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Guerra chiama guerra – dove porta il riarmo?
Sabato 20 settembre dalle ore 17 alle ore 19 presso la Sala Xenia di Riva III Novembre a Trieste si terrà il convegno “Guerra chiama guerra” Ne parliamo con: * Marc Innaro , scrittore e giornalista, già storico corrispondente RAI da Mosca, Gerusalemme e il Cairo; * Diana Bosnjak Monai, scrittrice, illustratrice, nata a Sarajevo da una famiglia multietnica e multiculturale; * Francesco Vignarca, co-fondatore di “Milex” – osservatorio sulle spese militari italian Introduce e modera il giornalista Biagio Mannino Redazione Friuli Venezia Giulia
Alle armi! Ma ce li abbiamo i soldi?
Avanti ad occhi chiusi, anzi con cappuccio ben calcato in testa, ma con in mano molte armi che non servono a granché. E’ l’immagine dell’Unione Europea più Londra (che intanto scivola verso il razzismo suprematista, visto che il guerrafondaio razzista alla guida si dice «laburista»), che ancora fanno fatica a […] L'articolo Alle armi! Ma ce li abbiamo i soldi? su Contropiano.
In Parlamento non passano le mozioni contro riarmo e spese militari
I risultati del voto sulle mozioni contro il riarmo e le spese militari hanno confermato due cose: la prima è che il governo, nonostante gli schiamazzi di Salvini, non intende deviare dalla strada del riarmo; la seconda è che Renzi e Calenda stanno sulle scatole a tutti. Infatti le mozioni […] L'articolo In Parlamento non passano le mozioni contro riarmo e spese militari su Contropiano.
La solidarietà per Gaza rompe gli argini della narrazione dominante
di Marco Bersani, Attac Italia Sono centinaia le mobilitazioni spontanee ed organizzate che attraversano dal più piccolo paese alla più grande delle metropoli. Sono partecipate da moltitudini che eccedono l’attivismo e sono attraversate da un protagonismo sociale come non si Continua a leggere L'articolo La solidarietà per Gaza rompe gli argini della narrazione dominante proviene da ATTAC Italia.
Germania; armi, guerra, antideutsch
Con Anna Bolena torniamo a parlare di Germania e degli ultimi sviluppi politici in merito al riarmo e al genocidio a Gaza. Sul piano istituzionale infatti il governo Mertz sta procedendo a un forte incremento dell'industria bellica parlando di riconversione del settore dell'automotive e di altri settori industriali in crisi, si parla inoltre in modo sempre più concreto di ripristino della leva obbligatoria. Negli ultimi tempi, inoltre, il cancelliere, sebbene in modo assai poco credibile ha annunciato l'interruzione della vendita di armi a Israele (la Germania è il secondo fornitore al mondo di armi a Israele dopo gli Usa), questo è bastato a far scattare la componente antideutsch de* antifa che chiedono ancora armi a Israele, sebbene con minor presa rispetto al passato sul testo del movimento. Nella foto uno striscione antideutsch che chiede ancora armi per Israele
“L’Europa mostri i muscoli”. Facile a dirsi, difficile a farsi
L’ex direttore de The Economist, Bill Emmott, da una quindicina di anni è un editorialista de La Stampa.  Nel suo editoriale del 30 agosto, Emmott ha provato a perimetrare il campo del “reale” sul ruolo che i governi europei dovrebbero svolgere contro la Russia, ma anche verso gli Usa di […] L'articolo “L’Europa mostri i muscoli”. Facile a dirsi, difficile a farsi su Contropiano.
Guerrafondai senza un soldo: “l’Europa” che straparla e nessuno se la fila
Anche a vederla da lontano l’ostinazione con cui i principali paesi dell’Unione Europea si sforzano di far proseguire la guerra in Ucraina sembra decisamente illogica. Se infatti è pur vero che il capitalismo, in genere, quando arriva alla crisi comincia a produrre guerra, bisogna comunque ricordare che questo insieme – […] L'articolo Guerrafondai senza un soldo: “l’Europa” che straparla e nessuno se la fila su Contropiano.
“Le armi o la vita”. A Roma assemblea dei movimenti per la giustizia ambientale e sociale
“La crisi climatica è una questione sociale, globale e morale. È una minaccia per la vita umana e per il pianeta”. Con queste parole, Papa Francesco ha più volte denunciato l’urgenza di un cambiamento radicale, chiamando i governi e le società civili a una responsabilità condivisa. In questo spirito, lunedì 8 settembre, la Casa della Solidarietà “Stefano Rodotà” di San Lorenzo ospiterà l’assemblea “Le armi o la vita”, promossa dalla Rete dei Numeri Pari e da numerosi movimenti italiani e internazionali. L’iniziativa si inserisce nel percorso di convergenza verso la COP30, che si terrà a Belém, in Amazzonia, nel 2025. Un appuntamento cruciale per i movimenti climatici e sociali del Sud globale e non solo, in un contesto segnato da guerre, disuguaglianze e devastazione ambientale. Sharon Lavigne: la lotta contro il razzismo ambientale Ospite d’eccezione dell’assemblea sarà Sharon Lavigne, attivista afroamericana e fondatrice di RISE St. James, organizzazione nata per contrastare l’espansione dell’industria petrolchimica nella “Cancer Alley” della Louisiana, una delle aree più inquinate degli Stati Uniti. Ex insegnante di educazione speciale, Lavigne ha fondato RISE nel 2018 nel salotto di casa sua. Da allora ha guidato una mobilitazione che ha portato alla cancellazione di un impianto da 1,25 miliardi di dollari della Wanhua Chemical Group. Oggi è impegnata contro il progetto da 9,4 miliardi della Formosa Plastics, che minaccia di aggravare l’inquinamento e profanare cimiteri di schiavi afroamericani. Per il suo impegno ha ricevuto il Goldman Environmental Prize nel 2021, la Laetare Medal nel 2022 ed è stata inserita tra le TIME100 nel 2024. “Mi dicevano: ‘È una battaglia persa’. Ma questo mi ha dato la forza di combattere”, ha raccontato. Madre di sei figli e nonna di dodici nipoti, Lavigne è oggi una delle voci più autorevoli contro il razzismo ambientale e per la giustizia climatica. Un’assemblea per costruire convergenze L’assemblea vedrà la partecipazione di attivisti, reti territoriali, comitati e realtà sociali impegnate in Italia e nel mondo. Sarà un momento di confronto e proposta, per rilanciare un’agenda comune che metta al centro la difesa della vita, della terra e dei diritti. “Le armi o la vita” non è solo uno slogan, ma una scelta politica e morale. In vista della COP30, Belém diventa il simbolo di una sfida globale: quella di costruire un futuro giusto, libero dalla violenza e dalla devastazione ambientale. A parlare saranno anche gli attivisti italiani, impegnati nelle lotte contro le grandi opere inutili, l’estrattivismo, la militarizzazione dei territori e la negazione dei diritti sociali. “Non possiamo parlare di transizione ecologica senza giustizia sociale”, ha più volte denunciato Stop Rearm Europe. “La COP30 deve essere un’occasione per dare voce ai territori, alle comunità resistenti, a chi ogni giorno difende la vita contro gli interessi delle multinazionali e dei governi complici. “L’incontro con Sharon Lavigne ci ricorda che la giustizia climatica è anche giustizia razziale, storica e culturale: dalla Louisiana a Gaza, dalla Sicilia all’Amazzonia, le lotte sono interconnesse. E Roma deve essere parte di questa convergenza globale” Rete #NOBAVAGLIO
Ci sarà la pace in Ucraina? Chi ha vinto? Chi ha perso?
Andiamo con ordine. Dopo gli incontri in Alaska e a Washington ci sarà la pace in Ucraina, una vera pace, intendo? No. Si stanno facendo trattative per la spartizione dell’Ucraina, la sua fine come Stato unitario, binazionale, neutrale, ponte tra Occidente e Oriente. Si pensa non alla pace, ma al congelamento armato della guerra, come da decenni si protrae la fine delle ostilità tra le due Coree, senza nessuna pace e riconciliazione. Una vasta area super militarizzata e invalicabile chiude oggi le due Coree e domani, nei piani dei signori della guerra, spaccherà l’Ucraina, forse per sempre o per i prossimi decenni. Le trattative in corso non vanno nella direzione del disarmo e di una vera distensione: il riarmo europeo continuerà per garantire con la forza la fine delle ostilità, anzi il loro congelamento a tempo indeterminato. Per avere la pace si dovrebbe procedere a trattative vere, promosse dall’ONU, unica istituzione sovranazionale legittimata a trovare e promuovere soluzioni sulla base del diritto internazionale e del pieno rispetto dei diritti umani sia come singoli individui, sia come comunità, popoli, nazioni, Stati. Si dovrebbe partire dal sanare una ferita tuttora aperta e cioè dal riconoscimento dell’indipendenza dell’Ucraina, di uno Stato sovrano da cui andrebbero ritirate le truppe straniere, compresi addestratori e mercenari. Una volta data la possibilità ai profughi di rientrare, possono anche essere ridiscussi i confini sulla base del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Attraverso nuovi referendum, tenuti sotto il controllo delle Nazioni Unite, saranno i popoli di quelle regioni a stabilire il destino del  Donbass e della Crimea su due opzioni fondamentali: regioni autonome parte di un’Ucraina federalista o della Federazione Russa. Sarebbe un nuovo grave precedente, uno sfregio del diritto internazionale accettare che i confini siano modificati non per volontà delle popolazioni dei territori interessati, sulla base del principio di autodeterminazione, ma da accordi tra Trump e Putin e per di più sulla base di una conquista militare. Dopodiché vale per l’Ucraina ciò che dovrebbe valere per ogni Stato del mondo, Palestina in primis: pieno rispetto dei diritti umani individuali, civili, sociali, politici e nazionali. Nel concreto uno Stato autenticamente democratico, laico sulle questioni religiose, pienamente binazionale, nel pieno rispetto della lingua e cultura ucraina e della lingua e cultura russa, che qui in realtà non indicano due popoli separati, perché binazionali sono gran parte delle famiglie e quindi delle persone.  Do per scontato il pieno rispetto e riconoscimento delle minoranze nazionali presenti su questo complesso e articolato Paese: rom, bielorussi, ungheresi, polacchi, rumeni, tatari di Crimea, greci, armeni… Un tempo erano presenti sia una vasta comunità tedesca, che ha lasciato il Paese, sia gli ebrei, in gran parte sterminati dai nazisti e dai nazionalisti suprematisti ucraini, attivi soprattutto nella parte occidentale, quella che mai fece parte dell’Impero Russo. Essi furono, e sono tuttora, i seguaci di Stepan Bandera, per loro un eroe nazionale, che aspirava a un’Ucraina etnicamente pura.  Odiavano a tal punto i russi che non si fecero scrupoli ad allearsi con i nazisti tedeschi, anche se questi ritenevano tutti i popoli slavi, e pertanto pure i suprematisti ucraini, gente inferiore da sottomettere. Tutt’altro che nazista, la maggior parte della popolazione dell’Ucraina fece la propria parte nella guerra antinazista, sia come partigiani sia nelle file dell’Armata Rossa. Tutti o quasi qui parlano e capiscono il russo, soprattutto nelle città, tanti sono di madrelingua (o padrelingua) russa o sono perfettamente binazionali, perché di famiglie “miste” da più di una generazione. Infine molti sono di famiglie originarie dei territori della Russia vera e propria, la cosiddetta “grande Russia”, venuti a lavorare nel distretto minerario e industriale del Donbass, oppure a ripopolare, nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento, moltissimi villaggi ucraini spopolati a seguito della terribile carestia causata dalla folle politica staliniana di collettivizzazione forzata, eliminazione dei kulak e sequestro di ogni derrata alimentare prodotta nei villaggi per sfamare le città. Espropri condotti senza pietà fino a lasciar morire la gente di fame. Gli ucraini lo considerano il loro genocidio e lo chiamano Holodomor, uccisione per fame. Dopo l’invasione russa iniziata il 24 febbraio del 2022 (che sia stata una gravissima violazione del diritto internazionale lo dice Francesca Albanese) molti russofoni abbandonarono le regioni conquistate; alcuni di loro hanno persino smesso di parlare russo, almeno pubblicamente, anche come forma di “protesta” e di affermazione della propria identità, non etnica, ma nazionale. Tuttavia il russo è tuttora la lingua principale per tantissime persone che, almeno da questa parte della linea del fronte, sono diventate ostili a Putin, alle sue armate e spesso anche al popolo che lo ha votato e che lo sostiene. Il basamento della statua della zarina Caterina, rimossa dagli ultranazionalisti ucraini in odio alla Russia, nonostante l’importante ruolo da lei svolto nella storia di Odessa. Non posso parlare di ciò che accade di là dal fronte se non per i racconti che mi fanno i profughi. Riporto dunque quello che pensano i moltissimi profughi interni, praticamente tutti di madrelingua russa.  Vogliono un’Ucraina indipendente e sovrana, entro i confini della Repubblica Sovietica di Ucraina e dello Stato pienamente indipendente nato nel 1991 dalla disgregazione dell’Urss. Le mie riflessioni nascono anche dalle “interviste” che ho fatto per strada a tanta gente comune, soprattutto giovani e giovanissimi, quelli più disposti a raccontare il loro punto di vista, dall’incontro con le insegnanti e le psicologhe del Sindacato degli insegnanti di Odessa, affiliato alla Cgil, dalle conversazioni con l’italiano Ugo Poletti, direttore del giornale in lingua inglese Odessa Journal e con l’ex ambasciatore Enrico Calamai, con cui mi sono confrontato circa il Diritto Internazionale. Ugo Poletti ha avuto il coraggio di non lasciare Odessa, che è diventata la sua città, anche nelle fasi più cruente del conflitto, quando le armate russe tentarono di conquistarla, ma furono fermate a est della città di Mykolaïv da una strenua e inaspettata resistenza. Chi ha vinto la guerra, dunque? Nessuno. I russi erano convinti di arrivare perlomeno a Kiev accolti come liberatori e così non è stato. Gli ucraini erano fiduciosi di riprendersi, con l’aiuto militare degli Usa e dei Paesi della Nato, il Donbass e persino la Crimea, e così non è stato; anzi, hanno perso alcune porzioni dei loro territori orientali ora annessi unilateralmente alla Federazione Russa. Chi ha perso veramente, quindi? I due popoli che hanno perso centinaia di migliaia di uomini, soprattutto civili in divisa, ma anche tantissimi civili delle città a ridosso del confine, martoriate e devastate dalla guerra, a cui vanno aggiunti i civili morti in numero assai minore nelle città più lontane, colpite dai droni e dai lanci di missili. Chi ha vinto? I produttori e i trafficanti di armi e i politici guerrafondai e corrotti, che nulla hanno fatto per prevenire e fermare la guerra e trattare per una pace vera e non per la spartizione del Paese. Solo i popoli possono costruire un’umanità fraterna e solidale, fermare il genocidio del popolo palestinese e le “inutili stragi” in Ucraina, Somalia e ovunque si combatta oggi.  La pace vera può nascere soltanto dal basso, con un immenso lavoro che deve impegnare tutte e tutti noi, ma che non può perdere più un istante di tempo, perché l’orrore divora ogni giorno troppe vittime innocenti.   Mauro Carlo Zanella
Stop Rearm Europe: “Stop a Defence summit atto dovuto. Mai più fiere armi”
“Un atto dovuto lo stop al Defence summit, l’evento dedicato all’industria militare organizzato dal Sole 24 Ore per il prossimo 11 settembre presso l’Auditorium di Roma. Questa ‘fiera delle armi’, dove sarebbe andata in mostra, tra le altre cose, la stessa tecnologia militare che l’Italia fornisce a Israele per il genocidio in corso del popolo palestinese a Gaza e in Medio Oriente, soprattutto in questo momento storico, sarebbe stata scandalosa non solo all’Auditorium, perché in contrasto con le sue finalità statutarie, ma in qualunque sede. L’evento pertanto dev’essere annullato in via definitiva”. Lo dichiara il gruppo promotore “Stop Rearm Europe – Roma”, composto da oltre 70 realtà di tipo associativo, movimenti, partiti, che lo scorso 21 giugno è sceso in piazza a Roma con oltre 100mila persone con la manifestazione nazionale “Stop Rearm Europe – No guerra, riarmo, genocidio, autoritarismo”. “Iniziative come il Defence summit sono un affronto per i diritti umani, per la Repubblica italiana, nata dalle ceneri di due guerre mondiali, e per la città di Roma, da sempre crocevia di culture e dialogo tra i popoli, dove è in corso il Giubileo e dove ancora risuonano i numerosi appelli alla pace di Papa Leone XIV e Papa Francesco”. “La mobilitazione per la pace, per il disarmo e contro il riarmo è ormai permanente e sarà in ogni sede e in ogni luogo per bloccare le politiche belliciste finché queste non batteranno in ritirata. Laddove l’economia di guerra e l’autoritarismo minacciano stato sociale e democrazia, la mobilitazione sociale permanente è l’ultimo baluardo per la tutela dei diritti e della libertà d’espressione.” Stop Rearm Europe Redazione Italia