La pace nella condizione dei regimi di guerra e della politica del controllo
di ALI ZARKAYEEE.
Uno: La macchina governamentale dell’occupazione e del controllo
Lo Stato d’Israele non è soltanto una sovranità genocidaria dopo il 7 ottobre,
ma una forma estrema di governo totale dello spazio e del tempo. Il genocidio e
l’urbicidio a Gaza rappresentano l’esempio più terribile di questo controllo
assoluto sugli spazi che stavano sfuggendo al dominio israeliano. Quando Israele
ha compreso di non poter più mantenere le aree ribelli entro il proprio ordine
tramite la colonizzazione – cioè attraverso l’occupazione e la militarizzazione
nella produzione dello spazio – ha elaborato un nuovo paradigma di governo
fondato sulla distruzione e sull’annientamento totale: l’urbicidio di Gaza e il
genocidio dei palestinesi.
Il desiderio israeliano di controllo non è semplicemente un desiderio di dominio
sulla terra e sui confini fisici. È un’estensione totale del potere sulla
temporalità e sui ritmi della vita collettiva: dal controllo delle frontiere a
quello dei movimenti, dall’appropriazione dello spazio all’ingegneria del tempo.
Ad esempio, nella guerra di dodici giorni contro l’Iran, Israele ha dichiarato
come obiettivo principale il controllo del cielo iraniano tramite aerei da
combattimento e droni, considerandolo il proprio maggiore successo – come se il
dominio sull’aria fosse una nuova forma di governo spazio-temporale.
Fin dalla sua fondazione, Israele ha fatto funzionare la propria macchina
governamentale attraverso il controllo dei confini, degli spazi e dei tempi; da
qui, la costruzione di frontiere, di campi e la militarizzazione estrema sono
state impiegate per governare lo spazio-tempo. L’espulsione e il massacro di
massa dei palestinesi – conosciuti come la Nakba (tra il 1947 e il 1949) –
furono l’inizio criminale dell’attivazione di questa macchina di governo totale.
Da allora, i crimini e le stragi compiuti e tuttora perpetrati dagli israeliani
non sono che il prolungamento di uno Stato di controllo e di comunicazione che
vuole porre tutti i palestinesi sotto la propria tutela. Per questo motivo, la
colonizzazione massiccia, il controllo militare del confine giordano e della
Cisgiordania, e l’imposizione di permessi di movimento ai palestinesi anche per
le attività più elementari, costituiscono parti integranti di questa macchina di
governo distruttiva.
I flussi spaziali e temporali nei territori occupati scorrono in modo
indefinito, determinando la biopolitica dei palestinesi; Israele, negli ultimi
decenni, ha mirato a una completa dominazione della loro temporalità e
spazialità. Lo spazio vitale dei palestinesi si trova così immerso in un vortice
di forme estreme di governo totale, proprio come i personaggi dei romanzi Il
Castello e Il Processo di Kafka si muovono in labirinti di passaggi, permessi,
lavori e giudizi senza causa apparente. Allo stesso modo, i palestinesi sono
imprigionati in questo spazio allucinato del controllo; ma al posto di ciò che
un tempo si chiamava contratto, legge o diritto, oggi sono le armi, i fili
spinati, le torri di sorveglianza e le colonie (gli insediamenti) a
rappresentare il potere governamentale.
La macchina governamentale israeliana, con tutte le sue forme di repressione, si
colloca all’interno di un’alleanza globale di regimi economici, bellici e
transnazionali: dagli Stati Uniti, al Regno Unito e alla Germania, fino alle
imprese e alle istituzioni che operano al di là del gabinetto estremista di
Netanyahu o dei blocchi civilizzatori-territoriali più rigidi. Per questo, il
genocidio e successivamente l’accordo su Gaza devono essere compresi nel
contesto dei regimi di guerra nel mondo multipolare.
Sebbene Israele appaia simile agli Stati coloniali classici, la condotta attuale
dei regimi di guerra e di frontiera presenta una differenza essenziale:
l’intreccio globale degli interessi tra Stati e capitale attorno alla questione
palestinese. L’occupazione e il controllo, in questo senso, hanno assunto una
forma globale.
Un’altra differenza fondamentale va cercata nella forma più estrema di governo
necropolitico e nella moltiplicazione dei confini. I regimi coloniali del
passato incorporavano le popolazioni e i territori colonizzati all’interno di
processi disciplinari, educativi e di regolazione demografica, dichiarando il
possesso di una terra sotto l’egemonia di uno Stato-nazione – come, per esempio,
accadeva nei Paesi sotto il protettorato britannico. Anche nella condizione
coloniale del passato era presente una forma profonda di necro-politica; come
afferma Achille Mbembe, il colonialismo nel mondo capitalistico ha prodotto una
classe marchiata a fuoco.
Ma nella situazione attuale, i confini del controllo, in forma molteplice,
spostano le classi tra diversi territori e rappresentano ogni aspetto della vita
all’interno di flussi eterogenei di lavoro e sfruttamento.
Per questo motivo, la regolazione demografica, l’espropriazione, la
militarizzazione e lo sfruttamento costituiscono oggi principi fondamentali per
l’accumulazione e il governo. Allo stesso modo, il controllo statale e di
frontiera di Israele è sempre stato accompagnato dalla forma più violenta di
espropriazione della terra, esercitando sulla vita dei palestinesi la forma più
estrema di necro-politica: li uccide collettivamente, sottomette i loro spazi
vitali al proprio dominio e controllo, e, una volta ottenuto il dominio – come
abbiamo visto negli ultimi mesi — impone la fame, le restrizioni spaziali, lo
sfollamento forzato e la privazione delle necessità più elementari
dell’esistenza.
Oggi l’espropriazione non significa più appropriazione della terra per il lavoro
o la produzione; significa estendere i confini del controllo sulla vita e sul
tempo. Se il colonialismo britannico agiva integrando le colonie nell’orbita
della produzione industriale, i regimi contemporanei come quello israeliano,
attraverso l’ingegneria dei confini, la tecnologia della sicurezza e l’assedio,
trasformano lo stesso vivere in una fonte di valore. Qui, l’accumulazione non
nasce dalla produzione, ma dalla privazione della possibilità di vita: una forma
di accumulazione attraverso la morte, la sorveglianza e la crisi permanente.
Per questo, i palestinesi hanno continuamente cercato, attraverso diverse forme
di lotta e resistenza, di aprire vie di fuga dall’egemonia della necro-politica
e dell’occupazione; e proprio per questo l’atto di governo israeliano continua
fino alla soppressione totale di questi corridoi di fuga – imponendo, fino ad
oggi, le più terribili stragi al popolo palestinese.
L’urbicidio di Gaza, il genocidio dei palestinesi e, successivamente, la
cosiddetta “pace di Trump”, che costituisce la commedia-tragedia della nostra
epoca, devono essere compresi all’interno di questo stesso quadro di governo. La
pace di Trump non è una pace per porre fine alla guerra, ma la sua continuazione
con mezzi più morbidi, al fine di rendere permanente il dominio dello Stato di
controllo e d’occupazione su Gaza.
Per questo Israele non riduce i palestinesi in schiavitù, ma esercita su di loro
la forma più estrema di necro-politica: li uccide collettivamente, sottomette i
loro luoghi di vita al proprio controllo e, una volta ottenuto il dominio, come
abbiamo visto negli ultimi mesi, li priva del cibo, degli spazi vitali e delle
necessità più elementari dell’esistenza. Ora, dopo aver imposto la fame agli
abitanti di Gaza, il genocidio e l’urbanicidio, come mostra il piano di pace di
Trump, potremmo assistere a una nuova forma di guerra condotta con strumenti
economici, tramite imprese e istituzioni transnazionali e multinazionali. Così,
la repressione e l’occupazione continueranno attraverso regimi “di frontiera”,
sia all’interno che all’esterno della Palestina, e mediante un controllo
costante sulle loro vite.
Due: Solidarietà contro il controllo
Nella situazione attuale, il controllo sui confini, la logistica e la
sorveglianza dei flussi di persone sono elementi centrali per la riproduzione
delle forme di governo delle macchine statali e del capitale. Per questo forse
Israele ha adottato le tecniche più estreme dei regimi di frontiera, ricorrendo
al massacro collettivo e al genocidio e lanciando attacchi verso sette paesi
dall’8 ottobre in poi. Interrompere i processi di governo frontali di Israele
significa colpire il suo dispositivo statale.
Nel capitalismo contemporaneo – in ciò che Sandro Mezzadra e Brett Neilson
chiamano le macchine governamentali – il controllo degli spazi e dei tempi è
un’operazione fondamentale; tramite questo controllo si costruisce un terreno di
governo molteplice: il governo dei regimi di frontiera e l’imposizione di
restrizioni alle popolazioni, la sorveglianza dei luoghi e l’accaparramento del
tempo e del ritmo della vita sono la strategia che reprime i legami
trans-identitari e le forme di solidarietà, soggiogando i movimenti liberi e le
vie di fuga dallo spazio-luogo. Perciò il regime israeliano e la sua governance
di frontiera, che incide e segnala dentro e fuori un territorio, rappresentano
la forma più estrema di quel governo frontale.
Per questo il movimento della «Carovana della Resistenza» è stato di grande
importanza: le navi e le imbarcazioni, agendo autonomamente, si sono spinte
verso zone e margini di frontiera dove Israele applica le forme più severe di
militarizzazione per controllare quei punti. La sola paura del regime di
frontiera è che si generino interruzioni del governo delle frontiere e che
queste interruzioni si ripetano in modo organizzato; quindi questo tipo di
intervento sulle rotte logistiche non prende di mira soltanto il regime frontale
israeliano e la sua logica del controllo, ma – contrariamente alle dichiarazioni
di preoccupazione delle organizzazioni transeuropee e di altri Stati circa gli
attacchi e il controllo militare israeliano – genera la sensazione che il
monopolio della governance sulle rotte logistiche possa sfuggire di mano proprio
perché la carovana agiva in modo autonomo. In particolare, questa carovana è
riuscita ad aprire un momento singolare di solidarietà, costruendo non la mano
alzata degli Stati e delle istituzioni governative, ma un’alleanza dal basso
contro i governi e in particolare contro il regime distruttivo israeliano.
Nell’azione collettiva attivata dalla Carovana della Resistenza, la logistica
intesa come controllo e militarizzazione si è trasformata in potenzialità
logistica di un corpo comune e di flussi auto-organizzati. Certo, di fronte agli
strumenti bellici avanzati di Israele questa azione non è riuscita ad infilarsi
profondamente nelle frontiere controllate dallo Stato; ma ciò che qui conta è la
frattura delle barriere dei campi, anche se solo in modo parziale e potenziale,
e il collegamento delle differenze delle politiche locali e autoctone nella
forma di un corpo collettivo e internazionale. Per questo, dopo anni, abbiamo
visto sommosse e scioperi collettivi contro l’autoritarismo di governi europei e
del capitale globale.
Di conseguenza, la lotta sui margini delle frontiere e contro i regimi di
frontiera non solo può disturbare il controllo e l’occupazione spaziale e
temporale, ma potenzialmente può seminare i germi di una nuova forma di
rivendicazione democratica che trascenda e fugga dall’assoggettamento degli
Stati-nazione. Mezzadra, nella sua recente nota, osserva giustamente: «“Volevamo
liberare la Palestina” stava scritto su uno striscione a Roma; “la Palestina ci
ha liberati.”» Indubbiamente, in questi giorni moltitudini di giovani, donne e
uomini hanno riconosciuto nel genocidio di Gaza la stessa ingiustizia che domina
in molte forme il nostro mondo contemporaneo — e nella liberazione della
Palestina hanno intravisto l’orizzonte di una lotta più ampia, una lotta che
deve organizzarsi ovunque la gente vive, lavora e soffre. Questo è il primo
segno di come si debba articolare nei giorni a venire questa mobilitazione: a
questo movimento recente va data una prospettiva temporale, e ciò è possibile
soltanto collegando la solidarietà con Gaza a un radicamento nella vita
quotidiana dell’azione politica.
Tuttavia, il ruolo dell’Iran e delle forze che aspirano a instaurare la
democrazia contro l’autoritarismo è rimasto mancante in questi cicli di
solidarietà; ciò potrebbe indebolire i futuri movimenti in Iran, poiché la
presenza delle lotte nel contesto globale e nelle nuove reti di solidarietà è
troppo tenue. D’altra parte, il dispotismo interno e un’opposizione
filoisraeliana hanno marginalizzato ogni forma di soggettività che si opponga al
genocidio e all’autoritarismo come solidarietà con altri flussi di lotta; così
in Iran assistiamo a una forma di ingegneria della soggettività che ha sminuito
la potenzialità conflittuale. In altre parole, la guerra e l’instaurazione di un
regime di polizia da una parte, e dall’altra un’opposizione dipendente dalle
potenze imperiali, hanno spazzato via alternative soggettive all’interno della
società, rimpiazzandole con meccanismi di soggiogamento da parte di poteri e
regimi in cui non esiste alcuna forma reale di democrazia. Per questo l’asse
della resistenza e le forze di sinistra, così come le opposizioni di destra,
hanno entrambi compromesso la possibilità di costruire solidarietà tra i
movimenti combattivi, in modo che le forze alternative in Iran risultino
isolate. Di conseguenza, ciò che è stato chiamato lotta sulle rotte logistiche e
ai margini delle frontiere ha perso in Iran la sua possibilità di realizzazione.
Eppure, nelle immagini diffuse della Carovana della Resistenza, alcuni attivisti
hanno brandito lo slogan زن، زندگی، آزادی» Donna, Vita, Libertà» – ma non
bisogna ingenuamente sopravvalutare questa presenza: in quella flotta tale
slogan, nel migliore dei casi, è una diffusione discorsiva; sfortunatamente oggi
esso non può tradursi in una forza materiale radicata nelle molteplici basi
sociali del Medio Oriente occidentale. Soprattutto ora, lo Stato di polizia
iraniano reprime qualsiasi iniziativa che, al di fuori dell’asse della
resistenza, tenti di tracciare progetti materiali di solidarietà con la
Palestina e contro Israele; perciò siamo intrappolati nelle forme più severe dei
corridoi del potere, e forse il primo passo per uscire da questi corridoi è
un’uscita soggettiva dai confini che renda possibile una lotta molteplice contro
i regimi del potere.
Come abbiamo visto nelle lotte in corso in Europa e in particolare negli
scioperi e nelle mobilitazioni estese in Italia, la solidarietà con la Palestina
ha costituito una via di fuga dai corridoi dell’autoritarismo statale
neoliberale, restituendo capacità collettiva alle lotte di classe. Le
solidarietà di frontiera, quindi, non sono lotte concentrate su un unico asse
centrale, ma creano plessi moltiplici di conflitto che collegano il locale al
translocale e all’internazionale; per questo possono sovvertire i controlli
statali sulle frontiere, sia a livello soggettivo che geopolitico, e
rappresentano una urgenza per il futuro delle nuove lotte in Iran: che non sia
il governo, ma il popolo a calcare la scena globale per infrangere i dispositivi
di controllo delle frontiere.
Tre: Pace e controllo
La pace, nella logica delle potenze dominanti, non è la fine della guerra, ma la
sua continuazione in forma attenuata. Lo Stato d’Israele e i suoi sostenitori
globali chiamano “pace” ciò che in realtà è una nuova fase di riorganizzazione
della macchina governamentale e di riproduzione dell’occupazione in forma
economica e diplomatica. In particolare, la cosiddetta “Pace di Trump”
rappresenta un modello coloniale completo fondato sul commercio e
sull’accumulazione. La pace, in questo senso, è la gestione della distruzione:
sorvegliare la ricostruzione, ingegnerizzare una sopravvivenza minima, e
proseguire la necro-politica nei confronti dei palestinesi attraverso il
controllo della vita stessa e la sospensione del militarismo sotto forma di
tecnocrazia.
Così, ciò che sul campo di battaglia si manifesta come bombardamento e assedio –
ciò che ha prodotto l’“urbicidio” – distrugge ogni possibilità di vita e di sua
riproduzione. Ora la città, in cui la rimozione delle macerie richiederà anni,
sarà apparentemente controllata dal ciclo del capitale e dai capitalisti stessi,
travestiti da una coalizione globale di ricostruzione. In questo modo
l’occupazione militare si trasforma in occupazione tecnocratica.
Progetti come la “Pace di Trump” o le iniziative denominate “Stabilità
regionale” sono, in realtà, nuove configurazioni della stessa macchina di
controllo: tentativi di consolidare il dominio mediante strumenti più morbidi.
Israele, Trump (e forse i paesi del Golfo come Arabia Saudita ed Emirati Arabi
Uniti), dopo la distruzione fisica di Gaza, cercano di imporre nella fase della
ricostruzione una forma di pace tutelare, basata sul controllo delle rotte
commerciali, energetiche e umanitarie — una pace fondata sull’obbedienza e sulla
dipendenza, non sulla liberazione e l’uguaglianza. In questo nuovo ordine,
l’esercito viene sostituito dalle banche, e le armi ritornano sotto forma di
capitale, di aiuti umanitari e di contratti di ricostruzione. Ma il gesto
fondamentale resta lo stesso: il controllo dei flussi vitali, dei movimenti dei
corpi, delle merci e della temporalità della vita quotidiana.
In questa logica, la pace stessa diventa una forma di guerra: una guerra senza
dichiarazione, che si perpetua attraverso i meccanismi economici, finanziari e
tecnologici. Gaza, in questo quadro, diviene un laboratorio di governo
attraverso la crisi – un luogo dove la sopravvivenza non è il risultato della
potenza collettiva di creare vita, ma un privilegio condizionato all’obbedienza.
Gli Stati occidentali e le istituzioni finanziarie, sotto la maschera della
ricostruzione e dell’aiuto, generano in realtà una nuova rete di controllo che
riproduce Israele come centro di comando di un ordine economico e securitario.
Se consideriamo lo stato di guerra e i suoi regimi, la distruzione di un
territorio – il ridurlo a terra bruciata – lo riporta, in senso storico, a una
forma di primitività totale, cancellando le condizioni stesse della vita:
alimentazione, ambiente, casa. Ci troviamo oggi in una condizione in cui il nome
di questo processo è capitalismo, i cui regimi si muovono entro guerre infinite
per promuovere la ricostruzione economica e il commercio. Così, trasformare la
città bruciata di Gaza in un’impresa commerciale e in un corridoio di
valorizzazione diventa uno dei processi tipici dei regimi di guerra e delle
alleanze tra Stato e capitale nel mondo contemporaneo. Per questo la pace
attuale non ha alcun significato in termini di autodeterminazione per i
palestinesi: serve soltanto al saccheggio, alla valorizzazione e a nuove forme
di controllo.
Di conseguenza, di fronte a questa pace imposta, bisogna parlare di un’altra
pace: una pace come fuga. Una pace che non stabilizza il controllo, ma apre
possibilità di vita comune e di movimento libero; una pace che nasce dai corpi
distrutti, dalla memoria della morte e dal desiderio di creare nuovi spazi e
nuovi tempi. Così come le carovane autonome e le solidarietà di frontiera hanno
saputo generare momenti di rivolta e di fuga dal controllo, la pace autentica
può emergere solo da una rottura con l’ordine esistente – non dalla sua
ricostruzione da parte dei predatori dell’ordine capitalistico.
In un mondo in cui la governamentalità è divenuta gestione della crisi, la pace
non può significare il ritorno all’ordine controllato del capitale, ma deve
essere una rottura rispetto ad esso: una frattura rispetto ai circuiti del
controllo, ai tecnocrati del sistema capitalistico, ai regimi di guerra e alla
temporalità governata dagli Stati. La pace, in questo senso, non è la promessa
della gestione, ma la possibilità di creare spazi e tempi che ancora non sono
stati catturati dal controllo – spazi per una vita comune e per un nuovo inizio
al di là dei confini, in connessione con le lotte che si svolgono ai margini
delle frontiere.
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controllo proviene da EuroNomade.