Trump alla restaurazione di san Kirk, genealogia di una vendetta
di MARCO BASCETTA.
Di Charles Kirk sentiremo parlare ancora a lungo. Non tanto per le circostanze
della sua morte incastonate nella variegata storia della violenza politica in
America con i suoi molteplici risvolti razziali, ideologici, identitari,
messianici.
Ma piuttosto per l’uso politico, immediato e diretto, che Trump e il suo seguito
di infervorati seguaci ne hanno fatto e ne faranno. Alcuni hanno azzardato un
paragone con l’incendio del Reichstag nel febbraio del 1933, l’attentato
attribuito a un giovane comunista olandese da cui Hitler trasse il pretesto e lo
slancio per smantellare in men che non si dica la Costituzione di Weimar e
inaugurare il regime nazionalsocialista.
L’analogia storica, presa più distesamente in esame su queste pagine da Mario
Ricciardi, trova un senso solo nel fatto che l’assassinio di Kirk ben si presta,
nelle intenzioni del presidente Usa e dell’estrema destra americana, al progetto
di asfissiare attraverso leggi e decreti “fascistissimi” il dissenso e
l’opposizione democratica negli Stati uniti, per non parlare della critica
sociale antiliberista, con l’improbabile accusa di avere alimentato
ideologicamente la violenza politica e armato, indirettamente, la mano
dell’attentatore.
Il clima minaccioso e aggressivo che si respira in questi giorni negli Usa, con
le sue miserabili imitazioni europee, si inserisce perfettamente nel disegno
ormai evidente tracciato da Donald Trump e dal suo Maga. Quello di identificare
ed enfatizzare un nemico interno dai contorni piuttosto indefiniti (la sinistra)
per combattere il quale sarebbe necessario forzare l’architettura
politico-istituzionale degli Stati uniti al fine di trasformare radicalmente
forme e tendenze della vita sociale americana.
Bersaglio del Maga è appunto il sistema democratico statunitense, le forme di
socialità che ha generato e l’apertura culturale che ne ha accompagnato lo
sviluppo.
Rispetto a questa missione tutti i passi finora compiuti dal presidente sono
stati assolutamente logici e coerenti: il relativo disimpegno sui fronti
internazionali e l’elusione di ogni attrito politico eccessivo con le potenze
maggiori sullo scacchiere globale, la caccia allo straniero e le deportazioni,
l’invio di truppe nelle metropoli americane governate dai democratici per
fronteggiare fantomatiche emergenze, le epurazioni, la crociata contro le
istituzioni accademiche e le voci critiche dei mezzi di comunicazione.
La vendetta contro gli avversari politici, rei se non proprio di aver ispirato
la violenza anche solo di non aver voluto rendere omaggio alla santificazione di
Kirk, è l’ultimo tassello che si inserisce alla perfezione in questa road map
della destra trumpiana che trasferisce in patria il fronte della guerra. Il
tutto spacciato non come una forzatura di parte ma come una grande opera di
cancellazione del cattivo nuovo che avrebbe corrotto la purezza della
Costituzione del 1787. E naturalmente delle sacre scritture.
Nel riferirsi alla destra, o anche all’estrema destra, negli Usa come in Europa,
si usa correntemente il termine di conservazione. Così, anche di Charles Kirk si
dice essere stato un campione del pensiero conservatore. C’è nella scelta di
questa definizione fuorviante un errore non privo di conseguenze. Oggi non ci
troviamo affatto di fronte alla conservazione di valori del passato minacciati
da un progresso fuori controllo, o da una accelerazione foriera di angoscia e
disorientamento, ma a dover fronteggiare una aggressiva politica di
“restaurazione”, ovverosia il ripristino di dottrine, precetti, obblighi e
gerarchie che lo sviluppo democratico e le lotte sociali avevano già superato o
quantomeno messo seriamente in discussione. Se si passano in rassegna le
convinzioni di Kirk, che il suo assassinio non rende certo meno detestabili,
queste mostreranno nitidamente la loro appartenenza al repertorio della
restaurazione, a partire dal pilastro su cui poggia ogni altra restaurazione che
è poi quello del patriarcato nella pienezza delle sue prerogative e delle sue
credenziali teologiche.
Mentre la “conservazione”, che tra le destre attuali non ha quasi cittadinanza,
presenta un elemento di prudenza, di freno, di attaccamento a convincimenti
consolidati, la restaurazione è invece segnata da una natura aggressiva,
bellicosa, da spirito di vendetta e volontà di distruzione. Deve combattere un
nemico, sconfiggere, per così dire, un usurpatore. I tecno-oligarchi come Musk e
Thiele non avrebbero mai potuto essere conservatori. Prudenze, timori e
preoccupazioni per chi resta indietro, non potevano che frenare il corso
dell’innovazione che trascina le loro fantasie e i loro profitti. La
“restaurazione” assume invece la maschera del nuovo, della rottura con una
stagione trascorsa, di un ritorno che può attuarsi con ogni mezzo, anche il più
avveniristico, e ricostruire nelle forme più arbitrarie e feroci i miti
dell’autenticità. È insomma un ambiente carico di violenza reazionaria.
Della conservazione sopravvive qualcosa a sinistra, tra gli ecologisti e tra i
teorici della cosiddetta “modernità riflessiva” nella resistenza al progressivo
smantellamento di conquiste sociali, diritti acquisiti ed equilibri ambientali.
Qualcosa che non può certo bastare a fermare l’avversario per riprendere
l’iniziativa. La restaurazione va contrastata con la stessa grinta con cui
pretende di imporsi. Un opposto estremismo? Perché no.
questo articolo è stato pubblicato sul manifesto il 18 settembre 2025
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