro degli attivisti ambientali acquista un significato ancora più profondo. Da anni ci avvertono, ci chiedono di fermarci un momento, di ascoltare. Greta Thunberg è solo un esempio, per la sua giovane età e la forza con cui ha saputo scuotere un’intera generazione. Ma dietro di lei, e accanto a lei, ci sono stati e ci saranno grandissimi guerrieri in questo campo: scienziati, giornalisti, educatori, contadini, uomini e donne che da decenni combattono contro l’indifferenza, spesso nel silenzio. A tutti loro dovremmo riconoscere rispetto e gratitudine, perché non cercano consenso ma coscienza. Ci ricordano che dietro ogni disastro c’è un segnale, e che non basta guardare le immagini: bisogna imparare a soffermarsi, ad ascoltare davvero ciò che vogliono comunicarci. Ogni volta che un uragano colpisce, si misura la distanza tra chi può permettersi di ricostruire e chi no, e si misura la fragilità di un sistema che ha dimenticato la propria interdipendenza. Ma soprattutto, bisognerebbe contare le vite umane spezzate senza avere nessuna colpa, perché è da lì che si comprende la reale entità di una catastrofe. Non nei numeri, ma nelle assenze che lascia dietro di sé. Mentre queste righe vengono scritte, Melissa continua la sua corsa sull’isola. Non sappiamo ancora quale sarà l’entità dei danni, ma sappiamo che, come sempre, saranno i più fragili a pagare il prezzo più alto. Eppure, anche in mezzo al disastro, restano mani, voci, gesti di aiuto che raccontano un’altra parte dell’umanità: quella che non si arrende, che resiste, che ricostruisce. Perché ogni volta che un uragano passa, il vero vento che dovrebbe restare è quello della consapevolezza. Lucia Montanaro
L’arte che libera: “La salita” di Massimiliano Gallo e il diritto di ricominciare
Dal Prix Italia RAI di Napoli, un film che intreccia memoria storica e presente, ricordando che la vera libertà può nascere anche dietro le sbarre. In Italia, secondo i dati del Ministero della Giustizia aggiornati al 2025, più di 61.000 persone vivono in istituti che ne potrebbero ospitare poco più di 50.000. Oltre la metà non ha accesso a programmi educativi continuativi, e la recidiva resta tra le più alte d’Europa. Eppure, dove si apre uno spazio per l’arte, spesso nasce anche una possibilità di rinascita. I laboratori teatrali di Rebibbia, le esperienze di Volterra e quelle nate a Nisida dimostrano che la cultura può diventare un linguaggio di libertà, capace di restituire fiducia e dignità. È in questo orizzonte che si colloca La parola , film di Massimiliano Gallo , presentato in anteprima al Cinema American Hall di Napoli nell’ambito del 77° Prix Italia – Get Real , la rassegna internazionale promossa dalla RAI dedicata a radio, podcast, tv e digital. Ambientato nel 1983, il film intreccia due eventi reali e distinti della storia recente napoletana: da un lato il bradisismo di Pozzuoli e il conseguente trasferimento di diciotto detenute dal carcere femminile all’istituto penale minorile di Nisida; dall’altro, l’impegno civile e teatrale di Eduardo De Filippo , che tra il 1981 e il 1982 visitò più volte Nisida e sostenne la nascita di un laboratorio teatrale per i ragazzi detenuti. Il film unisce queste due vicende, facendo dialogare episodi coevi ma non necessariamente concomitanti e riportando al centro l’idea del teatro come possibilità di risalire. Il direttore del carcere , interpretato da Gianfelice Imparato , rappresenta la difficoltà di chi, pur credendo nel valore dell’educazione, si scontra con la mancanza di mezzi e con le resistenze del sistema. Accanto a lui, Mariano Rigillo restituisce un Eduardo De Filippo intenso e autentico, capace di evocare tutta l’umanità e la forza morale del grande drammaturgo napoletano. Nel cast figurano Massimiliano Gallo , anche regista, Roberta Caronia , Alfredo Francesco Cossu , Antonio Milo , Shalana Santana ,  Maurizio Casagrande , Maria Bolignano e Antonella Morea . Tutti contribuiscono a costruire un racconto corale, umano e profondamente napoletano, che parla di libertà, colpa e rinascita senza mai cedere alla retorica. Le musiche originali di Enzo Avitabile , intense e legate all’anima della città, accompagnano la narrazione con una forza spirituale e popolare al tempo stesso, trasformando ogni nota in un ponte tra dolore e rinascita. Durante l’anteprima napoletana, la sala del Cinema American Hall è rimasta in silenzio anche dopo i titoli di coda. Il film non si limita a rappresentare: ti trascina dentro. Sia nei personaggi dei detenuti che in quelli delle guardie si percepisce la stessa umanità ferita, lo stesso bisogno di fiducia. Lo spettatore sente di appartenere a quelle emozioni, di condividere quella fragilità e quella speranza. È un’esperienza intensa, capace di scuotere e far riflettere su cosa significa davvero rieducare: non imporre, ma accompagnare chi ha sbagliato verso una nuova consapevolezza. A oltre quarant’anni da quei fatti, la realtà carceraria italiana resta complessa, segnata dal sovraffollamento e da percorsi rieducativi insufficienti. Eppure, dove l’arte trova spazio, qualcosa cambia. Il teatro, la musica, la pittura o un laboratorio di cucina diventano strumenti di crescita e di libertà interiore. La parola non è solo un film storico: è un invito a guardare oltre la punizione, verso la possibilità di un cambiamento reale. Ricorda che ogni carcere dovrebbe poter essere anche una scuola, un luogo dove la creatività restituisce senso al tempo e valore alla persona. Il film si chiude con le immagini autentiche di Eduardo De Filippo in visita ai ragazzi di Nisida nel 1982. È il filmato reale del suo intervento, che Massimiliano Gallo ha voluto inserire come epilogo, lasciando che a parlare fosse la verità. De Filippo incoraggiò quei giovani a non arrendersi, spiegando che con energia e amore si può ottenere molto anche da chi ha sbagliato. Li invitò a non fidarsi delle raccomandazioni, “che illudono e poi abbandonano”, ma a credere nel lavoro onesto e nella possibilità di costruirsi un futuro. E così, sulle sue parole, si chiude anche il film: “Non arrendetevi. Fidatevi di voi stessi.” Lucia Montanaro
Il Muro della Libertà: l’arte che libera. Da Santa Maria Capua Vetere un messaggio di bellezza e riscatto
C’è un muro che non separa, ma unisce. Non chiude, ma apre. È il Muro della Libertà , la grande opera realizzata dall’artista Alessandro Ciambrone sulle pareti esterne del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere , entrata nel Guinness World Records come il più grande murale al mondo realizzato da un solo artista . Una superficie di 5.441,93 metri quadri , lunga circa 715 metri e alta 5,6 metri , che si stende come un racconto di luce e di speranza intorno a un luogo un tempo segnato dal dolore. Colori, frasi, simboli e volti danno vita a un’opera corale in cui trovano spazio le parole di Premi Nobel, scrittori, cantanti e testimonianze di nonviolenza , da Mandela a Martin Luther King. Dedicato a Papa Francesco , il murale è un inno alla pace, alla fratellanza e al diritto di rinascere. Alla sua realizzazione hanno partecipato , studenti e dieci mecenati , con il sostegno della direttrice Donatella Filomena Rotundo , della provveditrice regionale Lucia Castellano e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria . L’inaugurazione, alla presenza del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove , ha rappresentato un momento di condivisione autentica tra istituzioni, cittadini e mondo dell’arte. Per completare l’opera, Ciambrone ha vissuto per cinquanta giorni all’interno del carcere, in un appartamento messo a disposizione dalla polizia penitenziaria. Ha dipinto giorno e notte, lavorando con alcuni detenuti in regime di semilibertà e con studenti provenienti dalle scuole della provincia di Caserta e di Napoli. Quel muro, che per decenni aveva rappresentato la distanza, è diventato un simbolo di incontro e di umanità condivisa. “Ho realizzato un sogno – racconta l’artista – e ci sono riuscito perché ho trovato una direttrice capace di visione, un’amministrazione coraggiosa e una comunità che ha creduto nella bellezza come possibilità di redenzione.” > “Il Muro della Libertà è più di un primato mondiale: è un atto di fede nella > dignità umana. > Dedicato a Papa Francesco, che ha posato lo sguardo misericordioso sugli > ultimi, l’opera di Ciambrone fa vibrare la voce del Vangelo nel linguaggio dei > colori. > Come in un canto di Giotto e in un sogno di Arturo Bustos, la materia si fa > spirito e il muro, da confine, diventa orizzonte.” > (Vittorio Russo, consulente culturale del murale) La storia di questa impresa è raccontata nel docufilm “Libero dentro” , diretto da Giuseppe Alessio Nuzzo , presentato in anteprima il 17 ottobre 2025 presso l’aulario della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” . Il film mostra il percorso umano e artistico di Ciambrone, il lavoro silenzioso di chi ha creduto nel progetto e la partecipazione corale di detenuti, docenti e studenti. Tra questi, anche il Liceo Scientifico “Arturo Labriola” di Napoli , con la #Labrioband e il #Labrioteatro , che hanno portato musica e parole davanti al muro, nel segno della libertà e della rinascita. “È stato toccante per me e per i miei ragazzi – racconta un docente – sapere di aver partecipato a qualcosa che restituisce speranza attraverso la bellezza.” Il Muro della Libertà non è solo un’opera d’arte, ma il punto di partenza di una trasformazione più ampia. Negli ultimi anni, sotto la direzione di Donatella Rotundo , il carcere di Santa Maria Capua Vetere è diventato un vero e proprio laboratorio sociale, dove arte, formazione e lavoro si intrecciano per restituire dignità a chi ha sbagliato. Sono nati una sartoria interna , che collabora con i marchi Isaia e Marinella per la produzione di camicie e cravatte; una pasticceria sociale legata alla campagna contro la violenza di genere “Un bacio si dà in due, uno schiaffo no” ; un orto idroponico che fornirà materie prime per il futuro ristorante aperto al pubblico all’interno del carcere; e un canile comunale dove lavorano detenuti formati dalla Regione Campania. Sono progetti che parlano di un’altra idea di giustizia, in cui la pena diventa percorso e la libertà un cammino possibile. Ciambrone ha voluto che nel murale trovassero spazio anche riferimenti all’attualità: sezioni dedicate all’Ucraina e alla Striscia di Gaza, come monito e richiamo alla pace. “Abbiamo superato un record che durava da vent’anni – ha spiegato – ma la vera conquista è aver unito mondi diversi: i detenuti, gli studenti, gli imprenditori, le istituzioni. La libertà nasce quando l’arte incontra la fiducia.” Oggi, dove un tempo c’erano le tracce della violenza, scorrono i colori della speranza. Là dove il muro segnava un confine, ora racconta il diritto di ogni persona ad essere libera dentro . In un mondo che continua a costruire muri per dividere, quello di Santa Maria Capua Vetere è un muro che unisce. E ci ricorda, con la forza silenziosa dell’arte, che la bellezza può ancora salvare l’uomo. Lucia Montanaro
L’amore mio non muore: la scrittura invadente di Saviano e la memoria delle vittime dimenticate
DAL PALCOSCENICO DEL TEATRO AUGUSTEO DI NAPOLI, ROBERTO SAVIANO INTRECCIA POESIA E CRONACA PER RESTITUIRE VOCE A ROSSELLA CASINI, GIOVANE UCCISA DALLA CAMORRA. UN MONOLOGO CHE DIVENTA RIFLESSIONE CIVILE SULLA MEMORIA E SUL NUMERO ANCORA DRAMMATICO DELLE VITTIME DELLE MAFIE. Un teatro gremito, un silenzio sospeso, la voce di Roberto Saviano che scende lenta, come un respiro trattenuto. Così è iniziato L’amore mio non muore , in scena al Teatro Augusteo di Napoli: un monologo che unisce fatti reali, poesia e memoria, restituendo presenza a una giovane donna di cui si è parlato troppo poco. Sul grande schermo compare il volto della protagonista, Rossella Casini , venticinque anni, studentessa fiorentina uccisa dalla camorra. Saviano racconta che l’unica immagine rimasta di lei proviene da un vecchio documento universitario, ritrovato molti anni dopo negli archivi dell’ateneo dove studiava. Un volto neutro, senza sorriso, come si usava all’epoca per le foto ufficiali. Proprio per questo colpisce: è privo di posa e di difesa, e diventa un simbolo di assenza, il ritratto di un giovane che la società ha dimenticato. La sua storia è ricostruita attraverso frammenti, testimonianze, memorie spezzate: il racconto di un cugino, le parole di un pentito, i pochi documenti rimasti. Saviano non ne fa un personaggio, ma una presenza viva. Dove i fatti non bastano, chiede aiuto alla poesia. Cita Apollinaire, Pavese, Rilke, Szymborska. A loro affidano le parti mancanti, le domande senza risposta, le ferite che non hanno trovato voce. All’inizio dello spettacolo, spiega con lucidità: «Non ho una scrittura evasiva, ma invadente. Non voglio far evadere chi mi legge, voglio invaderlo di domande, di dubbi, di inquietudini.» È una definizione che rovescia l’idea di letteratura come fuga. Saviano non cerca rifugio nella parola: la usa per entrare nella realtà, per costringere lo spettatore a guardarla senza difese. Sul palco alterna toni lirici e passaggi di analisi più dura. Racconta la logica delle faide, la violenza come regola, la paura come linguaggio. E dentro quella spirale chiusa, Rossella appare come un gesto di libertà: una giovane che credeva nell’amore più della vendetta, nella possibilità di rompere le catene del potere criminale. « Ho deciso di scrivere questo romanzo per raccontare la storia d’amore più drammatica e potente in cui mi sia imbattuto. Raccoglie tutti i colori dell’umano sentire: l’ingenuità e lo slancio, la devozione e l’ossessione, l’amicizia, il desiderio, il coraggio, la delusione, il fraintendimento, il tradimento e la tragedia. Eppure la certezza che proprio nell’amare risieda l’unica possibilità di verità e di senso non viene mai meno. L’amore non muore. » — Roberto Saviano , L’amore mio non muore (Einaudi, 2025) Queste parole, lette o evocate sul palco, danno corpo al senso profondo dell’opera: l’amore come atto di verità, come ultimo spazio di libertà possibile. Ma L’amore mio non muore non è soltanto una storia individuale. È un invito a guardare più in profondità, a interrogarsi su quante altre vite siano rimaste nell’ombra. Secondo l’ Osservatorio Vittime Innocenti di Mafia , in Italia sono migliaia le persone uccise dalla criminalità organizzata, spesso nel silenzio. Molti erano cittadini comuni, giovani, donne, migranti, lavoratori. Vite cancellate come se la loro morte non avesse peso, come se la violenza fosse ormai una componente accettata del paesaggio sociale. Saviano, con la sua “scrittura invadente”, riporta in superficie queste assenze. Non come cronista, ma come testimone. E nel farlo rinnova un gesto di resistenza che appartiene non solo al teatro, ma alla coscienza civile di un Paese intero: opporsi alla normalità della violenza, al tempo che cancella, al sonno delle coscienze. Il messaggio che arriva da questo spettacolo supera i confini di una città o di una nazione. In ogni parte del mondo, la lotta contro l’indifferenza è la stessa: ridare voce a chi l’ha perduta, riaccendere una memoria collettiva che unisca e non divida. Perché l’amore, quello che resiste alla paura e alla morte, non muore davvero. Muore solo il silenzio, quando qualcuno trova il coraggio di parlare. Lucia Montanaro
Napoli, la Chiesa apre le porte a otto studenti palestinesi: un segno di fraternità concreta
Dalla solidarietà alla concretezza: la Chiesa di Napoli accoglie otto studenti palestinesi grazie al progetto IUPALS e all’impegno del cardinale Battaglia. Mentre i conflitti continuano a scuotere il mondo e la distanza dalle sofferenze altruistiche crescere ogni giorno, la Chiesa di Napoli ha scelto di rispondere con un gesto di speranza: accogliere otto giovani studenti palestinesi, offrendo loro sembra un’occasione reale di rinascita attraverso lo studio e la condivisione. L’iniziativa, voluta dal cardinale Mimmo Battaglia , nasce dal desiderio di rendere la comunità diocesana segno vivo di fraternità, accoglienza e fiducia nel futuro. Il primo ad arrivare in città è Fadi , 28 anni, originario di Gaza City. Dopo un periodo trascorso a Palermo, sarà ora ospitato nella casa canonica della Cattedrale, accolto dai giovani del MUDD – Museo Diocesano Diffuso . Entro la fine di ottobre arriveranno anche gli altri sette studenti, che troveranno ospitalità in diverse strutture dell’Arcidiocesi, grazie alla Caritas di Napoli e alla Fondazione Napoli C’entro . > “Accogliere questi ragazzi significa accogliere la vita che chiede di poter > ricominciare”, > ha dichiarato il cardinale Battaglia. > “È un gesto che racconta chi vogliamo essere: una Chiesa che non alza muri ma > apre porte, che non resta spettatrice del dolore ma si fa compagna di viaggio > di chi cerca un domani possibile.” L’esperienza si inserisce nel più ampio progetto nazionale IUPALS – Università italiane per studenti palestinesi , promosso dalla CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) con il sostegno del Ministero degli Affari Esteri , del Ministero dell’Università e della Ricerca e del Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme . A Napoli hanno aderito le tre università statali, Federico II , L’Orientale e Parthenope,  che hanno messo a disposizione borse di studio per studenti palestinesi, trovando nella Chiesa partenopea un partner naturale per l’accoglienza e l’accompagnamento umano. UN PONTE TRA NAPOLI E GAZA L’arrivo dei giovani studenti si inserisce in un legame profondo che da tempo unisce la diocesi di Napoli alla comunità cristiana di Gaza, guidata da padre Gabriel Romanelli , parroco della Sacra Famiglia di Gaza , l’unica parrocchia cattolica romana nella Striscia. Nei mesi scorsi, grazie alla generosità di fedeli, parrocchie e associazioni cittadine, la Chiesa di Napoli ha raccolto 63.500 euro destinati alle famiglie più colpite dai bombardamenti: “una goccia di umanità in un mare di crudeltà”, come l’ha definita lo stesso cardinale Battaglia durante la festa di San Gennaro . In quell’occasione, un videomessaggio di padre Romanelli aveva raggiunto i fedeli napoletani, suscitando commozione e preghiera. “ Il sangue è sacro: ogni goccia innocente è un sacramento rovesciato ”, ricorda il cardinale. “ È il sangue di ogni bambino di Gaza che metterei accanto all’ampolla del Santo, perché non esistono ‘altre’ lacrime: tutta la terra è un unico altare. ” LA PACE COME CAMMINO CONDIVISO In comunione con Papa Leone XIV , che sabato 11 ottobre 2025 alle ore 18:00 guiderà in Piazza San Pietro un Rosario per la pace , la Chiesa di Napoli ha invitato tutte le parrocchie e comunità religiose a vivere giovedì 23 ottobre una giornata di digiuno e adorazione eucaristica . Un segno di preghiera e di vicinanza a chi soffre a causa della guerra, che unisce idealmente Napoli al mondo intero in un unico invito alla pace. Con questa accoglienza, la diocesi partenopea rinnova il proprio impegno a farsi casa e comunità per chi cerca vita, studio e pace . Un gesto che non risolve i conflitti del mondo, ma li attraversa scegliendo di restare umani, di “stare accanto”. Un segno che nasce dal Vangelo e si traduce in futuro, nel cuore di Napoli. * Caritas di Napoli – La Chiesa di Napoli accoglie 8 studenti palestinesi * Educazione.chiesacattolica.it – La diocesi di Napoli accoglie 8 studenti palestinesi * ANSA Campania – La Chiesa di Napoli accoglie otto giovani da Gaza * Comunicare il Sociale – La comunità si fa casa per chi cerca futuro, studio e pace * Vatican News – Papa Leone XIV guiderà l’11 ottobre il Rosario per la pace in Piazza San Pietro Lucia Montanaro
L’Italia torna in piazza per Gaza: migliaia alle manifestazioni di Roma, Milano, Bologna e Napoli
Dopo l’abbordaggio della seconda Freedom Flotilla da parte della Marina israeliana, la solidarietà con il popolo palestinese riempie ancora una volta le piazze italiane. A Napoli migliaia di persone da Piazza Municipio fino al Consolato Usa. Ci si abitua a tutto, anche alle piazze piene, anche alle bandiere che tornano a sventolare ogni settimana a Gaza. Ma non si dovrebbe. Perché dietro ogni corteo c’è un’urgenza che chiede ascolto. C’è una voce collettiva che non parla di lontananza, ma di responsabilità. Bisogna fermarsi un attimo, guardare davvero quei volti, ascoltare i cori gridati con forza e capire che in quelle parole c’è qualcosa che continua a volerci raggiungere. Non basta chi manifesta: serve anche chi ascolta, chi raccoglie quella traccia e la lascia andare lontano, come un battito d’ali, un piccolo effetto farfalla capace di cambiare qualcosa. LE PIAZZE ITALIANE PER LA FLOTTILLA 2 Dopo il rientro e la nuova partenza delle imbarcazioni della Freedom Flotilla, la cosiddetta Flotilla 2 , nuovamente intercettata nelle scorse ore dalla Marina israeliana, le piazze italiane hanno risposto all’appello con una mobilitazione diffusa da Nord a Sud. Roma, Milano, Bologna e Napoli, insieme a decine di altre città, sono tornate in strada per affiancare simbolicamente l’ultima missione umanitaria diretta verso Gaza e per chiedere la fine del blocco israeliano che da oltre diciassette anni isola la Striscia. Convocato con lo slogan “L’8 ottobre tutti in piazza!” , le manifestazioni hanno visto la partecipazione di migliaia di persone: una risposta corale alla nuova emergenza e all’arresto dei 145 attivisti, tra cui dieci italiani, fermati dalle IDF dopo l’abbordaggio delle nove imbarcazioni cariche di aiuti umanitari, tra cui medicinali, dispositivi respiratori e generi alimentari destinati agli ospedali di Gaza. Le organizzazioni promotrici, tra cui Freedom Flotilla Coalition, Giovani Palestinesi Italia, Movimento Studenti Palestinesi in Italia e Unione Democratica Arabo-Palestinese, hanno denunciato l’ennesima violazione del diritto internazionale e l’aggressione a una missione civile che portava aiuti e solidarietà al popolo palestinese. Da qui l’appello alla mobilitazione, rilanciato in poche ore sui social e accolto da centinaia di realtà solidali in tutta Italia. DA ROMA A MILANO: “BLOCCHIAMO TUTTO ANCORA” A Roma, il corteo partito dal Colosseo ha attraversato via di San Gregorio, piazza di Porta Capena e viale Aventino fino a piazza Ostiense, dove circa tremila persone hanno chiesto “Stop al genocidio”. A Milano, da piazzale Lodi a piazza Leonardo Da Vinci, gli attivisti hanno sfilato dietro lo striscione “Milano lo sa da che parte stare” , gridando “Palestina libera, dal fiume fino al mare” . A Bologna, piazza Maggiore si è riempita nel tardo pomeriggio, con centinaia di bandiere e cartelli a sostegno della Flottiglia. Manifestazioni e presidi si sono tenuti anche a Torino, Firenze, Genova, Palermo, Bari, Parma, Salerno e in decine di altre città, in un fronte unitario che ha unito studenti, sindacati, collettivi e reti per la pace. « Siamo pronti a bloccare tutto ancora », hanno scandito gli attivisti al megafono, richiamando lo spirito dello sciopero del 22 settembre e delle giornate di mobilitazione del 3 e 4 ottobre, quando portuali, studenti e lavoratori avevano dato vita a un’azione nazionale per chiedere la fine dell’assedio a Gaza e la rottura delle complicità italiane. NAPOLI LO SA DA CHE PARTE STARE A Napoli, centinaia di persone hanno risposto all’appello della Rete per la Palestina, radunandosi in piazza Municipio, di fronte all’ingresso del Comune. Dietro lo striscione “Blocchiamo tutto”, il corteo ha percorso via Caracciolo e via Santa Lucia, passando a pochi metri dalla Regione Campania, fino a raggiungere piazza della Repubblica, dove è stato fermato da un cordone di polizia davanti al Consolato degli Stati Uniti. Non si sono registrati incidenti, ma la partecipazione ha paralizzato per ore la viabilità cittadina tra via Acton, via Chiatamone e il lungomare. I manifestanti hanno sventolato bandiere palestinesi, intonato cori e mostrato cartelli con scritte come “La Palestina deve vivere” e “Napoli lo sa da che parte stare”. Il presidio, durato oltre tre ore, ha visto la presenza di numerosi sigle locali e attivisti indipendenti che hanno voluto testimoniare la propria vicinanza alla popolazione di Gaza e agli equipaggi della Flotilla. La mobilitazione è scaturita dal nuovo appello diffuso sui social dalle reti solidali e dai movimenti per la Palestina, che in poche ore hanno riportato la gente in piazza dopo la notizia del possibile intervento della Marina israeliana contro la seconda missione umanitaria, con a bordo anche nove cittadini italiani. “Stanno bene, ma sono stati espulsi immediatamente”, ha dichiarato il ministero degli Esteri israeliano, mentre la Freedom Flotilla Coalition ha denunciato “un’azione piratesca, un blitz a luci spente”. SOLIDARIETÀ E ASCOLTO Le piazze italiane tornano così a unirsi in una protesta che non si spegne. Dal primo abbordaggio della Global Sumud Flotilla il 1° ottobre fino a questa nuova operazione militare, cresce la consapevolezza di un legame diretto tra la società civile e la lotta per la libertà del popolo palestinese. Ancora una volta, da Napoli a Milano, da Roma a Bologna, migliaia di persone hanno scelto di esserci, con la voce, i corpi e le bandiere, per dire che il silenzio non è più un’opzione.     Lucia Montanaro
Coltivare futuro nei Quartieri Spagnoli di Napoli: l’idroponica come atto di rinascita
A volte basta un seme, o anche solo un’idea, per far nascere un modo diverso di guardare al mondo. Per tre giorni, la corte di FOQUS – Fondazione Quartieri Spagnoli si è trasformata in un vero laboratorio di idee e incontri. Esperti, studenti e cittadini si sono confrontati su come educazione, ambiente e comunità possono intrecciarsi per immaginare città più vivibili, sostenibili e inclusive. All’interno delle GEA 2025 – Giornate Educazione Ambiente , il dialogo si è esteso dai temi della rigenerazione urbana all’innovazione agricola, dalla scuola come motore del cambiamento alla ricerca di nuove economie del rispetto. Ho potuto seguire direttamente uno degli incontri, “Coltivare senza suolo e produrre comunità” , dedicato alle nuove forme di agricoltura idroponica e acquaponica. Un dibattito denso di spunti, che ha messo in luce quanto le pratiche di coltivazione fuori suolo possano essere non solo una soluzione tecnica, ma anche una visione culturale e sociale per le città di domani. Dalla terra ferita al cemento che fiorisce Fra le testimonianze più significative, quella di Francesco Pio Fiorillo , fondatore di Lympha , un’azienda agricola di Licola che ha fatto dell’idroponica la propria missione principale. Attraverso questa tecnica, Fiorillo coltiva in fuori suolo , puntando su un modello di agricoltura ecologica e rigenerativa , capace di ridurre drasticamente il consumo d’acqua, eliminando l’uso di pesticidi e riducendo l’impatto ambientale dei trasporti e del suolo agricolo tradizionale. L’obiettivo è costruire un nuovo equilibrio tra innovazione e natura, dimostrando che la tecnologia può essere una via concreta per la sostenibilità ambientale , non un suo contrario. > «Da noi stiamo cercando di creare un sistema di agricoltura rigenerativa», ha > raccontato. > «Abbiamo tanto terreno e vogliamo coltivarlo per riprenderlo, con colture che > rigenerano il suolo stesso. È importante accompagnare la natura con i nostri > processi, non sostituirla.» La rigenerazione del terreno circostante rappresenta così un’estensione naturale del progetto idroponico , un modo per ripristinare equilibrio e biodiversità anche agli spazi adiacenti. Poi ha aggiunto un’immagine che nasce proprio da Napoli: > «Prima di iniziare questa avventura abitavo in centro e, dal mio palazzo, > guardavo il golfo di Napoli ei Quartieri Spagnoli pensando a quanto cemento mi > circondasse. Da lì è nata l’idea: quanto verde potrebbe produrre, iniziando > dai tetti, creando anche una copertura termica naturale. Il nostro obiettivo è > rendere questo cemento sempre più verde.» Quell’idea oggi si è trasformata in un piccolo impianto al quartiere Arenella , con duecento piante che crescono in mezzo a quattro palazzi. Non è una grande serra, ma un inizio, un segno: la prova che anche nel cuore del cemento può nascere vita. UN PROGETTO ALLA PORTATA DI TUTTI Fiorillo ha raccontato con semplicità che solo pochi anni fa non avrebbe saputo piantare nemmeno una piantina di basilico. Oggi guida un’esperienza che mostra come l’idroponica possa essere alla portata di tutti, anche di chi non ha un giardino, ma solo un balcone o un terrazzo. Coltivare senza terra, ha spiegato, è un modo per riavvicinarsi alla natura , anche in città, e per comprenderne i processi con occhi nuovi. Nell’azienda Lympha , oltre alla produzione, si svolgono visite didattiche e attività formative dedicate a bambini e ragazzi delle scuole, che vengono accolti per scoprire da vicino come funziona la coltivazione fuori suolo. Sono esperienze che uniscono curiosità, stupore e consapevolezza: piccoli passi per formare le coscienze di domani. COLTIVARE CONOSCENZA, COLTIVARE FUTURO Le coltivazioni idroponiche e acquaponiche usano fino al 90% di acqua in meno rispetto a quelle tradizionali e permettono di produrre prodotti di alta qualità anche dove il terreno è inutilizzabile. Ma il loro valore non è solo tecnico: è simbolico. È la prova che si può cambiare, che l’innovazione può nascere dal rispetto. I PRINCIPALI VANTAGGI DELL’IDROPONICA I principali vantaggi della coltivazione idroponica includono un risparmio idrico e significativo energetico , un controllo completo sulla nutrizione delle piante , un uso efficiente dello spazio e la possibilità di coltivare in qualsiasi periodo dell’anno . Inoltre, elimina o riduce drasticamente la necessità di diserbanti e pesticidi , consente una produzione più rapida e produce raccolti più uniformi e puliti , privi di residui di terreno. Le ricerche confermano che i prodotti coltivati fuori suolo mantenendo gli stessi valori nutrizionali e organolettici di quelli cresciuti in piena terra, e in molti casi risultano più controllati e sicuri , perché privi di contaminazioni e seguiti in ogni fase di crescita. La pianta riceve esattamente ciò di cui ha bisogno, senza sprechi, e restituisce cibo sano e di qualità. UN MOVIMENTO CHE CRESCE NEL MONDO Quello che a Napoli è stato raccontato come esempio locale fa parte di un movimento internazionale in piena espansione. In Olanda , le serre idroponiche producono oltre il 40% delle verdure esportate in Europa. In Svezia e Finlandia stanno nascendo le farm verticali urbane, coltivazioni su più livelli illuminati da luci LED a basso consumo. A Singapore , l’idroponica è una strategia nazionale per la sicurezza alimentare, mentre in Giappone oltre duecento fabbriche di verdura integrano scuola, scienza e agricoltura. Persino nel deserto degli Emirati e in Arabia Saudita , l’acquaponica è diventata un modo per combattere la scarsità d’acqua e creare lavoro. Tutto questo mostra che il fuori suolo non è una moda, ma una possibile risposta ai cambiamenti climatici e alla perdita di terreno fertile . E soprattutto è un modo per educare, per mettere in rete persone, saperi e sogni. LA SFIDA: CREARE UNA RETE Chi coltiva in idroponica o acquaponica, però, si muove ancora in un quadro normativo incerto: mancano riconoscimenti ufficiali e certificazioni specifiche . Eppure, come è emerso anche dal confronto a FOQUS, la sfida più grande non è solo tecnica, ma umana : fare rete, costruire un progetto comune che unisca innovazione, ricerca e impegno educativo. Solo così queste esperienze potranno diventare un modello stabile, riconosciuto e condiviso, capace di generare un cambiamento reale nel modo in cui produciamo e conteniamo il cibo. DAL CEMENTO AL VERDE Il modello sperimentato da Lympha, insieme a tante realtà in Italia e nel mondo, dimostra che la speranza si può coltivare. È un approccio che unisce conoscenza e tecnologia, ma anche rispetto, visione e fiducia. Un modello che sta già dando i suoi frutti e che offre un incentivo in più per guardare al futuro con più coraggio, più fiducia e più desiderio di partecipare. Perché coltivare senza terra, in fondo, significa coltivare futuro .          FOQUS – Fondazione Quartieri Spagnoli         GEA – Giornate Educazione Ambiente         Linfa – Agricoltura idropica e rigenerativa * Cos’è la coltivazione idroponica – Wikipedia Lucia Montanaro
Napoli, occupazioni e cortei per la Flottilla: binari bloccati, università presidiate, nuove mobilitazioni
Dalla Stazione Centrale a Corso Umberto, studenti e attivisti scendono in strada. Presidi a L’Orientale e a Lettere e Filosofia. Venerdì lo sciopero generale A Napoli la mobilitazione in sostegno alla Global Sumud Flotilla è iniziata ieri pomeriggio con un’azione eclatante: circa trecento manifestanti hanno occupato i binari della Stazione Centrale, bloccando la circolazione ferroviaria per oltre mezz’ora. La protesta ha causato disagi al traffico ferroviario ma si è conclusa senza incidenti. Le iniziative sono proseguite nelle ore successive con cortei su Corso Umberto e presidi davanti alla Federico II – Lettere e Filosofia (Porta di Massa) e a L’Orientale (Palazzo Giusso), occupati dagli studenti che si definiscono “equipaggio di terra” in solidarietà con i partecipanti alla Flottilla. Per venerdì 3 ottobre è previsto uno sciopero generale indetto da CGIL e USB, che coinvolgerà anche la Campania. Le due sigle sindacali hanno dichiarato che l’azione è finalizzata a denunciare l’abbordaggio israeliano in acque internazionali e a chiedere un corridoio umanitario verso Gaza. Tra i partecipanti alla spedizione navale c’è anche un napoletano di 86 anni, Lu (Roberto) Ventrella, a bordo della nave Mango. Intervistato da La Stampa, ha dichiarato: “Qui sono il più in forma di tutti, non ci fermeranno”, aggiungendo di non sentirsi un eroe, ma “una persona perbene” pronta a rischiare per un’idea di giustizia. Le manifestazioni a Napoli si inseriscono in un quadro nazionale di mobilitazione che ha visto proteste anche a Roma, Torino e Genova, con presidi e cortei contro l’intercettazione della Flottilla da parte della Marina israeliana. Oltre ai presidi già in corso, per stasera è prevista una manifestazione in Piazza Mercato, convocata dalla rete cittadina a sostegno della Palestina e della Flottilla. Gli organizzatori annunciano che sarà un momento di ulteriore mobilitazione pubblica in vista dello sciopero generale di venerdì 3 ottobre, quando cortei e assemblee attraverseranno ancora le strade di Napoli. Quali che siano stati gli eventi, un grazie speciale va a chi ci ha creduto davvero e, a nome di tutti, ha avuto il coraggio di andare avanti. Davanti a un governo distratto, è andato fino in fondo. Senza paura. FONTI ACCERTATE * ANSA – Pro Pal a sostegno di Flotilla, treni bloccati mezz’ora a Napoli * Sky TG24 – Manifestazioni a Napoli, Roma e Torino. Cgil e USB * Fanpage – Manifestanti occupano i binari della stazione di Napoli per Gaza * NapoliToday – A bordo della Flotilla l’86enne napoletano Lu Ventrella * La Stampa – La testimonianza di Roberto Ventrella, 86 anni, sulla nave Mango * RaiNews – Flotilla: intercettazioni israeliane e proteste in Italia * PressAgency – Napoli si mobilita per la Flottilla, nuova manifestazione in Piazza Mercato   Lucia Montanaro