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Sanità: il pubblico arretra sempre più, mentre i privati occupano gli spazi vuoti
  La spesa delle famiglie è ormai schizzata oltre i € 41 miliardi e dal 2022 al 2024 +1,7 milioni di persone hanno rinunciato a prestazioni sanitarie. Il privato convenzionato domina le RSA e la riabilitazione, ma mostra segni di crisi. Boom invece del privato puro: in 7 anni +137% di spesa out-of-pocket. Sono alcuni dei dati snocciolati da Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE, al 20° Forum Risk Management di Arezzo, presentando un’analisi indipendente sull’ecosistema dei soggetti privati in sanità e sulla privatizzazione strisciante del SSN. Un’analisi che documenta come il progressivo indebolimento della sanità pubblica lasci sempre più spazio all’espansione silenziosa di una moltitudine di attori privati, spesso identificati erroneamente con le sole strutture private accreditate. La Fondazione GIMBE indica 4 macro-categorie di soggetti privati: erogatori che forniscono servizi e prestazioni sanitarie e socio-sanitarie; investitori che immettono capitali con finalità di sviluppo del settore e di produzione di utili; terzi paganti (fondi sanitari, assicurazioni, etc.) che svolgono la funzione di pagatore intermedio tra erogatori e cittadini; realtà che stipulano partenariati pubblico-privato (PPP) con Aziende Sanitarie, Regioni e altri enti. Ciascun soggetto privato può avere natura giuridica profit o non-profit: questi ultimi, se non rappresentano una minaccia per il SSN, nella percezione pubblica finiscono per essere considerati alla stregua di attori privati con elevata propensione ai profitti. Nel 2024 la spesa sanitaria a carico dei cittadini (out-of-pocket) ammonta a € 41,3 miliardi, pari al 22,3% della spesa sanitaria totale: percentuale che da 12 anni supera in maniera costante il limite del 15% raccomandato dall’OMS, soglia oltre la quale sono a rischio uguaglianza e accessibilità alle cure. In Italia la spesa out-of-pocket in valore assoluto è cresciuta da € 32,4 miliardi del 2012 a € 41,3 miliardi del 2024, mantenendosi sempre su livelli compresi tra il 21,5% e il 24,1% della spesa totale. “Con quasi un euro su quattro di spesa sanitaria sborsato dalle famiglie, ha sottolineato Cartabellotta, oggi siamo sostanzialmente di fronte a un servizio sanitario “misto”, senza che nessun Governo lo abbia mai esplicitamente previsto o tantomeno dichiarato. Peraltro, la spesa out-of pocket non è più un indicatore affidabile delle mancate tutele pubbliche, perché viene sempre più arginata dall’impoverimento delle famiglie: le rinunce alle prestazioni sanitarie sono passate da 4,1 milioni nel 2022 a 5,8 milioni nel 2024”. In altre parole, la spesa privata non può crescere più di tanto perché nel 2024 secondo l’ISTAT 5,7 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà assoluta e 8,7 milioni sotto la soglia di povertà relativa. Dal Sistema Tessera Sanitaria è possibile identificare chi “incassa” la spesa a carico dei cittadini. Nel 2023, anno più recente a disposizione, i € 43 miliardi di spesa sanitaria privata sono così suddivisi: € 12,1 miliardi alle farmacie, € 10,6 miliardi a professionisti sanitari (di cui € 5,8 miliardi odontoiatri e € 2,6 miliardi ai medici), € 7,6 miliardi alle strutture private accreditate e € 7,2 miliardi al privato “puro”, ovvero alle strutture non accreditate e € 2,2 miliardi alle strutture pubbliche per libera professione e altro. Si tratta di numeri che fotografano con chiarezza che la privatizzazione della spesa sta determinando una progressiva uscita dei cittadini dal perimetro delle tutele pubbliche, con l’acquisto diretto sul mercato delle prestazioni necessarie. Secondo l’Annuario Statistico del Ministero della Salute, nel 2023 delle 29.386 strutture sanitarie censite, il 58% (n. 17.042) sono strutture private accreditate e il 42% (n. 12.344) strutture pubbliche. Il privato accreditato prevale ampiamente in varie tipologie di assistenza: residenziale (85,1%), riabilitativa (78,4%), semi-residenziale (72,8%) e, in misura minore, nella specialistica ambulatoriale (59,7%). Nell’assistenza residenziale il pubblico arretra del 19,1% mentre il privato accreditato cresce del 41,3%; nell’assistenza semi-residenziale il pubblico segna -11,7% a fronte di un aumento del 35,8% del privato. Nell’assistenza riabilitativa crescono entrambi, ma con percentuali molto diverse (+5,3% pubblico vs +26,4% privato). Infine, nell’altra assistenza territoriale, pur con un aumento assoluto più rilevante nel pubblico, il privato accreditato registra una crescita percentuale quasi doppia (+35,3% vs +18,6%). “Diverse Regioni, sottolinea il presidente della Fondazione GIMBE, hanno favorito un’eccessiva espansione del privato accreditato senza disporre di risorse adeguate, visto che l’imponente definanziamento del SSN ha mantenuto ferme le tariffe di rimborso delle prestazioni”. Per quanto riguarda, infine, il privato non convenzionato, ovvero le strutture sanitarie, prevalentemente di diagnostica ambulatoriale, che erogano prestazioni esclusivamente in regime privato, senza alcun rimborso a carico della spesa pubblica, negli ultimi anni vi è stata la crescita più marcata: tra il 2016 e il 2023 la spesa delle famiglie verso le strutture non convenzionate è aumentata del 137%, passando da € 3,05 miliardi a € 7,23 miliardi, con un incremento medio di circa € 600 milioni l’anno. Nello stesso periodo la spesa delle famiglie per il privato accreditato è cresciuta solo del 45%; di conseguenza il netto divario tra spesa delle famiglie verso il privato “puro” e verso il privato convenzionato si è praticamente azzerato passando da € 2,2 miliardi nel 2016 a soli € 390 milioni nel 2023. Qui per approfondire: https://www.gimbe.org/pagine/341/it/comunicati-stampa. Giovanni Caprio
Dal 2023 al 2026 € 17,5 miliardi in meno per la sanità pubblica
L’aumento apparente delle risorse per la sanità pubblica in realtà maschera un definanziamento strutturale del Servizio Sanitario Nazionale: tra il Fondo Sanitario Nazionale effettivo e quello che si sarebbe ottenuto mantenendo il livello di finanziamento stabile al 6,3% del Pil nel 2022, si registra infatti un gap cumulato di € 17,5 miliardi nel periodo 2023–2026. Si continua a sbandierare un aumento in valore assoluto del SSN, ma in realtà la sanità pubblica ha perso in quattro anni l’equivalente di una legge di bilancio. Intanto, per i cittadini crescono le liste di attesa, la spesa privata e le diseguaglianze di accesso. E’ quanto ha evidenziato la Fondazione Gimbe, nell’audizione davanti alle Commissioni Bilancio riunite di Senato e Camera. “Il Disegno di Legge sulla Manovra 2026, ha sottolineato Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione Gimbe, è molto lontano dalle necessità della sanità pubblica: le risorse stanziate non bastano a risollevare un Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) in grave affanno, sono insufficienti per coprire tutte le misure previste e mancano all’appello priorità cruciali per la tenuta della sanità pubblica. Innanzitutto il titolo dell’art. 63 “Rifinanziamento del Fabbisogno Sanitario Nazionale Standard” è fuorviante perché non riporta gli importi del FSN rideterminati a seguito dello stanziamento di nuove risorse”.  Per questo motivo la Fondazione Gimbe ha proposto di rinominare l’art. 63 in “Fabbisogno Sanitario Nazionale Standard” e di indicare, per ciascun anno, l’importo rideterminato del FSN. Le risorse aumentate che vengono sbandierate riguardano poi esclusivamente il 2026, quando il FSN crescerà di € 6,6 miliardi (+4,8%) rispetto al 2025, grazie a € 2,4 miliardi previsti dalla Manovra 2026 e, soprattutto, a € 4,2 miliardi già stanziati con le precedenti manovre, in gran parte già allocati per i rinnovi contrattuali del personale sanitario. Nel biennio successivo, invece, la crescita del FSN in termini assoluti è irrisoria: € 995 milioni (+0,7%) nel 2027 e € 867 milioni (+0,6%) nel 2028. Infatti, se va riconosciuto al governo Meloni di aver aumentato il FSN di ben € 19,6 miliardi, cifra mai assegnata da nessun esecutivo in 4 anni, è altrettanto vero che tagliando la quota di FSN sul PIL dal 6,3% del 2022 a percentuali intorno al 6% negli anni successivi, la sanità ha complessivamente lasciato per strada ben € 17,5 miliardi. Quindi, nonostante gli aumenti nominali, la sanità ha perso in quattro anni l’equivalente della prossima legge di bilancio. Siamo di fronte ad un disinvestimento continuo dalla sanità pubblica, avviato nel 2010 e perpetrato da tutti i governi. L’aumento del FSN in valore assoluto, spesso sbandierato come un grande traguardo, non è che un’illusione contabile: la quota di PIL destinata alla sanità cala infatti inesorabilmente, fatta eccezione per gli anni della pandemia quando i finanziamenti straordinari per la gestione dell’emergenza e il calo del PIL nel 2020 hanno mascherato il problema. E con la Manovra 2026 si scende addirittura sotto la soglia del 6%, toccando nel 2028 il minimo storico del 5,93%. Di fronte alla realtà drammatica di queste cifre, che mettono seriamente  a rischio la salute dei cittadini, la Fondazione GIMBE ha proposto di avviare un rifinanziamento progressivo della sanità pubblica, accompagnato da coraggiose riforme strutturali di sistema. “Perché aggiungere fondi senza riforme, è stato sottolineato in Audizione, riduce il valore della spesa sanitaria, mentre varare riforme senza maggiori oneri per la finanza pubblica crea solo “scatole vuote”, così come è accaduto per il Decreto anziani e soprattutto per il Decreto Liste di attesa. Nonostante la stagnante crescita economica, gli enormi interessi sul debito pubblico e l’entità dell’evasione fiscale, se c’è la volontà politica è possibile pianificare con approccio scientifico un incremento percentuale annuo del FSN, al di sotto del quale non scendere, a prescindere dagli avvicendamenti dei governi”. In linea con le indicazioni politiche suggerite dal report OCSE sulla sostenibilità fiscale dei servizi sanitari, la Fondazione GIMBE ha presentato in audizione proposte concrete per rifinanziare il SSN: una tassa di scopo su prodotti nocivi alla salute (sin taxes: tabacco, alcol, gioco, bevande zuccherate), oltre a imposte su extraprofitti e redditi molto elevati; la rivalutazione dei confini tra spesa pubblica e privata, con la revisione del perimetro LEA accompagnata da una “sana” riforma della sanità integrativa per aumentare la spesa intermediata su prestazioni extra-LEA e da una revisione mirata delle compartecipazioni alla spesa sanitaria (ticket); un piano nazionale di disinvestimento da sprechi e inefficienze, con riallocazione di risorse su servizi e prestazioni sotto-utilizzate. Qui per scaricare il materiale dell’Audizione informale della Fondazione GIMBE: https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg19/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/434/397/Fondazione_GIMBE.pdf Giovanni Caprio
Ancora oltre 5,7 milioni in povertà assoluta, mentre la sanità pubblica continua la sua lenta agonia
La percentuale del Fondo Sanitario Nazionale sul PIL al 31 dicembre 2024 è scesa dal 6,3% del 2022 al 6% del 2023, per attestarsi al 6,1% nel 2024-2025, pari a una riduzione in termini assoluti di € 4,7 miliardi nel 2023, € 3,4 miliardi nel 2024 e € 5 miliardi nel 2025. In altre parole, se è certo che nel triennio 2023-2025 il FSN è aumentato di € 11,1 miliardi, è altrettanto vero che con il taglio alla percentuale di PIL la sanità ha lasciato per strada € 13,1 miliardi. E’ quanto evidenzia ancora una volta la Fondazione GIMBE nel suo 8° Rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale (https://www.salviamo-ssn.it/attivita/rapporto/8-rapporto-gimbe.it-IT.html). Dal punto di vista previsionale, il Documento Programmatico di Finanza Pubblica (DPFP) 2025 del 2 ottobre 2025 stima un rapporto spesa sanitaria/PIL stabile al 6,4% per gli anni 2025, 2027 e 2028, con un leggero aumento al 6,5% nel 2026, legato alla lieve revisione al ribasso delle stime di crescita economica, ma la Legge di Bilancio 2025 racconta un’altra storia: la quota di PIL destinata al FSN scenderà dal 6,1% del 2025-2026 al 5,9% nel 2027 e al 5,8% nel 2028. Questo divario tra previsione di spesa e finanziamento pubblico rischia di scaricarsi sui bilanci delle Regioni: € 7,5 miliardi per il 2025, € 9,2 miliardi nel 2026, € 10,3 miliardi nel 2027, € 13,4 miliardi nel 2028. “Eppure, sottolinea la Fondazione GIMBE, il finanziamento della sanità pubblica non è una variabile negoziabile, come ribadito dalla Corte Costituzionale con il netto cambio di passo dal “diritto finanziariamente condizionato” alla “spesa costituzionalmente necessaria” per finanziare i LEA: la Consulta ha riaffermato che la tutela della salute è un diritto incomprimibile che lo Stato deve garantire prioritariamente, recuperando le risorse necessarie da altri capitoli di spesa pubblica”. La Fondazione GIMBE evidenzia come il peso della cura sia sempre di più sulle spalle delle famiglie e pone l’accento sulle rinunce alle cure: complessivamente l’86,7% della spesa privata grava direttamente sui cittadini, mentre solo il 13,3% è intermediata. Quante alle rinunce alle cure, il fenomeno è esploso nel 2024 quando ha coinvolto 1 italiano su 10 (oltre 5,8 milioni di persone), ossia il 9,9% della popolazione, con marcate differenze regionali: dal 5,3% della Provincia autonoma di Bolzano al 17,7% della Sardegna. Anche la Relazione annuale sui livelli e la qualità dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni centrali e locali alle imprese e ai cittadini, predisposta dal CNEL (https://www.cnel.it/)  e inviata al Parlamento e al governo ai sensi della legge 936/1986, certifica i gravi problemi che attraversa il nostro SSN, ove continuano a sussistere significative discrepanze su base regionale e anche tra i territori subregionali, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Sono divari che investono la scarsa offerta di servizi e la fragilità infrastrutturale in diverse aree del Paese. Ma è un dato su tutti che evidenzia la grave china su cui sembra scivolare il SSN e riguarda la spesa sanitaria privata che ormai ha raggiunto il 25%. “Si registra ormai da molti anni, si legge nella Relazione del CNEL, una crescente propensione delle famiglie italiane a spendere privatamente per la sanità. La spesa privata ha raggiunto il livello di 42,6 miliardi annui, pari a circa il 25% del totale della spesa sanitaria nazionale”. Per non parlare della rinuncia a curarsi di tanti italiani: nel 2024 quasi il 10% dei residenti, annota il CNEL,  ha rinunciato a visite o esami specialistici. E le principali motivazioni sono state la lunghezza delle liste di attesa (6,8%, +2,3 rispetto al 2023) e la difficoltà di pagare le prestazioni sanitarie (5,3%, +1,1 rispetto al 2023). Quest’ultimo dato è particolarmente significativo, in quanto nel 2024 il 23,9% degli individui (+4 rispetto al 2023) si è fatto carico dell’intero costo dell’ultima prestazione specialistica, senza alcun rimborso da assicurazioni. E il quadro è destinato a peggiorare, complice una povertà assoluta che non accenna a diminuire: l’ISTAT proprio in questi giorni ha confermato che sono oltre 5,7 milioni le persone in povertà assoluta in Italia (dato 2024). L’ISTAT stima che le famiglie in povertà assoluta siano poco più di 2,2 milioni (l’8,4% sul totale delle famiglie residenti). Una povertà assoluta che si conferma più alta tra le famiglie ampie, raggiungendo il 21,2% tra quelle con cinque e più componenti e l’11,2% tra quelle con quattro, per scendere all’8,6% tra le famiglie di tre componenti. Una povertà che va di pari passo con il livello di istruzione: tra chi possiede solo la licenza elementare o nessun titolo, la povertà raggiunge il 14,4%, in peggioramento rispetto al 13,3% del 2023. Tra chi ha la licenza media, il tasso è del 12,8% (era il 12,3 nel 2023), mentre tra i diplomati e i laureati scende al 4,2%, in miglioramento rispetto al 3,6% dell’anno precedente. E l’occupazione non basta sempre a proteggere dalla povertà: nel 2024 il 7,9% degli occupati vive in povertà assoluta, tra i lavoratori dipendenti la quota sale all’8,7%, mentre tra i lavoratori autonomi si ferma al 5,2%. Tra chi non lavora, la percentuale sale al 9,1%, ma le differenze interne sono ampie: la povertà colpisce il 5,8% dei pensionati o di chi non cerca occupazione, mentre raggiunge il 21,3 tra i disoccupati in cerca di lavoro, in aumento rispetto al 20,7% del 2023. Una povertà assoluta che continua a colpire soprattutto i minori: nel 2024, la povertà assoluta coinvolge oltre 1 milione 283mila minori (il 13,8% dei minori residenti), variando dal 12,1% del Centro al 16,4% del Mezzogiorno, e salendo al 14,9% per i bambini da 7 a 13 anni. E in povertà assoluta versano oltre 1,8 milioni di stranieri, più di uno su tre (l’incidenza è pari al 35,6%), una quota quasi cinque volte superiore a quella degli italiani (7,4%). Ciononostante, i due terzi delle famiglie povere (67%) sono famiglie di soli italiani (oltre 1 milione e 490mila, con un’incidenza pari al 6,2%) e solo il restante 33% è rappresentato da famiglie con stranieri (733mila), che nell’82% dei casi (600mila) sono famiglie composte esclusivamente da stranieri. L’ISTAT sottolinea come a far scivolare tante famiglie verso la povertà sia l’affitto della casa: Il numero delle famiglie in affitto assolutamente povere supera di poco il milione, l’incidenza si attesta al 22,1% contro il 4,7% registrato tra quelle che vivono in abitazioni di proprietà (quasi 916mila famiglie). Per le famiglie in affitto, l’incidenza più elevata si registra nel Mezzogiorno (24,8%, coinvolgendo 346mila famiglie), seguito dal Nord e dal Centro (rispettivamente 21,9% e 18,7%). Domani, 17 ottobre, si celebra la Giornata Mondiale contro la Povertà, un’occasione per ricordare che la povertà non è solo mancanza di reddito, ma anche esclusione, solitudine e negazione dei diritti fondamentali. In occasione della Giornata Mondiale di lotta alla povertà, istituita dall’ONU nel 1992, vengono promosse in tutta Italia numerose iniziative; tra esse molte sono nell’ambito della Notte dei Senza Dimora. La prima edizione della “Notte” fu promossa da Terre di Mezzo nel 1999 e anche quest’anno accoglie adesioni e nuove iniziative, sempre con l’obiettivo di sensibilizzare la cittadinanza sulla condizioni in cui le persone senza dimora si trovano a vivere. fio.PSD raccoglie e pubblica gli eventi promuovendoli tramite il proprio sito web e con i propri strumenti della comunicazione: https://www.fiopsd.org/notte-dei-senza-dimora-2025/. Qui il Report dell’ISTAT: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/10/La-poverta-in-italia-_-Anno-2024.pdf Giovanni Caprio
Spesa sanitaria pubblica: l’Italia all’ultimo posto tra i Paesi del G7
Per la spesa sanitaria pubblica pro-capite il nostro Paese nel 2024 si è collocato al 14° posto tra i 27 Paesi europei dell’area OCSE e in ultima posizione tra quelli del G7. Una spesa sanitaria pubblica che si è attestata al 6,3% del PIL, percentuale inferiore sia alla media OCSE (7,1%), sia a quella europea (6,9%). E per la spesa pro capite il gap con i Paesi europei è di € 43 miliardi. Sono i dati di un recente Report della Fondazione GIMBE, che ancora una volta evidenziano come il sottofinanziamento pubblico della sanità italiana sia ormai una questione strutturale che si scarica pesantemente sui cittadini, costretti a confrontarsi ogni giorno con liste d’attesa fuori controllo, pronto soccorso al collasso, carenza di medici di famiglia, disuguaglianze territoriali e sociali sempre più marcate e la necessità sempre più frequente a pagare di tasca propria visite e prestazioni sanitarie fino a rinunciare del tutto. Nel 2024 sono state costrette a farlo ben 5,8 milioni di persone, quasi 1 su 10. La fonte utilizzata dalla Fondazione GIMBE è il dataset OECD Health Statistics, aggiornato al 30 luglio 2025. I confronti con i paesi OCSE e con quelli europei sono stati effettuati sulla spesa sanitaria pubblica, sia in termini di percentuale del PIL che di spesa pro-capite in dollari a prezzi correnti e a parità di potere d’acquisto. È utile ricordare che la spesa sanitaria pubblica di ciascun Paese include diversi schemi di finanziamento, di cui uno generalmente prevalente: fiscalità generale (es. Italia, Regno Unito), assicurazione sociale obbligatoria (es. Germania, Francia), assicurazione privata obbligatoria (es. USA, Svizzera). Nel 2024 la spesa sanitaria pubblica pro-capite in Italia si è attestata a $ 3.835, un valore nettamente inferiore sia alla media OCSE ($ 4.625) con una differenza di $ 790, sia soprattutto alla media dei Paesi europei ($ 4.689) con una differenza di $ 854. Tra gli Stati membri dell’Unione Europea, sono 13 i Paesi che investono più dell’Italia: si va dai +$ 58 della Spagna ($ 3.893) ai +$ 4.245 della Germania ($ 8.080). Come ha sottolineato il presidente della Fondazione GIMBE, Nino Cartabellotta, “l’Italia è prima tra i paesi poveri: precede solo alcuni paesi dell’Est e dell’Europa Meridionale, visto che Repubblica Ceca, Slovenia e Spagna investono più di noi. Fino al 2011, la spesa sanitaria pro-capite in Italia era allineata alla media europea; poi, per effetto di tagli e definanziamenti operati da tutti i Governi, il divario si è progressivamente ampliato, raggiungendo i $ 430 nel 2019. Il gap si è ulteriormente allargato durante la pandemia, quando gli altri paesi hanno investito molto più dell’Italia; il trend si è confermato nel 2023, con una spesa stabile in Italia, e nel 2024, quando l’incremento è stato inferiore alla media degli altri Paesi europei. L’entità di questo progressivo definanziamento  è imponente: al cambio corrente dollaro/euro il gap pro-capite nel 2024 ha raggiunto € 729. Applicato all’intera popolazione residente, corrisponde un divario complessivo di € 43 miliardi. Una erosione progressiva di risorse pubbliche al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che, soprattutto dopo la pandemia, è sempre più in affanno”. Nel 2024 l’Italia si è quindi confermata come il fanalino di coda con una spesa pro-capite di $ 3.835, mentre la Germania l’ha più che doppiata raggiungendo i $ 8.080. Particolarmente significativo è il caso del Regno Unito, che condivide con l’Italia un modello sanitario universalistico: se fino al 2019 ha registrato una crescita modesta, a partire dalla pandemia ha progressivamente aumentato in modo consistente la spesa pubblica, superando in soli cinque anni Canada e Giappone e posizionandosi poco al di sotto della Francia. Per la Fondazione GIMBE è proprio dall’impietoso confronto con gli altri Paesi europei e del G7 che bisogna ripartire, affinché Governo e Parlamento prendano atto dell’enorme e crescente divario strutturale rispetto agli altri Paesi avanzati, senza trasformare il tema in scontro politico. È urgente pianificare un progressivo rilancio del finanziamento pubblico della sanità: non per risalire le classifiche internazionali, ma per restituire forza e dignità al SSN e garantire a tutte le persone, ovunque vivano e a prescindere dal loro reddito, l’inalienabile diritto alla tutela della salute sancito dalla Costituzione. Perché se non investiamo sulla salute, pagheremo tutto con gli interessi: in disuguaglianze, malattia, impoverimento e perdita di futuro. Qui per approfondire: https://www.gimbe.org/pagine/341/it/comunicati-stampa.  Giovanni Caprio
Sanità: Bene solo 13 Regioni, mentre 8 peggiorano rispetto al 2022
Nel 2023 solo 13 Regioni sono risultate adempienti rispetto ai Livelli Essenziali di Assistenza – LEA, un numero identico a quello del 2022: Campania, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Provincia Autonoma di Trento, Piemonte, Puglia, Sardegna, Toscana, Umbria e Veneto. Sono i dati del Ministero della Salute sulle prestazioni sanitarie che tutte le Regioni e Province Autonome devono garantire gratuitamente o previo il pagamento del ticket, che la Fondazione GIMBE  ha rielaborato e diffuso nei giorni scorsi. La Fondazione GIMBE ha elaborato anche una classifica di Regioni e Province Autonome, il cui punteggio totale evidenzia in maniera più netta il divario Nord-Sud: infatti, tra le prime 10 Regioni 6 sono del Nord, 3 del Centro e solo 1 del Sud. Nelle ultime 7 posizioni, fatta eccezione per la Valle d’Aosta, si trovano esclusivamente Regioni del Mezzogiorno. Le prime 6 sono: Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Provincia Autonoma di Trento, Piemonte e Lombardia. Le ultime 6 sono invece: Sardegna, Basilicata, Abbruzzo, Calabria, Sicilia e Valle d’Aosta. Alcune Regioni (Campania, Emilia-Romagna, Toscana, Piemonte, Veneto, Umbria), indipendentemente dal livello delle loro performance, hanno una uniformità nell’erogazione dell’assistenza, mentre altre Regioni mostrano forti squilibri nel posizionamento tra le tre aree, che sono: prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale e assistenza ospedaliera. in particolare, Calabria, Valle D’Aosta, Liguria, Provincia Autonoma di Bolzano. Si tratta di differenze che stanno ad evidenziare che anche quando si raggiunge la soglia della sufficienza, permangono squilibri troppo marcati nella qualità dell’assistenza. Come sottolinea la Fondazione GIMBE, una sanità che funziona bene soltanto in ospedale oppure esclusivamente sul territorio non si può considerare realmente efficace, né tantomeno in grado di rispondere ai bisogni delle persone. Le differenze tra gli adempimenti LEA 2022 e 2023, evidenziano come nel 2023 8 Regioni abbiano registrato un peggioramento rispetto all’anno precedente, seppure con gap di entità molto variabile: a perdere almeno 10 punti sono state il Lazio (-10), la Sicilia (-11), la Lombardia (-14) e la Basilicata (-19). Si è avuta, insomma, una riduzione delle performance anche in Regioni storicamente con una “buona sanità”, a dimostrazione che la tenuta del SSN non è più garantita nemmeno nei territori con maggiore disponibilità di risorse o reputazione sanitaria. È un ennesimo campanello d’allarme, sottolinea GIMBE, che non può essere ignorato. Sul fronte opposto, due Regioni del Mezzogiorno mostrano invece un netto miglioramento: Calabria (+41) e Sardegna (+26). “Il monitoraggio LEA 2023, ha dichiarato il presidente della Fondazione GIMBE, Nino Cartabellotta,  certifica ancora una volta che la tutela della salute dipende in larga misura dalla Regione di residenza e che la frattura tra il Nord e il Sud del Paese non accenna a ridursi. Anzi, è più ampia di quanto i numeri lascino intendere: infatti, il set di indicatori NSG CORE, pur rappresentando la “pagella” ufficiale con cui lo Stato misura l’erogazione dei LEA, non riflette in maniera accurata la qualità dell’assistenza. Si tratta più di uno strumento di political agreement tra Governo e Regioni, basato su pochi indicatori e soglie di “promozione” troppo basse, che tendono ad appiattire le differenze tra Regioni. Per questo la Fondazione GIMBE chiede un ampliamento del numero di indicatori e una rotazione periodica di quelli utilizzati nella “pagella” ministeriale. E invoca una radicale revisione di Piani di rientro e commissariamenti: strumenti che hanno indubbiamente contribuito a riequilibrare i bilanci regionali, ma che hanno inciso poco sulla qualità dell’assistenza e sulla riduzione dei divari tra Nord e Sud del Paese”. Qui per approfondire: https://www.gimbe.org/index.php.   Giovanni Caprio